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  San Giovanni Bosco - Opere Edite.

IL PONTIFICATO DI S. FELICE PRIMO E DI S. EUTICHIANO PAPI E MARTIRI

PER CURA DEL SACERDOTE BOSCO GIOVANNI.

 

M.

 

TORINO

TIP. DELL'ORATORIO DI S. FRANC. DI SALES.

1862. {1 [339]} {2 [340]}

 

 

 

 

INDEX

Capo I. Visibilità della vera Chiesa. 2

Capo II. Elezione di S. Felice I. - Nona persecuzione sotto Aureliano. 3

Capo III. Patimenti del vescovo S. Reveriano con dieci compagni. 4

Capo IV. S. Sinforiano ricusando di adorare gli dei viene eziandio esposto ai tormenti. - Suo martirio. 5

Capo V. S. Felice istruisce molti nella Fede. - Battezza s. Bonosa e cinquanta soldati che muoiono martiri. 6

Capo VI. La regina Zenobia. - Fatiche di Felice papa per la fede cattolica. 8

Capo VII. Sepolcri. - Memorie dei Martiri. - Confessione. - Pietre Sacrate. - Catechismi. - Omelie. 9

Capo VIII. S. Eutichiano papa. - Trista fine di Aureliano. - Probo fa cessare la persecuzione. - Prime fatiche del novello Pontefice. 11

Capo IX. Monete. - Sua eresia. - Sua morte. 12

Capo X. L'offertorio della santa Messa - Benedizione dei frutti della terra. 13

Capo XI. Scomunica contro gli ubbriachi. - Modo di seppellire i Martiri. - Colobio. - Tunica - Dalmatica. - Martirio e sepoltura di s. Eutichiano. 14

Appendice sopra S. Caritone abate e martire. 15

Capo I. Patria ed interrogatorio di s. Caritone nella persecuzione di Aureliano. 15

Capo II. Patimenti di s. Caritone. - Semivivo è strascinato in carcere. 17

Capo III. S. Caritone liberato dalla carcere cade nelle mani degli assassini, da cui è miracolosamente liberato. 18

Capo IV. S Caritone converte la spelonca in una chiesa. - Fabbrica un monastero e dà principio alla vita eremitica. 19

Capo V. Caritone parte da Faran, edifica un'altra Laura sui monti di Gerico; di poi una terza vicino a Tecua. 20

Capo VI. Dio gli fa conoscere vicina la morte. - Chiama a se i suoi religiosi, lascia molti ricordi e muore santamente. 22

Indice  23

 


Capo I. Visibilità della vera Chiesa.

 

            La santa Chiesa di Gesù Cristo a guisa di madre pietosa deve accogliere i figliuoli di tutti i tempi e di tutti i luoghi purchè vogliano rifugiarsi nel suo materno seno. Per questo motivo nel Vangelo essa è paragonata ad una madre piena di amore e di tenerezza pei suoi figliuoli; è paragonata ad un campo, ad una vigna, ad un'aia, ad una colonna, ad una montagna, ad una casa, ad un grande edifizio, ad una città, cose tutte materiali, ma visibili e che servono a farci conoscere come la vera Chiesa debba essere in ogni tempo visibile, affinchè possa ricevere {3 [341]} i fedeli di tutti i tempi. Questa visibilità consiste in primo luogo nella pubblica professione della fede, nella pratica de' santi Sacramenti ed in tutto ciò che riguarda al culto esterno. Ma il segno più sensibile della visibilità della Chiesa apparisce nel capo da cui fu in ogni tempo governata.

            I cattolici soltanto riconoscono Gesù Cristo per capo invisibile, e per capo visibile il sommo Pontefice successore di s. Pietro, stabilito dal medesimo Salvatore a governare la Chiesa come suo vicario sopra la terra: tu es Petrus et super hanc petram oedificabo Ecclesiam meam; Matt. 16, 18.

            Solamente i cattolici hanno un capo visibile della loro credenza e questo capo ebbe regolarmente i suoi successori da Gesù Cristo sino a noi. Cominciando dal regnante Pio IX con una serie maravigliosa da un papa ad un altro andiamo fino a Gesù Cristo. A questi vicari di Gesù Cristo, a questi suoi rappresentanti sopra la terra furono sempre uniti i vescovi, i paroci, {4 [342]} i sacri ministri ed i cristiani di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Che anzi furono sempre giudicati eretici coloro che si opposero agli insegnamenti di questo capo supremo; perchè tutti hanno costantemente creduto e professato che dove c'è il successore di S. Pietro, là vi è la vera Chiesa di G. C. Ubi Petrus ibi Ecclesia; S. Ambrogio.

            Di tutte le sette che si dicono cristiane neppure una può vantare la sua permanente visibilità. Per esempio i Luterani, i Calvinisti, i Valdesi possono al più vantar la loro visibilità fino a Calvino, a Lutero, a Pietro Valdo, cioè a trecento o cinque cento anni al più: se cerchiamo più in antico non si può trovare neppur uno che abbia professato quella religione o quel culto che essi professano.

            Altro segno costantemente visibile della Chiesa Cattolica è il culto che essa professa. Entriamo, o cattolici, nelle nostre chiese, in esse noi scorgiamo che vi sono e furono immagini, statue, candelieri, lumi, incensi, {5 [343]} turiboli, altari, paramentali, come leggiamo descritti in più luoghi della Bibbia; S. Luca, 1, 2.

            Che se mai taluno entrasse nei così detti templi protestanti non iscorge una immagine, non un altare, non un turibolo, non un grano d'incenso, non una fiaccola, non un candeliere, insomma non una delle cose notate nei templi di cui parla la Bibbia. Dunque, noi diciamo ai protestanti, da ciò solo che voi non avete più i segni esterni dei templi di cui parla lo stesso Vangelo, di quei templi visitati, onorati e santificati da Gesù Cristo; da ciò solo voi dovete conchiudere che i vostri templi non sono più quelli della Bibbia, quelli degli Apostoli; non più quelli approvati dai vicari di Gesù Cristo.

            Questo pensiero deve far animo ai cattolici ad essere costanti nel professare la loro religione, fermamente persuasi che essi professano un culto esterno, visibile, quale fu praticato in tutti i tempi nella Chiesa cattolica, siccome è stato scritto nella Bibbia; ma {6 [344]} sempre uniti ai ministri di questo culto, ai semplici sacerdoti, ai paroci, ai vescovi con una credenza costantemente dipendente, diretta, insegnata dal supremo Pastore della Chiesa cattolica sommo Pontefice cui Gesù Cristo disse: pascola i miei agnelli, pascola le mie pecorelle, pasce agnos meos, pasce oves meas; Joann. 21, 15.

            A questo riflesso per altro quanto mai devono tremare i protestanti. Essi non hanno alcuna visibilità nella dottrina, perchè ciascuno è libero d'interpretare la Bibbia come vuole. Non hanno visibilità nei pastori, perchè secondo la loro dottrina tutti sono egualmente pastori, niuno è tenuto a seguire la dottrina di alcun pastore. Neppure hanno la visibilità di culto, perchè in generale rigettano ogni sorta di culto esterno: e quelli che ne ammettono qualche parte è in ogni paese diverso, laonde quanto è praticato in una città, è disapprovato ed anche condannato in un'altra.

            Che diremo poi della loro dottrina? Ciascuno potendo a suo talento interpretare {7 [345]} la Bibbia, può egli intenderla come vuole, credere quanto vuole, e per conseguenza praticare e fare quel che vuole. Finalmente se voi, o protestanti, entrate nelle vostre chiese, voi vedrete un edifizio, una camera, o se volete una spaziosa e ricca sala: ma non vedrete neppure uno degli emblemi religiosi, di cui sono contrassegnati i templi descritti nella Bibbia. O protestanti, evangelici, valdesi, luterani, calvinisti, o di qualunque denominazione voi siate, deh! ascoltate la voce del cielo che vi chiama; aprite gli occhi, ritornate alla religione che un tempo i vostri padri abbandonarono; abbracciate la loro fede, praticate quel culto visibile che fu in ogni tempo insegnato e praticato nella Chiesa Cattolica; culto interamente modellato sopra quello descritto nella Bibbia. {8 [346]}

 

 

Capo II. Elezione di S. Felice I. - Nona persecuzione sotto Aureliano.

 

            Noi abbiamo già parlato dei primi ventisei Pontefici che dopo Gesù Cristo l'uno l'altro succedendosi governarono la Chiesa Caltolica fino al 272. Tutti ebbero la loro sede in Roma, professarono la medesima fede, la medesima legge, praticarono il medesimo culto esterno per quanto i tempi di persecuzione permettevano; amministrarono i medesimi Sacramenti, e furono sempre riconosciuti come capi della Santa religione di Gesù Cristo. Ora intraprendo ad esporvi le cose che la storia ci conservò del ventesimo settimo papa di nome Felice. S. Dionigi, come dicemmo, dopo dodici anni di pontificato finiva i suoi giorni in pace il 26 dicembre 272. Cinque giorni dopo, cioè l'ultimo di quell'anno medesimo gli succedeva Felice I. Esso era di nascita Romano. Ancora giovanetto fu ascritto tra i canonici regolari che corrispondevano {9 [347]} presso a poco a quelli che oggi si appellano Seminaristi. In quella specie di Seminario la gioventù era educata nella morale, nella virtù e in modo speciale coltivata nella scienza delle cose ecclesiastiche. Felice risplendeva tra i suoi compagni qual sole ed era reputato come il modello del Clero. Aveva già lavorato sotto al pontificato de' suoi antecessori pel bene della Chiesa. Il suo zelo, la sua santità erano conosciuti da tutti e la sua elezione fu accolta con grande consolazione da tutti i fedeli. Era assunto alla sede pontificia sul principio del 273, l'anno terzo dell'impero di Aureliano.

            Questi sul principio del suo regno, essendo assai occupato dalle vicende politiche, lasciò in pace i cristiani, ma più tardi nella pazza persuasione di fare cosa grata alle stupide sue divinità mosse una crudele persecuzione che è la nona suscitata nei tre primi secoli della Chiesa. Era egli al momento di sottoscrivere l'editto fatale quando gli cadde ai piedi il fulmine che lo atterrì per modo che sospese il sanguinoso progetto. {10 [348]} Di lì a qualche tempo stimolato dal desiderio di vedere tutti i suoi sudditi a venerare gli dei dell'impero, tentò di nuovo di porre in esecuzione il suo editto, ma la mano divina si manifestò più terribile, imperciocchè ambe le braccia rimasero attratte ed inaridite a segno che egli non potè più muovere la penna.

            Allora, dice Eusebio, apparve a tutti sensibile la protezione del cielo a favor dei cristiani. Allora tutto il mondo conobbe che i principi della terra nulla possono fare contro alla Chiesa se non in quel modo e in quella misura che la potente e terribile sua mano permette a fine di provare la fedeltà de' suoi servi; Eus. lib. 7, 24.

            Questi avvisi, che Iddio dava all'Imperatore, lo spaventarono e per qualche tempo lasciò i Cristiani in pace. Ma quindi a poco a poco essendosi dato in preda ai vizi e volendo secondare i consigli dei sacerdoti idolatri, cominciò col lasciar in vigore alcune leggi emanate dai suoi antecessori contro ai Cristiani; di poi pubblicò un formale editto di {11 [349]} persecuzione. Fra le altre cose ivi leggevasi: Siccome coloro che diconsi cristiani non vogliono sottomettersi alle nostre leggi non volendo adorare i nostri Dei, così essi vengano presi, legati, incarcerati e se sono ostinati a non far sacrifizio alle divinità siano puniti con vari generi di tormenti. Baronio an. 273.

            Questo editto a prima vista non sembra tanto sanguinario, ma dava libertà agli idolatri di sfogare la loro rabbia contro ai cristiani, e gli stessi prefetti e consoli, molti abusando della loro autorità, poterono richiamare in vigore e interpretare a loro capriccio tutte le leggi che prima eransi pubblicate contro ai cristiani. In questa persecuzione s. Felice ebbe molto a faticare e molto a patire e con lui un gran numero di fedeli diedero luminose prove di fermezza nella fede. Noi andremo esponendo le azioni di alcuni. {12 [350]}

 

 

Capo III. Patimenti del vescovo S. Reveriano con dieci compagni.

