raccolte dal sacerdote salesiano Giovanni Battista Lemoyne
(Giovanni Battista LEMOYNE voll. I-IX, Angelo AMADEI vol. X, Eugenio CERIA voll. XI-XIX, Indice anonimo dei voll. I-VIII e Indice dei voll. I-XIX a cura di Ernesto FOGLIO)
Conformandomi ai decreti di Urbano VIII, del 13 marzo 1625 e del 5 giugno 1631, come ancora ai decreti della Sacra Congregazione dei Riti, dichiaro solennemente che, salvo i domini, le dottrine e tutto ciò che la Santa Romana Chiesa ha definito, in tutt'altro che riguardi miracoli, apparizioni e Santi non ancora canonizzati, non intendo di prestare, nè richiedere altra fede che l'umana. In nessun modo voglio, prevenire il giudizio della Sede Apostolica, della quale mi professo e mi glorio di essere figlio obbedientissimo.
NEL dar principio al volume ottavo delle Memorie biografiche del Ven. Servo di Dio, il sacerdote Bosco Giovanni, teniamo a ripetere alcune osservazioni già fatte' ne' volumi precedenti, che cioè quanto abbiamo esposto ed esporremo è la narrazione fedele di quanto accadde. Centinaia sono i testimoni della vita e virtù del nostro amatissimo Fondatore, moltissimi dei quali lasciarono scritto, fino dai primi anni e poi fino al termine della sua vita, ciò che videro di lui e udirono dalla sua bocca. Perfino i dialogi conservati e trasmessici, sono quali si svolsero alla loro presenza. [2] Questi incartamenti formano, oseremmo dire, una biblioteca. Noi scrivendo non ci siamo permessi nè estri poetici, nè esagerazioni, perchè la verità non ha bisogno di orpelli. Ciò dimostrano le deposizioni giurate da trenta testimonii nel Processo Ordinario, compiutosi nella Curia Arcivescovile di Torino, delle quali noi, colle debite licenze, ci siamo largamente giovati e ci gioveremo nel nostro lavoro.
Dopo queste premesse, rimettiamoci in via.
Il 1865 fu anno di Giubileo, che in ogni diocesi doveva durare un mese da stabilirsi dai singoli Ordinarii. Per questo D. Bosco aveva composto e dato alle stampe un opuscolo per le Letture Cattoliche del mese di febbraio col titolo: Dialoghi intorno all'istituzione del Giubileo, colle pratiche divote per la visita delle Chiese pel sacerdote Bosco Giovanni.
“Sotto questo titolo così l'Unità Cattolica dell'II marzo, si è pubblicato testè il secondo fascicolo delle Letture Cattoliche di Torino. Scopo principale di esso è di dare una giusta idea del Giubileo e farne conoscere ai cristiani la vera origine. Inoltre come per appendice, si aggiungono alcune pratiche religiose che possono servire per la visita delle tre Chiese, secondo che viene prescritto dal Romano Pontefice nel promulgare il presente Giubileo. Questo fascicolo per la sua dicitura piana e per lo stile semplice e famigliare si raccomanda ad ogni ceto di persone. Si vende presso alla tipografia dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, prezzo L. 0,15”.
Sul frontispizio si leggeva: “Beato quel popolo che sa che cosa sia Giubileo: infelici coloro che per negligenza o per inconsiderazione lo abbiano trascurato colla speranza di pervenire ad un altro (Card. Gaetani, Del Giub., 15).” Alla prefazione faceva seguito l'Enciclica del Sommo Pontefice e il libretto terminava con tre considerazioni: la confessione; la santa Comunione; la limosina. Si proponevano anche tre meditazioni; il pensiero della salute; il pensiero della morte; il giudizio. Questo opuscolo incontrò talmente il favore dei fedeli che D. Bosco dovette affrettarsi a farne una ristampa con qualche aggiunta, per eccitare nei lettori la divozione a Maria SS. [3] La Pia Società Salesiana contava circa ottanta membri fra i quali undici sacerdoti. Alcuni si erano ritirati dal pio sodalizio, ma altri avevano preso il loro posto. Il piccolo Seminario di Mirabello prosperava, il Collegio di Lanzo incominciava a dar buoni frutti e sul finire del 1864 D. Pestarino aveva affrettato il principio dell'opera sua in Mornese, ponendo la prima pietra di un Collegio destinato per l'educazione della gioventù maschile. Grandiosa era stata quella solennità anche per l'intervento della banda musicale di Lerma.
D. Bosco intanto, con fiducia sempre crescente, preparava quanto era necessario perchè proseguissero con alacrità le costruzioni della chiesa di Maria Ausiliatrice. Il 1° di gennaio firmava il contratto delle pietre da taglio del Malanaggio coi signori Ferraris e Compagnia, residenti in Torino. Quelle occorrenti pel basamento interno della chiesa, cioè pei zoccoli senza cornice, dovevano essere consegnate e messe al posto nel prossimo mese di marzo per il prezzo di lire 150 per ogni metro cubo: le basi delle colonne colle cornici lavorate a grana fina, dette a martellina, sarebbero messe in posa nella prima metà del mese di aprile, al prezzo di lire 250, come sopra. La misura delle pietre si farebbe geometricamente in base delle sole dimensioni obbligatorie.
D. Bosco adoperavasi eziandio per acquistare uno spazio che era frapposto tra le costruzioni della chiesa e l'Ospizio.
Infatti da una copia del progetto di convenzione del 16 gennaio 1865 (Valdocco, Al. Bellezza) si ricava che tra D. Bosco e la signora Caterina Novo Vedova Bellezza si erano stabilite delle condizioni per la soppressione della via della Giardiniera e per la sostituzione di un'altra in prolungamento della via Botta. In questa copia di progetto, che all'originale è firmato dall'Avv. J. Troglia, si possono vedere ben determinate le particelle catastali.
Ma il gran pensiero di D. Bosco era il quadro di Maria SS. [4] Ausiliatrice da collocarsi sull'altar maggiore del Santuario in costruzione.
Quando tenne la prima seduta col pittore Lorenzone che doveva dipingerlo, fece meravigliare coloro che erano presenti per la grandiosità delle sue idee. Espresse il suo pensiero così: - In alto Maria SS. tra i Cori degli Angeli; intorno a lei, più vicini gli apostoli, poi i cori dei martiri, dei profeti, delle vergini, dei confessori. In terra gli emblemi delle grandi vittorie di Maria e i popoli delle varie parti del mondo in atto di alzar le mani verso di lei chiedendo aiuto. - Parlava come d'uno spettacolo che avesse già visto, precisandone tutte le particolarità. Lorenzone lo ascoltava senza trar fiato e come Don Bosco ebbe finito:
- E questo quadro dove metterlo?
- E dove troverà la sala per dipingerlo?
- Ciò sarà pensiero del pittore.
- E dove vuole che io trovi uno spazio addattato a questo suo quadro? Ci vorrebbe piazza Castello. A meno che non voglia una miniatura da guardarsi col microscopio.
Tutti risero. Il pittore colle misure alla mano, colle regole della proporzione, dimostrò il suo assunto. D. Bosco fu un po' spiacente, ma dovette convenire che il pittore aveva ragione. Quindi fu deciso che il dipinto avrebbe compreso solo la Madonna, gli apostoli, gli evangelisti e qualche angelo. A piedi del quadro, sotto la gloria della Madonna, si porrebbe la casa dell'Oratorio.
Preso in affitto un altissimo salone del Palazzo Madama, il pittore si mise all'opera: il lavoro doveva durare circa tre anni. Il quadro era già quasi finito, quando si accorse che il magnifico leone posto a fianco di S. Marco attraeva così a sè lo sguardo, da distogliere alquanto l'attenzione dal soggetto [5] principale. Dovette quindi dargli una posa meno viva. La Madonna gli riuscì veramente stupenda.
“Un giorno, narra un prete dell'Oratorio, io entrava nel suo studio per vedere il quadro. Era la prima volta che m'incontrava con Lorenzone. Egli stava sulla scaletta dando le ultime pennellate al volto della sacra immagine di Maria. Non si volse al rumore che io feci entrando, continuò il suo lavoro, di lì a un poco scese, e si mise ad osservare come fossero riusciti quei suoi ultimi tocchi. A un tratto si accorge della mia presenza, mi prende per un braccio e mi conduce in un punto della luce del quadro e: - Osservi, mi dice, come è bella! Non è opera mia, no; non son io che dipingo; c'è un'altra mano che guida la mia. Ella a quel che mi pare appartiene all'Oratorio. Dica adunque a D. Bosco che il quadro riuscirà come desidera. - Era entusiasmato oltre ogni dire. Quindi si rimise al lavoro .
E noi aggiungiamo che allorquando il quadro fu portato in chiesa e sollevato al suo posto, Lorenzone cadde in ginocchio prorompendo in un dirotto pianto.
Dopo la pittura, la musica in onore di Maria.
Don Bosco sul finire del 1864 aveva affidata al maestro Giovanni De-Vecchi l'istruzione della banda musicale dell'Oratorio. Fu un'ottima scelta, perchè essendo il maestro uomo di genio, conoscitore profondo della sua nobile arte, e instancabile nel procurare che gli allievi approfittassero delle sue lezioni, per quasi venti anni scrisse per loro bellissime composizioni di ogni genere, sacre e profane. Queste musiche in chiesa, nel cortile, in teatro, eccitavano ad entusiasmo gli uditori.
Il 6 gennaio, festa dell'Epifania del Signore, si replicava nell'Oratorio la rappresentazione drammatica: La casa della fortuna, alla presenza di molti generosi benefattori che consideravano le imprese di D. Bosco come proprie.
Ci fu conservato l'invito che il Servo di Dio mandava [6] alla famiglia del Marchese Fassati, che attendevalo a pranzo, e per mezzo di essa alla Duchessa di Montmorency:
Grazie del cortese invito: farò di approfittarne, ma intanto non potrebbe Ella fare un bel progetto, che potessero essi venire egualmente in quel giorno, dimani? Chi sa che la Signora Duchessa, mossa dal desiderio di vedere e di udire le meraviglie di Gianduia, non si risolva ad intervenire anch'essa?
Cominci a preparare i punti della discussione negli uffizi; il pubblico dibattimento sarà venerdì.
Dio la benedica ed i Re Magi le portino una grande volontà di farsi santa.
A Papà, Maman, alla Sig. Duchessa giorni felici. Preghi anche per me che le sono con gratitudine
Così era incominciato l'anno 1865. Le cure materiali anche nel promuovere le opere buone sogliono raffreddare, o molto o poco, l'intensità dell'ardore per le cose spirituali in coloro che non sono perfetti nella virtù. In D. Bosco non fu così. Egli non cessò per un solo istante della sua vita di anelare, come ad unico scopo, alla salute delle anime. Questa affermazione è confermata anche dalle parlate che D. Bosco faceva di continuo ai giovani dopo le orazioni della sera. Riproduciamo quelle che sono brevemente riferite dalla nostra cronaca, distinte colla data del giorno.
Sono già scorsi due giorni, miei cari figliuoli, da che è incominciato l'anno. L'avete voi incominciato bene? L'avete incominciato; siete voi sicuri di finirlo? Verso le 11 della sera dell'ultimo giorno dell'anno 1864 il fratello del Ministro Della Rovere era al tavolino che spediva alcuni affari, quando all'improvviso un colpo apoplettico lo assale: all'una dopo mezzanotte era già morto senza poter ricevere i Sacramenti [7] della confessione, Comunione e Olio Santo. Buon per lui che era un buon cristiano, e mi assicurano i suoi amici che il giorno di Natale aveva fatto le sue divozioni. Speriamo che il Signore l'avrà ricevuto nella beata pace del cielo. Vedete! Erano tre fratelli: il Ministro, quello di cui vi parlo, ed uno gesuita a Roma; in quaranta giorni tutti e tre passarono all'eternità colpiti dalla stessa morte. Al principio dell'anno 1864 avranno pensato che quello era l'ultimo della loro vita? Stiamo preparati adunque, perchè quando meno lo penseremo, il Signore verrà a chiamarci. E allora che faremo? Le morti di apoplessia sono di due sorta: l'improvvisa e la repentina. L'improvvisa è quella che viene quando noi non siamo preparati: la repentina è quando ci sorprende, ma preparati. Venga pure la morte repentina, ma Dio ci liberi dall'improvvisa.
Miei figliuoli, se venisse ora la morte, sareste voi preparati? La maggior parte spero di sì; ma alcuni disgraziatamente no, perchè sono in peccato mortale. Oh! se essi vedessero che brutto ceffo hanno alle spalle, inorridirebbero. È già qualche tempo che io li voglio avvisare e finora ho ritardato sperando che si convertissero; ma ora aspetterò solo alcuni giorni e poi li avviserò. Se io volessi potrei accennarveli ad uno ad uno, ma in pubblico no. Però questi poveretti stiano sicuri che io li avviserò. Il demonio, miei cari figliuoli, gira intorno a voi ed io lo vedo, cercando di divorarvi. Esso viene dietro alle vostre spalle ed ora vi prende e tiene per un piede ed ora per l'altro, sperando di farvi cadere: ed ora vi afferra per tutti due i piedi. Ma avete dinanzi una bella Matrona, la quale vi porge la mano e voi sostenendovi a quella è impossibile che cadiate. Che direste di certuni che in tanto pericolo rifiutano il soccorso della bella Matrona, respingono quella mano benedetta, le dànno sopra dei colpi, e l'addentano infuriati? La Matrona ritira la sua mano e dice loro: - Infelici! Voi rifiutate il mio soccorso? Ebbene perdetevi, giacchè così volete. Io ho fatto di tutto per salvarvi: siete voi che non avete voluto, voi la sola causa della vostra perdizione.
Miei cari figliuoli, quel brutto ceffo è il vostro nemico, il demonio; la bella Matrona è Maria SS.ma.
Maria SS. non gradisce gli ossequi di quelli che vogliono continuare a vivere in peccato. Vi fu un uomo il quale da molto tempo offendeva gravemente il Signore, mentre tutti i giorni non tralasciava mai di salutare con qualche preghiera ed invocazione la Madre di Dio. Perseverando egli in questa divozione, e continuando nella vita disordinata, una notte gli apparve la gloriosa Madre delle misericordie. Innanzi a lei andava un bellissimo giovanetto, il quale portava [8] in mano un piatto pieno di cibi delicatissimi e preziosi. Questi cibi erano coperti con un tovagliolo molto brutto, macchiato e puzzolente. La Madonna invitava quel tale a gustare di quelle vivande, ma questi nauseato le rispondeva: - 0 Madonna cara, quel tovagliuolo è così schifoso, che lo stomaco non mi regge a mangiare. E a me, soggiunse Maria SS. non possono piacere le tue devozioni, per i molti peccati che vai commettendo. Come questi cibi piacerebbero a te se non fossero coperti da questa tovaglia così brutta, così piacerebbero, e molto, a me le tue divozioni, se non vedessi le colpe delle quali è insozzata l'anima tua. - Dette queste parole disparve, e quel poveretto, vinto da quel rimprovero materno, andò a confessarsi, mutò vita, e perseverò nel bene.
Miei cari figliuoli, ieri è incominciato il carnevale. Voglio che anche voi facciate un carnevale allegro: quindi vi saranno alcuni trattenimenti nel teatrino alla sera, vi sarà qualche cosa di più in refettorio, ed eziandio altri divertimenti secondochè parrà ai Superiori. Ma questo non è tutto. Voglio che al carnevale corporale ne aggiungiate uno spirituale, e ve ne dirò il motivo. Vi è uno il quale in mezzo a voi vorrebbe fare il suo carnevale e questo è il diavolo ed io non voglio che lo faccia a vostre spese. Quindi io desidero che incominciando da oggi, voi facciate tutti i giorni un piccolo fioretto: ed ecco con quale scopo. Per quell'anima del purgatorio, che ha bisogno di quell'opera buona che farete, per andare in Paradiso.
Voi vedete quante anime possiamo condurre con questo mezzo al trono di Maria. Siamo qui più di 500 studenti e se tutti faremo un piccolo atto di devozione al giorno, osservate quante anime in due mesi noi libereremo da quelle pene, e quanti amici avremo in paradiso che si professeranno obbligati a noi per l'anticipazione della gloria celeste, e pregheranno per noi. E quanti vantaggi ritrarremo dall'intercessione di queste anime salvate da noi, senza contare che il nostro purgatorio sarà più breve, perchè il Signore ci tratterà secondo avremo noi trattato gli altri. Tutti poco o molto dovremo toccare il purgatorio; quindi pensiamoci prima. Ciò che io vi ho detto, non l'ho detto per conto mio (il che indicava essere la Madonna che faceva la proposta). Vi basti solo sapere che è una pratica carissima a Gesù ed a Maria. Maria attende da voi questa bell'opera.
Oggi è corso un anno dacchè il nostro Besucco passava all'eternità. È ben giusto che in questo stesso giorno io ne faccia la commemorazione [9]. Egli moriva tranquillo e una sola pena era quella che affliggevalo in punto di morte. Questa non era l'aver menato una vita cattiva, non era l’avere taciuto peccati in confessione, non era l'aver mancato di carità coi compagni o di obbedienza ai superiori, non era aver scandali da riparare, ma solamente non avere amato il Signore come si meritava!
Vi voglio contare cose magnifiche stassera. La Madonna si degnò comparire molte volte in questi pochi anni ai suoi divoti. Comparve in Francia nel 1846 a due pastorelli, dove, fra le altre cose, predisse la malattia delle patate e dell'uva, come avvenne: e si doleva che la bestemmia, il lavorare alla festa, lo stare in chiesa come i cani avessero accesa l'ira del suo Divin Figlio. Comparve nel 1858 alla piccola Bernardetta presso Lourdes raccomandandole che si pregasse per i poveri peccatori. A Taggia la Madonna mosse gli occhi. A Vicovaro mosse pure gli occhi alla presenza di molti testimoni. A Spoleto l'immagine della Madonna fa continuamente strepitosi miracoli.
E’ singolare, formando quasi un acrostico, ciò che si può far risultare da ciascuna lettera della parola latina SPOLETUM. S: sancta; P: parens; 0: omnipotentis; L: legiferi; E: et; T: totius; U: universi; M: mater, ovvero ei tutrix universi Maria. Ciò indica lo stesso che: Maria, Auxilium Christianorum.
Leggevo stassera nel Giardinetto di Maria di un altro strepitoso fatto avvenuto in Toscana. L'immagine di Maria comparve improvvisamente sul muro di una casupola. Qualcuno la vide e sentendosi nascere nel cuore confidenza in Maria, più di un infermo toccando l'immagine colle membra ammalate guariva all'istante. La fama non tardò a spargersi e gran numero di persone accorrevano a quell'immagine. Il governo mandò i carabinieri per far cessare quelle adunanze e proibì alla gente di accostarsi a quella casetta; ma ad ogni individuo che era arrestato cento altri si portavano a quel luogo, e l'affluenza delle moltitudini cresceva. Fu fatto innalzare, un muriccio davanti ad essa, ma l'immagine comparve stampata sul nuovo muro. Allora si pensò a coprire il muro con un tavolato, ed anche su quel tavolato si portò l'immagine. L'entusiasmo del popolo cresceva. Gli stessi carabinieri, mandati come dicevano gli empi per far cessare quella superstizione, alla vista di quello spettacolo cadevano anch'essi in ginocchio a pregare.
E noi, o miei cari figliuoli, siamo eziandio in mezzo alle grazie e ai miracoli della Madonna. Quando avrò tempo, vi narrerò minutamente quello che la Madonna si degnò fare qui nella casa. Voi mi direte:- Che cosa significano queste apparizioni di Maria?- Son [10] segni di misericordia, miei cari figliuoli! La Vergine Santa è nostra madre e vedendo i grandi pericoli che sovrastano ai suoi figliuoli corre a salvarli. Volete voi essere cari a questa Madre celeste? Praticate quella virtù che a lei è più cara, la virtù della castità.
L'opera buona che stassera vi suggerisco è questa: quando pregate, pensate a quel che fate. Pregando, parlate con Dio: parlare, vuol dire pronunziar bene le parole in modo da essere intesi: quindi pregando, recitate adagio le preghiere e collo stesso tono di voce, col quale parlereste ad un amico a voi caro.
Si legge ne' Proverbi al Capo IV: “Figliuoli, ascoltate i documenti del padre e state attenti ad apparar la prudenza. Un buon dono farò io a voi: guardatevi dall'abbandonare i miei precetti”. Noi quindi continuiamo ad esporre le parole di vita che abbiamo udite dalle labbra del nostro padre D. Bosco, secondo l'ordine col quale vennero proferite.
La metà di gennaio è già passata: come abbiamo noi impiegato il tempo? Stassera, se volete, vi racconterò un sogno che ho fatto [12] la notte di avant'ieri. Era in viaggio con tutti i giovani dell'Oratorio e molti altri che non conosceva. Ci fermammo a far colazione in una vigna e tutti i giovani si sparsero qua e là per mangiar frutta. Chi mangiava fichi, chi uva, chi pesche, chi susine. Io era in mezzo a loro e tagliava grappoli d'uva, coglieva fichi e li distribuiva ai giovani, dicendo:
Mi parea di sognare e mi rincresceva che fosse sogno, ma dissi tra me:
- Sia quel che si vuole, lasciamo che i giovani mangino.
In mezzo ai filari scorgevasi il vignaiuolo.
Come ci fummo ristorati, ci rimettemmo in cammino, attraversando la vigna; ma il cammino era travaglioso. La vigna, come si usa, in tutta la sua lunghezza era tagliata da profondi solchi, dimodochè bisognava ora discendere, ora salire, ora saltare. I più robusti saltavano; i più piccoli saltavano anch'essi, ma invece di raggiungere l'opposto filare rotolavano nel fosso. Ciò mi rincresceva grandemente, quindi mi volsi a guardare attorno e vidi una strada che costeggiava la vigna. Allora con tutti i giovani mi rivolsi a quella parte.
Ma il coltivatore mi fermò e mi disse:
- Guardi: non vada su quella strada; ella è impraticabile, piena di pietre, spine, fango e fosse; continui quel cammino che avea intrapreso.
- Avete ragione; ma questi piccolini non possono camminare a traverso questi solchi.
- Oh! è presto fatto, l'altro ripigliò; i più grandi si prendano sulle spalle i più piccoli e potranno saltare benchè carichi di questo peso.
Non mi persuasi di quello che mi era stato detto e con tutta la mia schiera andai sulla proda della vigna, vicino a quella strada e trovai che quel coltivatore aveva detta la verità. La strada era spaventosa e impraticabile.
Rivolto a D. Francesia dissi: - Incidit in Scyllam qui vult vitare Charybdim. - E ci fu giocoforza, prendendo un sentiero lungo la strada, attraversare alla bella meglio tutta la vigna, seguendo il consiglio del coltivatore.
Giunti là dove finiva la vigna trovammo una folta siepe di spine; aprendoci un passaggio con grande stento, scendemmo un'alta ripa e ci trovammo in un'amenissima valle ripiena di alberi e tutta ricoperta di erbetta. In mezzo a questo prato vidi due antichi giovani dell'Oratorio i quali appena mi videro si mossero verso di me e mi salutarono. Ci fermammo a parlare ed uno di essi dopo alquanto intrattenerci insieme: [13]
Guardi, come è bella! - mi disse mostrandomi due uccelli che aveva in mano.
- Una pernice: ed anche una quaglia che ho trovato.
- È viva la pernice? soggiunsi io.
- Già s'intende: guardi. - E mi diede una bellissima pernice che aveva pochi mesi.
E mentre io era occupato a darle da mangiare mi accorsi che aveva il becco diviso in quattro parti. Ne feci le meraviglie e ne domandai la ragione a quel giovane:
- Come? egli disse: non sa D. Bosco che vuol dire ciò? Significa la stessa cosa il becco della pernice diviso in quattro parti e la pernice stessa.
- Ella non capisce che ha studiato tanto? Come si chiama la pernice in latino?
- Or bene ha la chiave di tutto.
- Fammi il piacere, levami dall'imbroglio.
- Ecco, mediti le lettere che compongono il vocabolo Perdix.
R: Referet unusquisque secundum opera sua, prout gessit, sive bonum, sive malum.
D: Dempto nomine. Cancellata ogni umana rinomanza, gloria, scienza, ricchezza.
I: Significa: Ibit. Ecco che cosa indicano le quattro parti del becco: i quattro novissimi.
- Hai ragione, ho capito; ma dimmi: e l'X dove lo lasci? Che cosa vuol dire?
- Come ella che ha studiato le matematiche non sa che cosa vuol dire X?
- Or bene cambi vocabolo e lo chiami lo sconosciuto: andrà in luogo sconosciuto (in locum suum).
Mentre io era meravigliato e persuaso di queste spiegazioni, gli domandai:
- Ma sì, ben volentieri: vuol vedere anche la quaglia?
Mi porse allora una magnifica quaglia; tale almeno parea. La presi, ne sollevai le ali e vidi che era tutta piagata e a poco a poco apparve [14] brutta, marcia, puzzolente che metteva schifo. Allora domandai al mio giovane che dir volesse questa trasformazione.
- Prete! Prete! non sa queste cose dopo aver studiato la Sacra Scrittura? Si ricorda quando gli Ebrei nel deserto mormoravano e Dio mandò le quaglie, e ne mangiarono e avevano ancora quelle carni fra i denti, quando tante migliaia di loro furono puniti dalla mano di Dio? Dunque questa quaglia significa che ne uccide più la gola che la spada e che l'origine della maggior parte dei peccati deriva dalla gola.