 

            I Cristiani erano perseguitati in tutte le parti del Romano impero; ma nei luoghi ove andava l'imperatore Aureliano colà maggiormente infieriva la persecuzione. Per la qual cosa il Sommo Pontefice soleva inviare alcuni zelanti ministri nei paesi dove recavasi l'Imperatore a fine di provvedere ai bisogni della religione. In un viaggio fatto nella Gallia Aureliano si recò nella città di Augustoduno detta oggidì Autun e il Papa tosto vi mandò alcuni missionarii. Conferì l'ordine episcopale ad un santo sacerdote di nome Reveriano; di poi con dieci compagni lo mandò da Roma per tener dietro all'Imperatore.

            Aureliano come intese essere in Autun predicatori venuti da Roma ordinò che fossero ricercati e condotti alla sua presenza. Avutili egli cominciò a parlare con maniere affabili, e facendo {13 [351]} loro doni e promesse li licenziò persuaso di averli guadagnati. Ma ne fu presto disingannato, perciocchè queglino si diedero a predicare con maggior fervore di prima.

            L'Imperatore così burlato giudicando che i doni, le offerte e le ragioni non avrebbero potuto allontanare quei confessori dal culto del vero Dio, li chiamò nuovamente a se, quindi con aspetto severo così loro parlò: Osservate i decreti delle antiche nostre leggi che a tutti comandano di far sacrifizio agli Dei dell'impero. Che se voi per mala accorta persuasione non obbedite, vi farò perire tutti fra mille diversi tormenti. Nè lasciatevi vanamente illudere, perciocchè niuno neppure il vostro Cristo vi potrà togliere dalle mie mani.

            Reveriano con tranquillità ma con fermezza rispose: Il Signor nostro Gesù C. figlio di Dio vivo è colui che ha fatto il cielo, la terra e tutte le cose che in essi vi sono. Egli solo è immortale; egli solo è degno di essere glorificato ed adorato dagli angeli e da tutte le {14 [352]} celesti virtù. Se vuole egli può liberarci dalle tue mani e dai supplizi di cui parli; ma se egli non vuole sappi che noi soffriremo volentieri per amor suo qualunque male piuttosto che venerare i tuoi Dei, perchè essi sono opera degli uomini formati di pietre e di legno; che non hanno bocca da parlare, non hanno occhio per vedere, nè orecchio per ascoltare. Al contrario noi ad alta voce e con tutto il cuore confessiamo che adoriamo Gesù Cristo Redentore del genere umano, che ha da venire a giudicare i vivi ed i morti e ridurre in polvere quelle stupide divinità di cui ora sei pazzo adoratore.

            A quel parlare Aureliano mosso a sdegno interruppe Reveriano e diede ordine che esso co' suoi compagni venisse sull'istante allontanato dalla sua presenza, proferendo queste parole: siano presi, legati e dopo aver fatto loro provare spietati supplizi, sia a tutti troncata la testa.

            A cotale sentenza ben lungi dal mostrarsi spaventati apparvero vie più coraggiosi e pieni di gioia. Per fare {15 [353]} poi conoscere pubblicamente che morivano per glorificare Iddio nella sua santa religione si misero unanimi a cantar ad alta voce lodi a Gesù Cristo dicendo che stimavano a loro grande ventura il dare la vita temporale per assicurarsi la vita eterna. In questa guisa confortandosi l'un l'altro e assistiti da una grazia speciale del Signore porsero spontaneamente il collo ai carnefici ed ebbero tutti tronca la testa. Primo fu Reveriano vescovo, di poi un Sacerdote di nome Paolo con altri dieci compagni. Tutti costoro, dicono gli atti del loro martirio, andarono coraggiosamente incontro alla morte che li privava di una misera vita; erano giubilanti perchè con quei patimenti sarebbero quanto prima pervenuti a godere il regno celeste. Il loro martirio avveniva il 1 giugno l'anno 273; V. Bollan. 1 giugno. {16 [354]}

 

 

Capo IV. S. Sinforiano ricusando di adorare gli dei viene eziandio esposto ai tormenti. - Suo martirio.

 

            Dopo la morte di Reveriano è de' suoi compagni l'Imperatore da Autun continuo di suoi viaggi per la Gallia; ma la persecuzione continuò ad infierire in quella stessa città contro ai Cristiani. Fra quelli che in Autun riportarono glorioso martirio fu S. Sinforiano. Era questi figliuolo di un ricco e nobile signore di nome Fausto. I genitori essendo cristiani impiegarono ogni sollecitudine perchè il loro figlio crescesse nella pietà e nel santo timor di Dio e ci riuscirono. Anche in giovanile età possedeva un senno maturò e una pietà consumata. La virtù di questo giovanetto era così conosciuta che volendosi radicare un cristiano di grande bontà di vita segnavano a dito s. Sinforiano. Ma appunto per la sua esemplarità egli fu conosciuto per cristiano e come tale accusato presso di Eraclio che da Aureliano {17 [355]} era stato creato governatore di Autun. L'occasione fu questa. Fra le molte divinità che si adoravano in quella città eravi Berecinzia che i gentili credevano madre degli dei. Questa divinità era così appellata da Berecinto monte di Frigia, ove la medesima riceveva culto speciale. In onore di Berecinzia doveva aver luogo una grande solennità che trasse straordinario concorso di popolo. A Sinforiano capitò eziandio di trovarsi inavvedutamente in mezzo alla moltitudine. Ad un'ora determinata tutti si prostrarono per adorare Berecinzia, ma il nostro giovanetto si rifiutò. La qual cosa mosse tutti a sdegno. Affollandosi ognuno intorno a lui, il presero con modi minacciosi e lo condussero dal governatore. Eraclio cominciò l'interrogatorio così: Dimmi il tuo nome e la tua condizione.

            Sinforiano modestamente rispose: Io sono cristiano e il mio nome è Sinforiano.

            - Come! tu sei Cristiano? Io aveva miglior concetto di te. Non pensava che tu volessi giugnere alla bassezza di processare {18 [356]} una religione così spregevole. Voglio per altro usarti compassione. Dimmi pertanto perchè disprezzi la statua di Berecinzia e non vuoi riconoscere una divinità adorata da tutto il il mondo?

            - Già te lo dissi; io sono cristiano; e come cristiano io adoro unicamente il Dio vero che regna ne' cieli. Considero la statua di Berecinzia come un simulacro del demonio che non solo non adoro, ma se tu me lo permetti io mi sento di ridurre con un martello in mille minuti pezzi.

            - Tu sei non solamente un sacrilego, ma un ribelle alla legge, aggiunse il governatore. Dipoi voltosi ad un suo ministro disse: Costui è di questo paese o forestiero? Egli è di questa città, rispose il ministro, ed appartiene a nobile e ricca famiglia.

            Eraclio allora ripigliò: o Sinforiano, tu giuochi una cattiva partita. Ignori forse i decreti dell'Imperatore? Dopo gli fu letto ad alta voce il decreto di persecuzione sopra esposto, di poi il giudice continuo: Che ne dici, Sinfonano? {19 [357]} che mi rispondi? possiamo noi forse stracciar queste leggi? pensa che colla tua ostinazione ti rendi colpevole di due delitti, di sacrilegio e di violazione alle leggi. Perciò se tu, conchiuse con voce minacciosa, non ti pieghi a queste leggi, ne pagherai il fio col medesimo tuo sangue.

            - Non mai, non mai, o Eraclio, io potrò dire altro se non che questa statua è un simulacro del demonio, segno di perdizione a tutti quelli che lo adorano. Le minacce che mi fai non producono in me alcun timore, io temo solo Iddio creatore che può punirmi o premiarmi in eterno.

            Il giudice troncò ogni discussione, comandò che fosse preso dai carnefici, battuto con verghe, quindi condotto in prigione. Lungo sarebbe il descrivere i flagelli, la fame, la sete, l'oscurità ed ogni genere di tormenti cui fu sottoposto. Ma egli tutto pativa con gioia nella speranza che quanto più pativa in questo mondo, tanto più avrebbe goduto nell'altro. In fine il giudica scorgendo che nè minacce, nè {20 [358]} flagelli, nè promesse valevano ad intimidire l'intrepido giovanetto, proferi questa sentenza: A Sinforiano, che ha isprezzato gli Dei, sia tagliata la testa. Proferite queste parole, subito i carnefici lo presero e strettamente legato il conducevano al luogo del supplizio. La madre temendo che l'atrocità dei tormenti potesse atterrire il giovane figlio sali sopra un luogo elevato donde poteva essere da lui veduta e ad alta voce si diede ad incoraggiarlo dicendo: Figliuol mio, mio caro Sinforiano, ricordati in ogni momento del nostro Dio creatore. Sii fermo nella fede, o caro figlio. Noi non dobbiamo temer quella morte che ci conduce alla vita. Solleva il tuo cuore al cielo, là vi è la sede della maestà del nostro Dio, che regna nell'immensa sua gloria. Tu sei condotto al martirio, ma a te non si toglie la vita, sibbene si cangia in altra migliore. Oggi, caro figlio, oggi tu lascierai questo miserabile mondo per volare al possesso della grande ed eterna felicità del cielo.

            Incoraggiato dalle parole della madre, {21 [359]} confortato dalla divina grazia, animato dal premio immenso che Dio gli teneva preparato, patì con gioia ogni genere di tormenti fino all'ultimo respiro e gli era troncata la testa il giorno 22 di agosto l'anno 273 quasi tre mesi dopo la morte di S. Reveriano vescovo.

            Il sepolcro di S. Sinforiano divenne assai celebre per la moltitudine di miracoli che a sua intercessione furono da Dio operati. Gli stessi gentili stupefatti facevano ricorso al nostro Santo ne' loro bisogni e ne erano esauditi. La qual cosa contribuì moltissimo ad incoraggiare i cristiani, e a condurre molti gentili alla fede; V. Ruinart, Acta sing. mart. in S. Sinf.

 

 

Capo V. S. Felice istruisce molti nella Fede. - Battezza s. Bonosa e cinquanta soldati che muoiono martiri.

 

            La persecuzione di Aureliano infieriva in tutte le provincie del Romano {22 [360]} impero, ma assai più nella città di Roma; la qual cosa diede occasione a s. Felice papa di esercitare il suo zelo e la sua grande carità sia per istruire e sostenere i fedeli nella fede, sia per incoraggiare quelli che erano condotti al martirio. Tra gli altri è segnatamente luminoso il martirio di s. Sinesio.

            Esso era stato ordinato lettore da s. Sisto papa, faticò molti anni pel bene della Chiesa: dopo di aver guadagnato molte anime a Gesù Cristo finalmente fu accusato presso all'Imperatore che lo condannò a morte. Egli fu decapitato il 14 dicembre 274.

            Più celebre è ancora il martirio dei Ss. Eutropio, Zozimo e Bonosa fratelli. Costoro furono tutti instruiti nella fede e battezzati da S. Felice e da esso confortati riportarono glorioso martirio.

            Ci rimane intera la relazione del martirio di s. Bonosa, che noi traduciamo quasi letteralmente dal testo originale. Condotta Bonosa alla presenza dell'Imperatore cominciò questi ad interrogarla così: Come ti chiami? {23 [361]}

            Bonosa. Io mi chiamo Bonosa serva di Gesù Cristo.

            Imperatore. Chi è codesto Gesù Cristo, di cui tu dici essere serva?

            Bonosa. Gesù Cristo è Figlio di Dio, Verbo del Padre altissimo che venendo dal cielo in terra nacque di Maria Vergine per liberare il genere umano dalla schiavitù del demonio.

            Imperatore. Perchè tu non adori gli Dei immortali che tutti adorano?

            Bonosa. Quali sono questi Dei immortali di cui tu mi parli?

            Imperatore. Sono Giove, Ercole, Esculapio e Saturno.

            Bonosa. Costoro non sono Dei, ma furono uomini scellerati, malefici, i quali ingannarono molti e sono causa i perdizione a chi in essi confida. L'imperatore la interruppe e con furia comandò che fosse posta in carcere con ordine di non darle nè pane, nè acqua per sette giorni, persuaso che così sarebbe morta di fame. La coraggiosa vergine appena chiusa in oscura prigione alzò gli occhi al cielo e prostrata pregò umilmente il Signore {24 [362]} a volerle dare coraggio e fortezza a fine di perseverare nei tormenti sino alla morte.

            Mentre era assorta nella preghiera, le apparve l'angelo del Signore per confortarla. Non temere, le dissella tua preghiera è stata esaudita; combatti da forte in terra e sarai coronata di gloria in cielo. Pugna viriliter ut coroneris feliciter. Bonosa confortata da quella visione ringraziò il Signore e passò tutto quel tempo in pratiche di pietà.

            Il settimo giorno l'Imperatore comandò che fosse cavato il cadavere dal carcere e portato a seppellire credendosi che fosse morta. Ma quale non fu la sorpresa quando seppe che ella era tuttora sana ed allegra come prima. Appena la vide cominciò a parlare così: Chi ti ha dato il pane in questi sette giorni?

            Bonosa. Il nostro Signore disse nel Vangelo, che l'uomo non vive solamente di pane, ma di ogni parola che venga dalla bocca di Dio. {25 [363]}

            Imperatore. Offrì sull'istante un sacrifizio agli Dei immortali.

            Bonosa. Io offro ogni giorno me stessa in sacrifizio al solo e vero Dio, e per nessuna ragione posso venerare le stupide divinità.

            L'imperatore pensò allora di poter vincere la sua fermezza facendola battere in varie guise, ma scorgendo ogni cosa tornare invano chiamò il governatore di Roma e dissegli: Prendi questa fanciulla e procura di risolverla a far sacrifizio agli Dei; che se ella ricusa, la farai morire nei tormenti. Il governatore fu assai contento di quella commissione immaginandosi di poterci riuscire e così guadagnarsi la benevolenza del suo Sovrano.

            Preparato adunque un tribunale in mezzo di una piazza della città fece condurre a se Bonosa cui prese a dire così: Bada a te stessa, fa un sacrifizio ad Ercole e così avrai in abbondanza oro, argento ed onori.

            Bonosa. Non lusingarti, o governatore, io non sarò giammai per sacrificare agli Dei; il tuo oro e il tuo argente {26 [364]} siano teco in perdizione. Io godo abbastanza di avere l'eterna eredità con Gesù Cristo in cielo.

            Il Governatore riputandosi oltraggiato da quel discorso comandò che la santa Vergine fosse battuta cogli schiaffi. Fu pertanto consegnata agli sgherri affinchè a parte la conducessero e la percuotessero. Ma quanto mai sono deboli gli sforzi degli uomini allora che sono contrari ai voleri del cielo!

            Già alzavano le robuste braccia per cominciare le percosse quando sentonsi sorpresi da tali dolori nelle braccia che niuno potè cagionare alla Santa il minimo male. Mentre quei soldati confusi stavansi l'uno l'altro guardando la santa Martire, questa loro disse: Potete voi negare la virtù del mio Signore Gesù Cristo? Perchè non credete in Lui, o infelici? Egli v'invita alla sua grazia; vi illumina colla luce della verità e vi fa conoscere la sua infinita potenza colla forza dei mirar coli. A queste parole eglino risposero: Sì, noi crediamo in quel Dio che tu {27 [365]} predichi, non è più possibile di opporci a' suoi voleri, dicci solamente quanto dobbiamo fare.

            Quei soldati erano in numero di cinquanta. Bonosa si pose tosto ad instruirli nei principali misteri della fede, e intanto inviò uno a dire al Pontefice che venisse a battezzare quelle anime convertite al Signore. Felice vi si recò prontamente e ravvisandoli abbastanza istrutti nella fede amministrò loro il santo Battesimo, quindi la Confermazione. Fattili così perfetti cristiani prese ad incoraggiarli ad essere per l'avvenire non solamente soldati dell'Imperatore, ma eziandio soldati di Gesù Cristo.

            Ognuno può immaginarsi lo sdegno del Governatore quando seppe che i suoi soldati invece di uccidere Bonosa avevano abbracciato il Vangelo e professavansi coraggiosamente cristiani. Li fece tosto condurre tutti alla sua presenza, indi voltosi con piglio severo a Bonosa disse: Io pensava che tu avessi un po' di senno, ma mi accorgo che la mia indulgenza ti rende {28 [366]} arrogante usando insino le arti magiche per indurre i miei soldati ad abbandonare il culto degli Dei.

            Bonosa temendo che un discorso moderato potesse mettere in pericolo i novelli convertiti disse risolutamente al governatore: Insensato e tiranno crudele! Non ti accorgi che i tuoi Dei sono demoni? Non hai mai udito quanto dice un santo profeta: tutti gli Dei delle nazioni sono demoni, soltanto il nostro è il vero Dio creatore del cielo e della terra?

            Il Governatore non potendo più frenare la rabbia fece sospendere all'eculeo la santa Vergine. Mentre essa era sottoposta a spietati tormenti ordinò che i cinquanta soldati, che poco prima avevano ricevuto il Battesimo, fossero condotti a morte. Quei fedeli servi di Gesù Cristo deposero le loro armi, offersero le loro mani a chi li voleva legare e come agnelli mansueti vennero condotti fuori della città dove fu loro tagliata la testa il 9 di luglio nel 274.

            S. Felice non li abbandonò neppure {29 [367]} un istante, li assistè in mezzo ai tormenti facendo loro animo ad essere perseveranti sino all'ultimo respiro.

            Bonosa intanto era sottoposta a crudele carnificina: più volte fu condotta in carcere, più volte ricondotta al Governatore, ma ella confessò sempre con virile coraggio la fede di Cristo. Nei maggiori patimenti era sempre festante pensando che i mali della vita presente le aprivano le porte al premio eterno che Gesù Cristo le teneva preparato in cielo. Finalmente venne condotta fuori di Roma, ove compiè il suo glorioso martirio coll'esserle tagliata la testa il 15 di luglio otto giorni dopo la morte dei cinquanta soldati.

            Gli atti del martirio di questa Santa terminano colle parole seguenti: O gloriosissima vergine Bonosa, prega per noi miserabili peccatori e ottienci dal Signore forza e coraggio onde possiamo seguire i tuoi esempi e giungere un giorno a godere la medesima felicità che tu godi in cielo per tutti i secoli dei secoli. Così sia; V. Boll. 14 luglio e Bar. 275. {30 [368]}

 

 

Capo VI. La regina Zenobia. - Fatiche di Felice papa per la fede cattolica.

 

            Sotto al pontificato di S. Felice l'imperatore Aureliano riportò una grande vittoria in oriente, contro alla regina di Palmira. Costei è quella famosa Zenobia che trattò molto di religione con Paolo Samosateno, come abbiamo già raccontato nella vita di S. Dionigi Papa. Donna di gran valore e di coraggio virile dopo la morte del marito guidava ella stessa con sorprendente abilità gli eserciti alla pugna. Contrastò lungo tempo la vittoria ai Romani; finalmente dovette cedere al numero e fu vinta. L'Imperatore la trattò coi riguardi dovuti ad una grande eroina: volle bensì che fosse condotta a Roma come una rarità del suo trionfo, ma le diede ampia libertà di vivere qual dama romana.

            Essa aveva già acquistate molte cognizioni della religione cristiana e certamente con grave impressione intese {31 [369]} la condanna di Paolo Samosateno suo maestro. In Roma poi si pose a considerare la fugacità delle umane grandezze; entrò in se stessa, s'instruì meglio nelle verità della fede, e credesi che abbia ricevuto il battesimo. Passò il rimanente de' suoi giorni in opere di cristiana pietà. V. Bar. an. 274.

            Mentre s. Felice Papa, faticava in Roma provvedeva eziandio ai bisogni della Chiesa universale inviando missionari a propagare il Vangelo fra gli infedeli, a sostenere, ad incoraggiare quelli che pativano per la fede. Nè ommetteva alcuna sollecitudine per conservare intatto il deposito della Fede cattolica contro all'eresia che in ogni tempo fu il più grande flagello della Chiesa. Seguendo gli esempi del suo antecessore s. Dionigi vegliava specialmente sopra gli eretici Sabelliani che tentavano di nuovo levarsi a danno della fede. Scrisse una lettera a s. Massimo vescovo di Alessandria, d'Egitto ed al suo clero per avvisarli di tenersi saldi nella dottrina cattolica; notò loro di guardarsi dai {32 [370]} seguaci di Paolo Samosateno che come Sabellio negava la divinità di Gesù Cristo. Fra le altre cose in quella lettera leggevasi quanto segue: Riguardo all'incarnazione del Verbo e intorno alla Fede noi dobbiamo credere nel Signore nostro Gesù Cristo nato da Maria Vergine; poichè esso è l'eterno Figliuolo di Dio. Imperciocchè Iddio figliuolo non si fece uomo per essere un altro oltre a se stesso; ma restando vero Dio, cominciò ad essere vero uomo nato dalla Beata Vergine Maria; S. Cirillo in ap.

            Di queste parole si servirono i santi Padri per combattere ogni errore contrario alla divinità del Salvatore, e le stesse usiamo oggidì nei nostri catechismi per esprimere che nella sua incarnazione Gesù Cristo non cessò di essere Dio, ma restando vero Dio cominciò ad essere vero uomo.

            In mezzo alle sollecitudini della Chiesa universale S. Felice portò anche il suo pensiero sui bisogni del clero. Tenne due volte la sacra ordinazione in cui consacrò nove sacerdoti, {33 [371]} cinque diaconi e cinque vescovi che poi mandò a governare diverse diocesi che erano rimaste prive del primario pastore. Intanto giunse l'anno 275 in cui la persecuzione prese ad infierire in modo terribile. Aureliano volendo fare cosa grata agli dei comandò che tutti i suoi sudditi dovessero fare a quelli un pubblico sacrifizio. I Cristiani secondo il solito rifiutarono di ubbidire, quindi erano disprezzati, perseguitati e spesso condannati a morte senza alcuna forma di processo.

            S. Felice scorgendo i gravi pericoli che sovestavano alla Chiesa studiava ogni mezzo per provvedervi. Ma fu scoperto dai persecutori i quali come cristiano e come capo dei cristiani il condussero al martirio. Degno seguace del suo divin maestro quel coraggioso pastore offeriva la vita pel suo gregge il 30 maggio 275.

            Il suo corpo fu portato in un suo cimitero nella via Aurelia, dove fu poscia edificata una chiesa che si crede essere l'odierna basilica di S. Pancrazio. {34 [372]}

 

 

Capo VII. Sepolcri. - Memorie dei Martiri. - Confessione. - Pietre Sacrate. - Catechismi. - Omelie.

 

            Fra le istituzioni di s. Felice Papa avvene una che il libro Pontificale esprime con queste parole: s. Felice stabilì che il Santo Sacrifizio della Messa fosse celebrato sopra i sepolcri o sopra le memorie dei martiri, le quali parole dimandano qualche spiegazione.

            Nei primi tempi della Chiesa non potendosi celebrare i divini misteri in pubblico i cristiani dovevano radunarci nelle catacombe o in altri luoghi sotterranei. Colà in siti e ad ore determinate intervenivano i fedeli; quindi il Papa oppure un vescovo od un semplice ecclesiastico aggiustava una mensa in forma di altare sopra la tomba di un martire e per quanto si poteva sopra il sepolcro di uno che avesse dato la vita di recente per la fede. Sopra quell'altare si celebrava là Santa Messa a cui partecipavano i fedeli facendo tutti {35 [373]} la Santa Comunione. Da quell’altare si facevano catechismi, si spiegava la parola di Dio, la qual cosa appellavasi omelia.

            I catechismi erano istruzioni popolari che ne' primi tempi si facevano a viva voce a quelli che desideravano di essere istruiti nella fede e ricevere il battesimo. La parola catechismo viene dal greco e vuol dire istruzione fatta a viva voce. Oggidì per catechismo s'intende specialmente l'istruzione che si fa ai fanciulli per prepararli a confessarsi e a comunicarsi degnamente. Spesso per altro si prende per qualunque istruzione che i paroci fanno dal pulpito ai fedeli.

            Le spiegazioni del vangelo sono appellate omelia da una parola greca che vuol dire radunanza, perchè ad un certo punto delle sacre funzioni il sacro Ministro si volgeva ai fedeli attorno a lui radunati e faceva una breve spiegazione del vangelo. Da questo stesso altare si davano gli avvisi necessari per le osservanze religiose indicando {36 [374]} il tempo, le ore e il luogo delle future radunanze.