Ringraziai quel giovane delle sue spiegazioni.
Intanto nelle siepi, sugli alberi, fra le erbe comparivano pernici e quaglie in gran numero, le une e le altre simili a quelle che teneva in mano colui che mi aveva parlato. I giovani presero a dar loro la caccia e così si procurarono la refezione.
Quindi ci rimettemmo in viaggio. Quanti mangiarono della pernice divennero robusti e continuarono il cammino; quanti mangiarono della quaglia, restarono nella valle, lasciarono di seguirmi, si dispersero e li perdetti, cioè più non li vidi.
Ma ad un tratto, mentre io camminavo, si cambiò interamente scena. Mi parve di essere in un immenso salone più grande di tutto l'Oratorio, compreso l'intero cortile, e lo vidi tutto ripieno di una gran moltitudine di persone. Guardai all'intorno e non conobbi nessuno; non vidi neppur uno dell'Oratorio. Mentre era lì stupefatto, un uomo mi si avvicinò e mi disse che v'era un poveretto che stava gravemente ammalato con gran pericolo di morire e che avessi avuto la bontà di andarlo a confessare. Io riposi che volentieri; e senz'altro lo seguii. Entrammo in una camera e mi accostai all'infermo, incominciai a confessarlo, ma vedendo che a poco a poco si andava indebolendo, temendo che morisse senza assoluzione, troncai a mezzo la confessione. Non appena l'ebbi assolto, morì. Il suo cadavere incominciò subito a puzzare così orribilmente che non si potea sopportare. Io dissi che bisognava seppellirlo subito e domandai perchè puzzasse a quel modo. Mi fu risposto:
- Chi muore così presto, è presto giudicato.
Uscii di là; mi sentiva estremamente stanco e domandai di riposare. Mi fu tosto risposto che volentieri accondiscendevano al mio desiderio e fui condotto, su per una scala che mettea capo in un'altra stanza. Entrando vidi due giovani dell Oratorio che parlavano tra di loro ed uno di essi aveva un involto. Chiesi loro:
- Che cosa avete in mano? che cosa fate qui?
Essi si scusarono di trovarsi in quel luogo, ma non risposero a ciò che aveva domandato. Io ripresi:
- Vi domando perchè vi trovate qui? [15] Essi si guardarono in volto e mi risposero che attendessi. Quindi svolsero il loro involto e ne trassero fuori e distesero un drappo funebre. Io guardai attorno e vidi in un cantone, disteso, morto, un giovane dell'Oratorio. Ma non lo riconobbi. Domandai ai due giovani chi fosse, ma si scusarono e non mel vollero dire. Mi avvicinai a quel cadavere, lo fissai in volto, mi parea e non mi parea di conoscerlo, ma non potei raffigurarlo. Deciso allora di saperlo a qualunque costo, discesi la scala e mi trovai di bel nuovo in quel gran salone. La moltitudine di gente sconosciuta era scomparsa e in suo luogo stavano i giovani dell'Oratorio. Appena i giovani mi videro, mi si strinsero attorno e mi dissero: -D. Bosco! D. Bosco! sa, è morto un giovane dell'Oratorio. - Io chiesi loro chi esso fosse e nessuno mi volle dare risposta: mi rimandavano gli uni agli altri, ma nessuno volea parlare. Ridomandai con maggior insistenza: si scusavano e non mel vollero dire. In questo affanno, deluso nella mia ricerca, mi svegliai e mi trovai nel mio letto. Il sogno durò tutta la notte e la mattina mi trovai così stanco ed affranto che realmente pareva che avessi viaggiato tutta la notte. Le cose che io vi racconto, bramo che non siano dette fuori dell'Oratorio; parlatene fra di voi fin che volete, ma stiano fra di noi.
Il giorno dopo, 17 gennaio, Don Bosco al mattino si recò a Lanzo ove traevalo l'affetto paterno per Don Ruffino Domenico e per i suoi subalterni. In queste visite interessavasi non solo degli affari importanti della sua missione spirituale, ma informavasi eziandio delle necessità materiali della casa, dell'andamento scolastico e disciplinare degli alunni e delle relazioni colle Autorità Ecclesiastiche e Civili. Si può dire che ogni persona ricevesse da lui l'impulso per operare.
Da Torino, dopo quindici giorni, scriveva al medesimo Direttore:
Scavarda desidera di andare a prendere le sue robe, ma è inteso che ritorna qui ed in sua vece avrete costà Chiesa, che credo una copia del Bodratto per buona volontà.
Ho corretto e faccio riscrivere la memoria pel sindaco.
Augura da parte mia copiose le benedizioni del cielo sopra tutti i [16] Superiori ed inferiori del Collegio di Lanzo; faccia la Santa Vergine che quanti sono gli abitanti, altrettanti siano i santi. Amen.
Dio ti benedica: credimi tutto tuo,
Ritornato all'Oratorio la sera del I8 gennaio così parlava ai suoi alunni:
Sono stato a Lanzo a vedere quei giovani che mi sono come voi molto cari. Non vi dirò l'accoglienza fattami, perchè sarebbe un ripetere le cose dette altra volta. Vi dirò solo che ieri sera, come ebbi finito di parlare loro, ad una voce mi dissero: - Dica al giovani dell'Oratorio di S. Francesco di Sales che noi li amiamo molto, che li consideriamo come nostri amici, come nostri fratelli e che speriamo che anche essi ci vorranno bene, come noi lo vogliam loro. Dica che il giorno di S. Francesco di Sales noi tutti faremo la Comunione e ci uniremo a pregare per loro nel sacro Cuore di Gesù Cristo. Dica che speriamo qualche volta di andare a Torino, per salutarli, come desideriamo che essi vengano qui a Lanzo a passare qualche giorno con noi. - Io mi feci interprete dei vostri sentimenti, o miei cari figliuoli, e dissi potersi dare benissimo, che qualcheduno di voi qualche volta vada a Lanzo, o per starvi definitivamente, oppure indefinitivamente, secondo sarà il volere de' superiori; e che se qualcheduno di loro si porterà qui a Torino, sarà accolto da voi come vero fratello, tanto più sapendo per fama voi di Torino come gli alunni di Lanzo siano giovani così buoni. - Pensate la contentezza dei giovani di Lanzo a queste mie parole: si alzarono in punta di piedi, si fecero più lunghi che poterono, e si tirarono su il nodo della cravatta!
Ma passiamo ad altro. Voi vorrete sapere ancora qualche cosa del sogno. Vi spiegherò solamente che cosa voglia dire quaglia e pernice. La pernice, per andare all'ultimo termine del significato, è la virtù; la quaglia il vizio; perchè la quaglia fosse così bella in apparenza e poi vista da vicino, piagata sotto le ali, apparisse tutta puzzolente, lo capite e non fa bisogno spiegarlo; sono le cose disoneste.
Fra i giovani, altri mangiavano la quaglia golosamente, con avidità, non ostante che fosse tutta fracida, e sono quelli che si dànno al vizio, al peccato: altri mangiavano la pernice, e son quelli i quali portano amore alla virtù e la seguono. Alcuni tenevano in una mano la quaglia, nell'altra la pernice e mangiavano la quaglia; son quelli che conoscono la bellezza della virtù, ma non vogliono approfittarsi [17] della grazia che Dio fa loro per farsi buoni. Altri tenendo in una mano la pernice e nell'altra la quaglia, mangiavano la pernice dando occhiate cupide, invidiose alla quaglia; son quelli che seguono la virtù, ma con stento, ma per forza, dei quali si può dubitare, che se non cambiano, una volta o l'altra cadranno. Altri mangiavano la pernice e la quaglia saltava loro d'innanzi, ma essi non la guardavano e continuavano a mangiar la pernice; son quelli i quali seguono la virtù e abbominano il vizio e lo considerano con disprezzo. Altri mangiavano un po' di quaglia e un po' di pernice, e son coloro che alternano tra il vizio e la virtù e così s'ingannano, sperando di non essere tanto cattivi. Voi mi direte: Chi di noi mangiò la quaglia e chi la pernice? A molti l'ho già detto: gli altri, se vogliono, vengano da me e loro lo dirò.
Similmente continuava a dare in privato ai singoli serii ammonimenti salutari, oppure una lieta notizia, secondochè suggerivagli il sogno. Un giorno avendo presso di sè una decina di giovani che gli domandavano se avesse conosciuto il loro avvenire, disse:
- Di quelli che sono qui, uno diverrà un gran dotto, un altro un gran santo, un terzo e dotto e santo.
Ora che cosa diremo noi del sogno surriferito?
Don Bosco, come era solito, non ne descrisse tutte le circostanze, non diede tutte le spiegazioni, limitandosi a ciò che riguardava la condotta dei suoi giovanetti, e qualche previsione dell'avvenire. Eppure studiando le sue parole, se non erriamo, ci si presenta l'idea dell'Oratorio, della Pia Società, e degli Ordini religiosi. Esponiamo, rimettendoci al giudizio dei più esperti, alcune nostre riflessioni:
I° La vigna è l'Oratorio. D. Bosco infatti distribuisce, quale padrone, ogni specie di frutta ai giovani. È una di quelle vigne spirituali predette da Isaia nel capo LXV: “Pianteranno (i fedeli) le vigne e ne mangeranno il frutto - Plantabunt vineas et comedent fructus earum”. La scena accade evidentemente in pieno raccolto.
2° Il viaggio di D. Bosco. Il consiglio del coltivatore, che cioè i più robusti, ossia i Salesiani, portassero sulle spalle i [18] più piccoli, non potrebbe indicare come allora urgesse la necessità che il tirocinio spirituale dei congregati non fosse disgiunto dalla vita attiva? La strada impraticabile non sarebbe forse la via regia dei grandi Ordini religiosi amati e desiderati da D. Bosco, ridotta in quello stato per la mancata regolare osservanza, per l'odio delle sette, per le leggi di soppressione? E il sentiero nella vigna che costeggia la strada, avendone quindi la stessa direzione e la stessa meta, non indicherebbe il nuovo istituto fondato da D. Bosco?
3° La pernice. Uno dei caratteri speciali di questo volatile è la furberia. Cornelio a Lapide in fatti commentando il capo XVII di Geremia cita la lettera 47ª di S. Ambrogio in cui son descritte le arti astute e sovente fortunate della pernice per isfuggire alle insidie dell'uccellatore e anche per salvare la sua nidiata. E il motto che di frequente D. Bosco indirizzava ai suoi figli era precisamente questo: Siate furbi! e con ciò intendeva che il ricordo dell'eternità insegnasse loro i modi per sfuggire i lacci del demonio.
4° La quaglia. Il vizio della gola è morte delle vocazioni.
5° La gran sala e la moltitudine che l'occupava di persone sconosciute al Servo di Dio dovevano pur aver un significato, e qualche interessante particolarità. D. Bosco però non credette doverne far parola. Non potrebbe essere che si trattasse dell'opera futura de' Cooperatori salesiani?
6° Quanto all'ammalato morente D. Bosco disse alcun tempo dopo a noi preti: “Era un antico allievo dell'Oratorio, e di lui voglio chiedere informazione per verificare se fosse già morto”.
7° E il giovane morto? Pare che fosse D. Ruffino, carissimo a D. Bosco, e ciò spiegherebbe le reticenze dei giovani. D. Bosco non lo riconobbe, poichè questo sogno lo predisponeva alla gran perdita, senza amareggiarlo con una dolorosa certezza. D. Ruffino era un angelo per virtù e per fattezze, e quei giorni stava bene. Però egli morì in quell'anno il 16 luglio. [19]
Esposte le nostre opinioni, lasciando che unusquisque abundet in sensu suo, continuiamo a leggere la parola di D. Bosco, come è riferita dalla cronaca.
Vi è un uso nella casa e lo dico, per quelli che sono nuovi. Il giorno di S. Francesco si dànno i premii e sono gli stessi giovani che li dànno ai loro migliori compagni. Gli studenti agli studenti, gli artigiani agli artigiani. Ecco come si fa. Ciascun giovane fa una lista di dieci nomi dei giovani che stima più diligenti, più studiosi, e più divoti, fra coloro che conosce, di qualunque camerata o classe essi sieno, e vi sottopone la sua firma. Quindi consegna quella lista al suo professore. Il professore la consegna a me ed io faccio lo spoglio delle liste, e a chi ha ottenuto maggior numero di voti si dà il premio nel giorno di S. Francesco di Sales. I chierici sono eccettuati: essi non ricevono premii: si suppone che la loro virtù sia tale che superi la virtù di tutti gli altri giovani. Che se tra i chierici ne vedeste qualcuno il quale per virtù fosse da meno di voi, parlate pure, parlate francamente. Io non voglio aver con me chierici di poca virtù; e sono pronto a far deporre la veste a quel chierico, il quale in virtù fosse da meno di voi. Colui che s'inoltra nella carriera sacerdotale deve avere una virtù superiore ad ogni laico.
Ciascun chierico potrà dare la lista anch'egli di I0 giovani. Tutti i superiori preti potranno fare lo stesso. Ancor io farò la mia, ma la mia varrà solo per uno.
Domani incomincia la novena di S. Francesco di Sales. Io non voglio suggerirvi opere speciali, solamente vi dirò: siate più precisi in tutte le regole che riguardano la casa. In modo particolare vi raccomando la levata. Al suono della campana alzatevi subito, vestitevi, sollevate il vostro cuore a Dio, ed aspettate vicino al letto i tocchi della campana che vi chiama in chiesa. Se poi volete fare la novena del Santo, ciascuno la faccia da sè, e il santo Protettore della Casa saprà ricompensarvi.
Una sera diceva S. Filippo ai suoi cari giovani:
- Miei cari, ho da dirvi una bella cosa se voi starete attenti.
- Dica, dica, padre Filippo, gli andavano ripetendo i giovani pieni di curiosità.
- Ebbene vi dirò, ripigliava S. Filippo, che al mondo vi sono molti pazzi e molti furbi. I furbi sono coloro che faticano e patiscono [20] un po' per guadagnarsi il paradiso: i pazzi sono coloro che s'incamminano all'eterna perdizione. Ma quanti sono i poveri pazzi!
Le stesse parole io dirigo a voi, miei cari figliuoli. Tra voi vi sono molti furbi, ma vi sono anche dei pazzi. L'altro giorno venne un giovane da me e mi disse:
- Don Bosco, mi permetta di andare a casa.
- Perchè patisco molto il freddo.
- Ma, mio caro, intendi bene! qualche cosa bisogna ben soffrire per guadagnare il paradiso; bisogna saper vincere la nostra carne.
Costui se fosse stato furbo avrebbe dovuto dire a se stesso: - Coraggio, son meriti di più pel cielo. Voglio corrispondere alla grazia che mi ha fatto la Madonna conducendomi qui, allontanandomi da tanti pericoli dell'anima, dandomi tanta comodità per fare il bene e conoscere la mia vocazione.
Ma vi sono altri che sono anche più pazzi di costui. Sono pazzi coloro che mangiano in certi giorni cibi proibiti, sono pazzi coloro che tengono certi discorsi brutti, coloro che cantano certe canzoni, che leggono certi libri, che parlano male dei superiori: sono pazzi che s'incamminano verso la perdizione e non se ne accorgono. Si trovano poi rovinati con una rovina irreparabile, mentre si credevano furbi, nel sapere nascondersi, farla franca e burlarsi di coloro che li sorvegliavano. Poveri pazzi!
La parola di D. Bosco, sempre accolta con affetto dagli alunni, li preparava alla festa di S. Francesco di Sales, che si celebrò nel giorno assegnato dalla Chiesa il 29 gennaio, Domenica IV dopo l'Epifania. Secondo la consuetudine invalsa, ma in modo più solenne dei tempi passati, ebbe luogo l'annuale conferenza di tutti i Salesiani, prescritta dal regolamento. D. Bosco presiedette l'adunanza nella sua anticamera. D. Rua, direttore di Mirabello, e D. Ruffino, direttore di Lanzo, descrissero il bene consolante che ottenevano nei loro collegi. Era presente D. Pestarino Domenico, venuto da Mornese. D. Bosco prese la parola ringraziando e lodando i suoi collaboratori, narrando quanto si era fatto in Valdocco nell'Ospizio; e, animando tutti a zelare la prosperità degli Oratori festivi, li assicurò della protezione della Madonna. Concluse manifestando la decisione di bandire una nuova lotteria. [21]
Egli infatti avea già posto mano ad ordinare e preparare quanto occorreva. Per prima cosa trattavasi di formare una Commissione, che doveva riuscire composta di trentadue membri scelti fra i primarii cittadini. Non era troppo facile la riuscita di questa combinazione; ma dopo lettere replicate, un gran numero di visite ed anche di cortesi rifiuti, finalmente si sperò di aver raggiunto lo scopo.
D. Bosco si era rivolto al Sindaco di Torino pregandolo di accettare la presidenza della Commissione e ne riceveva la seguente risposta.
Relativamente alla Presidenza della Commissione per la lotteria a benefizio del di Lei Pio Istituto, il sottoscritto, avendo parlato col Signor Marchese di Rorà nel termini intesi ieri nell'abboccamento che aveva l'onore di avere con V. S., soddisfa ora al dovere di parteciparle che il prefato signor Marchese lo incarica di informarla che egli sarà sempre lieto di adoperarsi a vantaggio del di Lei Istituto ed in servizio di V. S., ma che avendo avuto a convincersi in molte circostanze come sia quasi impossibile separare la sua qualità di Sindaco da quella di privato, entrò nella determinazione di non assumere per l'avvenire impegno alcuno per affari nei quali si possa facilmente confondere la sua posizione di pubblico funzionario con quella di privato e che per conseguenza con suo rincrescimento non può accettare la Presidenza offertagli.
Don Bosco supplicò allora il Duca d'Aosta, Principe Amedeo, a degnarsi di accettare detta presidenza ed il Principe gentilmente acconsentì.
Alla notizia di tanto onore reso all'Oratorio, così scriveva a D. Bosco il segretario del Sindaco. [22]
Supponendo che non abbia ancora parlato col sig. Marchese di Rorà le accenno che io gli parlai e mi disse che essendo S. A. R. il Duca di Aosta, Presidente Onorario, egli sarebbe volentieri Vice Presidente Onorario...
D. Bosco accolse con premura questa proposta, la quale ben presto parve inattuabile per un inaspettato accidente.
0ggi sono 15 giorni che il sig. Marchese di Rorà, dopo aver rassegnato le sue dimissioni dalla carica di Sindaco, si allontanò da Torino.
Non posso per conseguenza soddisfare alla domanda di cui il pregiatissimo foglio della S. V. Ill.ma.
Augurandomi propizia qualche altra occasione onde poterla servire, mi riconfermo con tutto ossequio di Lei
Il 31 marzo però il Marchese ritornava in Torino e 1 2 aprile si pubblicava l'annunzio ufficiale del ritiro delle sue dimissioni. D. Bosco riprese allora le pratiche interrotte e riuscì nel suo intento.
Mentre egli lavorava pazientemente senza alcuna pubblicità a formare una Commissione, che a suo tempo presenteremo ai lettori, l'Unità Cattolica del 4 febbraio dava indirettamente un cenno delle intenzioni del Servo di Dio. Dopo aver detto della necessità di una chiesa in Valdocco e delle [23] fondamenta di questa gettate da D Bosco nella scorsa estate, proseguiva:
“Gli scavi dovettero farsi profondi, tuttavia le mura sorgono già circa due metri fuori di terra ed è presso che compiuta la volta che ne formerà il pavimento.
“Il sacro edificio sarà consacrato a Maria, Auxilium Christianorum.
“Il Sommo Pontefice Pio IX appena conobbe il bisogno di una chiesa e la mancanza di mezzi per edificarla mandò la graziosa somma di franchi cinquecento... e poco fa incoraggiava la continuazione di questi lavori, benedicendo chi ci dava mano ed offerendo parecchi preziosi doni per farne una lotteria, qualora si fosse a questo scopo iniziata”.
La Direzione delle ferrovie aveva intanto concesso a Don Bosco il favore del biglietto gratuito sulla rete del Piemonte e dell'Alta Italia, valevole fino al 31 dicembre 1865.
COORDINANDO i documenti di questo mese conservati negli archivi, troviamo in primo luogo come fossero riconosciuti i vantaggi che arrecavano alla città di Torino gli Oratori festivi. Dalla Banca Nazionale, sede di Torino, il 18 gennaio D. Bosco riceveva il seguente annunzio:
“Il Consiglio di Reggenza di questa Sede della Banca Nazionale, in sua tornata d'oggi, nel ripartir il fondo assegnato [25] per opere di beneficenza, decideva di allegare a cotesto Oratorio di S. Francesco di Sales, a Portanuova, Vanchiglia, Valdocco, lire 250”
Possediamo anche lettere affettuose di nobili signori che promettevano o recavano oblazioni per il mantenimento degli alunni, e davano notizie particolareggiate di ogni membro della propria famiglia, conoscendo l'affetto che D. Bosco nutriva per ciascuno di essi. Così faceva il generoso Conte Carlo De Maistre. Il giorno 30 gli scriveva dal suo castello di Beausmesnil, assicurandolo di ricordarsi sovente della felicità provata in que' tempi, nei quali aveva il piacere di vederlo, di parlargli e di andarlo a visitare nell'Oratorio. “E' da qualche mese soggiungeva, che io ne' giorni festivi raduno i ragazzi del nostro villaggio per ricrearli, cercando di fare del bene alle loro anime. Oh! signor abate, quanto io sarei felice, se voi foste qui! Quanti buoni consigli mi dareste! Quali lezioni potrei ascoltare per fare come fate voi”.
E gli annunziava che la zia Duchessa di Montmorency si trovava a Roma.
D. Bosco già lo sapeva, perchè alla Duchessa, quand'era in sul partire, egli aveva consegnato un libro ed una lettera per Mons. Giuseppe Berardi, Arcivescovo di Nicea, Sostituto della Segreteria di Stato e Segretario della Cifra, del quale desiderava l'appoggio per la Pia Società; e Monsignore gli aveva risposto.
A più nobile portatrice non poteva V. S. Ill.ma affidare la consegna dell'esemplare del libretto da lei pubblicato per uso della studiosa gioventù; e della lettera del 20 corrente da cui era accompagnato. Riguardando sempre pregevoli i doni che da Lei mi pervengono, ho gradita assai l'offerta che si compiacque di farmi del libretto medesimo, e gliene rendo sincere grazie.
E' ben poco quanto Ella mi riferisce della Duchessa di Montorency [26]. Sarebbe assai a desiderarsi che certe matrone, le quali si adoperano con tanto zelo a pro dei poverelli, si moltiplicassero. Ella prosegua nella santa sua opera, ed io non cesserò d'implorare sopra di Lei e su cotesti giovanetti alle sue cure affidati le celesti benedizioni, affinchè prosperino nella religiosa e civile educazione.
Mi tenga raccomandato nelle sue orazioni, e, siccome non dubito di vedere accolta questa mia preghiera, così l'accerto della mia riconoscenza. Con tali sentimenti uniti a quelli di una particolare e distinta stima mi pregio di confermarmi,
GIUSEPPE BERARDI, Arc. di Nicea.
Abbiamo anche qualche foglio di chierici, i quali dai loro Seminarii chiedevano a D. Bosco consigli e preghiere per vincere battaglie spirituali. Da Alba uno di questi gli scriveva:
“Mentre sono in continue afflizioni ed angustie paurose, un'ispirazione divina mi passò pel capo e non si dileguò finchè io non l'ebbi ascoltata. Ed è questa: -Raccomàndati a Don Giovanni Bosco, uomo santo, e tosto sarai liberato da questi pensieri indemoniati. -Io sperando e confidando mi prostro ai suoi piedi umilmente, e la supplico a volermi usare misericordia, pregando per me il Signore Iddio e Maria SS. Madre pietosa”.
Di D. Bosco ci restano due lettere. Colla prima egli chiedeva al rev.mo Canonico Vogliotti, Rettore del Seminario e Provicario Diocesano, un favore pecuniario per i suoi chierici.
Ill.mo è Rev.mo Mons. Vicario,
L'anno scorso V. S. Ill.ma e Rev.ma mi assegnava fr. 400 sopra il Seminario a favore dei poveri chierici che studiano e lavorano in questa casa. Questo favore mi sarebbe di gran lunga più necessario ora, pei gravi bisogni in cui versa questa casa medesima e per un debito (due anni di interessi) di fr. 400, di cui sono in mora verso lo stesso Seminario. È vero che quando mi si concedeva quel sussidio mi si diceva che era straordinario e senza tratto successivo, ed io fo l'umile mia dimanda [27] nello stesso senso, cioè in questo caso eccezionale. Supplico pertanto V. S. Ill.ma e Rev.ma a fare questa opera di carità a questi nostri poveri giovani: e specialmente ai chierici che, frequentando la scuola del Seminario, prestano assistenza in questa casa e fanno il catechismo negli oratori maschili di questa città.
Persuaso che questa Supplica sia presa in benigna considerazione, auguro ogni bene dal cielo a Lei ed a tutta l'amministrazione del Seminario, mentre ho l'alto onore di potermi professare con pienezza di stima e di gratitudine di V. S. Illma. e Rev.ma
Con altra lettera egli rispondeva ad un foglio, scrittogli a nome del Ministro di Agricoltura, industria e commercio, dal Segretario generale, il I0 febbraio.
Veduta la speciale e viva raccomandazione fatta da V. S. Ill.ma a favore del giovane Ferreri Giuseppe e considerato il particolare bisogno del medesimo, ho deliberato di accoglierlo per via eccezionale in questa casa, senza che egli debba attendere il tempo in cui sarebbesi fatto posto a suo turno. Partecipi dunque al mentovato giovanetto che egli può venire quando che sia e se gli terrà posto preparato.