            Ma ai tempi di s. Feljce Papa cominciò a manifestarsi un abuso nell'amministrazione di questi misteri, cioè in alcuni paesi celebravansi le messe bensì in luoghi consacrati al divin culto, ma non in altari costruiti sopra i sepolcri dei martiri. Il Santo Pontefice richiamò in vigore questa pratica antica e stabilì con un decreto quello che fino allora erasi fatto per tradizione. Passati poi i tempi delle persecuzioni poteronsi aprire chiese pubbliche, ma il decreto di s. Felice continuò ad essere in vigore ed oggidì ancora non si celebra la Santa Messa se non sopra i Sepolcri ovvero sopra le ceneri dei martiri. Per questa ragione nella benedizione delle pietre sacrate nel mezzo di esse e dentro uno scavo fatto a posta si mettono delle piccole reliquie o almeno delle ceneri di qualche martire.

            I sepolcri dei martiri appellavansi eziandio memorie per le iscrizioni ed altri segni che indicavano esservi le {37 [375]} ossa di qualche martire in un luogo determinato. Leggesi a questo proposito che s. Anacleto memoriam beati Petri construxit, cioè che quel Pontefice costrusse una piccola chiesa sopra la tomba di s. Pietro per conservare la memoria del luogo ove il principe degli apostoli era stato sepolto.

            Dicesi parimenti memoria o confessione per significare il luogo dove riposa il corpo di un martire. Quindi leggendosi di taluno che andò a pregare alla confessione di s. Paolo si viene a significare che egli pregava sulla tomba di quell'apostolo. Così pure quando si nomina la confessione di s. Pietro in Vaticano s'intende quel luogo della Basilica vaticana ove riposa il corpo di s. Pietro. La ragione sta qui che la parola greca martire vuol dire confessore e la morte di lui dicesi martirio ovvero confessione perchè morendo confessò e col proprio Sangue confermò le verità della fede. Per questo motivo la tomba di un martire si appella talvolta confessione, appunto perchè colà riposano le ceneri di colui {38 [376]} che morì confessando la fede. V.Burius Etimolog.

            I protestanti che disapprovano ogni cosa riguardante al culto esterno dicono inutili queste cose materiali, anzi contrarie alla Bibbia. Noi diciamo che non è inutile quello che solleva i nostri cuori a religiosi pensieri e richiama alla memoria il dovere di cristiano. Imperciocchè venerando le ceneri dei martiri noi intendiamo di prestare un atto di stima, di venerazione a quei gloriosi eroi della fede; intendiamo invocarli a nostro favore; di professare quella religione per la cui difesa essi sparsero il proprio sangue. Quella religione che fu costantamente sostenuta nella Chiesa Cattolica da milioni di santi martiri, vergini e confessori; religione che noi riconoscendo per sola ed unica vera dobbiamo offerirci pronti, qualora ne fosse il caso, di dare quanto abbiamo nel mondo, fosse anche la vita, piuttosto che dire o fare cosa contraria ai precetti della medesima. Questo è l'insegnamento del divin Salvatore: qui vult animam suam salvam {39 [377]} facere perdet eam; Matt 16, 25. Chi vuol salvarsi in eterno deve essere pronto a sacrificare ogni cosa di questo mondo fosse anche la vita.

            Nè si può dire cosà inutile questo culto sensibile; imperciocchè essendo noi creati di anima e di corpo abbiamo bisogno di oggetti materiali che sollevino il nostro cuore a cose spirituali. Quindi al vedere le ceneri di coloro che morirono per la fede non possiamo a meno di non sentirci incoraggiati ad imitarli nella virtù e nella fortezza; a praticare la stessa religione, e professare, colla perdita anche della vita la fede confessata dai martiri e sigillata col proprio loro sangue. In simili guise è praticato il precetto di s. Paolo che dice: le cose visibili sono un mezzo per sollevarci alle invisibili. Rom. 1, 20.

            Finalmente noi non crediamo di fare cosa contraria alla Bibbia, che anzi giudichiamo cosa tutta consentanea ai libri Santi il celebrare i divini misteri sopra i sepolcri o almeno sopra le reliquie dei martiri. Ciò fu in ogni tempo praticato nella Chiesa dai tempi degli {40 [378]} Apostoli sino a noi. Che più? noi facciamo quanto a nostro esempio sta scritto nella Bibbia. Ecco quanto leggiamo s. Giovanni Evangelista aver veduto farsi in cielo. Vidi subtus altare Dei animas interfectorum propter verbum Dei et propter testimonium quod habebant. Vidi sotto l'altare di Dio le anime, cioè i corpi una volta animati, di coloro che erano stati uccisi per la parola di Dio e per la testimonianza che avevano. Ap. capo 6 v. 9.

            Monsignor Martini dotto interprete della Bibbia spiega queste parole come segue. Vidi sotto l'altare di Dio le anime. Si allude qui all'altare degli olocausti sopra cui nella legge antica si facevano sacrifizi al Signore. I martiri, i quali come olocausti degni di Dio diedero la vita in confermazione della parola, e per la confessione della fede, di cui portavano espressa testimonianza, questi martiri li vide s. Giovanni sepolti sotto il medesimo altare.

            Anime degli uccisi è qui detto invece di uomini uccisi, come nella genesi (XLVI, 27) dicesi che settanta anime, {41 [379]} cioè settanta uomini erano nati di Giacobbe. Antichissimo è nella Chiesa il costume di seppellire i martiri sotto l'altare. Così s. Ambrogio delle reliquie dei santi Gervasio e Protasio, che egli per ispeciale rivelazione scoperse. Ecco e parole del Santo le quali alludono a questo luogo e danno luce. «Passino le vittime trionfali a quel'luogo dove è vittima Cristo; ma sopra l'altare stia colui; il quale per tutti patì: sotto l'altare stiano coloro che colla passione di lui furono redenti. Questo luogo io l'aveva destinato per me, essendo cosa convenevole che ivi sia sepolto il Sacerdote, dove fu solito ad offerire il Sacrifizio; ma cedo alle sacre vittime la parte destra; questo luogo era dovuto ai martiri.» E per questo altare terreno viene a significarsi l'altare del Cielo, dove pienamente riposano le anime dei martiri. {42 [380]}

 

 

Capo VIII. S. Eutichiano papa. - Trista fine di Aureliano. - Probo fa cessare la persecuzione. - Prime fatiche del novello Pontefice.

 

            Dopo la morte di s. Felice la Sede pontificia fu soltanto vacante cinque giorni, perciocchè infuriando ognor più la persecuzione, il clero di Roma colla massima segretezza si radunò prestamente ed elesse un novello pontefice.

            Pertanto il 4 giugno nel 275 venne assunto al papato S. Eutichiano universalmente conosciuto per la sua santità e dottrina. Egli era nato in Luni città della Liguria; suo padre chiamavasi Morino. Nella serie dei Pontefici è il ventesimottavo da Gesù Cristo fino a lui. Il suo Pontificato è specialmente celebre per due gravi avvenimenti; cioè per la morte di Aureliano e per la eresia di Manete, che in questo tempo cominciò a turbare la Chiesa. L'imperatore Aureliano, volendo a qualunque {43 [381]} costo distruggere la religione cristiana, spogliava i cristiani dei loro beni, li allontanava dai pubblici impieghi, li mandava in esilio o li condannava a morte. I sacri ministri erano di preferenza cercati e perseguitati.

            Ma Iddio, che protegge la sua Chiesa, le venne in aiuto in modo terribile mercè la morte di Aureliano autore di tanti mali.

            Il celebre scrittore Vopisco ne parla così. Questo principe, e niuno il può negare, fu severo, feroce, sanguinario. Nella sua crudeltà giunse fino a condannare a morte una sua nipote che da tutti reputavasi innocente. Ora avvenne che camminando per raggiungere il suo esercito in Macedonia, ad un certo punto di strada vide il fulmine cadergli ai piedi. Tutti ebbero quell'incidente come tristo presagio. Egli per altro a nulla badando continuò il cammino. Ma giunto in una pianura tra la città di Bisanzio detta di poi Costantinopoli, ed Eraclea, detta oggi Sevosna fu assalito dal suo segretario e da altri ribelli che lo trucidarono dopo sette {44 [382]} anni d'impero nei 278. V. Vopisco in Aureliano.

            Fra gli ultimi da questo Imperatore condannati al martirio fu S. Patroclo. Gli alti di questo santo martire dopo raccontata la trista fine di Aureliano finiscono con queste gravi parole: Così colui che poco prima si pensava di estinguere la gloria del sommo Iddio trucidando i cristiani, poneva termine ai miseri suoi giorni perdendo gloria, trono, vita, famiglia e perfino la speranza della salvezza. V. Surio, 21 genn.

            Quando giunse a Roma la notizia dell'assassinio di Aureliano il Senato elesse un altro imperatore di nome Probo. Costui spaventato dalla tragica morte del suo antecessore, e attribuendo l'infortunio di lui ai mali fatti patire ai cristiani giudicò meglio desistere dal perseguitarli; anzi ordinò che in tutto il romano impero dovesse cessare la persecuzione. Ma il regno di lui fu di breve durata; dopo sei mesi con universale rincrescimento cessava di vivere.

            Dopo Probo succedette un famoso {45 [383]} generale di nome Tacito che lasciò anche vivere in pace i cristiani. Il Signore favorì questo principe di molte vittorie contro i barbari, che da tutte parti infestavano l'impero.

            Il novello pontefice approfittò di questo tempo di tregua per provvedere a molte cose poste in disordine dalle persecuzioni. Ordinò molti sacerdoti, di cui alcuni mandò a predicare in lontani paesi, altri deputò ad amministrare varie cariche della Curia Pontificia. Chiamò poi a se alcuni preti zelanti, pii e dotti; li consacrò vescovi e li mandò a fondar vescovadi in diverse parti della cristianità; altri a surrogare quei vescovi che erano morti in tempo della persecuzione.

            S. Eutichiano si occupò assai per dare onorevole sepoltura ai corpi di quei martiri che pel furore dei gentili dovettero seppellirsi or qua, or là, e talvolta in mezzo ai medesimi campi. Il pontefice ordinò che le ossa di quei santi confessori fossero portate in varii cimiteri, e per incoraggiare i fedeli a quell'opera di misericordia lavorava {46 [384]} egli stesso, e si legge che colle proprie mani ne portò trecento quaranta due a seppellire. Fra gli altri è notata la sepoltura di S. Prisca vergine e martire. Egli ne portò le ceneri sul monte Aventino che è uno dei sette colli di Roma antica, e sopra di quelle ceneri edificò una chiesa dedicata alla medesima santa, dove cominciò a farsi molto concorso di popolo.

            Ma la cosa che occupò assai lo zelo di s. Eutichiano fu l’eresia di Manete.

 

 

Capo IX. Monete. - Sua eresia. - Sua morte.

 

            Sotto il pontificato di Aureliano si manifestò l'eresia di Manete, che cagionò molti mali alla chiesa. Egli era di nascita persiano e dicevasi Curbico prima che fosse comprato da una ricca vedova della città di Ctesifonte. Quella donna mossa a compassione alla vista di un giovanetto di soli sette anni posto in vendita come giumento lo comperò. {47 [385]} Fattolo istruire con molta cura, morendo il lasciò padrone delle molte sue ricchezze. Allora il servo divenuto padrone andò ad abitare un magnifico palazzo e prese il nome di Manete, che in lingua Persiana vuol dire oratore, ma in lingua greca significa pazzo. Fra la eredità della benefattrice egli trovò alcuni libri di un certo Sciziano maestro di mille stravaganze. Pensando di avere in quei libri rinvenuta la chiave di tutto l'umano sapere si pose a meditare ed insegnare cose l'una più strana dell'altra. Immaginò egli un sistema detto dualismo, con cui pretendeva dimostrare esservi due principj ovvero due Dei, uno autore del bene, l'altro autore del male. Egli non badava che un solo essere può dirsi infinito e non due; se un essere è infinito deve essere illimitato, non circoscritto. Il male poi essendo la privazione di tutte le perfezioni deve anche essere privo della stessa esistenza, la quale è già un gran bene. Inoltre Manete ignorava che i mali della vita non hanno Iddio per autore, ma sono soltanto da lui permessi {48 [386]} o per castigare i peccati degli uomini, o per esercitarli nella virtù.

            Come conseguenza del suo dualismo Manete insegnava eziandio essere nell'uomo due anime; una che opera necessariamente il male, l'altra per necessità doveva fare il bene. Quindi l'uomo libero di secondare quale voleva di questi due principj, che è quanto dire abbandonato a se stesso con facoltà di fare ogni cosa anche la più nefanda.

            Col capo pieno di queste stravaganze Manete si pose a predicare che egli era un gran profeta, anzi che era lo stesso Spirito Santo. Nella sua ambizione volle venire a disputare con s. Archelao vescovo di Coscar nella Mesopotamia. Rimase confuso; pel che fischiato dalla moltitudine dovette pubblicamente confessare essere la sua dottrina contraria alla Santa Scrittura, dichiarando che non può esservi se non un solo Dio, un solo battesimo, una sola fede, una sola anima nell'uomo, ed un solo Gesù Cristo che l'ha redenta.

            I discepoli vedendo rovesciato il sistema {49 [387]} del loro maestro cominciavano ad allontanarsene, e quelli che gli tenevano ancora dietro lo invitavano a provare la sua predicazione con qualche miracolo, siccome avevano fatto gli Apostoli e gli altri discepoli del Salvatore. Perciocchè, dicevano essi, potendo Iddio solo essere autore dei miracoli, nè potendo questi operarsi se non in conferma della verità, se tu operi un vero miracolo in conferma di ciò che dici, dimostri con certezza che sei mandato da Dio.

            Manete si pensò di poterli appagare con un fatto strepitoso. Avendo inteso che il figliuolo del re di Persia era gravemente ammalato, egli divisò di andarlo a visitare e farlo guarire. Si presentò dunque alla Corte, ottenne udienza dal re, riuscì ad allontanare tutti i medici dall'infermo e, si pose all'opera per procurarne la guarigione o coi rimedi o colla magia. Ma a sua grande confusione la cosà riuscì male e invece di dare all'infermo la desiderata sanità, gli cagionò improvvisamente la morte. {50 [388]}

            Allora il Re montato sulle furie fece mettere in prigione l'impostore e lo condannò a pagare colla morte il fio della sua temerità. Manete per altro ebbe mezzo di fuggire e andò in lontani paesi; continuò a predicare li medesimi errori nella provincia di Coscar.

            Quando il Re seppe la fuga di Manete ne rimase altamente sdegnato e nel trasporto della collera condannò a morte le guardie della carcere perchè lo avevano lasciato fuggire, quindi mandò parecchi soldati in cerca di lui. Dopo molte indagini costoro finalmente giunsero a scoprirlo e legatolo stretto in catene il condussero dal loro Sovrano.

            S. Cirillo racconta la morte di Manete colle seguenti parole: E condotto alla presenza del Re, che gli rimprovera la sua fuga, la sua menzogna e deride la sua condizione di schiavo. Lo accusa di avergli ucciso il figlio e di essere stato la cagione della morte delle guardie uccise perchè lo avevano lasciato fuggire di prigione. {51 [389]}

            In pena di tanta nefandità quel Re applicando la legge persiana condannò Manete ad essere scorticato vivo. Il corpo di lui fu gettato alle fiere per essere divorato. La pelle poi, in cui' era stata racchiusa la malvagità dell'eresiarca, ordinò che a guisa di sacco fosse sospesa alla porta della città.

            Così, conchiude s. Cirillo, colui che vantavasi essere lo Spirito Santo e di sapere le cose future, ignorava che il Re lo faceva cercare per catturarlo e metterlo a morte, s. Cirillo, Catech.

            Un'eresia così empia e ridicola, come quella di Manete, avrebbe dovuto estinguersi colla morte del suo autore, pure non fu così. Sciogliendo essa il freno ad ogni vizio ebbe molti seguaci, e otto secoli dopo la morte di Manete esistevano ancora de' Manichei, i quali di quando in quando turbarono la Chiesa, siccome vedremo ne' nostri racconti sulle vite dei Romani Pontefici. {52 [390]}

 

 

Capo X. L'offertorio della santa Messa - Benedizione dei frutti della terra.

 

            S. Eutichiano, come fu informato dell'eresia di Manete, die tosto mano a confutarla. Siccome quell'eretico riputava tutti i frutti della terra prodotti dal principio cattivò, cioè dal demonio, così il santo Pontefice con ragionamenti ricavati dalla Sacra Scrittura, dalla tradizione e dalla ragione fecesi a dimostrare che solo Iddio è creatore e conservatore e fa produrre i frutti della terra.

            In principio, quando Iddio creò tutte le cose, benedisse la terra e le comandò di produrre frutti di varia specie. Questa divina benedizione è quella che rende feconde le nostre campagne con quella maravigliosa abbondanza di prodotti di cui noi ci serviamo nei bisogni della vita.

            A questo proposito S. Eutichiano ordinò l'offertorio nella S. Messa. L'offertorio è l'azione che fa il sacerdote {53 [391]} sull'altare quando offre a Dio il pane ed il vino da consacrarsi.

            Con questa azione il prete invita tutti i fedeli ad unirsi con lui per fare a Dio un'offerta di se e delle proprie sostanze invocando sopra tutte le creature la divina benedizione.

            Anticamente dicevasi anche offertorio la tovaglia di tela in cui i diaconi riponevano le offerte fatte dai fedeli. Perciocchè Iddio nella legge antica aveva ordinato di portare le decime ed offerirle a lui nel tempio. Questa massima continuò nella legge di grazia ed i fedeli della Chiesa primitiva quando andavano ad ascoltare la S. Messa portavano varii generi di commestibili, di frutti, di prodotti ed anche denaro. All'offertorio ciascuno si avanzava verso l'altare e il diacono che serviva la Messa riceveva in un pannolino le diverse offerte che ciascuno faceva. Quel pannolino ovvero tovaglia dicevasi offertorio.

            Taluno dimanderà: queste offerte dove andavano poi a terminare? Queste offerte erano divise in tre parti. {54 [392]}

            La prima era destinata alle spese di culto, cioè alla costruzione e riparazione delle chiese, a provvedere paramentali, vasi sacri, lumi e simili. La seconda serviva pel sostentamento de' sacri ministri; perchè, come dice s. Paolo, colui che serve all'altare deve vivere dell'altare, non avendo tempo di occuparsi in cose materiali per campare la vita. La terza parte era impiegata a nutrire e a sollevare i poveri, le vedove, gli orfani, gl'infermi, i prigionieri ed anche a riscattare gli schiavi.

            Ne' quattro primi secoli cominciandosi l'offertorio la messa prendeva il nome di Messa de' fedeli, e la parte che precedeva nominavasi Messa dei catecumeni, perchè immediatamente prima dell'Offertorio o delle oblazioni si rimandavano i catecumeni ed i pubblici penitenti. Soltanto i fedeli, che erano in istato di partecipare alla santa Eucaristia, potevano assistere all'offertorio, alla consacrazione e comunione. Burio e Giacomo in S. Eut. {55 [393]} Bergier sotto le parole: Oblatione offrande.

            Inoltre i Manichei ne' loro deliramenti credendo che le mele, uve e in generale tutti i frutti della terra fossero stati prodotti dal principio cattivo li detestavano e li maledicevano. S. Eutichiano stabilì contro a costoro speciali formole da usarsi nella benedizione delle mele, delle uve, delle fave e degli altri frutti della terra affinchè fossero da Dio benedette quelle produzioni che egli stesso faceva nascere, crescere e maturare a benefizio delle creature umane.

            Siccome i protestanti ricusando il culto esterno disapprovano eziandio le benedizioni che voglionsi praticare dalla Chiesa cattolica, così non sarà fuori proposito il dire qualche cosa sulla ragionevolezza delle medesime.

            Ogni cosa fu creata da Dio e da Dio si conserva, perciò gli uomini se ne devono servire secondo la temperanza prescritta dalla divina legge. Ma per fare un buon uso delle cose della vita abbiamo bisogno dell'aiuto della grazia {56 [394]} di Dio, che noi invochiamo colle preghiere. Ora le benedizioni della Chiesa cattolica non sono altro che formole di preghiere stabilite da' sommi pontefici per invocare sopra di noi o sopra le cose nostre la benedizione del Signore.

            Questa dottrina è appoggiata sopra le parole di s. Paolo, che nella sua prima lettera a Timoteo dice: Ogni cosa creata da Dio è buona; essa viene santificata dalla parola di Dio e dalla preghiera.

            Egli è vero che taluni specialmente nelle grandi città si studiano di fare a meno di benedizioni; essi godonsi dei frutti della terra come se eglino stessi ne fossero gli autori, come se fossero da Dio loro dovuti; li consumano, li mangiano quasi come fanno i bruti, cioè senza dare alcun segno di gratitudine verso del Creatore, senza riconoscere la sua bontà ed invocarne la benedizione. Ma i popoli dei paesi e delle campagne che sentono più direttamente la mano di Dio, e che spesso dal flagello di una grandine, di una {57 [395]} siccità e simili vedono annientate tutte le speranze dei campestri loro raccolti, questi popoli che conoscono niente poter prosperare se Dio non ci mette la mano, ricorrono più spesso alle preghiere della Chiesa, invocano le benedizioni sopra le loro campagne, vi aggiungono spontaneamente delle preghiere, qualche limosina od altra buona opera.

            Qui noi dobbiamo deplorare un grande abuso che si va sempre più dilatando tra i cristiani, cioè mettersi a tavola, mangiare, bere, poi andarsene senza innalzare a Dio qualche preghiera, senza nemmeno fare il segno della santa croce. Non sia così de' veri fedeli; non badino ad umano rispetto, nè essi nè i loro dipendenti non si mettano a mensa senza fare una breve preghiera col segno della santa croce per invocare la benedizione del Signore; nè mai si tolgano da tavola senza che si faccia il dovuto ringraziamento.

            I protestanti poi col rifiutare l'uso delle benedizioni danno un segno d'ingratitudine {58 [396]} verso Dio da cui devesi riconoscere ogni benefìzio; e non mettono in pratica quanto è raccomandato in quasi tutte le pagine della Bibbia e trascurano quanto dice s. Paolo che ogni cosa creata da Dio è buona; essa viene santificata dalla parola di Dio e dalla preghiera. Lettera prima a Timot., 4.

 

 

Capo XI. Scomunica contro gli ubbriachi. - Modo di seppellire i Martiri. - Colobio. - Tunica - Dalmatica. - Martirio e sepoltura di s. Eutichiano.

 

            I Manichei sebbene detestassero i frutti della terra come prodotti dal principio cattivo, credevano tuttavia di potersene servire per soddisfare, essi dicevano, l'anima cattiva che ogni uomo aveva in corpo coll'anima buona. Quindi non vi era eccesso nel mangiare, nel bere, nè altra oscenità che da quegli eretici non venisse ammessa e tollerata nella pazza ed empia supposizione {59 [397]} di venerare il principio cattivo.

            S. Eutichiano volse anche le sue sollecitudini contro a questo errore. Raccomandò a tutti un moderato uso del vino, di poi volgendo il discorso ai preti si esprime così: «I sacri ministri devono sommamente guardarsi dagli eccessi della crapula, per evitare che non cada sopra di loro la sentenza del Signore, che dice: I vostri cuori non siano mai aggravati dalla crapula e dalla ubbriachezza. Servansi moderatamente del cibo e soltanto di quella porzione che loro è necessaria; e così, come dice l'apostolo s. Paolo: siano sempre sobrii e preparati a compiere quanto riguarda al servizio del Signore.

            Passando poi a parlare dei semplici laici raccomanda loro col più caldo affetto di essere temperanti, di poi soggiunge: Sappia ognuno che l'ubbriachezza è un gran male, da cui nascono tutti i vizi. Raccomandiamo caldamente a tutti i cristiani di guardarsene; che se avvi alcuno tra voi, che non facendo conto di queste nostre parole si abbandoni {60 [398]} all'ubbriachezza, giudichiamo che debba vivere scomunicato, finchè abbia dato non dubbj segni di ravvedimento. Burio, luogo citato.

            S. Eutichiano portava grande venerazione a quelli che erano morti per la fede; perciò, come abbiamo detto, seppellì colle proprie mani fino a trecento quarantadue corpi di martiri.