Attesi poi i bisogni eccezionali in cui attualmente versa questa casa, mi raccomando alla bontà di lei per qualche sussidio a favore del medesimo. Questo dico soltanto come preghiera, non come condizione esclusiva.
Dio la conservi e le doni giorni felici, mentre ho l'alto onore di potermi con pienezza di stima professare
Egli aveva eziandio rivolte alcune suppliche al Gran Magistero dell'Ordine Mauriziano per ottenere decorazioni a benefattori dell'Oratorio, i quali avevano sborsate o erano pronti a dare a favore dei giovani ricoverati parecchie migliaia [28] di lire. Il Conte Luigi Cibrario, Primo Segretario di Sua Maestà nel Gran Magistero dell'Ordine Mauriziano e Grande Uffiziale dello Stato, era dispostissimo a secondare le pie intenzioni di D. Bosco con tali distinzioni onorifiche e non poche ne ottenne dal Re, mentre col Servo di Dio trattava con una cortesia amichevole e sincera, anche quando era costretto talvolta a non accogliere la sua domanda.
Le informazioni che ho raccolto da personaggi distinti ed imparziali (escluso il sig. Prefetto) sono riuscite sfavorevolissime al Sig. Farmacista G… Tutti mi hanno assicurato che se ottenesse la distinzione chiesta per lui la città di… ne sarebbe commossa e sdegnata. Io ho pertanto sempre maggior motivo di desiderare che la Divina Provvidenza venga in soccorso dell'utilissimo di lei Istituto per altre vie; e intanto non fo, ben inteso, nessun carico a Lei per l'indegnità della persona raccomandata, essendo certo della perfetta di
Mi creda sempre con perfetta osservanza,
Queste suppliche per ottenere decorazioni erano come un nuovo ruscello che D. Bosco aveva aperto per introdurre nuove acque di beneficenza nell'Oratorio per le sue opere. In appendice diamo un saggio dello stile da lui usato per formulare simili domande[1]; e intanto osserviamo come degne di nota la fecondità della sua mente nel concepire e la sua attività nel conseguire i suoi intenti in varii modi e sotto diverso aspetto presso tutti i personaggi che prendevano parte al Governo dello Stato. Ricordiamo quanto abbiamo già scritto di lui dal 1846 in poi, e lo vedremo perseverare [29] nella stessa via finchè visse. Si rivolgeva sovente al Re, ai Ministri, ai Senatori, ai Deputati, alle Autorità militari, ai Prefetti, ai Sindaci e a quanti maneggiavano la cosa pubblica.
Non pochi tra questi erano settari, capi di congiure, nemici della Chiesa Cattolica e del Papato, persecutori dei Vescovi, avversari dichiarati dei Religiosi e delle loro scuole. E il Servo di Dio con un coraggio tanto più grande quanto più umile, affrontava le loro ripulse, li ammansava co' suoi modi affabili; ed esponendo i bisogni di tanti poveri giovani, le sue preghiere ebbero moltissime volte benigna risposta e furono esaudite. Era evidente come nulla riservasse per sè e tutto fosse per gli altri; ma ciò che non era palese era un alto fine di carità, cioè che questi oblatori avessero il merito di una beneficenza riparatrice, poichè tornava alla Chiesa una piccolissima parte di ciò che le era stato tolto. Più volte a noi egli manifestava una tale intenzione. Faceva ciò che al Padre Ludovico da Casoria, come narra il Cardinale Capecelatro, aveva consigliato il Santo Padre Pio IX:
“Il Padre Lodovico aveva detto al Papa nel 1860:
- Beatissimo Padre, viene la rivoluzione. Che debbo fare io? Debbo chiudermi nella cella a pregare o cacciarmi in mezzo .al fuoco per operare? Essi vorrebbero servirsi di noi per fare il male. Possiamo noi servirci di loro per fare il bene? - A cui il Santo Padre tutto infiammato dallo zelo di Dio, rispose:
- Torna pure, o figliuolo di S. Francesco, a Napoli; esci dalla cella, e cacciati come tu dici in mezzo al fuoco ad operare, serviti degli stessi nemici per fare il bene, e ne avrai merito avanti a Dio”.
Queste parole dànno molta luce al modo di agire di Don Bosco e servono di risposta a chi più di una volta lo accusava di essere troppo amico dei governanti o dei liberali.
Ed ora riapriamo la cronaca per trascrivere altre parlate. [30]
Motus in fine velocior. L'anno s'inoltra e, più s'inoltra, con maggior rapidità precipitano i giorni. Siamo già ai primi di febbraio ed è imminente l'esame semestrale. Quelli che hanno studiato giorno per giorno ciò che veniva insegnato dai maestri, si troveranno contenti: quelli che hanno fatto qualche poco il poltrone si troveranno imbrogliati, essendosi accumulate le materie delle quali è difficile che si mettano al corrente in queste settimane. Contuttociò eziandio costoro si facciano coraggio che non saranno abbandonati in simile frangente. I professori vi aiuteranno a superare le difficoltà che incontrerete nel prepararvi all'esame, dandovi anche qualche ripetizione sulle lezioni già fatte.
Intanto mi raccomando a voi di una cosa. I chierici hanno anch'essi da prendere a giorni il loro esame, e mi preme assai che facciano una buona figura; quindi procurate di recar loro meno disturbo che sia possibile, acciocchè possano prepararsi bene. I chierici poi, se avessero qualche carica che fosse loro troppo di peso e impedisse in questi giorni lo studio, mel dicano, chè io procurerò di agevolar loro con ogni mezzo la facilità di studiare.
Un'altra cosa ho da dirvi. In Torino da qualche tempo accadono certi generi di morti, che ci avvisano di stare ben preparati. Il padre di uno dei giovani dell'Oratorio (Ruffino) l'altra sera andava a dormire. Al mattino è chiamato per le sue incombenze e viene trovato freddo cadavere. Ieri in una famiglia distinta un giovanetto va a letto: il cameriere aspetta che sia coricato e si avvicina per domandargli se ha bisogno di niente. Il signorino non risponde: il cameriere lo chiama, lo scuote. Era morto! In una farmacia, vicino al palazzo di città corre un garzone di caffè a chiamare un medico per un signore, al quale era venuto male mentre giuocava a tarocchi nella sala da caffè. Corre il medico, gli mette la mano sul cuore, ma era già morto. Che passaggio, dal giuoco all'eternità!
Figliuoli miei, ho ancora da annunziarvi una notizia. Un giovane dell'Oratorio ha da morire, forse prima che si faccia in questo mese l'apparecchio alla morte: e certamente se arriverà a farlo ancora una volta sarà il massimo del tempo che gli potrà essere concesso. Spero che costui si troverà ben preparato.
Disceso dalla cattedra D. Bosco disse in un orecchio allo scrittore di queste memorie una sola parola: -Ferraris. [31]
Era un segreto e un incarico che ci confidava; e noi qui ripeteremo ciò, di cui altrove abbiamo fatto cenno.
Queste previsioni erano d'immenso vantaggio per i giovani che Dio chiamava all'altra vita, poichè D. Bosco si prendeva di essi specialissima cura e confidando il segreto a qualche prudente compagno, lo incaricava a far da angelo custode al morituro. Il compagno cercava di farselo amico con giuochi, teneva d'occhio gli altri amici che frequentava, invitavalo ad accostarsi sovente alla Confessione e alla Comunione, conducevalo a visitare il SS. Sacramento, e suggerivagli quei consigli che gli sembravano più opportuni. Ciò faceva però con naturalezza, senza insistere, e non solo senza svelare il segreto, ma senza neppur dar sospetto di esso. Vi sono ancora nell'Oratorio di quelli che ebbero simile geloso incarico.
Si noti ancora, che quando D. Bosco parlava, più di 500, 700, 800 erano in varie circostanze i testimonii auricolari presenti a queste predizioni, e purtroppo non tutti disposti a prestargli fede. Anzi eranvi talora fra gli adulti dei nuovi arrivati, contradditori, seminatori di zizzania, spiriti maligni, i quali cercavano di mettere in discredito le parole del superiore. Non è quindi il caso di sognare che D. Bosco potesse impunemente sorprendere le fantasie dei giovani e, qualora non si avverasse il suo pronostico, trovar mezzi termini per far credere ciò che non era. Si trattava di predizioni precise, accompagnate da circostanze indicanti o luogo, o persona, o tempo. Molti giovani la stessa sera e all'indomani mattina scrivevano ciò che D. Bosco aveva detto, confrontavano i loro scritti, ne facevano argomento dei loro discorsi, congetturavano, cercavano d'indovinare, osservavano e non cessavano di stare all'erta, finchè la profezia non fosse compiuta. Ed erano giudici che volevano veder la cosa a fondo! Di tutte le predizioni che fece D. Bosco di due o tre solamente non possiamo testificare che si siano avverate, perchè erano forse [32] condizionate o perchè non si potè avere notizia dell'avveramento. Di tutte le altre mirabilmente comprovate, e sono centinaia, ponno far fede quanti furono nell'Oratorio.
Il 2 di febbraio, alla sera, D. Bosco tenne il seguente discorso:
Domani è la festa di S. Biagio, Vescovo di Sebaste nell'Armenia, martirizzato ai tempi di Licinio imperatore nel 315; e domani si fa la bella cerimonia della benedizione della gola. Sapete perchè fu istituita questa usanza e perchè fu dichiarato S. Biagio patrono degli uomini contro le malattie della gola? Udite. Una donna aveva un figliuoletto da lei molto amato. A questi, mangiando del pesce, si era conficcata una spina nella gola e i medici chiamati a curarlo avevano dichiarato che la loro arte non poteva giovare a nulla e che presto sarebbe morto. La desolata madre si stava seduta nella sua casa col moribondo figlio sulle ginocchia: e non poteva trovar conforto al suo dolore, mentre contemplava il suo piccolino che in mezzo ai più atroci dolori si avvicinava alla morte. Quand'ecco all'improvviso si udì una voce, la quale le dicea: - Alzati, prendi il tuo figlio: il martire Biagio è condotto al martirio; pregalo di benedire tuo figlio, e tuo figlio risanerà. Corse la madre, il martire intenerito alle sue lagrime fece una breve preghiera, benedisse il fanciulletto nel nome di Gesù, e la spina usci da sè dalle sue fauci e il figliuoletto fu salvo.
Andiamo dunque a farci benedire la gola pei meriti di questo Santo, acciocchè Iddio ci preservi da ciò che può nuocere entrando, ovvero uscendo dalla nostra gola. Ciò che entra sono i cibi che possono essere nocivi e cagionare indigestione, sono i veleni che talora per caso o per malizia taluno potrebbe prendere, ecc., ecc. perchè dice lo Spirito Santo che ne uccide più la gola che la spada. Ciò che esce sono gli sbocchi di sangue, i vomiti in certe malattie, le angine, ecc., ecc. Ma sopratutto pregatelo che vi preservi da tutto ciò che esce e può far male alla nostra anima, cioè i discorsi cattivi, le bestemmie, le imprecazioni, le calunnie, le bugie; da ciò che entra, come i cibi proibiti dalla Chiesa, le intemperanze nel mangiare e nel bere. Domani adunque pregate S. Biagio che vi liberi da tutti i mali di gola materiali e spirituali.
Vi voglio dire qualche cosa intorno l'interpellanza di D. Francesia. Quei di prima e seconda rettorica se vorranno venire da me a confessarsi, vengano pure un'ora avanti che si dia l'avviso delle confessioni. I più piccoli diranno: i rettorici hanno forse essi l'anima più [33] grossa della nostra perchè si debbano usare ad essi preferenze? dirò che essi hanno qualche diritto di precedenza, perchè essendo i figli miei più grandi od anche i più vecchi della casa, hanno diritto che si usi loro qualche riguardo.
Ho da dirvi ancora qualche cosa in quanto ai Sacramenti.
Per trar frutto dalla Confessione non basta accostarvisi sovente, ma bisogna sforzarsi di non fare peccati. Quindi desidero che ogni giovane si accosti alla confessione una volta al mese alla più lunga; non però più di frequente di una volta alla settimana, tolti i casi speciali indicati dal confessore, perchè altrimenti togliete agli altri il comodo di confessarsi. Procurate poi da una confessione all'altra di non far peccati e sarà questo il più bel frutto della confessione. Alla Comunione accostatevi più sovente che potete e tutte le volte che vi vien detto dal confessore e quando la coscienza di nulla vi rimorda.
Chi poi vuol tenere un giusto mezzo nel confessarsi, si accosti a questo Sacramento ogni quindici giorni ed io son contento. Ma da tutti si procuri di far meno peccati che sia possibile.
D. Bosco aveva risposto colla solita prudenza alla domanda fattagli in pubblico, di voler concedere maggior comodità di confessarsi agli studenti del ginnasio superiore. Eglino infatti erano contrariati dalla folla degli alunni delle classi inferiori che correndo per i primi assiepavano il luogo ove D. Bosco confessava: mentre avrebbero voluto spicciarsi senza troppo lunga aspettazione per ritornare ai loro studi.
Si noti che, a quando a quando, interpellanze di vario genere, sull'andamento o sui bisogni dei giovani, si facevano a D. Bosco salito sulla cattedra alla sera, ora di spontanea volontà dell'interpellante, ed ora per incarico avuto dallo stesso Servo di Dio. Con questo mezzo si destava maggior attenzione, la parola faceva miglior effetto, e chi parlava aveva maggior libertà nel riprovare certe mancanze o far valere i motivi di certe disposizioni dei Superiori.
Due o tre sere fa io sognai: volete che vi racconti il mio sogno? Siccome io amo i miei giovani, quindi sogno sempre di essere in loro compagnia. [34]
Mi pareva adunque di trovarmi qui in mezzo al cortile, circondato dai miei cari figliuoli, e tutti aveano in mano un bel fiore. Chi aveva una rosa, chi un giglio, chi una violetta, chi la rosa ed il giglio insieme, ecc. ecc. Insomma chi un fiore, chi un altro. Quando ad un tratto comparve un brutto gattone, colle corna, tutto nero, grosso come un cane, cogli occhi accesi come bragia, che avea le unghie grosse come un chiodo ed un ventre sconciamente gonfio. La brutta bestia si avvicinava quietamente ai giovani e girando in mezzo a loro, ora dava un colpo di zampa al fiore che uno aveva e strappandoglielo di mano lo gettava per terra, ora faceva lo stesso ad un altro e così via via.
Alla comparsa di questo gattone io mi spaventai tutto e mi fece meraviglia il vedere come i giovani non se ne turbassero niente e tranquillamente si stessero come se nulla fosse.
Quando vidi che il gatto s'inoltrava verso di me per prendere i miei fiori, mi posi a fuggire.
Ma fui fermato e mi venne detto: - Non fuggire e di' ai tuoi giovani che innalzino il braccio e il gatto non potrà arrivare a toglier loro di mano i fiori. -Io mi fermai e alzai il braccio: il gatto si sforzava di togliermi i fiori, saltava per arrivarvi, ma siccome era molto pesante, non poteva arrivarvi e cadeva goffamente in terra.
Il giglio, miei cari figliuoli, è la bella virtù della modestia alla quale il diavolo muove sempre guerra. Guai a quei giovani che tengono il fiore in basso! Il demonio lo porta via, lo fa cadere. Coloro che lo tengono basso, sono quelli che accarezzano il loro corpo mangiando disordinatamente e fuori di tempo; sono coloro che fuggono la fatica, lo studio e si dànno all'ozio; sono coloro ai quali piacciono certi discorsi, che leggono certi libri, che sfuggono la mortificazione. Per carità, combattete questo nemico altrimenti egli diventerà vostro padrone.
Queste vittorie sono difficili, ma l'eterna sapienza ci ha detto il mezzo per conseguirle: - Hoc genus daemoniorum non ejicitur nisi per orationem et jejunium. - Alzate il vostro braccio, sollevate in aria il vostro fiore e sarete sicuri. La modestia è una virtù celeste e chi vuole conservarla bisogna che si innalzi verso il cielo. Salvatevi adunque coll'orazione.
Orazione che vi innalza al cielo sono le preghiere del mattino e della sera dette bene; orazione è la meditazione e la messa; orazione è la frequente Confessione e la frequente Comunione; orazione sono le prediche e le esortazioni del Superiore; orazione è la visita al SS. Sacramento; orazione il Rosario; orazione lo studio. Con questa il vostro cuore si dilaterà come un pallone e vi eleverà verso il cielo e così potrete dire quello che diceva Davidde: Viam mandatorum tuorum cucurri, cum dilatasti cor meum. Così porrete in salvo la più bella delle virtù ed il vostro nemico, per quanti sforzi faccia, non potrà strapparla dalle vostre mani. [35]
Ieri vi ho raccontato un sogno, oggi voglio raccontarvi un fatto. Un ricco signore era ammalato già da due mesi e la malattia andava ognor più aggravandosi. Un suo amico, buon cristiano, gli fece notare come sarebbe stato meglio che accomodasse tutti gli affari temporali e facesse testamento. Nello stesso tempo si azzardò di accennargli come fosse cosa prudente e conveniente chiamare il prete.
- Oh no, rispose l'ammalato, confessarmi no! Non voglio che venga nessun prete! Non voglio preti per casa.
- Ma pure sarebbe meglio per lei!
- Io finchè era sano non volli mai sapere di confessarmi; molto meno ora che sono ammalato.
- D. Bosco lo vedrò volentierissimo; venga pure, ma ad un patto: che non mi parli di confessione.
Si venne all'Oratorio ad invitarmi ed io sabbato scorso mi portai presso questo ammalato. Quei di casa, sapendo l'oggetto della mia visita, mi accolsero cortesemente e mi condussero nella camera dell'infermo. L'infermo si mostrò contentissimo della mia venuta, ed io incominciai, come uso far quasi sempre con gente di simil sorte, e con salutare effetto, a raccontargli allegre storielle e burle e frizzi così ridicoli, che tutti e due ridevamo a più non posso; al punto che l'ammalato mi pregò di cessare, perchè ormai il suo riso era così convulsivo che ne soffriva.
- Or bene, io gli dissi; parliamo dunque di qualche cosa seria.
- Don Bosco! si ricordi che non mi voglio confessare! È questo il patto che io feci con la mia gente.
- Ma, signor mio, come vuole che io non ne parli, mentre lei me la nomina? Lei me ne mette la voglia. No, non la confesserò, ma deve permettermi che io le parli della confessione.
Ed incominciai a parlargli della sua vita passata, gli misi sott'occhio la necessità di mettersi in grazia di Dio e gli descrissi minutamente lo stato lacrimevole della sua coscienza. L'infermo mi ascoltò in silenzio con tutta attenzione e quando ebbi finito mi disse:
- Ma, D. Bosco! come ella ha fatto a conoscere così bene tutte le mie azioni?
- Io ho quattro parole: Otis, botis, pia, tutis! colle quali leggo nell'anima a chi voglio.
- Or dunque è inutile che io mi confessi; poichè ella sa già tutto, la confessione è fatta!
- Signor mio, avrà ora difficoltà a dichiararsi colpevole di tutti [36] questi peccati, a pentirsene, a domandare perdono a Dio, a fare un proponimento fermo di cambiar vita se il Signore la rimettesse in sanità?
-Or bene, continuai prendendo i giornali proibiti ed i libri cattivi che erano sul tavolino, mi permette che io li cacci sul fuoco?
- Perchè o vanno questi libri sul fuoco o ella andrà nelle fiamme dell'inferno per tutta l'eternità.
E una viva fiamma si destò quando li gettai nel camino.
- Ma non basta, signore; bisogna che allontani subito quella persona che ella sa. - Qui l'ammalato muoveva moltissime difficoltà, ma con grande stento finalmente si indusse a seguir il mio imperioso consiglio.
- Ed ora, conclusi, le darò l'assoluzione. - Il poveretto era abbastanza pentito. Gli parlai della Comunione, ed egli mi rispose che ciò avrebbe recato disturbo alla casa, che non vi era tanta necessità. Io vedendo che il più era fatto, perchè si era confessato e con sufficienti disposizioni, non insistetti. Uscendo, dissi a quei di casa che qualora l'ammalato domandasse il Viatico, mandassero pure ad avvisare in parrocchia perchè erasi confessato; e qualora peggiorasse, si mandasse a darmene avviso. Aspettava, ma non venne nessuno. Allora tornai per vederlo, ma trovai che era già andato all'eternità. Egli soffriva per il catarro che lo soffocava, ma aveva ancor speranza di guarire; quindi chiamava i migliori medici e diceva loro: - Guaritemi ed io vi darò quanto vorrete. Dieci, venti, quaranta, cinquantamila franchi! - La vigilia della sua morte un amico andò per avvisarlo del pericolo nel quale si trovava e gli disse: -Amico mio, tutto si paga, coi denari si ottiene tutto: la morte sola non si può pagare; quindi bisogna pensare seriamente alla vita avvenire.
L'ammalato si acquetò con cristiana rassegnazione, soffri ancora per qualche tempo e poi se ne morì.
Naturalmente, miei cari figliuoli, questa non è una morte che io vi possa proporre a modello, tuttavia siccome spirò, ricevuti i sacramenti e con cristiana rassegnazione, è da sperare che il Signore gli abbia usato misericordia. Noterò una cosa per vostro vantaggio: le parole dette da quell'amico al moribondo: Tutto si paga, la morte sola non si può pagare! Bisogna star pronti, perchè quand'essa verrà, per niun conto la si può mandare indietro. [37]
Stassera vi voglio avvisare di una cosa. Mi rincresce udire che voi chiamate con certi sopranomi dispregiativi la minestra e altri cibi. Certi burloni quando possono inventare un epiteto ridicolo, lo comunicano ai compagni. Che diranno i vostri parenti, tornando voi a casa, se dai vostri parlari si accorgeranno che non sapete dare alle cose il loro proprio nome? Voi siete studenti! Dunque come studenti dovete mostrarvi serii e belle educati in ogni circostanza. Che cosa direste, se vedeste per es. il generale Lamarmora giuocare alle palle di neve in piazza Castello col generale Cialdini? Vi porreste a ridere alle loro spalle. Quindi anche voi procurate che nessuno rida alle vostre. Agite come vedete agire gli altri uomini rispettabili: non vi dirò di imitare D. Bosco, D. Francesia, D. Durando, ecc.; ma agite come vedete agire tanti uomini serii e prudenti. Anzi abbiate suggezione di voi stessi. Dite: che farei in questo istante se fossero presenti i miei genitori, se fosse presente il parroco, se mi trovassi al cospetto de' miei amici? E facendo così, opererete e parlerete sempre saggiamente.
Passiamo ad altro. Il Carnevale se ne va a gran passi: continuiamo a santificarlo come abbiamo proposto. Tutti i giorni facciamo la comunione o sacramentale o spirituale, come ci è dato, e non lasciamo di profferire qualche giaculatoria lungo la giornata. Se poi volete che per domani vi dia un fioretto, ve lo darò. Domani è venerdì, giorno nel quale il Signore è morto per noi. Or bene domani per amore di Gesù perdonerete qualunque offesa vi sia fatta, soffrirete con pazienza qualunque molestia vi apportino i compagni e patirete per amor di Gesù il dovervi alzare da letto la mattina quando suona il campanello della levata e l'importunità degli assistenti che verranno a scuotervi.
Si possono rapportare a D. Bosco ed all'Oratorio le sentenze del Capo X de' Proverbi: “Sorgente di vita è la bocca del giusto... Sulle labbra del saggio trovasi la sapienza... Chi tien conto della disciplina egli è nella via della vita: chi schiva la correzione è fuori di strada… Le labbra del giusto istruiscono un gran numero di persone, ma quelli che non ricevono l'istruzione per inopia di cuore, periscono”. Le parole infatti rendevano D. Bosco così padrone del cuore dei giovani da stabilire e mantenere nell'Oratorio il regno dell'ordine e della moralità, sicchè riusciva cosa facile la direzione di settecento e più alunni. In mezzo a loro eravi (e come no!) una minoranza di qualche decina e anche meno che non soffriva di essere corretta, che non voleva uniformarsi alle istruzioni che le venivano impartite e cercava di seminare segretamente la zizzania e lo scandalo. Vi può essere al mondo una società un po' numerosa che non abbia di simili individui senza cuore? Ma nell'Oratorio tutti gli altri ardevano di zelo contro questi perturbatori della pace nella casa. Stretti fra loro come falange nelle varie Compagnie, studiavano di trarre sulla strada della vita quanti potevano degli sconsigliati, premunivano e allontanavano gli incauti dalle loro insidie, e infine costringevano i primi a vivere isolati e con ciò ad essere scoperti.
Siamo indotti a far queste osservazioni, perchè dalle parlate di D. Bosco nessuno abbia a formarsi un falso giudicio dello stato delle cose; ed aggiungiamo che quanto il Servo di Dio narrò o narrerà di aver visto nei sogni, riguarda nella massima parte quelle lotte spirituali che affliggono i poveri figliuoli di Adamo, lotte che Dio solo conosce e svela pel bene delle anime a coloro che presceglie come speciali cooperatori nell'impresa di salvarle. [40] Ciò premesso, continuiamo a leggere nella Cronaca sunto delle parole che Don Bosco disse in questi giorni
L'altro giorno io vi parlai di quel brutto gattone che aveva veduto entrare nell'Oratorio, il quale cacciava a terra i fiori che tenevano nelle mani i miei giovani. Vi ho detto che quel gattone aveva le corna sulla fronte e che i suoi occhi ardevano come bragia. Vi ho detto come quella brutta bestia fosse il demonio, il quale volea rovinarvi. Quando vi dissi tutto questo, credeva che fosse solamente un giuoco di fantasia, ma invece debbo dirvi con mio gran dolore che il gattone ha fatto fra di voi una grande strage.