            Affinchè poi fosse ad essi usata venerazione speciale nella stessa sepoltura, decretò che i loro cadaveri fossero vestiti di colobio o dalmatica, di color rosso. Prima di quell'epoca si portavano a seppellire vestiti di pannilini bianchi tinti nel sangue da loro sparso per la fede. Bianchini in Anastasio.

            Colobio è parola greca che significa veste mutilata ed è una tunica senza maniche molto simile alla dalmatica.

            La dalmatica è così detta perchè la sua forma è simile agli abiti usati anticamente nella Dalmazia. Di essa servesi il diacono quando nelle solenni funzioni presta servizio al sacerdote.

            La tunicella, che vuol dire piccola {61 [399]} tunica o piccola veste, è l'abito del suddiacono della stessa forma, ma un po' più corta. Le dalmatiche devono avere le maniche larghe ed aperte, perchè i diaconi nella primiera loro istituzione dovevano aver cura speciale dei poveri, e la manica larga è simbolo di liberalità. Onde il Pontefice Innocenzo terzo dice: Manicarum latitudo largitatem datoris demonstrat; la larghezza delle maniche dimostra la liberalità del datore.

            S. Eutichiano seguendo l'esempio de' suoi antecessori tenne egli stesso cinque volte la sacra ordinazione, in cui consacrò quattordici preti, cinque diaconi, i quali aggregò al clero romano; consacrò eziandio nove vescovi che mandò in varii paesi dove ne appariva grave bisogno.

            Finalmente dopo d' aver tenuta la sede pontificia otto anni, sei mesi, era coronato del martirio il giorno 8 dicembre nel 283 sotto al regno di Caro, e andava ad unirsi alle anime de' martiri, cui egli aveva dato onorevole sepoltura. L'imperatore Caro non rinnovò {62 [400]} gli editti di persecuzione, ma lasciava ad arbitrio dei governatori di trattare i cristiani come loro tornava più attalento.

            Il corpo di s. Eutichiano fu portato a seppellire nel cimitero di s. Callisto nella via Appia, tre miglia da Roma. Morto s. Eutichiano la santa sede rimase vacante nove giorni. {63 [401]}

 

 

Appendice sopra S. Caritone abate e martire.

 

 

Capo I. Patria ed interrogatorio di s. Caritone nella persecuzione di Aureliano.

 

            Nell'Asia minore in una amenissima pianura sulle sponde del fiume Fargito, alle falde del monte Tauro esiste la città d'Iconio detta oggidì Cogni. Ivi s. Paolo predicando il Vangelo aveva guadagnati molti a Gesù Cristo e fra gli altri santa Tecla, molto celebre nei fasti della Chiesa e la prima tra le donne che abbia riportato la palma del martirio. {64 [402]}

            Nel partire s. Paolo consacrò vescovo un suo cugino di nome Sosipatro, onorato dalla Chiesa come santo, e lo deputò a governare quella città. Dopo vi furono vescovi per diciotto secoli. Ora però è in potere dei Turchi.

            Fra gli uomini celebri di questa città fu s. Caritone, le cui azioni sono oggetto di alcuni nostri trattenimenti, e di cui si parla molto dagli scrittori ecclesiastici greci e latini.

            Esso apparteneva ad una ricca e nobile famiglia che diedegli una cristiana educazione. La sua virtù risplendeva pubblicamente. Egli beneficava tutti colle sue sostanze, co' suoi consigli; ma quando sapeva che alcuno era in pericolo della fede egli coraggioso affrontava ogni fatica, disprezzava ogni cosa a fine di aiutarlo. Per questo tutti ricorrevano a lui, come ad un uomo pio, dotto e prudente.

            Allorchè l'imperatore Aureliano cominciò a perseguitare i cristiani, gli abitanti di Cogni furono i primi a provarne gli effetti. Molti fuggirono ne' deserti o sulle montagne; molti rimanendo in città vennero condotti avanti {65 [403]} ai tribunali, e confessando con fermezza Gesù Cristo tollerarono ogni genere di patimenti per la fede.

            In quell'universale bisogno Caritone colle parole e coi fatti incoraggiava tutti, provvedeva a tutti. Ma le guardie del governatore sapendo quale guadagno avrebbero fatto coll'impadronirsi del nostro Santo lo cercarono e trovatolo appena il legarono e lo condussero davanti al governatore.

            Noi traduciamo quasi letteralmente quanto troviamo negli atti del suo martirio; Surio e Boll., 28 sett.

            Il governatore cominciò ad interrogarlo così: Qual è il tuo nome?

            - Il mio nome è Caritone.

            - Di qual paese tu sei?

            - Io sono cittadino d'Iconio.

            - Che fai in questa città?

            - Attendo agli affari di mia famiglia.

            - Quale religione professi?

            - Io professo la religione cristiana.

            - Perchè essendo tu suddito del Romano impero disprezzi le leggi dello Stato e ricusi di fare sacrifizi ai nostri Dei?

            - Io ubbidisco alle leggi dello Stato {66 [404]} in tutto ciò che non è contrario alla mia religione, ma non posso fare alcun sacrifizio ai vostri Dei, perchè essi sono altrettanti demonii, che preparano l'eterna dannazione a tutti quelli che in essi confidano.

            - Dovrei dare sfogo al mio sdegno e condannarti sull'istante all'ultimo supplizio, perchè hai avuto la temerità d'insultare i nostri Dei onnipotenti. Siccome per altro questi nostri Dei sono pacifici e non propensi all'ira, io voglio imitarli e parlarti da amico. Ascoltami adunque. Lascia da parte ogni prolungato discorso; fa un sacrifizio agli Dei; così io ti lascierò in libertà, tu vivrai in pace e per ogni evento avrai la protezione dell'Imperatore.

            - La tua maniera di parlare non può approvarsi; imperciocchè o questi sordi, inanimati oggetti sono Dei, e tu non dovresti tollerarne il disprezzo; oppure tu stesso sei persuaso che non sono Dei, e in questo caso mi suggerisci un'empietà dicendomi di adorarli. Permettimi adunque che io ti parli più chiaramente. Io sono {67 [405]} cristiano; quindi non mai mi piegherò a venerare le stupide vostre divinità; nè mai vi sarà o minaccia o patimento di sorta che mi possa a ciò indurre; e per toglierti ogni lusinga ti dirò che io sono seguace del grande apostolo Paolo e della eroina di Cristo s. Tecla. Colle parole di questo coraggioso apostolo ti dico che nè la vita, nè la morte mi potrà separare dalla fede in Gesù Cristo.

            - Datti calma e rispondimi con maggior tranquillità. Se quegli Dei, che tu nieghi, non fossero veramente Dei, siccome sono venerati e riconosciuti dagli stessi nostri imperatori, come mai noi potremmo da loro avere vita ed essere tuttora dai medesimi conservati e provveduti di quanto godiamo nel mondo?

            - Vi ingannate a gran partito. Le statue ed altri vostri simulacri sono privi di ragione, di senso e d'intelligenza, perciò non sono certamente Dei. Essi hanno gli occhi, ma non vedono, hanno le mani, ma non possono operare, hanno le orecchie, ma senza udito. Vuoi farne la prova? avvicina la fiamma {68 [406]} ai loro fianchi o fa dare un colpo di martello o di scure ai loro piedi; e vedrai che essi non hanno senso di sorta, nè sono capaci di muovere un passo, o proferire una parola.

 

 

Capo II. Patimenti di s. Caritone. - Semivivo è strascinato in carcere.

 

            Le risposte franche e risolute del santo martire persuasero il governatore che ogni promessa, ogni minaccia sarebbe tornata inutile. Dando perciò libero sfogo alla rabbia, che fino allora aveva repressa in cuore, montò sulle furie e disse: E vana ogni parola; verrò ai fatti, e vedremo se costui continuerà a fare il testardo. Ordinò quindi che il Santo, spogliato delle sue vesti, fosse battuto con nervi. Era questo un mezzo molto sensibile per tormentare i cristiani; perciocchè a forza di sferzate rendevano livide la pelle e la carne stessa, di modo che la persona del paziente diventava una sola maccatura.

            - Mentre il forte confessore era così {69 [407]} flagellato, il governatore fece sospendere per un momento le battiture per indurlo a dare qualche segno di debolezza. O Garitone, gli disse, vuoi tu arrenderti e fare un sacrifizio agli Dei, oppure vuoi che il tuo corpo sia fatto una sola piaga?

            Non mai, rispose Caritone, non mai sarò per fare alcun sacrifizio alle stupide vostre divinità. Sono pronto non solo a fare del mio corpo una sola piaga, ma a morire, e se potessi morirei mille volte piuttosto che fare o dire cosa contraria alla divinità del mio Salvator Gesù Cristo.

            Il Governatore non proferi più parola e diè tosto ordine ai carnefici di continuare il flagello. La loro crudeltà giunse a tanto che rottasi la pelle cadeva la carne a brani e scoprendosi le interiora pareva che il santo martire dovesse rendere l'ultimo respiro.

            Il Governatore non udendolo più nè parlare nè pregare, anzi sembrandogli quasi morto comandò che si cessasse dai flagelli. Non perchè a lui importasse di sua morte, ma affinchè non morisse martire tra i tormenti, e come {70 [408]} tale venisse venerato di poi dai cristiani. Che se, egli diceva, guarisse ancora, sarebbe esposto a nuovi e più lunghi tormenti. Ma poco dopo Caritone diè segno di vita, apri gli occhi e ripigliò l'uso dei sensi. Gli fu comandato di seguire i carnefici e con essi andare in prigione. Ma il suo corpo essendo tutto pesto e piagato egli non poteva più fare un passo, nemmeno muovere una mano. Onde i carnefici se lo tolsero sulle spalle e parte portandolo e parte strascinandolo il condussero in prigione.

            Il Governatore diè tempo che Caritone acquistasse alquanto di forza, di poi lo fece ritornare alla sua presenza lo prese alle buone, gli promise onori, impieghi, danaro, l’amicizia sua e quella dell'Imperatore, colla sola condizione che facesse un sacrifizio agli Dei. Tutto inutile. Il santo niente altro rispondeva che egli era pronto a patire ogni male piuttosto che fare o dire cosa contraria alla santa legge del Signore.

            Allora fu sottoposto ad altri e poi ad altri più studiati supplizi, e in fine {71 [409]} gli si accese un fuoco attorno alla persona, si accostarono fiamme e ferri arroventati ai fianchi, e fu proprio un miracolo dell'aiuto divino se non è morto in mezzo a tanti e così prolungati tormenti. Ma che non può l'uomo aiutato dalla grazia di Dio? Il Santo pativa con gioia, nè altro gli uscì mai di bocca, se non queste parole: quanto più saranno prolungati i patimenti della vita, altrettanto sarà grande il premio che il mio divin Salvatore mi compartirà dopo morte in cielo.»

            Terminate queste prove, questi flagelli e carneficine s. Caritone fu di nuovo condotto in carcere.

 

 

Capo III. S. Caritone liberato dalla carcere cade nelle mani degli assassini, da cui è miracolosamente liberato.

 

            Gemeva da più mesi fra le catene, dicono gli atti del martirio di s. Caritone, quando Iddio venne in aiuto della sua Chiesa togliendo dal mondo {72 [410]} con fine terribile chi era cagione primaria di tanti mali.

            Aureliano era trucidato da' suoi soldati. Probo suo successore, atterrito dall'infortunio toccato ad Aureliano, riconobbe in esso il castigo del cielo pei mali fatti patire ai cristiani. Laonde per impedire che altrettanto accadesse a lui, ordinò che cessasse la persecuzione. Baronio anno 280.

            Allora tutti quelli che erano in esigilo per la fede poterono ritornare in patria, e quelli che languivano in carcere vennero lasciati in libertà.

            Si cercò eziandio di s. Caritone e fu trovato in carcere da cui venne cavato mezzo morto. Provò egli rincrescimento nell'essere così tratto da quel luogo, perciocchè si attendeva da un momento all'altro di terminare la sua vita col martirio. Fatto libero, in breve tempo riacquistò le primiere forze e guarì intieramente dalle piaghe e da altri mali cagionatigli dai flagelli.