Non già che la maggior parte di voi abbia mancato; debbo dirlo: a petto della moltitudine dei giovani della casa è una piccola minoranza quella che mancò; ma questa minoranza è numerosa molto più di quello che mi sarei creduto. Qui nell'Oratorio in pochi giorni accaddero cose che mai si videro qua entro. Da qualcuno si ruba e si ruba tutto a tutti; si rubano libri, si rubano danari, si ruba la roba, si ruba la frutta, e tutto ciò che si può prendere. Alcuni leggono libri che sono veramente cattivi, e li leggono in chiesa, in tempo della lettura e in tempo delle sacre funzioni. Ma vi è ancora di più. Vi sono altri che si assentano dalla Chiesa e dalla scuola e si vanno a nascondere in camere appartate per non essere veduti. Anzi ve ne ha perfino di quelli i quali si ritirano in certi luoghi, ed amano piuttosto morire in quella puzza che andare dove il dovere li chiama. Questo non è tutto. Alcuni si sono fatti maestri di perdizione a certi poveri loro compagni. Hanno fatto ancora di più: non contenti di ciò, si gloriano del mal fatto come se avessero ottenuta una vittoria e “Laetantur cum male fecerint et gloriantur in rebus pessimis.” Perciò io ho preso una risoluzione e questa si è di far man bassa sovra gli autori di tutti questi scandali. D. Bosco è il più gran bonomo che vi sia sulla terra; rovinate, rompete, fate birichinate, saprà compatirvi; ma non state a rovinar le anime, perchè allora egli diventa inesorabile.
Quando un giovane entra nella casa il mio cuore esulta, perchè io vedo in esso un'anima da salvare; e quando esso viene annoverato tra i miei figli, allora egli diventa la mia corona. Ma di corone ve ne sono di due specie; se esso corrisponde alle mie fatiche, se fa ogni sforzo per porre in salvo l'anima sua, allora questo giovane forma la mia corona, una corona di rose. Che se egli rifiuta di porre in pratica le mie parole, se lo vedo non curante delle cose dell'anima, allora vi assicuro che egli è per me una dolorosa corona di spine. Che se poi costoro oltre far male essi stessi, cercano di guastarmi gli altri, allora [41] io non posso assolutamente sopportarli, bisogna che io li cacci fuori dell'Oratorio. Perciò coloro che si fecero capi del disordine saranno messi in nota e senz'altro domani saranno avvisati, acciocchè partano immediatamente da quell'Oratorio che essi hanno profanato coi loro peccati. Quegli altri poi che furono meno colpevoli restano ora avvisati in pubblico e lo saranno poi particolarmente da me, uno per uno. A questi io dico: - Guarda, figliuol mio, cambia costume, altrimenti lo stesso castigo che ha colpito gli altri, colpirà anche te; emendati, hai ancora aperta la strada del pentimento; perchè se continui nella via incominciata, tu vai diritto all'eterna perdizione.
Io so che alcuni di costoro se la ridono nel momento stesso che io parlo, ma si ricordino che se li ritengo per qualche giorno è solo per fare un'ultima prova. Il diavolo vi fa commettere i peccati, vi fa sperare che resteranno segreti, e farà tutti i suoi sforzi per celarli agli sguardi degli uomini. Ma è ben difficile che io non lo venga a sapere. Che se per caso per qualche tempo non foste conosciuti, se riusciste a farla franca, ricordatevi che se il diavolo è furbo, il Signore è più furbo di lui.
Lasciate che io mi sfoghi, che sfoghi il mio cuore con voi, chè per voi non ho mai segreti.
Io ho bisogno di sfogarmi: se molta colpa vi è in chi ubbidisce, non ne manca in chi comanda. Se ciascuno facesse il proprio dovere nell'ufficio che gli venne assegnato, certi disordini non avverrebbero. Chiunque ha qualche autorità nella casa procuri di servirsene per la salute delle anime.
E voglio suggerirvi due mezzi per rimettere l'ordine nella casa, due mezzi che forse coloro che ne han di bisogno, non li vorranno capire:
1° mezzo: l'obbedienza, la subordinazione che, in questi giorni, per effetto degli altri disordini venne obliata: accaddero insubordinazioni dovunque. Perciò nei laboratori obbedienza ai capi, in refettorio agli assistenti, nello studio e nelle scuole ai professori: obbedienza senza limiti.
Che se colui che vi comanda mancasse verso di voi, voi obbedite e tacete, e poi venite da me che io saprò far valere la vostra ragione e dare a chi tocca gli avvisi opportuni. Obbedienza, ma senza tante critiche agli ordini dei superiori. Cessino una volta certe mormorazioni, poichè da troppi giorni serpeggiano nella casa.
2° mezzo, che per tanti sembrerà impossibile, è questo: denunziare i capi del disordine o del peccato. Questi sono la vera peste dell'Oratorio, perchè il demonio li prende per suoi aiutanti e li spinge in mezzo ai giovani per far loro male più che sia possibile. Accusateli costoro, svelateli; sono tante anime che voi salverete. Ma voi direte che avete paura d'essere chiamati spie. Ebbene, perchè alcuni sciocchi vi chiameranno spie, volete voi astenervi dal fare un'opera buona? Se un [42] ladro entrasse in una casa a rubare, voi vi tratterreste dal gridare al ladro per paura che egli vi dica che siete una spia? Se un soldato, facendo la sentinella alla porta del palazzo del suo sovrano, vedesse un uomo il quale tentasse introdursi per uccidere il Re, credete voi che lo lascierebbe entrare? E se costui minacciasse di dirgli che è una spia, sapete che cosa farebbe? Gli intimerebbe tre volte di tornare indietro e se l'altro continuasse a persistere di voler entrare, gli direbbe: - Aspetta che te la do io la spia! - e con un colpo lo ucciderebbe. Così avviene tra voi, miei cari giovani. Voi siete nella reggia del Re Celeste: entra un nemico ad uccidere le anime e voi avrete paura di fare il vostro dovere? Avrete timore che vi dicano spie? Lasciate che gli sciocchi vi chiamino pure con questo nome; il Signore vi chiamerà con altro nome e vi darà egli il premio della vostra carità.
Miei cari figliuoli, ve l'ho già detto: uno di noi presto dovrà presentarsi al tribunale di Dio. Ma che dico uno! più d'uno! molti, avanti che passi gran tempo, saranno nella tomba: dico di più: tutti noi, chi più presto chi più tardi, e certo fra non molti anni, ci dovremo presentare al tribunale di Dio. Il Signore a me domanderà conto se vi ho detto tutto ciò che aveva dovere di dirvi, e a voi chiederà ragione se mi avete ascoltato. Molti potranno rispondere che mi ascoltarono e si mantennero puri. Moltissimi diranno: - Signore; noi per un tempo vi abbiamo offeso, ma poi ci pentimmo di vero cuore e procurammo di risarcirvi colle buone opere del tempo perduto. - Se qualcuno non mi ascolta si perderà e la colpa sarà tutta sua.
Vi dirò in ultimo: volete che quel brutto gattone non vi vinca? Procurate che non vi trovi mai in ozio; lavorate, studiate, pregate e sarà questo il modo sicuro di vincere il vostro nemico.
Orinai restano pochi giorni a finire il carnevale. Io nel principiar di questo vi aveva esortati ad indirizzare tutte le vostre azioni e preghiere al Signore, acciocchè ciascuna di esse potesse servire a suffragare quelle anime del purgatorio, le quali non avessero bisogno che di quella azione per essere introdotte in paradiso. Voi vi credevate che scopo di questa mia esortazione si fosse solamente il sollievo delle anime purganti, ma io aveva prefisso eziandio un altro fine; e questo si era che il Signore mi desse una fede, una viva fede, quella fede che trasporta le montagne nel luogo delle valli, e le valli nel luogo delle montagne. Ma voi direte: - Che importa a noi, se tu hai bisogno di questa fede? Pensaci tu. - Ma voi siete buoni e perciò il Signore mi darà per mezzo vostro quelle grazie delle quali ho bisogno.
Il Signore bisogna pregarlo, acciocchè ponga rimedio ai disordini che succedono fuori della casa e a quelli che accadono nella casa. In [43] quanto ai disordini che succedono fuori della casa non importa che io ve li accenni: vi dico solo: - Pregate.
In quanto ai disordini della nostra casa, voi vedete come fui costretto a mandar via dall'Oratorio sei giovani. L'altra sera quando tenni con voi quel discorso ed annunciai la mia decisione, vi assicuro che Don Bosco sofferse molto per tutta la notte e non potè dormire un minuto. Lo so io solo quel che sopporto per salvarvi, o miei cari:figliuoli! Aver sudato anni ed anni per salvare un giovane e poi esser costretto a cacciarlo via di casa, a lanciarlo in mezzo al mondo, dal quale lo aveva tirato fuori perchè non si perdesse: lanciarvelo di nuovo con pericolo della sua dannazione, è troppo doloroso, miei cari giovani. E qual ne fu la cagione? La gola! origine della perdita della maggior parte delle anime. Si rubò roba da mangiare per soddisfare alla gola; si rubò danari per soddisfare la ghiottoneria; si rubò libri ed oggetti per cambiarli in danaro e quindi poter soddisfare alla gola. Ed è perciò che alcuni furono cacciati via.
Vi è poi un'altra arma della quale si serve il demonio e sapete qual'è? L'immodestia. Dirò meglio e più chiaramente: La disonestà. Ah! guardatevi, miei cari figliuoli, da questo nemico. Ora il demonio vi tenta con farvi cadere nelle mani libri cattivi; ora col farvi pensare ciò che non dovete pensare; ora coi discorsi di un cattivo compagno. Quando vi si avvicina uno di questi cattivi compagni dite fra voi: - Costui è un ministro di Satanasso. - E quegli infelici che incominciano col compagno un simile discorso, dicano ciascuno tra sè e sè: - Io sono un ministro di Satanasso, perchè lo aiuto nel rovinare le anime.
Miei cari giovani! tenetevi lontani dal furto e dalla disonestà, se volete essere cari al Signore. Il mezzo per vincere il demonio della disonestà, è praticare fedelmente i proprii doveri di scuola e le regole della casa.
D. Bosco aveva detto ai giovani: “In quanto ai disordini che succedono fuori della casa, non importa che io ve li accenni; vi dico solo: - Pregate!”. Trovatosi solo coi chierici e preti spiegò il suo pensiero. Egli crede che se si pregherà molto, la nuova legge della soppressione dei conventi non passerà.
La previsione di D. Bosco non fallì, come ci narra la storia. Il Governo Italiano aveva deciso di sopprimere tutti gli Ordini religiosi, all'effetto di appropriarne i beni allo Stato. Il 4 novembre 1864 il Ministro Vacca presentava al Parlamento l'odioso progetto di legge. Nello stesso tempo, promoveva con ogni favore frequenti adunanze di settarii ne' teatri delle [44] principali città, nei quali, dopo diatribe furibonde, si ingiungeva al potere legislativo di approvare la legge. I giornali empi tenevan loro bordone. Si apersero sottoscrizioni in favore della legge, ma si ottennero appena 15.572 firme. I cattolici consegnarono alle Camere petizioni contro la soppressione dei conventi con 183.679 firme, delle quali il Ministero non si curò. I Vescovi incominciarono a protestare solennemente.
Intanto il 19 aprile 1865 fu impresa la discussione generale e fu chiusa il 26. Ministero e Camere erano d'accordo sul procedere a quella spogliazione. Si venne alla discussione degli articoli, e qui sorse l'ostacolo che per allora la Provvidenza contrapponeva ai disegni di Vacca e de' suoi compagni. Si era fissata una pensione ai membri di tali ordini, quando il deputato Lusi propose che tutti i religiosi per poter ricevere la pensione dovessero svestire il loro abito. In questa clausola venivano compresi anche gli Ordini mendicanti, che il Governo voleva esclusi. Vivendo essi di elemosine e non potendosi loro confiscare i redditi, perchè nulla possedevano, non si voleva caricare lo Stato del peso non leggero delle loro pensioni, privandolo di un lucro sperato. Il Ministero intendeva che i Mendicanti fossero in diritto aboliti, ma in fatto abitassero in que' conventi ne' quali speciali decreti li avrebbero confinati: in quanto al vitto provvedessero da se stessi. Di mano in mano il demanio sarebbe entrato in possesso de' conventi rimasti vuoti.
Il Parlamento invece voleva un'abolizione generale ed immediata, e quindi il 27 aprile a grande pluralità di suffragi approvava la proposta del Deputato Lusi. E il 28 il Ministro Vacca presentava un decreto reale che ritirava quel progetto di legge.
Così avveravasi in modo non prevedibile ciò che D. Bosco aveva detto e rimaneva tempo ai Religiosi di pregare e di provvedere per quanto potevano al loro avvenire.
Riprendiamo la cronaca e le parlate di D. Bosco. [45]
Un mio amico presentò al Sommo Pontefice una lettera che io gli aveva mandata, ed Egli, dopo averla letta, domandò al latore della stessa notizie di D. Bosco, dei suoi giovani, e dell'Oratorio, e si mostrò molto interessato per noi.
Quindi mi spedì una lettera nella quale dopo aver benedetto a D. Bosco, benedice i miei figliuoli con queste parole:
- Dica ai suoi giovani che io li benedico: ut crescant et multiplicentur ut stellae coeli; et ut novellae olivarum sedeant in circuitu mensae Domini.
Il Papa Pio IX ci ha benedetti, e noi dobbiamo corrispondere alla sua benedizione, dobbiamo fare anche noi qualche cosa.
E quale sarà quest'opera? La precisione nella levata. Voi mi direte: che relazione vi è tra la levata e la benedizione del Papa? Ve ne è moltissima ed io ve la fo tosto vedere. Il Papa vi ha benedetti, perchè desidera ardentemente chi vi facciate santi coll'acquisto di meriti innanzi al Signore. Ed opera meritoria è incominciare la giornata coll'obbedienza alla regola.
In primo luogo vi è il merito di vincere la pigrizia e di fare così un'opera buona tanto accetta al Signore, come è quella della mortificazione. Poi vedete: io alla mattina scendo presto in Chiesa e non vi è ancora alcuno per confessarsi, e al secondo campanello capitano in sagrestia tutti coloro che si vogliono confessare. Come volete che nel poco tempo che corre dall'incominciamento della messa alla fine della meditazione possa ascoltare, come desidero con grande ardore, le confessioni di tutti coloro che vorrebbero da me confessarsi?
Suonato il primo campanello vestitevi subito, dicendo qualche orazione giaculatoria, ed accomodato il letto scendete in Chiesa dove se vorrete potrete confessarvi; altrimenti potrete sempre indirizzare a Gesù Sacramentato un'affettuosa preghiera. E questo sarà tutto tempo guadagnato. Che se non volete venire in Chiesa, fermatevi a fianco del vostro letto e rivolgete una preghiera a S. Giuseppe, Sposo purissimo di Maria, acciocchè vi ottenga il dono della purità. Suonato il secondo campanello, scendete tosto in chiesa.
Io vedo tante volte che la messa è già all'altare e un certo numero di giovani passa ancora dalla sagrestia, e credo che lo stesso accadrà dall'altra porticina; la messa arriva all'evangelio e continua ancora l'arrivo dei giovani; ed all'elevazione vi è ancora qualcuno che forma la retroguardia. Miei cari giovani, siate precisi nella levata; è troppa sfortuna perdere al mattino la S. Messa; siate diligenti nell'ascoltarla. Precisione adunque nella levata. Un'ora guadagnata al mattino è un tesoro per la sera: cioè a dire: è un'ora più di vita, un'ora più di studio, [46] un'ora più di meriti. Figliuoli miei! io conosco bene i giovani e so come vanno le cose perchè io vi leggo in mezzo del cuore. Due sono i fomenti, i mezzi principali, dei quali il demonio si serve per far commettere tanti peccati. Il primo si è quello di far fermare in letto un giovane alla levata, ovvero tentarlo a non alzarsi subito al mattino. Oggi lo induce a fermarsi in letto ancora cinque minuti, e domani dieci minuti dopo della levata è ancora in letto: dopo domani al suonare della seconda campana si alza in tutta furia e corre in chiesa cogli occhi ancor chiusi dal sonno, e come volete che costui preghi il Signore con fervore ed ottenga quelle grazie delle quali ha bisogno? Qui non è tutto; prenderà gusto a poltrire e finalmente col pretesto di una malattia, di un dolore, si fermerà in letto tutto il tempo della Messa: e così se ne starà a godere del caldo del letto e della sua poltroneria. Ei si crede solo; ma non è solo, sapete; è in compagnia. E sapete di chi? del demonio! Bella compagnia davvero! Il demonio gli è al fianco e fa le parti sue; e come bene. Se sapeste quanti peccati fa commettere ai giovani in questa maniera! Terminate le preghiere in chiesa, ei che sente i compagni ad uscire, si veste e corre frettoloso nello studio come un cagnolino, senza dir neppure le sue orazioni e siede al suo posto. Si mette a studiare, ma che cosa volete che faccia? È svogliato, ha la testa grave, la bocca impastata, quindi pensa a comprare una tazza di caffè e latte per ristorarsi, pensa ad accompagnare il pane con una fettina di salame, e perciò il suo lavoro o non lo fa e medita qualche pretesto per iscusarsi col maestro, o, se lo fa, lo fa a precipizio e male.
Siate adunque precisi nella levata e ricordatevi che la Messa al mattino è cosa troppo preziosa da non lasciarsi senza motivo. Volevo ancora parlarvi della gola, ma tronco qui il mio discorso perchè vedo che sono stato troppo lungo.
Il carnevale se ne è quasi andato, ed io spero che voi l'avrete passato bene. In molti collegi e in alcuni paesi vi è l'uso in questi giorni di fare il mese santificato in onore dei dolori di Maria SS., per compensare le offese che fanno al Signore tanti poveri peccatori. Noi, col suffragare le anime sante del Purgatorio, spero che avremo fatto il possibile per parte nostra, onde soddisfare la divina giustizia.
Dopo Dio, il suo Vicario in terra. Si legge un fatto di Pio IX veramente straordinario, successo in questi giorni: ed io voglio che vi sia letto domani da questo luogo, acciocchè vi persuadiate di quale santità sia il Sommo Pontefice.
Oggi incomincia anche il mese di S. Giuseppe e vorrei che ciascuno di voi lo facesse con divozione. Questo santo Sposo di Maria Vergine [47] ci otterrà moltissime grazie dal Signore se sapremo rendercelo amico. Io non voglio che facciate opere straordinarie, nè che digiuniate e neppure che vi asteniate dal mangiare qualche tozzo di pane; no: anzi è mio desiderio che nessuno faccia un'opera, per quanto possa essere santa, senza la licenza espressa del superiore. Ve lo dirò io il modo col quale voglio che onoriate S. Giuseppe. Nell'Oratorio vi sono molti poltroni. Non dico già che la maggior parte di voi siano poltroni, no; ma il numero dei poltroni è grande. L'immensa maggioranza so che è diligente ne' suoi doveri, ed anzi quando vi penso, me ne glorio e vo superbo d'aver nell'Oratorio tanti giovani così buoni e così pronti ad eseguire i loro doveri. Perciò dico a tutti voi di onorare questo santo coll'essere in tutto e per tutto esatti e diligenti nella scuola, nello studio, nella chiesa, nel refettorio, nella camerata; e coloro che non lo furono troppo pel passato, procurino di divenirlo per l'avvenire. Tanto più che S. Giuseppe è protettore di coloro che hanno da prendere gli esami: quindi raccomandatevi a lui, se volete far buoni esami e state sicuri che passerete bene. Ed anche quelli che sino a qui studiarono poco, facciano i loro sforzi per mettersi in ordine e coll'aiuto del santo Sposo di Maria Vergine spero che non faranno brutta figura. Quante volte questo santo invocato all'esame fece sì, che la votazione fosse migliore di quella che gli esaminati si meritavano, o che fossero interrogati su quelle materie che sapevano meglio, oppure che l'imbrogliato nelle risposte trovasse uno scioglimento soddisfacente alle domande e alle questioni fatte. Non vi dico già di fare il poltrone sperando che il santo vi aiuti, sibbene che vi pentiate d'averlo fatto finora e ricorrendo al Santo, stabiliate di essere più diligenti. Se lo volete, vi suggerisco una pratica di pietà in onore di S. Giuseppe. Recitate tutti i giorni di questo mese un Pater ed Ave: è poca cosa, ma vi arrecherà gran giovamento. Finisco coll'augurarvi una notte felice nella pace e nella benedizione del Signore.
Io sono stato qualche giorno lontano da voi, miei cari giovani, e il mio più vivo desiderio si è di trovarmi sempre con voi e farvi tutto quel bene che posso, perchè io mi sono consacrato e sacrificato in tutto e per tutto al vostro vantaggio. Ma anche quando sono lontano da voi, lavoro per la casa e posso dire che ho fatto in questi giorni più lavoro essendo lontano, di quello che avrei fatto trovandomi nell'Oratorio. Io aveva molti affari da sbrigare, molte lettere da scrivere e come avrei potuto fare tutto questo con mille udienze e contrattempi che bisogna che subisca essendo in casa?
Ma lontano da voi ho sempre pensato ai miei cari figliuoli; ho sempre pregato per loro. Vi siete voi ricordati di me? Avete pregato per me? [48] Qualcheduno sì. E gli altri? Ma là! facciamo la pace. Chi non ha pregato per D. Bosco, pregherà d'ora avanti; non è vero?
lo adunque me ne andai a Cuneo ed abitai in questi giorni col Vescovo, il quale mi trattò magnificamente; e la prima sera, dopo aver ben mangiato e meglio bevuto (si ride!); venne l'ora di andare a dormire. Dopo la cena un buon letto fa piacere, non è vero? Io domandai al Vescovo licenza di fermarmi alla mattina del domani un po' di più in letto, ed il Vescovo mi soggiunse:
- Sì, si, anzi voglio che non si alzi prima delle 8 ½.
- Oh! ripresi io, mi fermerò solamente fino alle 6 ½; ne ho d 'avanzo per riposarmi.
- Non voglio che si alzi a quell'ora; si alzerà alle 8.
In ultimo fu concluso che alle 7 avrei potuto alzarmi. Andai a dormire. Erano le II. Subito presi sonno. Ma che volete! Incominciai a sognare, com'è il mio solito, e siccome la lingua batte dove il dente duole, sognai che mi trovava nell'Oratorio, in mezzo ai miei cari figliuoli.
Mi pareva d'essere in mia camera seduto al tavolo, mentre i giovani faceano la ricreazione nel cortile. La ricreazione era animatissima anzi dirò clamorosa; gridavano, urlavano, saltavano, che era un finimondo. Io era contentissimo, perchè a me piace molto vedere i giovani in ricreazione e quando li vedo tutti occupati nel giuoco, son sicuro che il demonio ha un bel fare, ma non riesce a nulla. Mentre adunque io godeva degli schiamazzi dei giovani, all'improvviso si fa un mortale silenzio e non ne so comprendere la ragione. Mi alzo tutto spaventato dal tavolino per vedere la causa di questo improvviso silenzio, ed arrivato appena nell'anticamera, vedo entrare per la porta un mostro orribilmente brutto, il quale andava col muso basso e gli occhi fissi a terra. Sembrava che non si fosse accorto della mia presenza, ma camminava sempre diritto in posizione di una bestia feroce che è sempre in attitudine di assaltar qualcheduno. Tremai allora per i miei cari figliuoli e dalla finestra girai gli occhi nel cortile per guardare che fosse avvenuto di loro.
Vidi tutto il cortile pieno di mostri simili al primo ma più piccoli. I miei giovani erano stati respinti lungo e rasente le mura e sotto i portici. Molti di essi erano stesi qua e là sul terreno e parevano morti.
A quello spettacolo doloroso alzai un grido tale per lo spavento che mi svegliai. A quel grido si svegliarono i domestici del Vescovo, si svegliò il Vicario, si svegliò il Vescovo stesso, tutti spaventati a quel grido.
Miei giovani, ai sogni in generale non si deve prestar fede alcuna, ma quando la loro spiegazione è morale, si può farvi sopra qualche riflessione. Io di tutte le cose ho sempre voluto cercare la spiegazione: perciò la cerco anche di questo sogno. Quel mostro pare che voglia [49] significare il demonio, il quale si muove continuamente per la nostra rovina. Dei giovani chi cade e chi fugge. Volete che io vi insegni a non temerlo e a resistere ai suoi assalti? Ascoltate! Non vi è cosa che il demonio tema di più che queste due pratiche:
2 ° Le visite frequenti al SS. Sacramento.
Volete che il Signore vi faccia molte grazie? visitatelo sovente. Volete che ve ne faccia poche? visitatelo di rado. Volete che il demonio vi assalti? visitate di rado Gesù in Sacramento. Volete che fugga da voi? visitate sovente Gesù. Volete vincere il demonio? rifugiatevi sovente ai piedi di Gesù. Volete essere vinti? lasciate di visitare Gesù. Miei cari! La visita al Sacramento è un mezzo troppo necessario per vincere il demonio. Andate dunque sovente a visitare Gesù e il demonio non la vincerà contro di voi.
Domani i chierici prenderanno l'esame, perciò io li esorto a farsi coraggio. Io, come son solito a fare sempre, applicherò domani la S. Messa a questo scopo, e spero che le cose andranno bene.
Vi voglio dire due sole parole. Domani è il giorno delle Sacre Ceneri e domani avvicinatevi all'altare per riceverle sulle vostre fronti con raccoglimento e senza leggerezza. Non è una cerimonia istituita dalla Chiesa a caso, ma è una cerimonia che ci fa ricordare quello che siamo e quello che diventeremo. Memento, homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris. Quando in pena del suo peccato Adamo venne scacciato dal Paradiso terrestre, il Signore nella sua infinita bontà volle dargli un ricordo che gli servisse di regola e di freno in tutto il tempo della sua vita: “Ricordati, o uomo, che sei polvere ed in polvere tornerai”. Miei cari figliuoli, ricordatevi questa gran massima che vi farà tanto bene se ci pensate sovente. Pulvis et cinis es: si legge nelle Sante Scritture. E in un altro luogo delle sacre pagine: Operimentum tuum erunt vermes. Tutto il nostro corpo dopo la morte sarà ricoperto di vermi. A che serve adunque azzimarci ora i capelli, farli tagliare in simmetria per comparire leggiadri, farci la spartita, dividerla con cura, se verrà un giorno nel quale saremo pastura dei vermi? E non è questo il solo ricordo che ci dà la Chiesa colla cerimonia di domani. Il corpo, il giorno della nostra morte, ritornerà polvere; e dell'anima nostra che cosa sarà? Essa si presenterà al Signore e, secondo le nostre, opere o buone o malvagie, le sarà aggiudicata un'eternità o felice o infelice. Miei cari figliuoli, procurate che allorquando il vostro corpo sarà divenuto cenere, l'anima vostra sia in cielo eternamente beata, acciocchè non abbiate a piangere eternamente. Attenti che il vostro corpo non sia cagione della vostra perdizione! [50]
Con questi ammonimenti D. Bosco aveva anche dato ai giovani la notizia di un favore esimio concessogli dal Pontefice, chiesto da lui con una supplica presentata da D. Emiliano Manacorda.
Il Sacerdote Giovanni Bosco da Castelnuovo d'Asti domiciliato in Torino, Direttore dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, nel desiderio di promuovere ognora più nei giovinetti dalla Divina Provvidenza a lui affidati lo spirito di pietà e divozione, umilmente prostrato ai piedi di Vostra Santità, supplica che gli venga rinnovata la facoltà di celebrare le tre Messe nella notte precedente al SS. Natale ed il privilegio di potersi in essa comunicare per coloro che vi assisteranno, sì come da più anni si pratica. Supplica in pari tempo a voler estendere la medesima facoltà, e privilegio a due altre case sussidiarie da alcuni anni per sua cura aperte, una in Mirabello Diocesi di Casale Monferrato, l'altra in Lanzo paese di questa medesima Diocesi Torinese. Riconoscente bacia colla più profonda riverenza il Santo Piede, nell'atto che caldamente implora l'Apostolica Benedizione.
Supplici Manacorda ad triennium commissum fuit pro gratia, vivae vocis oraculo, die 21 Februarii
Ma un pensiero che preoccupava D. Bosco con viva insistenza era quello di ottenere dalla Santa Sede la facoltà di concedere le dimissorie ai suoi chierici per le Sacre Ordinazioni. Egli prevedeva i gravi disturbi che altrimenti avrebbe dovuto incontrare per molti anni, causa le renitenze di qualche Ordinario, e le defezioni di alcuni chierici i quali non avrebbero pazientate dilazioni nella loro carriera.
A Roma D. Emiliano Manacorda, conoscendo i desiderii di D. Bosco, volle tentare di appagarli. Avea saputo che ad alcune Congregazioni di voti semplici era stata concessa la facoltà delle dimissorie; e consultato qualche teologo valente, sulla possibilità di veder esaudita una sua domanda, inviò a S. Em.za Rev.ma il Card. Quaglia una supplica scritta tutta di sua mano, ma col nome di D. Bosco. [51]
Il Sac. Gio. Bosco dell'Archidiocesi di Torino, già da questa Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari con decreto del 23 luglio 1864 creato Superiore generale e ad vitam e ad instar Ordinarii della nuova Congregazione dal medesimo fondata sotto il titolo di S. Francesco di Sales, trovando gravi difficoltà nel dover ricorrere a Roma per ogni ordinazione dei Chierici aggregati, supplica l'Eminenza V. Ill.ma e Rev.ma a voler concedergli la facoltà di poter dare ai prelodati Chierici le rispettive ed occorrenti dimissorie e ciò per maggiore sicurtà del supplicante, sul dubbio che detta facoltà non sia implicita nel mentovato Decreto, che lo costituisce Superiore ad instar Ordinarii.
Fiducioso che la Em.za V. Ill.ma e Rev.ma sarà per aderire benignamente all'umile domanda, si protesta con profonda venerazione della Em.za V. Ill.ma e Rev.ma
La risposta scritta sul rovescio della suddetta supplica col bollo della Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, venne inviata direttamente a D. Bosco. Essa diceva:
Die 20 Martii 1865. Non expedire, et sciat Orator Institutum subjici jurisdictioni Ordinariorum ad formam SS.rum Canonum et Apostolicarum Constitutionum, iuxta decretum diei 23 julii 1864] Pare che a D. Manacorda, il quale aveva inoltrata la supplica, non venisse fatto cenno dell'esito della medesima, poichè il 22 marzo in una affettuosissima lettera egli scriveva a D. Bosco: - Nella settimana ventura forse le spedirò la facoltà delle dimissorie.
Con tutto ciò il 15 aprile il suddiacono Giuseppe Lazzero veniva promosso al diaconato a Susa, dal Vescovo Monsignore Odone.
Il I° febbraio D. Bosco aveva annunziato che un giovane forse sarebbe morto prima che si facesse in questo mese l'apparecchio alla morte: e che se fosse arrivato a farlo ancora una volta, quello sarebbe stato il massimo del tempo a lui concesso di vita.
Questo annunzio era effetto di un sogno. Una notte parve a D. Bosco, mentre dormiva, di entrare in cortile e trovarsi in mezzo ai suoi giovani che si ricreavano. Al fianco aveva la solita guida che lo aveva accompagnato negli altri sogni precedenti, quando ad un tratto apparve in aria un'aquila maestosa di bellissime forme, la quale andava roteando e [53] abbassandosi a poco a poco sopra i giovani. D. Bosco guardavala meravigliato e la guida gli disse:
- Vedi quell'aquila? Vuol ghermire uno de' tuoi giovani!
- E chi sarà? chiese D. Bosco.
- Osserva bene: quello sul capo del quale andrà a fermarsi l'aquila.
D. Bosco con tanto d'occhi stava fissando il volatile, il quale, fatti ancora alcuni giri andò a posarsi sul giovane tredicenne Antonio Ferraris di Castellazzo Bormida. D. Bosco lo riconobbe perfettamente e si svegliò. Non appena svegliato per assicurarsi ch'era desto si mise a battere le mani; e intanto rifletteva su quello che aveva visto e fece anche una preghiera:
- Signore, se questo veramente non è sogno, ma una realtà, quando dovrà verificarsi?
Si addormentò nuovamente ed ecco in sogno riapparire lo stesso personaggio, la guida, il quale gli dice:
- Il giovane Ferraris che deve morire non farà più due volte l'esercizio della buona morte.
E disparve. Allora D. Bosco si persuase che quello non era un sogno, ma una realtà, ed è perciò che aveva dato quell'annunzio ai giovani.
Ferraris in quel tempo stava bene.
D. Bosco intanto rinnovava la memoria della sua predizione. Era stato accompagnato presso i suoi il primo giorno di marzo un giovanetto tredicenne di nome Giambattista Savio, nativo di Cambiano, come si legge nel libro mastro dell'Oratorio. Il piccolo artigiano era affetto da malattia grave e si era sparsa la voce che egli fosse colui del quale il Servo di Dio aveva predetta la fine.
Ma D. Bosco contraddiceva a quell'opinione, parlando la sera del 3 marzo, venerdì. [54]
Stassera io voglio parlarvi di cose di politica; ma non già di politica esterna, sibbene di politica interna, delle nostre cose, delle cose della casa. Primieramente la quaresima è già incominciata e bisogna santificarla colle buone opere. Coloro che sono obbligati al digiuno, sanno già quel che debbono fare senza che io lo dica loro; ma gli altri non avranno a far niente? Anche essi devono fare qualche opera buona e non potendo digiunare suppliscano con altro. Io vi darò un mezzo per santificare questi giorni: la confessione e la comunione frequente per ottenere da Dio tutte le grazie delle quali si ha di bisogno. Fra tutto l'anno questi sono i giorni accettevoli: sunt dies acceptabiles, dies salutis.
Io vi ho già annunziato che uno di noi deve morire. Voi mi direte: - Quel tale di cui ci parlò, non sarebbe forse il piccolo Savio? Io vi rispondo schiettamente di no. Chi è dunque? Lo sa solamente il Signore. Costui è in mezzo a voi, costui ha sentito il mio avviso e spero che avrà fatto bene il suo ultimo esercizio della buona morte.
State dunque tutti preparati! E senza che ve lo dica io, lo avea già detto 19 secoli fa il nostro Divin Redentore: Estote parati, chè la morte verrà come un ladro quando meno noi ce la aspettiamo. Io vi replico questi avvisi, perchè da qualche tempo si sono introdotti nella casa alcuni disordini che vanno tolti. Si dicono bugie con tutta facilità senza alcun scrupolo e ad ogni occasione; si cercano tutti i pretesti per uscir di chiesa in tempo delle sacre funzioni e chi girasse per la casa troverebbe sempre alcuni che se ne stanno ciarlando; e col pretesto del teatro o di altre commissioni avute, si trova la scusa bell'e pronta per chiudere la bocca a chi ha l'incarico di sorvegliare. Anche in tempo di studio si cerca di assentarsi e col pretesto di andarsi a confessare si va girovagando per la casa. Però sono contento della massima parte di voi che si diporta veramente bene; le accennate mancanze si fanno da pochi, ma si fanno. In refettorio si caccia la minestra ed il pane per terra o sopra i vostri compagni, ed alcune volte scherzando (cosa che non si può tollerare) sopra chi ha l'incarico d'invigilarvi. Non si facciano più adunque simili mancanze e pel futuro si procuri di far meglio.
lo vi raccomando di confessarvi e comunicarvi frequentemente. Ma intendiamoci! Piuttosto che fare confessioni cattive è meglio che non vi confessiate. Sarà una confessione di meno, ma anche un sacrilegio di meno. Vi sono alcuni che si confessano e tacciono qualche peccato. Costoro non si confessino. Essi mi diranno: “Ma dunque non ci dovremo più confessare?”Piuttosto che fare un sacrilegio, no di sicuro. È meglio che stiate come siete, piuttostochè aggiungere peccati [55] a peccati. - Ma dunque che cosa dovremo fare? - Rimediate a tutte le confessioni mal fatte, rimediatevi prontamente, che se per il peccato le anime vostre saranno più rosse dello scarlatto, per la penitenza dealbabuntur ut nix: diverranno più bianche della neve.
Anche le comunioni fatele come si deve. Si vedono alcuni che hanno il coraggio di accostarsi alla santa comunione e poi non pensano punto a correggersi dei loro difetti; non temono di perdere lunghe ore in ciarle fuggendo dallo studio; fanno la comunione al mattino, e nel giorno tengono poi discorsi sconvenienti coi compagni; mormorano di questo e di quello, dei superiori e dei condiscepoli; sono in camerata la croce dell'assistente, ecc. ecc. Come si potrà dire che costoro abbiano fatte delle comunioni veramente buone? Ex fructibus eorum cognoscetis eos. Che se tali sono i frutti, che cosa potremo argomentare dell'albero che li produce? Come saranno quelle comunioni che non producono alcun miglioramento? - Ma direte voi, come avremo da fare? Ecco! procurate per quanto è in voi di far vedere che sapete trar frutto dai Sacramenti. Lo so che non si può in un momento diventar perfetti e che a poco a poco e con istento si vincono i difetti nostri. Però, mettetevi almeno con impegno a sradicarli, fate vedere che qualche miglioramento si va effettuando in voi, date prova della vostra buona volontà coll'adempimento dei vostri doveri e colla diligenza in tutto.
In ultimo darò un avviso a coloro che in quest'anno sono per compiere il loro studio di latinità: Fratres, satagite ut per bona opera certam vestram vocationem et electionem faciatis. Esaminate in questo tempo quaresimale qual sia lo stato al quale vi chiama il Signore. Cercate colle vostre buone opere di domandare alla Divina Maestà che vi indichi qual sia la strada per la quale dovete camminare. Alcuni di voi mi dicono: - Noi non ci vogliamo far preti. -Va bene; ma vorrete essere buoni secolari, vorrete anche da secolari guadagnarvi il paradiso; pregate adunque il Signore, per non sbagliare la strada anche essendo secolari. - Ora non ci vogliam pensare; ci penseremo poi. - E quando ci vorrete pensare? Quando non sarete più a tempo? Perciò preghiamo, facciamo delle buone comunioni, miei cari figliuoli. Preghiamo sovratutto per colui che ha da morire avanti che si faccia l'altro esercizio della buona morte. Se fossi io colui che ha da morire? Pregate anche per me, che anch'io pregherò per quello fra di voi che il Signore ha destinato di chiamare a sè.
Il giorno dopo interrogato privatamente, soggiunse:
- Il cognome del primo che deve partire per l'eternità ha per iniziale la lettera F.
Si noti che circa trenta alunni portavano il cognome con questa iniziale, e in casa tutti i giovani stavano bene di salute. [56]
In quel frattempo trovavasi Giovanni Bisio nella camera di D. Bosco, e questi gli disse:
- Mi dispiace che il Signore mi prenda sempre i giovani più buoni.
- È dunque qualcuno di questi che deve morire? gli domandò Bisio in confidenza.
- Sì, è il giovane che si chiama Antonio Ferraris. Sono però tranquillo, perchè è molto virtuoso ed è preparato.
Bisio gli domandò come avesse potuto conoscere quel mistero; e D. Bosco gli raccontò il sogno con tutta semplicità, senza accennare menomamente che fosse un dono sovrannaturale: e in fine gli soggiunse:
- Tu però sta'attento; e mi avvertirai perchè possa andare ad assisterlo negli ultimi giorni della sua malattia.
Intanto il Ferraris incominciava a provare un malessere che lo costringeva a recarsi a quando a quando in infermeria. Da principio parve che il suo incommodo fosse una cosa leggera, ma non tardò a manifestarsi la gravità della malattia. Allora Don Bosco recavasi al suo letto col dott. Gribaudo, il quale riconobbe in pericolo la vita dell'infermo. Questi invece pareva avesse dimenticato il sogno fatto nell'anno antecedente e da noi esposto nel 7° volume.
D. Bosco ascoltò senza dar segno di commozione quella sentenza ed affettuosamente ispirò coraggio al caro alunno come se nulla sapesse del suo avvenire; e col tornare sovente a visitarlo recavagli una grande consolazione.
La madre era venuta all'Oratorio, mentre lo stato del figlio non appariva troppo allarmante. Dopo averlo assistito per qualche giorno, ella che stimava D. Bosco un santo, disse a Bisio prendendolo a parte:
- D. Bosco che cosa ne dice di mio figlio? Morrà o vivrà?
- Perchè mi fa questa domanda? rispose Bisio.
- Per sapere se debbo fermarmi, oppure ritornare a casa mia. [57]
- E quale sarebbe la disposizione dell'animo suo?
- Sono madre, e naturalmente desidero che mio figlio guarisca. Del resto faccia il Signore ciò che crede pel suo meglio.
- E le sembra di essere rassegnata alla volontà di Dio?
- Ciò che farà il Signore, sarà ben fatto.
Bisio, vedendo quella disposizione di animo generoso, esitò alquanto, poi le disse:
- Allora si fermi: D. Bosco assicura che suo figlio è un bravo giovane ed è ben preparato.
Quella madre cristiana intese, versò alcune lagrime senza uscire in smanie, e come ebbe dato quel primo sfogo al suo dolore:
- Se è così, soggiunse, mi fermo.
Bisio le aveva detto di fermarsi, perchè, facendo il calcolo dal giorno per cui era fissato l'esercizio della Buona Morte, secondo la profezia di D. Bosco non restavano al figlio più di cinque o sei giorni di vita.
Ferraris Antonio moriva il giovedì 16 marzo nel mattino. Aveva ricevuti tutti i conforti della religione. Stava per entrare in agonia quand'ecco apparire in infermeria D. Bosco che avvicinatosi al suo letto gli suggerisce giaculatorie, gli dà l'ultima assoluzione e gli raccomanda l'anima.
Questa morte avvenne prima che fosse compiuto il secondo esercizio della Buona Morte.
Giovanni Bisio, che espose con giuramento la parte che ebbe in questo fatto, conclude il suo racconto: “D. Bosco ci narrò molti altri sogni sulle morti future di giovani dell'Oratorio, che noi tenevamo quali profezie e tali li riteniamo ancora attualmente, essendosi sempre avverate appuntino. In sette anni ch'io fui all'Oratorio non morì mai alcun giovane senza che egli l'avesse predetto. Eravamo pure persuasi [58] che chi moriva nell'Oratorio, sotto la sorveglianza ed assistenza di lui doveva andare in paradiso.”
D. Bosco la sera stessa del 16 marzo così parlava ai giovani:
Io vi veggo tutti ansiosi per conoscere da me quali fossero gli ultimi istanti del nostro Ferraris e son qui per appagare il vostro giusto desiderio. Egli morì rassegnato; nella sua breve malattia sofferse molto, ma con grande serenità. Quando entrò nell'Oratorio mi disse: - D. Bosco, io son pronto a fare in tutto la sua volontà; io l'obbedirò in tutto; se vedrà che io manco, mi avvisi, mi castighi e vedrà che mi emenderò. -- Io gli promisi che avrei fatto tutto ciò che avrei potuto per il benessere dell'anima sua e del suo corpo. Molte volte mi replicò questa preghiera, e tutte le volte che dovetti avvisarlo si corresse subitamente. Egli non avea, si può dire, volontà; tanto era obbediente. Il suo professore mi disse che nella scuola era tra i primi per diligenza e studio. Quando si ammalò, io andai tosto a visitarlo avendo il medico riconosciuto subito la gravità del male. Gli domandai se il giorno di S. Tommaso voleva fare la Comunione. Ei mi rispose:
- Ho da vestirmi e andare in chiesa cogli altri? Son troppo debole.
- A questo si rimedia; Gesù in Sacramento ti verrà portato in camera. Sei contento?
lo gli domandai: - Hai niente che ti turbi la coscienza? Avresti qualche cosa da dirmi? - Ei ci pensò alquanto e poi mi rispose: - Non ho niente! -
Che bella risposta! Un giovane che si avvicinava alla morte, che sapeva di dover morire, risponde: -Non ho niente! - con tutta la tranquillità e serenità di mente.
- Dimmi, vai volentieri in paradiso?
- Sicuro, mi rispose, così vedrò una volta a faccia a faccia, come è il Signore, del quale ho sentito dir tante e magnifiche cose; e capirò com'è fatta l'anima mia.
- Una cosa sola: che mi aiuti ad andare in paradiso.
- Sì! ma non mi domandi altro?
- Aiuti anche tutti i miei compagni a guadagnare il cielo. - Gli promisi che avrei fatto il possibile. Stamane egli era molto aggravato, e non poteva più parlare; il catarro lo soffocava.
Dopo aver io detto a Rossi che appena l'infermo accennasse di [59] andar in agonia mi avvisasse, mi incamminai per uscire. Egli aveva gli occhi chiusi, era abbattuto di forze, ma aveva fatto appena un passo che egli aperse gli occhi e si diede a dimenare le braccia e il corpo, gittando grida soffocate: -Ah! ah! ah! - Ritornai indietro, gli domandai che cosa volesse; e si sforzò a dire che voleva morire avendomi al suo fianco. Gli risposi che si quietasse, che andavo in camera per accomodare alcune carte e che sarei tornato, appena fossi avvisato esser vicino l'ultimo suo momento. Andai in camera, e, dopo aver lavorato alquanto, si venne a dirmi che l'ammalato peggiorava ogni momento più. Andai tosto e vidi che era aggravatissimo, ma non stimai sì imminente la morte. Quindi mi mossi per ritornare in camera. L'ammalato aperse di nuovo gli occhi mettendo lo stesso grido: - Ah! ah! ah! - Il poverino tutte le volte che mi allontanava, se ne accorgeva. Dopo pochi istanti venne di nuovo Rossi a chiamarmi. Corsi: infatti era in agonia, più non respirava, ma il suo polso batteva ancora. Dopo qualche minuto con un sospiro rese l'anima al Signore.
Ferraris aveva preso una costipazione, la quale unita a riscaldamento in breve tempo lo trasse alla tomba. Egli morì tranquillissimo. Sofferse molti dolori con vera rassegnazione, senza un lamento. La morte non gli faceva paura: non avea niente che lo rimordesse. Ciascun di noi, miei cari figliuoli, vorrebbe trovarsi al posto di Ferraris. Io son persuaso che egli andò diritto in paradiso e volentieri cambierei il mio posto col suo. Tuttavia domani si dirà il rosario da morto pel riposo della sua anima. Quei della sua scuola domani sera accompagneranno il suo corpo alla parrocchia.
Finisco con un avvertimento. Quando io verrò qui ad annunziarvi che un altro ha da morire, per carità datemi sulla voce, essendovi qui alcuni che restano troppo spaventati a questi annunzi, e scrivono ai loro parenti che li tolgano dall'Oratorio, perchè D. Bosco annunzia sempre che qualcuno ha da morire... Ma ditemi: se io non lo avessi annunziato, Ferraris si sarebbe preparato così bene a presentarsi al tribunale di Dio? Egli, è vero, era un buon figliuolo, ma in quel punto chi può dirsi assolutamente preparato a subire il rigoroso giudizio che darà il Signore? Ferraris fu ben fortunato per essere stato avvisato. Da qui avanti non dirò dunque più nulla; non avviserò più. (Molle voci: No! no! dica! dica!) Ma a coloro che hanno tanta paura della morte io dico: - Figliuoli miei, fate il vostro dovere, non tenete discorsi cattivi; frequentate i Sacramenti, non solleticate la gola e la morte non vi farà paura.
Quando annunziò la morte di Ferraris, D. Bosco aveva detto: “Più di uno, anzi molti, avanti che passi gran tempo sa [60] ranno nella tomba”. Chi rilegge il contesto di quel discorso, subito si avvede che le parole di D. Bosco avevano un significato molto generico basato sulla brevità della vita; tuttavia, come consta dal Necrologio e da' registri parrocchiali, altri dell'Oratorio passarono all'eternità in quest'anno, come vedremo.
Mentre istruiva colla voce gli alunni, colle Letture Cattoliche continuava la sua missione nei popoli. Per marzo ed aprile uscivano le Memorie storiche del Teol. Giovanni Ignazio Vola sacerdote Torinese. Erano scritte dal Canonico Lorenzo Gastaldi con tanta unzione da servire come un vieni meco del clero in generale e specialmente di quello che andava crescendo trepida speranza della Chiesa. Il Teologo Vola, morto il 6 febbraio 1858 in età di 61 anno, modello dei sacerdoti, era stato grande amico di D. Bosco e dell'Oratorio.
Per maggio si doveva pubblicare la Storia dell'Inquisizione ed alcuni errori alla medesima falsamente imputati, pel sacerdote Pietro Boccalandro Rettore di S. Marco in Genova; ove si fa cenno delle orribili e sanguinose inquisizioni de' Protestanti calunniatori contro i Cattolici.
Al fascicolo sono aggiunte alcune appendici delle quali abbiamo le bozze corrette da D. Bosco e qualche periodo della sua penna. È uno sfogo della sua divozione ardente per Maria.
La prima appendice è un bel raccontino col titolo: Maria provvidenza e soccorso di chi la prega. Egli lo conclude così: “Lettore, ovunque tu sia, qualunque cosa tu faccia, tu puoi con una preghiera ricorrere alla Santa Vergine Maria. Ma ricorri con fede, che Ella è una madre pietosa la quale vuole e può beneficare i suoi figliuoli. Pregala di cuore, pregala con perseveranza, e sta' sicuro che Ella sarà anche per te una vera provvidenza, un pronto soccorso nei tuoi bisogni spirituali e temporali”.
La seconda appendice, col titolo Varietà, comprende cinque [61] esempi della protezione di Maria invocata ed ottenuta. Il quinto esempio descrive l'apparizione di Maria SS. a S. Stanislao Kostka infermo, allorchè gli fece espresso comando di entrare nella Compagnia di Gesù. D. Bosco vi aggiunge di sua mano: “Cristiani, che amate di essere cari a Maria, pregatela di cuore che vi ottenga questa bella grazia di consacrarvi totalmente a Dio. Ditele che Ella così vi tolga dai grandi pericoli del mondo; che vi faccia, poichè Ella può tutto, di questi comandi che fece a Stanislao, e voi prontissimi l'obbedirete. Questa grazia di essere chiamato allo stato religioso richiedeva sempre fin da fanciullo il venerabile padre Carlo Giacinto a Maria, e la ottenne”.