            Ma il nostro santo aveva, fatto al Signore un sacrifizio della sua vita; perciò risolvette di passare nella mortificazione e nella santità il rimanente {73 [411]} de' suoi giorni. Vendette tutte le sostanze che ancora rimanevangli, ne fece parte ai poveri, riserbandosi unicamente una piccola porzione per fare un viaggio a Gerusalemme. Desiderava di terminare là sua vita sul monte Calvario meditando i patimenti del divin Salvatore. Partì egli adunque da Iconio per quel lungo e penoso viaggio e già era pervenuto ad un deserto detto Faran o Faro, sei miglia da Gerusalemme. Era questo una vasta pianura circondata da alte montagne dove non abitavano se non uomini che vivevano di rapina. Accelerava il passo per oltrepassare quel luogo pericoloso, quando sentesi gridare di qua è di là: Fermati, fermati, o sei morto. Arresta il passo, guarda e vede una masnada di assassini che come fiere gli si avventano, lo attaccano con catene ai piedi ed alle mani, lo stringono con altra catena di ferro al collo, e gli uni strascinandolo gli altri spingendolo il fanno salire per quelle dirupate montagne e lo conducono in una profonda ed oscura caverna che serviva di abitazione a quei masnadieri. {74 [412]}

            Dopo di avergli tolto quanto aveva in dosso il legarono ad un macigno che faceva angolo in quella caverna: di poi andavano ragionando tra loro intorno a ciò che si doveva fare di Caritone. Alcuno proponeva d'ucciderlo tosto e gettarne i brani alle bestie selvatiche; altri proponevano di conservarlo, ingrassarlo, di poi farlo cuocere e mangiarselo a loro bell'agio. La conclusione fu di lasciarlo ben legato nella spelonca riservando alla sera il deliberare intorno alle cose da farsi. Intanto partirono chi per una via chi per un'altra in cerca di passeggieri da spogliare o da assassinare.

            Il Santo rimasto solo alzò gli occhi al cielo, fece di nuovo a Dio un sacrifizio della sua vita, e lo pregò a volerlo aiutare a far la sua santa volontà e gradire que' patimenti a cui era esposto. Il demonio qui volle anche fare la sua parte, rimproverandolo di aver presa un'inconsiderata deliberazione, ed essere meglio per lui ritornarsene in patria.

            Il Santo rispose a questa suggestione diabolica con queste parole: O spirito {75 [413]} scellerato, a che vieni tu qui? Forse per ingannarmi? Credi tu farmi paura colla morte o d'impedirmi di compire il mio desiderio con una vita più conforme a quella del mio Salvatore Gesù tristo? Sappi che avendo tante volte sprezzata la morte in passato non la temo al presente. In quanto ad allontanarmi dal mio Gesù, rispondo che tu non hai alcuna forza contro di lui. Esso può tutto quel che vuole, ed io col suo aiuto posso tutto contro di te.

            Mentre così pregava, ecco un serpentaccio entrar nella spelonca. Il santo mirava quel velenoso animale strisciarsi qua e là; gli passò più volte vicino ai piedi, ma senza offenderlo. Quindi si portò sopra un tavolo di pietra su cui era un vaso di vino. Bevette a sazietà, agitandosi e dimenandosi in tutte guise; di poi uscendo andò pei fatti suoi.

            Intanto giungono a casa i masnadieri stanchi dal cammino, dagli agguati e dagli assalti dati agli infelici passeggieri. Travagliati dalla sete si mettono a bere del solito vino. Ma che? Uno si mette a gridare per un mal di ventre {76 [414]} che lo strozza e cade morto di qua; altro grida essere divorato da un fuoco ardente e cade morto di là. In pochi minuti tutti quegli infelici giacevano morti pel veleno che quella vipera aveva vomitato nel vino.

            Vedi, o lettore, con quanta facilità il Signore, quando vuole, porta soccorso a' suoi fedeli; un piccolo animale passando in quel vino bastò ad annientare la forza e la gagliardia di que' ladroni che da tanto tempo erano il terrore di tutti quelli che fossero passati in quei deserti. In ogni pericolo ricorriamo a Dio, preghiamolo e poi lasciamo a lui là cura di provvedere ai bisogni della vita.

 

 

Capo IV. S Caritone converte la spelonca in una chiesa. - Fabbrica un monastero e dà principio alla vita eremitica.

 

            La caduta di s. Caritone nelle mani di quegli assassini sembrava una grande sventura. Eziandio dopo la morte di quegli infelici niuno poteva dar loro {77 [415]} sepoltura e lo stesso Caritone avrebbe dovuto egualmente morire; perciocchè incatenati i piedi e le mani, legato ad un macigno con grossa catena avrebbe egli dovuto perire di fame o pel fetor de' cadaveri che presto sarebbersi putrefatti. Chi può liberarlo? Iddio che sa ricavare il bene dal male. Caritone pensava all'ultima sua ora, che non pareva lontana, quando sente uno scroscio che agita le sue catene, le quali rompendosi da se stesse il lasciano perfettamente libero. La prima cosa che fa Caritone fu di compiere un alto di misericordia col dare sepoltura al cadavere di quegli infelici, di poi fattosi a rovistare ne' varii nascondigli della caverna trovò diversi abiti, armi e una quantità di danaro che queglino avevano rubato ai passeggieri. A quella vista Caritone disse fra se: Il Salvatore si lamentò nel Vangelo che alcuni profanando il tempio facevano della casa di Dio una spelonca di ladroni. Qui parmi si possa fare il contrario, cioè di una spelonca di ladroni fare una casa di orazione, e così fece. Col danaro rinvenuto die mano ad aggiustare ed {78 [416]} abbellire l'entrata e l'interno della spelonca e a rendere praticabili i sentieri che a quella conducevano. A lui si unirono alcuni altri solitarj, che avevano eziandio abbandonato il mondo per dedicarsi unicamente al servizio del Signore.

            Caritone vedendo l'opera sua benedetta dal Cielo pensò di fabbricare una laura accanto alla chiesa. Laura è parola greca che vuol dire caseggiato e paesello; ma qui è usata per significare aggregazione di più celle i cui abitanti facevano vita comune. Onde quando diciamo il nostro santo aver fabbbricato una Laura significa che egli fondò una cella per se, quindi un'altra per un suo compagno. A poca distanza due altre, di poi due altre. Così quelle scoscese montagne in poco tempo diventarono una vera laura, cioè una specie di paese. Più tardi, le laure furono anche dette monasteri per significare la radunanza di più persone che abbandonavano il mondo per occuparsi unicamente della loro eterna salute.

            E bene qui di notare che s. Caritone {79 [417]} si reputa il primo fondatore delle laure ovvero della vita romitica; prima di lui erano già alcuni che per fuggire dalla persecuzione si ritiravano ne' deserti; ma pochi in numero e non in forma regolare come fanno i membri di una religiosa famiglia.

            Dopo la fondazione della chiesa e delle celle s. Caritone si pensava di poter godere tranquillità nella sua spelonca, ma non fu così. La moltitudine de' miracoli congiunta ad una santità straordinaria di vita lo fecero ben presto conoscere ai paesi vicini, di poi ai paesi più lontani; quindi cominciò a farsi concorso di genti. Molti gentili e molti ebrei andavano alla grotta di Faran per vedere quell'uomo di cui raccontavansi tante maraviglie.

            Il Santo si adoperava per istruire tutti nella cristiana religione e molti ricevevano il battesimo. Ricchi e poveri, dotti ed ignoranti, ognuno era stupefatto nel vedere un uomo che poneva ogni studio per conformare la sua vita a quella di Gesù crocifisso; che reputava grande delizia ogni cosa {80 [418]} che tendesse alla virtù della continenza.

            Tutte le sue ricchezze consistevano nel possedere niente; dormire sulla nuda terra, passare le notti pregando, erano cose che egli faceva con un tale gusto, che non avrebbe provato chi avesse passato il tempo fra le più grandi delizie, riposando sopra morbido letto. Cresceva poi la loro ammirazione al vederlo ai fianchi cinto di pungente cilicio, vestito di orrida e grossa veste; e ciò tutto patire con gioia nella speranza del premio riserbato da Dio nella vita avvenire.

            La bontà, l'affabilità, la cortesia con cui accoglieva tutti, facevano che chiunque fosse andato da lui una volta desiderava di presto ritornarvi. Onde crescendo gente a gente in breve quella vasta solitudine divenne una città di fervorosi abitanti i quali niente altro desideravano che la propria santificazione.

            Ma lo straordinario concorso di popolo turbò presto la pace per cui erasi ritirato in quella vasta solitudine, {81 [419]} laonde pensò di stabilirsi un modo di vivere, in cui fosse fissata l'ora e la quantità del cibo, del lavoro e del riposo, della preghiera e della ricreazione, dell'udienza e della meditazione.

            Il cibo, egli diceva, si prenda una volta al giorno, ma non a sazietà; ciascuno procuri di levarsi dalla mensa portando ancora seco un po' di appetito. L'alimento sia pane con alquanto di sale, che tenga luogo di condimento. La bevanda sia acqua, ma anche questa con moderazione e con parsimonia.

            Siccome poi tanto il giorno quanto la notte è tempo da consacrarsi al Signore; così egli stabili preghiere e salmi da cantarsi o recitarsi a certe ore del giorno e a certe ore della notte. Miei fratelli, diceva a' suoi compagni, ricordatevi che l'ozio è cagione di molti mali e dà origine ad ogni vizio. A voi poi raccomando la cura di una grande virtù, la castità. Questa non si conserva se non col lavoro, e le tentazioni contro di essa non si vincono, se non col digiuno e colla preghiera.

            Guardatevi, ripeteva spesso, dal conversare troppo cogli uomini; il trattare {82 [420]} con gente di mondo è esporre la virtù a gran pericolo. Al contrario il silenzio e la ritiratezza sono la madre e la custodia di ogni virtù. Noi abbiamo grandemente bisognosi questa quiete a fine di purgare l'anima nostra dalle macchie che la nostra misera umanità va ogni giorno contraendo. La qual cosa facevano certamente colla frequente confessione.

            Nei poverelli egli ravvisava la persona di Gesù Cristo, perciò non rifiutava mai limosina ad alcuno. Non bisogna mai licenziare il poverello colle mani vuote diceva; affinchè non ci accada di mandar via col povero il medesimo divin Salvatore.

 

 

Capo V. Caritone parte da Faran, edifica un'altra Laura sui monti di Gerico; di poi una terza vicino a Tecua.

 

            Dati gli opportuni precetti a' suoi discepoli; ne scelse uno che agli occhi di tutti appariva il più pio, dotto, prudente e mortificato. A costui affidò {83 [421]} il governo di quella numerosa famiglia. Caritone poi uscì dalla Laura di Faran per recarsi altrove. I buoni religiosi piangevano amaramente alla notizia che il loro padre si voleva allontanare. Amato padre, dicevano, rimanete con noi, perciocchè per la vostra partenza temiamo siano per avvenirci gravi mali.

            Miei figli, loro rispondeva, non temere per la mia partenza. Andandomene io, sarà un bene e per voi e per me. Io vi sarò tuttora padre nelle cose spirituali; e voi mi sarete ognora figliuoli carissimi; voi sarete come api, i quali verrete regolarmente nelle vostre celle come ad alveari a fine di meditare gli avvisi che vi ho dato e così gustare il miele della virtù. Dette queste parole li benedisse e raccomandandoli al Signore se ne partì.

            Dopo un giorno di cammino si abbattè in un'altra spelonca sulle montagne di Gerico dalla parte del mare morto[1]. Quel luogo gli sembrò molto {84 [422]} opportuno pel silenzio e per la meditazione delle cose celesti. Quivi si arrestò. Ma come provvedere ai bisogni della vita in un orrido deserto? Chi ama veramente Iddio si contenta di poco, purchè lui possa amare, a lui servire. Caritone si contentava di sole erbe selvatiche per unico suo nutrimento. Ma Iddio che ama gli umili, {85 [423]} sa farli conoscere a suo tempo per manifestare la sua gloria. La santità ed i miracoli del fedele servo di Dio cominciarono di bel nuovo a spandersi fra i popoli vicini. Caritone si prestava volentieri a curare i mali del corpo, per guarire di poi i vizii dell'anima, principale oggetto delle sue fatiche. Molti allettati dalle sue parole e riconoscenti a' benefizi lo supplicavano di lasciarli {86 [424]} vivere con lui e di volersi direttamente prendere cura delle anime loro.