Intanto D. Bosco occupavasi anche nello scrivere la vita della venerabile Serva di Dio, Maria degli Angeli, Torinese, monaca professa dell'Istituto delle Carmelitane Scalze. Il 14 maggio di quell'anno era deciso che nella Basilica Vaticana, co' riti consueti, avesse luogo la solennità della beatificazione di questa Venerabile suora: perciò in Torino si doveva procedere dai delegati della Santa Chiesa all'ultima ricognizione di quel sacro corpo. Nel 1802, per ordine dell'Arcivescovo, dal monastero di Santa Cristina, chiuso e ridotto da Napoleone I ad uso profano, era stato trasferito nella chiesa di S. Teresa e quivi collocato nel coretto a destra dell'altar maggiore. Di qui adunque fu estratto il 14 marzo del 1865. Fatti i dovuti esami, e trovata ogni cosa in perfetto accordo colle antiche memorie, dalle autorità ecclesiastiche e civili fu nuovamente riconosciuto essere quello il vero corpo della Venerabile. Assistettero a quella divota funzione il Vescovo di Cuneo, il Vicario Capitolare della Diocesi e molte altre ragguardevoli persone ecclesiastiche e secolari. Vi era pure D. Bosco invitato a servire da testimonio, e con lui il Conte Cays e il Barone Bianco di Barbania. All'aprirsi della cassa si sparse all'intorno un odore soavissimo che durò qualche tempo.
A questo punto delle nostre Memorie dobbiamo necessariamente illustrare un fatto che servirà d'introduzione a un'epoca fra le più gloriose della vita di D. Bosco.
In tutta l'Italia cento otto sedi Vescovili erano vacanti, nel tempo che maggiore diveniva il bisogno di guida e di conforto ai fedeli. Quarantacinque Vescovi erano stati mandati in esilio; a diciasette eletti dal Papa il Governo non aveva permesso di entrare nelle loro Diocesi: delle altre sedi erano morti i titolari. Negli antichi stati del Piemonte, diciotto Vescovi, chi per l'età avanzata, chi perchè logoro dalle fatiche e dalle pene, erano scesi nella tomba senza che fosse dato loro un successore.
I ministri del Regno non se ne prendevano pensieri, perchè stava ne' loro disegni il ridurre il numero delle diocesi; e al Papa non era possibile provvedere, finchè durava l'asprezza [63] nelle relazioni tra la Chiesa e il Governo. Erano passati pochi mesi dalla pubblicazione del Sillabo, che aveva fatto andare sulle furie i settarii di tutto il mondo.
D. Bosco gemeva vedendo le cose religiose volgere in così misero stato; e dopo aver molto pregato e fatto pregare da' suoi alunni, preso consiglio da persone autorevoli, deliberò di iniziare pratiche presso gli uomini del Governo per indurli a por fine ad una condizione di cose, cotanto pregiudizievoli alla Chiesa e alla stessa civile società. Egli non riputava impossibili a superarsi gli ostacoli posti dai faziosi. Avevano detto le mille volte di volere che la Chiesa fosse libera e di essere contenti che il Papa si occupasse dei negozii strettamente religiosi ed ecclesiastici, esclusa ogni questione territoriale. Non era dunque il caso di appellarsi alla lealtà delle loro proteste?
D'altra parte non tutti gli uomini di Stato erano mossi da odio contro la Chiesa, ma venivano strascinati dalla rivoluzione, benchè ripugnanti. Gli uni per una politica, nota a D. Bosco perfettamente propendevano a mostrarsi arrendevoli in certe proposte parziali a vantaggio della Chiesa, altri con qualche concessione si sforzavano di attutire i rimorsi della loro coscienza col lusingarsi di aver fatto anche un po' di bene; ve n'erano poi di quelli i quali per motivi personali, per riguardi verso famiglie di grande importanza, professavano opinioni moderate.
D. Bosco li aveva già avvicinati, colla solita sua prudenza, per affari dell'Oratorio, per sfatare certe accuse che i maligni avevan mosse contro certi Vescovi, per togliere impedimenti a qualche collazione di benefici, o per ottenere una sovvenzione o una dotazione a qualche parrocchia.
Non è quindi a stupire che si accingesse a perorare la causa delle diocesi italiane, e che, a più riprese, per circa dieci anni perseverasse in questa nobilissima difesa. Aveva incominciato, col mezzo di alcune sue alte attinenze ad investigare le disposizioni [64] di animo di alcuni ministri, dopo di aver chiesto in cosa di tanta importanza l'approvazione del Sommo Pontefice. Da qualche tempo uno scambio di lettere avveniva tra lui e Pio IX, come consta dalle nostre Memorie del mese di febbraio 1865, delle quali però non si conobbe il contenuto. Il Venerabile stesso deve averle distrutte. D. Emiliano Manacorda fu il fidato intermediario di questa corrispondenza.
Intanto il Re Vittorio Emanuele era stato avvisato che il Papa gli avrebbe scritto una lettera.
Pio IX infatti, guardando solo al bene delle anime, di propria iniziativa aveva deliberato di porgere ai nemici della Chiesa Cattolica un'occasione opportuna di corrispondere agli inviti della grazia divina. Il 6 marzo scriveva una lettera al Re, piena di benevoli espressioni, nella quale lo pregava di tergere almeno qualche lagrima alla travagliata Chiesa in Italia, venendo seco lui ad intelligenze per provvedere ai Vescovati; e gli proponeva di mandare a Roma una persona laica di sua confidenza, per trattare sul modo di porre un termine a quelle vacanze.
La lettera, perchè non fosse intercettata da chi poteva averne l'interesse, fu consegnata al commendatore Adorno, di Firenze, il quale la presentò al Re. Questi, a cui erano stati sempre incresciosi i dissidii col Papa, accolse con piacere l'invito e disse all'Adorno:
- Sono sette mesi che aspettavo questa lettera del Papa!
E rispose dal palazzo Pitti al Pontefice, con dichiarazioni di ossequio, promettendogli di spedire a Roma un inviato per entrare in trattative.
La proposta del Papa fu tosto trasmessa al Ministero e questo si dimostrò propenso a secondarla, senza però assumere impegni che fossero per sconcertare i disegni politici di un'Italia una e indipendente.
Si formularono quindi le seguenti istruzioni per chi sarebbe stato inviato a Roma: [65]
1°Ammesso in generale il ritorno dei Vescovi assenti, con restrizioni ed eccezioni riconosciute di comune accordo opportune.
2° Ammesso il riconoscimento de' Vescovi preconizzati, salve eccezioni che per considerazioni speciali la Santa Sede non escludeva interamente.
3° Le nomine ai Vescovati, sprovvisti di titolari, limitate alle sedi episcopali che dovrebbero essere conservate in una revisione ulteriore delle circoscrizioni diocesane.
4° Le prerogative regie dell'exequatur e del giuramento, attualmente mantenute senza distinzione per tutti i nuovi Vescovi, ma applicate in forme che non possano nè eccitare le suscettibilità legittime della Corte di Roma, nè implicare questioni politiche.
Fra quelli che si mostravano più inclinati a far sì che le pratiche avessero un esito conforme al desiderio del Santo Padre, era Lanza, ministro per gli affari interni. Questi avrebbe voluto che nella nomina dei Vescovi si accordassero alla Santa Sede tutte quelle maggiori larghezze che non fossero pericolose alla sicurezza dello Stato; e che il principio di “libera Chiesa in libero Stato” incominciasse a passare allo stadio dei fatti. Insisteva che alla libertà più ampia s'informassero tutti gli atti del Governo; e desiderava che l'Italia, anche nelle materie religiose, abbandonasse le restrizioni d'altri tempi, lasciando la maggior libertà possibile d'esplicazione a tutte le religioni, e anche alla Cattolica[2].
Sotto l'aspetto pratico poi, il Lanza, come altri ministri, partiva dal concetto che la “Convenzione di settembre”, riservando soltanto i casi eccezionali, obbligava il Governo Italiano a rinunziare ai mezzi violenti per acquistarsi Roma. Sperava che con quelle concessioni si sarebbe aperta la via ad altri accordi col Papa, specialmente in materie commerciali, [66] e si sarebbe giunti ad accomunare talmente gli interessi del piccolo Stato Pontificio con quelli della rimanente Italia, da riuscire a sostituire in tutto l'influenza di questa a quella dì potenze straniere, e a raggiungere le scioglimento della questione romana, sopra il terreno pacifico della conciliazione e della libertà della Chiesa.
D. Bosco non divideva certamente le idee di questi signori, ma più volte parlando della nomina dei Vescovi (e noi l'abbiamo udito) sosteneva essere di interesse del Governo, di mostrarsi leale nell'osservanza della “Convenzione di settembre”, dar prova all'Europa delle sue benevoli disposizioni verso gli interessi spirituali della Chiesa, e contentare le popolazioni facendo sicuro assegnamento sul loro buon senso, il quale non avrebbe permesse dimostrazioni imbarazzanti. Ciò D. Bosco aveva ripetuto e dimostrato in certi convegni frequentati anche da uomini politici. Ed ecco giungergli il seguente invito da parte del Ministro Lanza:
Il sottoscritto, d'ordine del Ministro, avrebbe d'uopo di conferire colla S. V. Rev. ed Onorevolissima.
Se così le piace, potrebbe venire da me in ora di ufficio a suo piacimento.
Il Servo di Dio non mancò di recarsi al Ministero e tornato all'Oratorio, avendogli chiesto qualcuno di quali cose si trattasse, rispose:
- Un affare di altissima importanza!
Dopo questo primo abboccamento, D. Bosco fu chiamato più volte dal Ministro dell'Interno. Infatti egli era l'uomo che poteva in quel momento conoscere meglio di ogni altro le disposizioni degli animi nella Corte Romana; prevedere quale [67] inviato tornerebbe più gradito al Papa ed ai Cardinali; suggerire chi avrebbe potuto far buoni uffizi in Roma per l'esito delle trattative. Di questo delicatissimo incarico più tardi egli ci fece qualche cenno, ma sul principio s'imponeva la segretezza.
Fra l'altro Don Bosco ci narrò il modo famigliare col quale avealo trattato il Lanza. Un giorno, essendo presente qualche altro Ministro, questi gli diceva:
-Ma Lei, D. Bosco, mi dica un poco, come fa a far tante spese? dove prende tanto danaro per mantenere tanti giovani? questo è un segreto ed un mistero.
-Signor Ministro, rispose D. Bosco, io faccio come fa la macchina a vapore.
- Ma come? si spieghi!... io non intendo questo gergo.
- Vado avanti, riprese D. Bosco: facendo: puf, puf, puf, puf[3]
- Questo s'intende, mio caro abate, disse il Lanza; ma questi puf bisogna pur soddisfarli, ed è qui dove sta nascosto il suo segreto.
- Veda, signor Ministro, le dirò che entro la macchina ci vuole del fuoco; perchè vada avanti e proceda bene, ha bisogno di alimento...
- Ma di che fuoco intende lei parlare?... lo interruppe il Ministro.
- Del fuoco della Fede in Dio, rispose D. Bosco; senza di questo cadono gli imperi, rovinano i regni e l'opera dell'uomo è nulla!
Queste parole pronunziate come alcune volte soleva pronunziarle il Servo di Dio, resero pensoso l'interlocutore.
Il Ministero aveva pensato di mandare a Roma il Senatore Michelangelo Castelli, ma infine prescelse il deputato Comm. Saverio Vegezzi, un uomo attempato, onesto e leale, [68] sommo giurista ed espertissimo negli affari: ma gli fu messo a fianco, per le solite diffidenze, l'avvocato Giovanni Maurizio genovese, il quale però fu sempre un ammiratore e anche un amico di D. Bosco. Le istruzioni date a voce al Vegezzi erano assai larghe e rivelavano nel Governo la speranza di un accordo e il proponimento di abbondare nelle concessioni. Si sarebbe andato sino alla soppressione dell'Apostolica Legazia nelle provincie meridionali, concessione che doveva tornar cara al Papa e che d'altronde era conforme alla massima di libera Chiesa.
L'Avvocato Vegezzi partì col suo compagno, avendo carattere meramente confidenziale, il 14 aprile Venerdì santo; ed ebbe cortesi accoglienze dal Papa che gli parlò coll'espansione consueta.
Tenne pure varie conferenze col Card. Antonelli, il quale era stato informato da Torino; e, trattando sempre in forma confidenziale, convennero che anzi tutto si lasciasse da parte ogni questione politica. E, si venne in quest'accordo: per le diocesi vacanti nel Piemonte il Re avrebbe presentato i candidati a norma del Concordato esistente; quelli delle Provincie di cui erano scomparsi i principi, li nominerebbe il Papa direttamente, facendone conoscere al Re i nomi prima di preconizzarli; i vescovi assenti potrebbero ritornare, eccetto alcuni per speciali circostanze personali o locali; si conserverebbero intatti i beni delle mense.
Roma non mostrossi aliena dal riformare alcune circoscrizioni diocesane: ma non ammise l'exequatur per le Bolle Pontificie ed il giuramento; e l'inviato del Governo d'Italia riconobbe che Essa era dalla parte della giustizia, quando, per formalità ormai viete, non voleva avvilupparsi in una questione che compromettesse i suoi principii politici e economici. Il Vegezzi l'aveva riconosciuto con tanta lealtà, che nel cuore del Santo Padre si dovè far luogo alla speranza di poter finalmente provvedere in qualche modo a tanta diletta parte del suo gregge. [69] Però appena si ebbe contezza nel pubblico della lettera scritta dal Sommo Pontefice al Re Vittorio Emanuele e trapelò che questi gli aveva manifestato la propensione sua a secondarne i voti, la setta si pose in agitazione.
Fin nel Parlamento, il 25 aprile, alcuni deputati con mala fede e slealtà rinfacciarono al Governo la missione data al Vegezzi accusandolo di venire a patti col Pontefice e sostenendo che la vacanza delle diocesi non era di alcun danno. Nello stesso tempo il giornalismo settario si levava furiosamente e con minacce per impedire il proseguimento delle trattative. Anche le logge massoniche si convocavano e prendevano deliberazioni contro qualsivoglia accordo colla Santa Sede, e in tutte le città d'Italia adunavansi assemblee tumultuose nelle piazze, nelle osterie e nei teatri per protestare contro quella iniziativa con bestemmie orrende ed empietà inaudite. Con queste dimostrazioni i settari ebbero in pugno l'arma della così detta pubblica opinione, di cui abbisognavano per attraversare efficacemente i desiderii del Santo Padre ed impedire ogni effetto delle buone disposizioni per parte del Re.
Per tal guisa, mentre parea ornai vicino un accordo col Papa, profondi e palesi dissidii erano sorti fra i ministri, che attraversavano fortemente per varie guise i disegni del Vegezzi. I moderati si sarebbero contentati di una semplice formola di registro in quanto all'exequatur; sì mostravano arrendevoli quanto al ritorno incondizionato ai Vescovi esigliati; non insistevano sopra la diminuzione delle Diocesi. Invece il Ministro Vacca, guardasigilli, gettava sempre nuovi impacci tra i piedi dei colleghi in modo da riuscire insopportabile.
Vegezzi aveva notificato al Regio Governo i preliminari delle trattative e poichè il Ministero, che aveagli ristrette le facoltà, o non rispondeva, o rispondeva inadeguatamente, si recava egli stesso a Firenze il 5 maggio, per meglio chiarire la condizione delle cose e ricevere personalmente le definitive istruzioni; ma vide presto dileguarsi le concepite speranze. [70] Nei Ministri che avevano presa stabile dimora nella nuova capitale trovò durezza, in alcuni per rancori personali, in altri per tenacità ai diritti regii, nel Natoli principalmente per decisa avversione ad ogni principio cristiano. Le proposte di Roma furono definitivamente discusse nel consiglio dei Ministri; Natoli, Vacca, Petitti e Sella non vollero transigere sul giuramento e sul regio exequatur; e prevalsero.
Loro scopo evidente era di estorcere per indiretto dalla Santa Sede un riconoscimento formale del nuovo regno, comprese le Provincie Papali annesse, oppure di rompere le pratiche. In quanto ai Vescovi assenti, pel ritorno alle loro diocesi, s'imponeva ne facessero domanda al Re o al Ministro di Grazia e di Giustizia, e scrivessero una lettera pastorale in cui promettessero di osservare le leggi.
Il Vegezzi il 2 giugno porto a Roma queste condizioni che egli stesso confessò al Cardinale Antonelli non essere accettabili; e tale fu pure il giudizio di una speciale Commissione di Cardinali. La Santa Sede tuttavia propose ancora che si venisse alla nomina dei soli Vescovi del regno Sardo, e al ritorno di quelli esiliati. Il Vegezzi rispose che ne avrebbe informato il suo Governo; e il 22 giugno vi fu l'ultimo incontro del Comm. Vegezzi col Cardinale, cui il Commendatore ebbe a dire che gli risultava, dalle risposte ricevute da Firenze, come il Governo Italiano persistesse nelle sue ultime proposte e che aveva solamente acconsentito al ritorno dei Vescovi esiliati, tranne alcuni. Così cadde ogni trattativa. Quando il 23 giugno il Vegezzi domandò udienza di congedo, il Santo Padre volle che fosse ricevuto cogli onori della sua anticamera; gli diede lunga udienza; e poichè il Vegezzi gli diceva:
- Spero che le trattative siano non rotte, ma solo interrotte!
-Dipende dal vostro Governo, rispose il Papa; le mie basi ora sono note, e non posso allontanarmi da esse; basta che il vostro Governo le accetti. [71] Vegezzi, fatto senatore, dopo il 1870 non mise più piede in Senato.
Intanto i giornali della rivoluzione annunciavano che gli intrighi del partito fanatico avevano mandato ogni cosa a male, malgrado le generosissime offerte e concessioni fatte al Papa dal Governo. In questo senso fu redatta la relazione al Re sull'esito della Missione Vegezzi, ma il Lanza, addolorato e sdegnato si rifiutò di firmarla e fu in procinto di ritirasi dal Ministero. Allora, affinchè non si venisse a conoscere chi fosse il Ministro che non si trovava d'accordo co' suoi colleghi, fu deciso che il solo La Marmora l'avesse a firmare[4].
D. Bosco era stato informato di tutte le fasi di queste trattative ed aveva provato una pena grande nel vedere variate e distrutte le primitive basi, sulle quali eransi fondate tante speranze. Tuttavia non si perdette di coraggio e noi vedremo più tardi come egli si adoperasse perchè le trattative fossero riprese.
Intanto continuava a manifestarsi l'odio inflessibile contro la Chiesa che bruciava l'anima di certi settari Tanucciani.
Il 1° luglio la Gazzetta Ufficiale del Regno pubblicava il decreto con cui si promulgava il nuovo codice civile e si istituiva legalmente il matrimonio civile. Il Senato, il 29 marzo, aveva passata questa legge con 70 voti favorevoli sopra 104 votanti.
A Ferrara il 30 luglio le Teresiane adoratrici perpetue erano scacciate dal loro monastero, per stabilire in questo un ospedale militare. Era intimato alle monache di sgombrare entro un giorno.
A Bologna nel pomeriggio del 14 agosto le Suore Salesiane, in numero di 50, ricevevano l'ingiunzione di sgombrare dal Convento ed educatorio prima di sera. Non si accordò loro nemmeno la proroga di 12 ore che avevano chiesta. [72]
Il 25 agosto il Ministro dell'Istruzione Pubblica Natoli, fatta compilare una statistica degli Istituti e dei collegi-convitti de' corpi religiosi di ambo i sessi, la presentava al Re con una sua relazione proponendogli di abolirli tutti in un colpo. L'istruzione data nei medesimi, egli affermava, più non consuona colle idee che l'età nostra ha adottato in materia d'insegnamento. E i collegi ed istituti dei quali domandava l'abolizione erano nientemeno 1112.
Il 30 agosto i Cardinali Arcivescovi di Benevento e di Napoli, gli Arcivescovi di Sorrento e Reggio, i Vescovi di Anglona e Tursi, di Aquila, di Nuoro e Patti, scrivevano una stupenda lettera al Re, chiedendo di poter ritornare nelle loro diocesi, dalle quali erano stati espulsi, per assistere le loro popolazioni flagellate o minacciate dal colera. Il Re non rispose e Paolo Cortese, Ministro di grazia e giustizia, scrisse ai Procuratori generali ordinando severamente che si proibisse a quei Vescovi, sotto qualunque pretesto, il ritorno alle loro diocesi, finchè non fossero compiute le elezioni. La stessa proibizione venne fatta ai Vescovi di Ascoli e di Aversa, e a quello di Foggia, relegato a Como dopo due anni di prigionia.
Il Natoli, che era divenuto anche Ministro degli affari interni, per aver il Lanza date le sue dimissioni, imponeva ai Vescovi condizioni impossibili riguardo le scuole secondarie dei Seminarii, per costringerli a chiuderle da sè o trar pretesto dal loro diniego per chiuderle egli stesso. Difatti così venne a capo di chiudere 58 seminarii. Ei pensava, dopo averne occupati i locali, di riaprirli, laicizzati e affidati ai municipi, con due terzi delle rendite confiscate; e comunicava il suo progetto ai Prefetti del Regno il 15 settembre.
Il 19 settembre il Guardasigilli Paolo Cortese vietava con una circolare le sacre processioni, rimettendo all'arbitrio dei Prefetti il darne la licenza, e sul fine dello stesso mese proibiva ai Vescovi di Caserta e di Gaeta di fare la visita pastorale. [73] Questo stesso Ministro preparava un nuovo colpo contro i diritti della Gerarchia Cattolica, cioè una nuova circoscrizione delle Diocesi nell'intento manifesto di scemare il numero dei Vescovi, e di incamerare i beni delle Sedi abolite. Le diocesi che erano 231, dovevano essere ridotte a 59, e il 3 novembre chiedeva a questo fine informazioni ai Prefetti del regno.
Il 28 novembre il Natoli rendeva conto al Re del risultato di una inquisizione sui Seminarii, dato anche alle stampe. Le diocesi possedevano, prima del 1860, 263 seminarii; 82 erano già stati aboliti, e 122 proponevasi che lo fossero egualmente, sicchè soli 59 fossero conservati, cioè uno per diocesi secondo il progetto Cortese.
Il 18 novembre aveva luogo a Firenze la solenne apertura del nuovo Parlamento, nel salone de' Cinquecento. Giorni prima Vittorio Emanuele aveva detto ai membri del Municipio e a varie deputazioni venute ad ossequiarlo:
- A Roma andremo e andremo a Venezia: per quella siamo in via, per questa ci vuol sangue.
E nel discorso della Corona, messogli tra le mani dal Ministero, fra le altre cose leggeva: “Nel chiudersi dell'ultima legislatura, per ossequio al Capo della Chiesa, e nel desiderio di soddisfare agli interessi religiosi delle maggioranze, il mio Governo accolse proposte di negoziati colla Sede Pontificia; ma li dovette troncare quando ne potevano restare offesi i diritti della mia corona e della nazione (applausi). La pienezza dei tempi e la forza ineluttabile degli eventi scioglieranno le vertenze tra il regno d'Italia e il Papato. A noi intanto incombe di serbar fede alla Convenzione del 15 settembre, cui la Francia darà pure, nel tempo stabilito, esecuzione completa”.
E in novembre le truppe francesi sgombravano dalle provincie meridionali degli Stati della Chiesa e una brigata del Corpo di occupazione ritornava in Francia. In Roma e su [74] quel di Viterbo e di Civitavecchia rimanevano ancora circa 10.000 soldati francesi.
Con questi accenni abbiam dovuto dipingere l'ambiente, nel quale lavorò tanto anche D. Bosco, per far meglio comprendere di qual forza di volontà e di quale serenità di mente lo avesse fornito il Signore per compiere tutta la sua missione.
La missione del Comm. Vegezzi a Roma ci ha distratti alquanto dall'osservare D. Bosco in mezzo ai suoi giovani e noi torneremo a rivederlo al punto nel quale l'abbiamo lasciato.
L'antica vita patriarcale nell'Oratorio, in mezzo a tanta moltitudine, a poco a poco, gradatamente e per necessità delle cose doveva modificarsi e dar luogo ad un ordine disciplinato, [76] e direi così, materiale, che prima era molto blando, come già notammo altrove. A Don Bosco ripugnava veder tramontare, almeno in parte, quella cara vita di famiglia che per tanti anni era stata la sua consolazione; ma vir prudens dirigit gressus suos. Doveva dare adunque nuove disposizioni, e in queste non procedeva a salti, ma con regolarità secondo il bisogno della Casa e vi predisponeva sempre gli animi perchè accettassero con deferenza ciò che voleva prescrivere. Era però fermo nelle sue risoluzioni. Mentre in privato continuava ad usare le espressioni ti prego, fammi il piacere, in pubblico non di rado sapeva dire un voglio, risoluto sì, ma sempre con calma e senza tono d'imperio.
Alcuni suoi discorsi serali, conservatici dalla cronaca, provano la nostra asserzione. La sera del 19 marzo parlava così:
La novena di S. Giuseppe è trascorsa; ma io vorrei che continuaste a santificare questi giorni che precedono la festa di Maria V. Annunziata dall'Angelo. Non ve l'ho detto avanti, perchè non voleva farvi interrompere la novena di S. Giuseppe. Voi adunque senza aggiungere per nulla divozioni straordinarie alle ordinarie, acciocchè non restino trascurati i vostri doveri, procurate di far tutti i giorni la Comunione, o spirituale o sacramentale, secondochè siete disposti. Gli esami semestrali sono ormai dati e vedo con piacere che nella maggior parte andarono bene; ma risulta che vi furono dei giovani i quali non corrisposero con troppa diligenza alle cure che ci prendemmo di loro: ve ne sono di quelli che vennero rimandati. Nè state a credere che questo esame influisca poco sulla vostra sorte. Vi deve interessare molto. È uso nel nostro Oratorio che tutti coloro i quali sono beneficati dalla Casa, quand'anche ottenessero sei punti su dieci, sono rimessi ai parenti; perchè sono indegni dei favori della Casa, quelli che nella Casa stessa non si diportano veramente bene. Notate che nella votazione si tiene conto di tutto. Si tiene conto del contegno in chiesa, in refettorio, nello studio, nella scuola: onde coloro che si credono di avere un buon voto, di avere un 10, avranno appena un 6, o un 8, e coloro che credono di aver ottenuto l'approvazione degli esaminatori troveranno che furono rimandati. La colpa di questo è tutta loro, perchè vennero avvisati abbastanza in tempo. Quindi chi paga una metà o un terzo di pensione, se ottenne solo un 6 bisognerà che abbia pazienza di pagar tutta intiera la pensione, e chi non ottenne i punti necessarii e fu rimandato, che subisca le conseguenze della sua condotta coll'andarsene [77] a casa sua. Tutti gli anni si fece così; tutti gli anni dopo gli esami semestrali alcuni furono mandati a casa e se venne fatta qualche rara eccezione, si fu in grazia di domande iterate, di promesse le più sincere e poi mantenute.
Un'altra cosa ho da dirvi. È già da qualche tempo che la voce degli assistenti non è più ascoltata come dovrebbe essere, specialmente in refettorio. Non si vuol tacere, si entra tumultuosamente, insomma è un vero disordine. Quindi vi prego di fare d'ora innanzi un fioretto alla Madonna, diportandovi in refettorio secondo comandano le regole della casa. Me lo promettete? (Sì, sì). Buona sera adunque.
Il 20 marzo D. Bosco rinnovava con risolutezza l'ultimo avviso dato la sera antecedente.
Ieri io vi aveva proposto per fioretto di stare in ordine e silenzio nel refettorio e credeva che l'avviso avesse bastato. Ma con mia sorpresa venni a conoscere che oggi si fece baccano anche più del solito. Queste sono cose che D. Bosco non può tollerare, perchè nella casa la disciplina è tutto. Si entra in refettorio urlando, urtandosi, che sembra che si entri non so dove; in refettorio si sta ridendo, ciarlando, invece di far silenzio; e si esce tumultuosamente come si è entrati. Gli assistenti non sono contati più nulla ed è come se non ci fossero. Lo so che la grande maggioranza sta all'ordine e sono circa una cinquantina coloro che mettono il disordine e che fanno ciò per gusto di baccano: quindi ho deciso che incominciando da domani si entrerà in refettorio per ordine. D. Savio vi disporrà in fila sotto i portici ed entrerete squadra per squadra; finito il pasto si uscirà a poco a poco, tavola per tavola, e così saranno ovviati tutti questi inconvenienti. Ordino nello stesso tempo agli assistenti che vigilino attentamente in refettorio e impongo loro per obbligo di coscienza, che mi facciano rapporto di tutto ciò che vi succederà e di chi commette disordine, chiunque esso sia.
Per contentarvi, poichè vi lamentate di certi assistenti, proibisco assolutamente agli assistenti di dare castighi; così nessuno avrà a lamentarsi. Nella casa non voglio che si castighi nessuno: ma voglio che si faccia rapporto a me e, lo ripeto, ne obbligo in coscienza gli assistenti. Io poi, chiunque sia che manchi, in qualunque modo manchi, lo rimanderò subito a casa sua, perchè non posso tollerare l'indisciplinatezza nell'Oratorio. D. Bosco è buono, tollera tutto, ma quando si tratta dell'ordine è inflessibile. Se si trattasse di manco di convenienza o d'altre cose che accadessero tra me e voi, vi passerei sopra: ma se si tratta di mancanza di rispetto agli altri superiori e il disordine è pubblico, allora non vi è più bontà che tenga. Cogli artigiani poi sopporto [78] più cose che cogli studenti. Gli artigiani assuefatti ad una vita più materiale sono compatibili se talvolta mancano: molti fra loro, mandati via, resterebbero in mezzo alla strada. Degli studenti non è così. Essi hanno già una sufficiente coltura di spirito ed un sentire più gentile, ed anche educazione, quindi sono obbligati a diportarsi in modo che niuno abbia a riprenderli di cosa alcuna. Gli studenti li voglio esemplari, altrimenti o vadano alle case loro, o facciano gli artigiani. E ciò perchè gli studenti, se sono rimandati alle case loro, non sono cacciati in mezzo ad una strada; nella maggior parte essi hanno famiglia o parenti i quali si prenderanno cura di loro. Dunque voi siete avvisati, ed io comincerò da domani. Siete stati avvisati molte volte nei giorni scorsi ed ora per forza bisogna prendere qualche determinazione. Sappiatevi regolare. Studenti cattivi non ne voglio nella casa.
Non ci volle di più. Il domani i giovani facendo rigoroso silenzio incominciarono a sfilare ordinati in squadre nei refettori, entrando ed uscendo. D. Angelo Savio, economo, cioè rivestito di una delle prime cariche dell'Oratorio, doveva mantenere gli ordini dati.
Ho da darvi una dolorosa notizia. È morto il Vescovo di Cuneo. Anche egli era stato incaricato di essere testimonio della verificazione del corpo della Beata Maria degli Angeli. Non si sentiva troppo bene di salute, ma avendo già provato altre volte che l'aria di Genova gli giovava molto, anche quest'anno sperava che da una gita in quella città avrebbe ricavati gli stessi vantaggi di altra volta. Infatti partì. Stassera, mentre mi trovava in camera, mi arrivò un dispaccio da Genova concepito in questi termini: Stamane alle 7 moriva in Genova Mons. Manzini Vescovo di Cuneo. Questo dispaccio mi colpì, perchè si trattava di un vero benefattore della casa. Tutte le volte che egli veniva a Torino si portava all'Oratorio e lasciava spesse volte vistose elemosine. Voi non vi potete ricordare d'averlo veduto perchè andava vestito da semplice prete. Egli amava grandemente la nostra casa e la favoriva in tutto quello che poteva. Fu una gran perdita per tutti la morte di questo uomo. Fu una perdita per la Chiesa cui venne a mancare un prelato di grande dottrina e, si può dire, di gran santità: era un uomo veramente dotto, pio e prudente. Fu una gran perdita per la diocesi di Cuneo, perchè veniva orbata di un vero suo padre. Fu una perdita per l'Oratorio, essendo egli uno dei più affezionati benefattori. Fu una perdita anche per me, perchè era uno sviscerato [79] mio amico e mi faceva si può dire da padre. Tutte le volte che io era incerto nel fare o non fare una cosa, tutte le volte che aveva bisogno di consiglio, a lui mi rivolgeva o per iscritto, o portandomi personalmente a Cuneo ed egli mi aiutava, mi consolava con pareri di vera prudenza. La sua casa si poteva dir casa mia, ove io mi fermava con maggior libertà che qui nell'Oratorio; tutte le volte che andava a Cuneo la mia dimora era presso di lui. Quindi la sua morte si può contare per una vera disgrazia. A tutti i modi sia fatta la santissima volontà dei Signore.
Si raccontano molti fatti intorno alla vita di questo Vescovo, i quali presto saranno dati alle stampe. Io ne so molti, parte uditi da persone che lo conobbero, degne di tutta fede; parte raccontatimi da lui stesso, quando ci trovavamo insieme nella casa del Baron Bianco di Barbania. Non già che egli contasse quei fatti per vantarsene, no! Egli come tutti i santi uomini era umile, e li raccontava come grazie speciali che la Vergine Santa, invocata, aveva concesse. Chi crede di essere santo è uno sciocco, mentre i veri santi si credono i più miserabili peccatori che esistano sulla terra: e quando il Signore fa delle grazie per le loro preghiere, essi le attribuiscono assolutamente all'uno o all'altro santo, mentre in quelle vi ha gran parte la loro fede.
Voglio contarvi ora un fatto che avvenne al Vescovo di Cuneo quando era ancor parroco, qui a Torino, nella chiesa di S. Teresa. Era stato chiamato ad assistere un moribondo ed era corso per compiere i doveri del suo ministero. Mentre si trovava presso quel moribondo, verso le due pomeridiane vennero con gran premura in canonica a dirgli che si recasse presso un'altra inferma, una madre di famiglia che era in gran pericolo. Egli non tornò a casa che verso le 7 di sera, ma, appena lo seppe, corse tosto dove era chiamato. Entrò, ma trovò che quella povera madre, sostegno della famiglia, era morta circa verso le 2. Il suo freddo cadavere era steso sul letto e un fioco lumicino illuminava mestamente la stanza. Il medico della città avea già fatto la ricognizione del cadavere. Questo aveva le mani legate e fra esse il crocifisso. Tutta la famiglia era in pianto: chi piangeva di qua, chi piangeva di là. Il dolore era grande, perchè avevano perduta la madre, colei che reggeva la casa e amministrava le sostanze, e principalmente perchè era morta senza poter ricevere i Santi Sacramenti. Il buon curato adunque disse parole di conforto alla famiglia radunata nella camera della defunta e li invitò tutti a pregare la Vergine SS. Sentiva nel suo cuore che Iddio avrebbe fatto qualche grazia straordinaria e, ponendosi egli stesso in ginocchio, pregò con tutto l'affetto dell'anima sua. Quindi si alza, ed invocato il nome di Gesù, benedice l'estinta. Dopo qualche momento la morta incomincia a muoversi, si siede sul letto con sorpresa di tutti gli astanti, chiede che le siano sciolte le mani, chiama tutti per nome e poi domanda di confessarsi. [80] Confessata che è, dà qualche consiglio a quei della famiglia, dà ancora qualche disposizione intorno a certi negozii, quindi di bel nuovo si corica rimanendo freddo cadavere come prima.
Avrei ancora molte altre cose da raccontarvi, ma le rimando ad altre sere. Giovani miei, impariamo dalla morte di questo Vescovo una gran verità. Qualunque sia la condizione, qualunque sia la dignità, per quanto sublime esser si voglia, di una persona, tutti sono soggetti alla morte. La morte non risparmia nessuno.
Il Vescovo di Cuneo era un santo uomo e non avrà bisogno dei nostri suffragi. A tutti i modi siccome siamo sempre nell'incertezza, e potrebbe ancora avere qualche conto da scontare colla Divina Giustizia, desidero che domani mattina si reciti il rosario da morto e che si faccia qualche comunione o sacramentale o spirituale, secondo che si potrà, in suffragio dell'anima sua.
Vorrei ancora pregarvi di una cosa. Vorrei suggerirvi un fioretto, da farsi domani ed in seguito, in onore della Madonna. Questo si è il silenzio per le scale, andando alla sera in dormitorio dopo le orazioni. In avanti bastava che si facesse silenzio in camerata, ma ora ho ben pensato e riflettuto che il silenzio nelle scale impedisce molti inconvenienti. Si è dato avviso su questo punto molte volte, ma ora vorrei che per amore della Madonna lo poneste in pratica e che andaste in camera col più rigoroso silenzio.
Oggi è caduta molta neve e sembra che non voglia cessare così presto, anzi è probabile che duri qualche giorno. Tuttavia la stagione è troppo avanzata e quindi presto il sole la scioglierà. Vi dico questo, perchè vi prendiate cura della salute. Alleggerirvi di vesti, giuocare, sudare e poi andare nelle scuole o nello studio, può farvi molto male.
Oggi è la metà di quaresima. Stamane nell'ufficio e nella messa si è fatta la commemorazione dei Santi Cosma e Damiano: cosa insolita, perchè in tutta la Quaresima non vi è che una sola commemorazione di questa fatta. Quelli che dicono l'ufficio se ne saranno accorti e ne vorranno sapere la ragione. Io la dirò, perchè anche a tutti i giovani non farà dispiacere l'ascoltare. A Roma vi è da molti secoli l'uso che nei giorni di Quaresima si facciano le stazioni in varie chiese fissate. Nei giorno della metà di Quaresima la visita è alla chiesa dei SS. Cosma e Damiano ed il popolo vi accorre in gran folla. Or narrano le Storie Ecclesiastiche come un anno, nel giorno d'oggi, il popolo era affollatissimo nell'antica chiesa dedicata a questi Santi, e prostrato innanzi ai sacri altari pregava; quando all'improvviso un mormorio si spande nella folla. Succedeva un fatto dei più strepitosi le due statue in marmo dei santi Cosma e Damiano incominciarono a muoversi [81] nelle loro nicchie; e come se fossero uomini di carne ed ossa, discesero dai loro piedestalli, si posarono sul pavimento, s'incamminarono una verso dell'altra e vennero ad incontrarsi in mezzo alla chiesa, quindi insieme unite si avviarono verso la porta, passando in mezzo a tutto quel popolo. Stupefatta la gente a questo meraviglioso spettacolo si avviò tutta dietro le statue per vedere dove andasse a parare la faccenda. Ma appena tutta la moltitudine uscita è lontana alquanto dalla chiesa, le statue si fermano ed un improvviso terribile rumore fa rivoltare tutti gli spettatori dalla parte della chiesa. Spettacolo! La chiesa era rovinata e, se non era un così grande miracolo, tutta quella moltitudine sarebbe stata sepolta sotto le rovine del tempio. Per questo fatto fu stabilito che tutti gli anni nel giorno d'oggi si facesse la commemorazione di questi due santi, appunto a cagione di un così segnalato prodigio.
Miei cari figliuoli, io vorrei che imparaste da ciò una gran verità, cioè quanto sia valevole presso il Signore l'intercessione dei santi e quanto sia utile rivolgere ad essi le nostre preghiere. Che se i Santi Cosma e Damiano, benchè non pregati, fecero un così segnalato miracolo per salvare dalla morte tanta gente, pensate voi se non si presteranno in nostro aiuto quando noi li invocheremo. Abbiamo divozione specialmente ai santi dei quali portiamo il nome, ad essi ricorriamo in tutte le nostre necessità non solo dell'anima ma anche del corpo, in tutte le difficoltà, in tutti i pericoli, ed essi saranno sempre pronti ad aiutarci.
Ma il cuore di D. Bosco doveva in questi giorni soffrire un gran dolore per la poca riflessione di certuni che pure lo amavano immensamente e tutta la loro esistenza avevano a lui consacrato. È un fatto unico nel suo genere che, per quanto sappiamo, sia accaduto nell'Oratorio, ma anche tale che dimostra la fermezza di D. Bosco nel voler rispettata e obbedita l'autorità.
L'economo non era troppo ben visto da certi alunni pel suo rigore nel mantener la disciplina. Varie erano le sale dei refettori, ed un giorno mentre D. Savio assisteva nel refettorio grande, ove sedevano a mensa più di 300 alunni, un pezzo di pane venne a colpirlo nella schiena. Forse il proiettile era destinato ad un compagno. D. Savio, prudente, non fe' atto di sdegno, non si volse per osservare chi potesse essere quello screanzato, e per allora nulla disse: ma il domani rinnovatosi [82] lo stesso scherzo da mano ignota, ne parlò a D. Bosco. Appariva evidente che erasi voluto fare sfregio alla sua persona, e alla sera D. Bosco rivolse alcune gravi parole ai giovani, concludendo che chiunque si fosse ancor reso colpevole di simile insulto avrebbe dovuto allontanarsi immantinente dall'Oratorio.
Il giorno dopo gli alunni erano schierati sotto i portici per andare a pranzo. L'economo stava osservando che fosse mantenuto il silenzio e dava ordini per la mossa delle squadre, quand'ecco un torso di cavolo colpirlo con impeto nella berretta. Egli si volge rapidamente e distingue il giovane R... Agostino che abbassava il braccio. Senz'altro lo fa entrare in una cameretta vicina e conduce gli altri in refettorio. Il giovanetto, confuso e piangente, protestava di aver voluto lanciare quel cavolo ad un compagno e di non aver mai avuto intenzione di colpire l'economo. Era egli molto vivace e talvolta un po' sbadato; del resto di ottima condotta, e non ultimo nella sua classe di quinta ginnasiale. Per questo motivo il professore che lo amava, e qualche altro insegnante ed assistente, persuasi della sua innocenza, presero tosto le sue parti, e fattolo subito uscire da quella stanza, senza riflettere all'affronto che facevano a un loro superiore, lo condussero a pranzo, compassionandolo e dichiarandosi pronti a sostenerlo con tutte le loro forze; e lo tennero con sè tutto il rimanente del giorno, non senza ammirazione della Comunità. Il cuore faceva velo alla ragione; e in tempo di cena questi professori che, per altri motivi, l'avevano alquanto amara coll'economo, presero a biasimare altamente il suo contegno in quella circostanza, poichè senza udir ragione aveva punito un innocente. Gli animi erano scaldati e le parole poco misurate. D. Bosco taceva, e dopo le orazioni della sera annunziò che il mattino seguente il giovane Agostino sarebbe partito pel suo paese. Fu come uno scoppio di folgore.
I giovani si ritirarono nei dormitori e restò solo nel [83] cortile e come sbalordito un piccolo crocchio di professori, fra cui coloro che si erano dichiarati contro l'economo e che biasimavano la severa disposizione del Superiore. Mormorarono per un pezzo e finalmente un coadiutore, capo di laboratorio, con impeto inconsiderato concluse:
- Uno di noi vada da D. Bosco e gli dica francamente che se quel giovane non ottiene grazia, noi abbandoneremo l'Oratorio.
- Non spingiamo la questione tanto avanti, esclamò il Direttore degli studii, che aveva udito questa minaccia: io salgo da D. Bosco e spero che le cose si accomoderanno.
E così fece. Erano le 10 l/2, e trovato D. Bosco ancora a tavolino, gli espose il malcontento di certi confratelli e perorò per un perdono immediato. D. Bosco gli rispose:
- La mancanza è certa; l'intenzione non la giudica altri che Dio. D'altra parte il lanciare quel torso di cavolo costituisce già un'infrazione alla regola, sia perchè in quel tempo, era stato intimato il silenzio, sia perchè nelle attuali circostanze un simile atto poteva essere causa di gravi disturbi, dopo i replicati avvisi. Tuttavia non ostante la gravità del fatto, io avrei potuto trovare un ripiego per salvare il giovane, che realmente è buono; ma voi, prendendone le difese, mi avete messo nell'impossibilità di indietreggiare. Si sa dai chierici e dai giovani che voi avete preso partito contro Don Savio, ed io non permetterò mai che l'autorità sia costretta a subire una simile pressione.
Il Direttore degli studii ritornò verso le II e un quarto fra i compagni che l'aspettavano con ansietà e disse loro:
Tutti si ritirarono nelle loro stanze pensando a qual partito dovessero appigliarsi: e per loro fortuna si appigliarono al migliore. Alcuni dissero sotto voce, e fra questi Enrico Bonetti:
- Lasciare D. Bosco? Mai! [84]
- Con D. Bosco, fino alla morte! Rispose uno per tutti. E così fu.
Sul far dell'alba Agostino partiva.
Nell'Oratorio un solo non aveva potuto acquietarsi alla sentenza di D. Bosco. Questi sedeva alla mensa de' Superiori e per due o tre giorni con fare risentito ed ironico alludeva a D. Savio, al giovane scacciato, all'ingiustizia commessa. Don Bosco n'era sofferente come non si vide mai, ma non rispondeva parola.
Calmata la passione e posta a tacere la cosa, dopo qualche settimana, Agostino, forse per consiglio avuto, scriveva da casa sua una lettera a D. Bosco, nella quale chiedevagli perdono pel fallo che per sbadataggine e involontariamente aveva commesso. Don Savio, interrogato, intercedette per lui, che, ritornato nell'Oratorio, vi finì con lode gli studi.
Questo fatto fu per gli alunni una salutare lezione, poichè videro come D. Bosco trattandosi dell'autorità non aveva riguardo a nessuno, e che anche un alunno dei più buoni e sostenuto dai più influenti dell'Oratorio non era riuscito a sottrarsi alle conseguenze di una disobbedienza.
Anche fra questi disturbi D. Bosco continuava con tutta calma e senza allusioni indiscrete, i suoi discorsetti istruttivi, prima che i giovani andassero a riposo.
Oggi voglio darvi una buona notizia. Domani la levata sarà alle 5. Non spaventatevi! alle 5 per gli artigiani e alle 5 ½ per gli studenti. Però gli studenti nel venire nel cortile a prendere acqua procurino di non disturbare le sacre funzioni che si fanno in chiesa per gli artigiani.
Sarebbe pure mio desiderio che appena dato il segnale della levata ciascuno si alzasse subito e non facesse come certi economisti i quali procurano di godere il primo quarto, la metà del secondo ed anche tutto se possono e poi si alzano in tutta furia e corrono in chiesa, s'intende, più tardi degli altri. Due giorni fa ve ne fu uno, che è qui presente, ma che non voglio nominare per non fargli vergogna, il quale essendosi fermato in letto si alzò di premura e nella furia di vestirsi [85] infilò i calzoni al rovescio e venne via così dalla camerata. Nelle scale se li voleva aggiustare. Ma si... tira su da una parte, tira dall'altra, non volevano andare a posto. Era difficile impresa! perchè la parte che andava davanti l'aveva di dietro, e se ne accorse solamente dopo essere stato molto tempo in questo imbroglio. Che bella figura avrebbe fatto costui, se fosse passato qualcheduno, e lo avesse veduto a quel modo. Si faceva un bell'onore! È vero che a quell'ora difficilmente nella casa si trovano forestieri, ma potrebbe passare qualcuno della casa stessa: passò infatti D. Bosco e lo vide in quella posizione imbarazzata. Facciamo adunque alla mattina questa piccola penitenza, facciamola per spirito di mortificazione, che acquisteremo tempo: e potremo comporre i letti, spazzolare gli abiti, ordinare le cose nostre.
Oggi venne un forestiero e volli condurlo a visitare qualche camerata. Non appena ebbi messo piede sul limitare di una, nella quale dormono trenta giovani tra i più grandicelli, vidi certi letti, cinque o sei, così disordinati che facevano bruttissima figura. In uno pareva che avesse dormito un cagnolino, in un altro un porcellino; tanto erano in disordine. Un altro poi non aveva nulla sul materasso: il capezzale avvolto nel lenzuolo si trovava al posto dei piedi. Un quarto aveva le coperte per terra e sopra le scarpe. Dovetti perciò chiudere la porta, perchè quel forestiere non vedesse un così brutto spettacolo.
Tentai di entrare in un'altra camerata, ma in questa essendo maggiore il numero dei letti era maggiore anche il numero di quelli che non erano fatti. Dovetti quindi desistere dal proseguire quella visita per non disonorare i miei giovani in faccia a persone estranee alla casa. Fan così brutta figura le camerate in disordine! Però non ne voglio far colpa ai giovani, no: la fo agli assistenti, i quali, volere o non volere, dovrebbero esigere che tutte le mattine si accomodassero i letti.
Ma per non fare una gridata a nessuno, ho trovato un mezzo efficace per conseguire questo scopo, che si incomincierà fin da domani mattina a mettere in pratica. Ecco qual è. Deputerò una persona la quale abbia l'incarico di visitare tutti i giorni le camerate e sarà suo dovere fare tutti quei letti che si troveranno in disordine. Costui però avrà il guadagno di quattro soldi per letto, i quali verranno pagati da quei giovani stessi ai quali il letto appartiene. Tuttavia non toccherà che due soldi per la fatica di ogni letto rifatto; gli altri due soldi saranno conservati per comprare qualche cosa a vantaggio di tutti i giovani insieme. Così coloro che pagheranno potranno anche goderne una parte!
Un'ultima cosa io debbo ancora raccomandarvi, cioè che pettiniate bene i vostri capelli. Viene la primavera, la quale fa moltiplicare certe bestioline. Lo sa il povero Enria, che alcune volte è disperato e bisogna che lavi qualche testa due o tre volte. Ne hanno anche certi [86] giovani che vogliono parer belli e si lisciano la capigliatura, la dividono, segnano la riga, ma non si pettinano. A costoro io vorrei dire: o sciocconi, siate meno vanerelli; pensate a pulirvi e non a lisciarvi.
Domani è l'ultimo venerdì di marzo, quindi desidero che lo santifichiate il meglio che vi sia possibile, e facciate la Via Crucis con vera compassione delle pene di Gesù Cristo e vero dolore de vostri peccati. Ciò vi raccomando tanto più, che alcuni de' nostri chierici si preparano nella Casa de' Lazzaristi a ricevere degnamente la sacra ordinazione del suddiaconato. Domani pregate quindi il Signore perchè riescano suoi veri ministri. Per essi sono momenti di grande importanza ed anche terribili, perchè il demonio fa tutti i suoi sforzi per distrarli e distoglierli dalla vocazione al sacerdozio e le vostre preghiere serviranno moltissimo a confortarli.
Mentre il Servo di Dio ammoniva e correggeva i suoi figli dell'Oratorio, non dimenticava quelli raccolti nei collegi di Mirabello e di Lanzo ai quali pensava di fare qualche visita. In queste occasioni si verificava di lui quel che si legge del Divin Salvatore, che passava operando sempre del bene. Riferiamo una sua lettera al Direttore di Lanzo.
Pensavami di fare una gita a Lanzo in questo giovedì e così segare la quaresima in compagnia dei miei cari figliuoli di S. Filippo Neri; ma il tempo guastò le strade e bisogna che attendiamo che esse siansi fatte alquanto migliori.
Tua sorella è stata ricevuta, o meglio se le è fatto posto, fra le educande del Buon Pastore, mediante un corredo di f. 100. Pei denari ci penserò io; procura adunque tu di farla avvisare che venga quando che sia, portando le ordinarie sue vesticciuole con un paio di camicie. Il resto sarà provveduto al Ritiro. Giunta a Torino venga da me, che la farò accompagnare con un biglietto al suo posto.