            Caritone li accoglieva con bontà e perchè vi fosse posto per alloggiarli costrusse un'altra Laura, ossia una quantità di celle regolarmente distanti l'una dall'altra. Questa Laura diventò assai celebre perchè fu ampliata da un famoso solitario, s. Elpidio, uomo di straordinaria virtù.

            Costui passò quivi venticinque anni, cibandosi soltanto al sabato e alla domenica di ciascuna settimana con pane ed acqua.

            Alla vista per altro del concorso di gente che ogni giorno si andava crescendo, Caritone scorgendosi turbata la tranquillità stabilì di recarsi altrove. Diede a quei novelli monaci gli stessi regolamenti che aveva lasciato a quelli di Faran, deputò uno a fare le sue veci e raccomandando a tutti l'osservanza religiosa andò più oltre nella solitudine. Fece alcune miglia di cammino e passando a poca distanza dalla città di Tecua, si portò sopra ad una roccia altissima, che pendeva verso il mare morto. Anche colà cominciò a {87 [425]} farsi concorso di gente. Gentili, ebrei correvano in folla a vedere il solitario di Tecua, tutti mossi dal desiderio d'instruirsi nella religione, ricevere il battesimo e molti altri per purificare le anime loro col sacramento della penitenza. Non pochi eziandio animati dal desiderio di assicurarsi l'eterna salvezza chiedevano di rimanere con lui. Alla vista di tante dimande egli volle appagarli, ma li mise ad una grande prova.

            Cercò una spelonca posta in un luogo diroccato ove niuno poteva recarsi se non arrampicandosi come animali alpestri. Quivi edificò un'altra Laura, che in lingua Siriaca fu detta Laura Suca, ma in greco è espressa con una parola che vuol dire Laura vecchia, per distinguerla da un'altra che fu pochi anni dopo edificata colà vicino.

            Anche in quel luogo inabitato ed inabitabile cominciò a concorrere gente; la qual cosa disturbava alquanto lo spirito di meditazione del nostro santo.

            Accorgendosi intanto che si avvicinava alla fine de' suoi giorni desiderava di rompere ogni relazione col mondo, e {88 [426]} dimorare in un luogo ove senza disturbo potesse meditare le verità celesti. Un giorno portatosi sul pendio di quella montagna vide non molto lontano una rupe altissima, che prese poi il nome di Tremasto, cioè china del monte. Niuno poteva recarsi colà se non arrampicandosi e facendo uso di scale. Quella rupe era spaccata nel mezzo e formava una specie di spelonca; questa fu scelta da s. Caritone per sua regolare abitazione. Passò qui molto tempo finchè per la vecchiaia e per le continue fatiche non poteva più andare a prendersi acqua nella valle. D'altro canto gli rincresceva di cagionare disturbo ad altri con quel servizio. Che fare adunque? egli prega, e Dio lo provvede. Siccome non molto lungi di là Mosè aveva percossa una pietra donde ne era uscita acqua abbondante, così alla preghiera del servo di Dio si vide da un angolo del suo antro scaturire una fonte freschissima e limpidissima, la quale servì a dissetare il nostro santo e a provvederlo di quanto gli era necessario per la vita. Molti secoli dopo esisteva ancora quella fonte maravigliosa {89 [427]} e tenevasi come acqua prodigiosa atta a spegnere la sete e guarire i mali del corpo.

 

 

Capo VI. Dio gli fa conoscere vicina la morte. - Chiama a se i suoi religiosi, lascia molti ricordi e muore santamente.

 

            Si avvicinava ognor più il giorno in cui Dio voleva rimunerare tante penitenze e tante lunghe fatiche del fedele suo servo, chiamandolo a godere l'immensa felicità del cielo. Avutane da Dio chiara rivelazione del giorno e dell'ora, egli radunò tutti i capi delle case fondate e tutti i fratelli dei tre monasteri. Da essi accompagnato andò alla Laura di Faran dove primieramente aveva esercitato il suo ingegno e le sue virtù. Come se li vide tutti attorno cominciò loro a parlare dei beni celesti in questo modo: Io mene vado, figliuoli miei, e spero di volare in seno a quel Dio da cui ho ricevuto tanti benefizii; il tempo dello scioglimento del mio corpo è vicino. Bisogna dunque che voi stessi {90 [428]} abbiate cura delle vostre anime. Fate penitenza mentre siete in tempo; giacchè dopo la morte cessa ogni mezzo a procurarvi alcun merito. Ricordatevi che è momentaneo quello che patite nel mondo, ma che è eterno quello che si gode in cielo.

            Primieramente siate fermi nella fede, non iscoraggiatevi nei pericoli conservate una vita pura e cadendo in qualche colpa studiatevi di tosto purificare la vostra coscienza. Santificate il vostro corpo perchè esso è l'abitazione della grazia di Dio, che forma la santificazione dell'anima vostra. Ricordatevi che l'ira è un gran male, perciò procurate di conservare tra voi la pace e la concordia. Che se accadesse qualche discordia, mai non lasciate che il sole tramonti senza che vi siate riconciliati. Appena che un cattivo pensiero vi corre nella mente adoperatevi subito di cacciarlo. Più si lascia che rimanga in voi, più difficile riescirà il cacciarlo via.

            Le vostre armi per combattere i nemici dell'anima siano il digiuno, la preghiera, le lacrime, il pensiero della {91 [429]} morte, dell'inferno e sopratutto la beata umiltà. Questa è l'arma più potente di tutte e la più formidabile ai nostri nemici spirituali. Un mezzo sicuro, per non cadere vittima di perversi pensieri, è questo. Custodite i vostri sensi, specialmente gli occhi e le orecchie. Queste sono le due finestre per cui il demonio si fa strada nel nostro cuore.

            Il più prezioso di ogni possesso si è il possedere niente.

            Il possessore delle vere ricchezze è colui, che disprezzando ogni cosa, non si lascia lusingare da nessun bene della terra. L'apostolo s. Paolo annovera le cose che ci sono necessarie; che abbiamo di che vestirci e sfamarci, questo basta ad un cristiano. Guardatevi bene dal giudicare le azioni altrui; invece di giudicare gli altri, giudichi ciascuno ogni giorno se stesso, esamini la sua coscienza e faccia quanto può per correggersi dei difetti che ha scoperto.

            Un nemico petulante e pericoloso si è il ventre che malamente corrisponde a chi gli fa del bene. Noi dobbiamo dominarlo colle fatiche, col digiuno {92 [430]} e col tenerlo lontano da ogni più piccolo atto che possa trasparire immodesto.

            L'ospitalità è parimenti un gran mezzo per farci del merito avanti a Dio, imperciocchè mentre noi somministriamo ristori ai corpi con grande facilità si possono curare i gravi mali dell'anima.

            Ma queste cose importano disturbi e fatiche ed io voglio suggerirvene uno che costi più poco, ma che è efficacissimo ad ottenerci il perdono de' nostri peccati. Qual è questo mezzo? Perdonare i peccati a quelli che li commettono, la qual cosa non solamente piace a Dio e ci ottiene da lui il perdono dei nostri mali; ma eziandio fa un gran bene al prossimo e spesso si guadagna al Signore colui che in nessun modo erasi potuto ridurre al buon sentiero.

            Dopo di aver dette queste e molte altre cose a' suoi discepoli raccomandò a tutti di aver cura della salute dell'anima, li benedisse e nell'atto che li benediceva senza provare alcuna violenza del male lasciava il corpo tra le braccia de' suoi figli spirituali, mentre {93 [431]} l'anima volava gloriosa a godere quel premio infinito che si gode in cielo per tutti i secoli. Prima di morire s. Caritone predisse molte calamità, da cui doveva essere travagliata la Chiesa di Gesù Cristo.

            Con approvaz. della Revisione Ecclesiastica.

 

Indice

 

Capo I Visibilità della vera Chiesa

pag 3

Capo II Elezione di s Felice I - Nona persecuzione sotto Aureliano

 9

Capo III Patimenti del vescovo s Reveriano con dieci compagni

 13

Capo IV S Sinforiano ricusando di adorare gli Dei viene eziandio esposto ai tormenti - Suo martirio

pag 17 {94 [432]}

Capo V S Felice istruisce molti nella Fede - Battezza s Bonosa e cinquanta soldati che muoiono martiri

 22

Capo VI La regina Zenobia - Fatiche di Felice papa per la fede cattolica

 31

Capo VII Sepolcri - Memorie dei Martiri - Confessione - Pietre sacrate - Catechismi - Omelie

 35

Capo VIII S Eutichiano papa - Trista fine di Aureliano - Probo fa cessare la persecuzione - Prime fatiche del novello Pontefice

 43

Capo IX Manete - Sua eresia - Sua morte

 47

Capo X L'offertorio della santa Messa - Benedizione dei frutti della terra

 53

Capo XI Scomunica contro gli ubbriachi - Modo di seppellire i martiri - Colobio – Tunica - Dalmatica - Martirio e sepoltura di s Eutichiano

 59 {95 [433]}

 

 

Appendice sopra Scritone.

 

 

 

Capo I Patria ed interrogatorio di s Caritone nella persecuzione di Aureliano

pag 64

Capo II Patimenti di s Caritone - Semivivo è strascinato in carcere

 69

Capo III S Caritone liberato dalla carcere, cade nelle mani degli assassini, da cui è miracolosamente liberato

 72

Capo IV S Caritone converte la spelonca in una Chiesa - Fabbrica un monastero e dà principio alla vita eremitica

 77

Capo V Caritone parte da Faran, edifica un'altra Laura sui monti di Gerico; di poi una terza vicino a Tecua

 83

Capo VI Dio gli fa conoscere vicina la morte - Chiama a se i suoi religiosi, cui lascia molti ricordi e muore santamente

 90 {96 [434]}

{97 [435]}

{98 [436]}

 



[1]Mare morto. Dove al presente esiste questo lago anticamente eravi una fertile pianura circondata da amenissimi colli, che la Sacra Scrittura paragona al paradiso terrestre, Sicut parradisus Domini.

In questa maravigliosa pianura erano Sodoma, Gomorra, Adam, Seboim e Segor. Queste città soglionsi appellare con un solo nome, cioè Pentapoli, che vuol dire cinque città.

Lot dopo essersi diviso da Abramo scelse questo paese per sua dimora e venne a fermarsi in Sodoma. Ma i peccati di quelle infelici città tirarono i fulmini dal cielo sopra i loro abitanti. Iddio per punirli fece cadere sopra di esse una pioggia di zolfo e di fuoco che ad eccezione di Segor ridusse in cenere le case e gli abitanti. Gli animali stessi, ogni pianta, ogni sorta di vegetazione fu consumata. Di poi la terra si spalancò e formò un profondo lago detto mare morto, sia per la moltitudine di cadaveri inghiottiti nel suo sprofondamento, sia perchè in esso niun essere animato, vi possono vivere.

E detto comunemente asfaltide ovvero bituminoso perchè le sue acque sono a guisa di denso bitume. Dicesi anche marmoreo per la sua solidità, perciocchè gli uomini ci possono camminare sopra per qualche tratto sopra la superficie senza sommergersi. L’imperatore Vespasiano ordinò di legare insieme alcuni giudei, di poi li fe' lanciare sopra le onde del mare morto, e vi restarono a gala senza andare a fondo.

La sua lunghezza è di 175 chilometri che corrispondono circa a settanta miglia piemontesi, e largo 37. Esso è tutto improntato dei segni terribili della vendetta divina. Le sue acque sono inette al naviglio, gli uccelli che vi volassero sopra a poca altezza cadono morti pel fetore, niun animale, nemmeno i pesci vi possono vivere.

Nello spazio di dodici miglia dal lago non si osserva che una terra di colore di cenere, che produce soltanto insetti ed animali velenosissimi.

Giuseppe Flavio aggiugne che per eterno ricordo del terribile castigo si vedevano certi alberi a produrre delle mele in apparenza bellissime, ma colte e maneggiate se ne cadevano in polvere.

La Sacra Scrittura nota l'incendio della Pentapoli come un segno sensibile e permanente delle gravi pene con cui l'ira divina nell'altra vita punirà i peccati degli uomini.




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