Fa' molti e cari saluti al corpo insegnante, dirigente, assistente, e al corpo degli assistiti. Sabato è giorno dedicato a Maria SS. Annunziata. Io vi raccomanderò tutti al Signore nella Santa Messa; voi pregate anche per me. Raccomanda poi in modo supplicante a D. Provera che solennizzi quel giorno con qualche cosa a tavola, sì che i giovani [87] abbiano motivo di fare un brindisi a mia salute costà, mentre quasi e forse all'ora stessa io procurerò di farlo qui ad onore di tutti i miei cari figliuoli di Lanzo.
Dio ci conservi tutti nella sua santa grazia. Amen. Tuo
Avendo riconosciuta a Lanzo la necessità di un professore patentato, scriveva una supplica al Ministro Natoli affidando a Maria SS. il buon esito di questa pratica, poichè il Ministero era contrario all'istruzione data dagli Istituti religiosi.
Il sac. Bosco Giovanni espone rispettosamente all'E. V. come il chierico Fagnano Giuseppe, allievo della casa di beneficenza, detta Oratorio di S. Francesco di Sales, presentavasi nello scorso dicembre 1864 agli esami pel diploma del ginnasio inferiore.
Gli esami scritti e verbali gli riuscirono tutti favorevoli; ma nel giorno che doveva dare la lezione orale, prima di presentarsi ai signori esaminatori, fu assalito da febbre che lo turbò e gli impedì di poterla terminare; per questo motivo, come consta dalla dichiarazione del Preside della Facoltà, nella lezione orale, potè solo ottenere 16/40, invece di 24/40.
Ora il sottoscritto fa umile ricorso all'E. V. a nome del mentovato chierico, supplicandola a volergli accordare il favore speciale di computargli i voti complessivamente e in questo caso ne avrebbe abbondantemente la sufficienza. Qualora poi all'E. V. sembrasse troppo grande l'implorato favore, si degnasse almeno di volerlo soltanto obbligare a ripetere la lezione, senza che debba di nuovo subire gli altri esami.
Il ricorrente si fa animo a domandare questo favore:
1° Perchè gli esami delle materie principali sortirono tutti favorevoli e solamente nell'accessorio della lezione orale fu mancante;
2° Fu mancante perchè sorpreso da febbre, come se ne accorsero gli stessi esaminatori;
3° Per coadiuvare ad un'opera di beneficenza, cui il mentovato chierico appartiene;
4° Pel merito del chierico stesso che da molti anni impiega gratuitamente e con somma attività le sue fatiche ad istruire ed educare altri poveri giovani; [88]
5° Ma il motivo principale si è la fiducia che si ha nella nota di Lei bontà, che suole sempre concedere quei favori che tornano di pubblica utilità, purchè siano compatibili colle vigenti leggi.
Pieno di fiducia nell'Eccellenza Vostra, spera la grazia
Il 27 aprile 1865 il chierico conseguiva il diploma d'insegnante nel ginnasio inferiore.
Di quei giorni D. Bosco dovette anche rispondere a certe pretese del Municipio di Lanzo, dal quale, per cause però da lui indipendenti, non erasi ancor potuto percepire il pattuito stipendio per i maestri elementari. Il Sindaco gli aveva scritto insistendo perchè provvedesse alle necessità delle scuole comunali col destinare nuove sale per le classi degli esterni, che erano cresciuti di numero più di quello che si fosse preveduto; bisognava dunque restringere i locali, tutt'altro che spaziosi, destinati per gli alunni interni. D. Bosco, quantunque fosse pronto a sacrifici pecuniari, come lo provò più tardi il fatto, pur di mantenersi in quel luogo da lui prediletto, volle tuttavia scrutare l'animo del Sindaco e de' consiglieri. Scrisse pertanto una lettera che prima di spedire fece esaminare da D. Savio e dal Cav. Oreglia, perchè glie ne manifestassero il loro parere.
Ricevuta la lettera di V. S. Ill.ma riguardante il Collegio Convitto di Lanzo, ho pensato ai varii modi con cui avrei potuto provvedere al buon andamento del medesimo coll'ampliazione o almeno col rendere servibile il locale attuale.
Ma osservando che qualunque mezzo io addotti ne' limiti circoscritti del Municipio riesce a me svantaggioso, d'altra parte per la regolarità e per l'aumento delle classi non bastando più l'attuale locale, poichè pel prossimo ottobre le domande sono assai superiori al numero di quelli che sono già ivi accolti, per questi motivi io diffido Vostra Signoria e con Lei gli altri signori del Municipio che io mi [89] dismetto dalla convenzione delli 30 giugno 1864 e li lascio liberi di provvedere alla continuazione del Collegio nel modo che sarà da loro giudicato migliore.
Mi rincresce certamente e per le gravi spese che ho dovuto fare e pel buon andamento ed avviamento tanto degli interni quanto degli esterni, ma per non esporre questa casa a maggiori gravami debbo prendere questa deliberazione.
La prego di voler comunicare questa deliberazione ai Signori Membri del Municipio, e di fare a tutti i miei più vivi ringraziamenti di tutti i benevoli riguardi che in più occasioni ebbero la bontà di usarmi.
Mi creda colla dovuta stima e gratitudine
INTANTO D. Bosco spingeva sempre avanti l'opera che allora gli stava più a cuore, cioè la costruzione della chiesa di Maria SS. Ausiliatrice. I lavori continuavano alacremente. I sotterranei erano già ultimati e compiute tutte le volte che dovevano sorreggere il pavimento.
Il Servo di Dio con viva gioia vedeva avvicinarsi l'istante [91] nel quale per la prima volta in quel prato, di immortale memoria, si sarebbe pubblicamente celebrato il nome di Maria Ausiliatrice, col porvi la pietra angolare del suo Santuario. Qui la Madonna gli aveva rinnovata la missione che aveagli manifestata quand'era ancor fanciullo e parve che allora si fosse rinnovato il dialogo che avvenne tra Debora e Barac:
- Se tu vieni con me, io andrò; se non vieni meco, io non mi muovo.
Era questa la promessa della Madre di Dio; e D. Bosco fin dal 1845, e anche prima, incominciò colle sue benedizioni a far meraviglie, le quali dimostravano che Maria SS. era con lui.
D. Bosco aveva dunque ragione di volere una festa quanto si poteva solenne, e perciò pregava il figlio del Re Vittorio Emanuele II, il Principe Amedeo, Duca d'Aosta, che era allora nei 20 anni, perchè venisse a mettere la pietra angolare della Chiesa; e il Principe gentilmente accettava l'invito.
D. Bosco poteva dedicarsi con maggior assiduità ai preparativi della festa, perchè incominciava a vedere i frutti preziosi della sua Pia Società. Da quattro anni, a tutte le tempora, qualcuno de' suoi chierici era assunto ai sacri ordini ed il numero de' suoi preti, coadiuvati da zelanti sacerdoti diocesani, permettevagli di farsi supplire quasi interamente nelle istruzioni domenicali della sera in Valdocco e negli Oratori di S. Luigi e dell'Angelo Custode. Egli riserbava per sè la narrazione della Storia. Ecclesiastica al mattino nella chiesa di S. Francesco di Sales, che continuò poi in Maria Ausiliatrice fino al 1869.
Un aiuto ammirabile egli continuava ad avere dal Teol. Borel, sempre pronto, umile e pieno d'amor di Dio. Questo zelante sacerdote una domenica fu chiamato a predicare nell'Oratorio dopo che aveva esercitato nel mattino il sacro ministero in varie chiese della città. Il messo lo trovò nell'orto [92] avanti alla sua casa nel Rifugio, mentre, essendo ancor digiuno, mangiava un peperone con un tozzo di pane. Udita la commissione, il buon sacerdote esclamò
Il Teol. Borel era cavaliere dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro: e i chierici dell'Oratorio un giorno stavano parlando dell'ingegnere Spezia e pronosticavano che presto egli sarebbe stato decorato di quella croce, come difatti avvenne; quando il Teologo, attraversando il cortile dopo la predica, si fermò un istante per salutarli, e quelli famigliarmente gli chiesero per qual motivo gli fosse stata conferita l'onorificenza Mauriziana. Ed egli ridendo:
- Non lo so neppur io. Forse perchè un giorno ho spento una spalliera di fiori finti che abbruciavano, mentre chierico di Corte servivo la Messa a palazzo, presente la regina Maria Teresa.
E rideva. Egli aveva sempre una buona parola per quanti incontrava e così se ne attirava la confidenza e l'affetto.
Una volta entrando in fretta nell'Oratorio, perchè era alquanto in ritardo per la predica, visto un giovane prete che lo aspettava per accompagnarlo, gli disse:
- Ma Lei non l'ho mai visto nell'Oratorio.
- Son pochi mesi che son venuto con D. Bosco.
- Precisamente, se il Signore vorrà.
- Bravo, bene; si fermi qui, perchè è la casa di un santo. Coraggio! Non si lasci prendere dalla malinconia, non si turbi per qualche contrarietà o privazione. Sempre allegro! Perseveri nella sua decisione e sarà contento. C'è molto da fare, ma Iddio e la Madonna pagano bene.
E abbracciatolo si affrettò ad entrare in chiesa. Fortunato l'Oratorio che per tanti anni ebbe un tale amico!
Di lui e di altri sacerdoti di Torino Don Bosco servivasi [93] anche per soddisfare le domande che gli venivano di predicazioni straordinarie, non solo in diocesi ma eziandio fuori di essa. Non di rado egli riceveva inviti da Vescovi e da parroci di dettare una missione, e non solo in borgate, ma anche in città cospicue. Potendo, egli accettava l'invito; ma se era impedito, ne incaricava i suddetti volenterosi suoi amici e anche taluno dei suoi giovani preti, ad esempio D. Giovanni Cagliero o D. Michele Rua.
Di quei giorni ebbe luogo una missione a Reggio Emilia e quel Vescovo ne riferiva a D. Bosco.
M. R. Sig. Padrone mio col.mo,
Non ho espressioni che valgano a significare a V. S. M. R. la mia gratitudine pel segnalatissimo favore di spedirmi due sì dotti, sì zelanti e veramente santi Missionarii, per dare un corso di spirituali esercizii in questa città. Hanno faticato indefessamente giorno e notte per più d'una settimana con tanto buon successo, con tanta soddisfazione e frutto spirituale di tutto il popolo, che proprio si è veduta la benedizione del Signore sopra di loro. Ho più volte pieno di consolazione ripetuto di essi le parole di S. Paolo: Beati pedes evangelizantium bona, evangelizantium pacem.
La ringrazio mille e mille volte, riveritissimo Signore, di tanta sua compiacenza, e se valessi mai a servirla in qualsiasi sua occorrenza gradirei sommamente tale occasione per confermarle i sensi della mia gratitudine e di quella parzialissima stima, con cui mi pregio di essere ecc., ecc.
D. Bosco intanto, finiti i catechismi quotidiani della Quaresima, non solo sedeva interi giorni al tribunale di penitenza, ma predicava il triduo di preparazione alla Pasqua. In una di queste prediche trattò della sincerità in confessione e descrisse con sì vivi colori l'angoscia di Carlo (quel giovanetto morto dopo essersi mal confessato, nel 1849) e la sua ventura di essere stato risuscitato e di aver palesata la sua colpa ad un sacerdote prima di riaddormentarsi nel sonno della morte, [94] che finito il racconto non potè più aggiungere una sola parola. Vinto dall'emozione si mise a piangere e a singhiozzare in modo che fu obbligato a interrompere il discorso e a scendere dal pulpito. Tutti i giovani rimasero come fuori di sè e stettero assai lungo tempo prima che si potessero intonare le litanie della Beata Vergine. Don Carlo Ghivarello e Giuseppe Bologna, essendo presenti, attestarono il fatto.
Mentre i giovani interni ed esterni adempivano all'obbligo della Comunione Pasquale, il Servo di Dio poneva fine alle pratiche iniziate per l'ordinamento della lotteria. Non dubitava punto del suo felice successo. Il Teologo Leonardo Murialdo, Rettore degli Artigianelli in Torino, anni dopo, vedendo le lotterie che D. Bosco faceva con esito felicissimo, mentre le sue approdavano a poco, lo interrogò del sistema che praticava per riuscir così bene. Il Servo di Dio gli rispose:
- Ecco come pratico io. Decisa la lotteria scelgo i più buoni e pii giovani dell'Oratorio e li conduco innanzi all'immagine di Maria SS. per ottenerne la benedizione. Fatto ciò, ci aiutiamo di mani e di piedi, per poter attendere alla sua buona riuscita.
Il Teologo stesso scrisse questa testimonianza.
In questo mese Don Bosco aveva cercato di procurare alla nuova lotteria l'appoggio e la speciale protezione di varii principi di casa Savoia, che fu generosamente accordata; e riusciva a formare l'elenco dei personaggi che avevano accettato di far parte della Commissione. Eccone i nomi:
“Membri della Commissione: Luserna di Rora' March. Emanuele, Sindaco della città di Torino, Presidente onorario. - Scarampi di Pruney March. Lodovico, Presidente. - Fassati March. Domenico, Vice-Presidente. - Moris cav. Giuseppe, Consigliere Municipale, Vice-Presidente. - Gribaudi sig. Giovanni Dott. in Med. e Chir., Segretario. -Oreglia di S. Stefano cav. Federico, Segretario. - Cotta Comm. Giuseppe, Senatore del Regno, Cassiere. - Anzino Teol. Can. [95] Valerio, Capp. di S. M., Direttore dell'esposizione. - Bertone di Sambuy Conte Ernesto, Direttore dell'esposizione. - Boggio Barone Giuseppe, Direttore dell'esposizione. - Bosco di Ruffino cav. Aleramo. - Bona Comm. Dirett. gen. dell'ammin. delle ferrovie merid. - Bosco sac. Giovanni, Direttore degli Oratori. - Cays di Giletta Conte Carlo, Direttore dell'esposizione - Duprà cav. Gio. Batt. Ragioniere alla Camera dei Conti. - Duprè cav. Giuseppe, Consigliere Municipale. Fenoglio Comm. Pietro, Economo generale. - Ferrari di Castelnuovo March. Evasio. - Giriodi cav. Carlo, Direttore dell'esposizione. - Minella sac. Vincenzo, Direttore dell'esposizione. - Pernati di Momo cav. comm. Min. di Stato Sen. del Regno. - Pateri cav. Ilario, Professore e Consigliere Municipale. - Provana di Collegno Conte ed Avvocato Alessandro. - Radicati conte Costantino ff. di Prefetto. - Rebaudengo comm. Gio. segr. gen. del Min. della Casa Reale. - Scarampi di Villanova cav. Clemente, Direttore dell'esposizione. - Solaro della Margherita conte Alberto. - Sperino Comm. Casimiro Dott. in Med. e Chirurgia. -Uccelletti sig. Carlo, Direttore dell'esposizione. - Vogliotti cav. Alessandro Can. Teol. Provicario Generale. - Villa di Monpascale conte Giuseppe, Direttore dell'esposizione. - Viretti sig. avv. Maurizio, Direttore dell'esposizione.
Sorsero nuove difficoltà per far accettare gli uffici che richiedevano maggiore responsabilità e lavoro; e varie furono le assemblee tenute dai più volenterosi di questi signori in una sala del palazzo Municipale. Ma il 16 aprile, giorno di Pasqua, e il 25 e il 26 dello stesso mese, presi gli opportuni concerti, fu approvato il programma e distribuite le incombenze.
Durante questo tempo tutto era stato apparecchiato per la posa della pietra angolare e il Servo di Dio aveva diramato ai fedeli il seguente invito: [96]
Con grande piacere partecipo a V. S. Benemerita che nel giorno 27 del corrente mese avrà luogo la benedizione della pietra angolare della Chiesa dedicata a MARIA AUSILIATRICE.
Sua Altezza Reale il Principe Amedeo metterà la prima calce:
Sua Eccellenza il Vescovo di Casale farà la funzione religiosa.
Spero che fra gli insigni nostri benefattori, che in quel giorno ci onoreranno della loro presenza, avremo anche il piacere di poter annoverare la S. V. Benemerita.
Godo molto di questa bella occasione per offrirle gli omaggi della più sentita mia gratitudine e di augurarle ogni bene dal Cielo, mentre ho l'onore di professarmi
1° Il luogo della funzione è tra la Chiesa attuale di S. Francesco di Sales e la via Cottolengo.
2 ° La funzione sacra comincierà ad un'ora pomeridiana e si avrà adito dalla mentovata via Cottolengo.
3° Dopo si darà un piccolo trattenimento, in cui avranno luogo brevi rappresentazioni, concerti musicali: D. Procopio, L'Orfanello, Gianduja al pais d'la Cucagna, Dialogo: Coro nelle Prigioni di Edimburgo.
4° Visita della casa; canto del Te Deum colla benedizione del Venerabile.
A questo invito rispondeva l'ing. Spezia con una sua lettera, monumento di generosità.
Ho ricevuto con piacere la notizia che S. A. il Principe Amedeo con altri alti personaggi verrà a mettere la prima calce sulla pietra angolare della nostra Chiesa. [97] Non mancherò sicuramente di far in modo di potermi trovare anch'io per dare coi disegni alla mano tutte quelle indicazioni e schiarimenti che taluno potesse desiderare per farsi un giusto concetto del risultato dell'Opera.
Intanto le trasmetterò il desiderato conto dei lavori fin d'ora eseguiti, ond'Ella ne possa conoscere la posizione finanziaria.
Quanto alla mia parcella d'onorarii, sì pel progetto ed assistenza alla costruzione della Chiesa, che per gli altri miei personali servigi prestati a cotesta casa di ricovero, non occorre occuparsene, dovendola Ella, come già le dissi, tenere per saldata senz'altra obbligazione di sorta; anzi ringrazio io lei stessa di pormi con ciò nel caso di potere prestare anch'io la mia opera a favore di una istituzione di tanta utilità e filantropia sotto tutti i rapporti sì religiosi che sociali.
Sorgeva sereno e tale mantenevasi fino a sera, il 27 aprile che doveva essere apportatore a D. Bosco di un'altra consolazione. Pio IX con un rescritto (rinnovato poi il 18 luglio 1877) concedeva a tutti quelli che dedicherebbero un intero mese con qualche pia pratica quotidiana di preghiere e di virtù ad onore di S. Giuseppe (in preparazione alla sua festa del 19 marzo) 300 giorni d'indulgenza in ciascun dì, e plenaria in un giorno, ad arbitrio, dello stesso mese, in cui veramente pentiti, confessati e comunicati, pregherebbero secondo l'intenzione del Sommo Pontefice; senza obbligo di visita ad alcuna chiesa. D. Bosco conosceva e predicava il valore inestimabile delle indulgenze e S. Giuseppe, dopo la Madonna, era stato proclamato protettore degli studenti e degli artigiani dell'Oratorio.
Pel dì suddetto adunque, che era un giovedì, gli apparati per la festa erano compiuti, e, quanto più si potè, in modo splendido. Tutto il piano della futura chiesa era coperto da un ampio tavolato di assi, a cui erano state sovrapposte tele larghe e coperte da letto per rimediare all'ineguaglianza delle tavole. Un piccolo altare di legno fu collocato allo stesso sito, ove il giorno innanzi secondo la rubrica si era innalzata una [98] gran croce e dove poi doveva sorgere l'altar maggiore. Sull'altare vedevasi dominar la croce, fiancheggiata da cerei accesi e da vasi di fiori. L'altare era coperto di tele ornate da frange indorate e sopra di esso s'innalzava un maestoso padiglione, chiuso da tre lati ed aperto di fronte: la parte di dietro era formata da una bandiera nazionale recante in mezzo lo stemma sabaudo. Copriva il pavimento un prezioso tappeto. A destra era il coperchio della pietra fondamentale, la cazzuola, il martello d'argento, e l'astuccio per l'atto notarile. Sul centro della futura chiesa si stendeva un larghissimo tendone, ornato di frange e sorretto da quattro altissime antenne dipinte a fascie bianche e rosse. Nello spazio del cappellone in cornu Evangelii si innalzava un gran palco per i cantori, innanzi al quale stava la banda musicale. In cornu Epistolae, nello spazio dell'altro cappellone, un seggio con inginocchiatoio coperto di damaschi per il Principe Reale. All'entrata della chiesa ergevasi un arco trionfale con un'iscrizione e per una gradinata di legno salivasi allo spianato su cui doveva compiersi la cerimonia.
Ma il Vescovo di Casale Mons. di Calabiana, che doveva eseguire la sacra funzione, impedito da urgenti affari, si era scusato per telegramma, e D. Celestino Durando, mandato da D. Bosco a Susa, era tornato in quello stesso giorno con Mons. Giovanni Antonio Odone, che premurosamente aveva accettato l'invito.
Tutto era pronto, quando verso un'ora pomeridiana si levò un vento così impetuoso che pareva volesse stracciare e portar via tutto l'apparato. Ma dopo mezz'ora cessò. Sembrava che Satana avesse sfogata la sua ira, tentando d'impedire il sacro rito.
Una moltitudine di gente, la prima Nobiltà torinese ed anche non torinese, il Prefetto della città, il Sindaco con parecchi membri del Municipio, i signori della Commissione per la lotteria, schiere numerose di giovani accorsi da varie [99] parti, la banda musicale con un centinaio di voci argentine erano in ordine per ricevere Sua Altezza Reale il Principe Amedeo di Savoia, duca d'Aosta. Superando molte e gravi difficoltà si era potuto ottenere presso la Direzione delle ferrovie che i giovanetti appartenenti alla Casa di Mirabello venissero in quest'occasione a formare una specie d'esercito coi loro compagni di Torino.
Alle 2 il Vescovo di Susa in mezzo a due file di chierici assumeva gli abiti pontificali, e giungeva Sua Altezza il Duca col suo nobile corteggio, salutato dalla marcia reale. Il Venerabile, in mantellina, lo ricevette al suo arrivo e lo accompagnò al posto per lui preparato e là si fermò ritto in piedi alla sua destra e tenendo aperto il rituale, dandogli a quando a quando qualche spiegazione.
Mons. Vescovo, dopo le preci e i salmi prescritti, asperse con acqua lustrale le fondamenta, e quindi seguito dal Principe, da D. Bosco e da altri illustri personaggi si recò presso la base del pilastro della cupola dal lato del Vangelo, che sorgeva già alquanto dal livello del pavimento. Qui il notaio, redatto un verbale di quanto si faceva, lo lesse ad alta voce.
“L’anno del Signore mille ottocento sessantacinque, il ventisette aprile, ore due di sera; l'anno decimonono del Pontificato di Pio IX, de' Conti Mastai Ferretti, felicemente regnante; l'anno decimosettimo di Vittorio Emanuele II; essendo vacante la sede arcivescovile di Torino per la morte di Monsignor Luigi dei Marchesi Fransoni, Vicario Capitolare il Teologo Collegiato Giuseppe Zappata; curato della Parrocchia di Borgo Dora il Teologo Gattino Cav. Agostino; direttore dell'Oratorio di S. Francesco il sacerdote Bosco Giovanni; alla presenza di S. A. R. il Principe Amedeo di Savoia, Duca d'Aosta; del conte Costantino Radicati Prefetto di Torino; della Giunta Municipale rappresentata dal Sindaco di questa città Luserna di Rorà marchese Emanuele, e dalla Commissione promotrice di questa chiesa da dedicarsi a Dio Ottimo Massimo ed a Maria Ausiliatrice, Monsignor Odone G. Antonio Vescovo di Susa, avuta l'opportuna facoltà dall'Ordinario di questa Archidiocesi, ha proceduto alla benedizione delle fondamenta di questa chiesa e collocazione della pietra angolare della medesima nel pilastro grande della cupola nel lato del Vangelo dell'altare [100] maggiore. In questa pietra sono state chiuse alcune monete di metallo e di valore diverso, alcune medaglie portanti l'effigie del Sommo Pontefice Pio IX e del nostro Sovrano, una iscrizione in latino che ricorda l'oggetto di questa sacra funzione. Il benemerito ingegnere architetto cav. Spezia Antonio ne concepì il disegno e con ispirito cristiano prestò e presta tuttora l'opera sua nella direzione dei lavori.
La forma della chiesa è di croce latina, della superficie di mille duecento metri; motivo di questa costruzione è la mancanza di chiese fra i fedeli di Valdocco, e per dare un pubblico attestato di gratitudine alla gran Madre di Dio pei grandi benefizi ricevuti, per quelli che in maggior copia si attendono da questa celeste Benefattrice. L'opera fu cominciata, e si spera che sarà condotta a felice termine colla carità dei divoti.
Gli abitanti di questo Borgo di Valdocco, i Torinesi ed altri fedeli da Maria beneficati, riuniti ora in questo benedetto recinto, mandano unanimi al Signore Iddio, alla Vergine Maria, aiuto dei cristiani, una fervida preghiera per ottenere dal Cielo copiose benedizioni sopra i Torinesi, sopra i cristiani di tutto il mondo, e in modo particolare sopra il Capo Supremo della Chiesa Cattolica, promotore ed insigne benefattore di questo sacro edifizio, sopra tutte le autorità ecclesiastiche, sopra l'augusto nostro Sovrano, e sopra tutta la reale Famiglia, e specialmente sopra S. A. R. il Principe Amedeo, che accettando l'umile invito diede un segno di venerazione alla gran Madre di Dio. L'Augusta Regina del Cielo assicuri un posto nella eterna beatitudine a tutti quelli che hanno dato o daranno opera a condurre a termine questo sacro edifizio, o in qualche altro modo contribuiranno ad accrescere il culto e la gloria di Lei sopra la terra”.
Approvato questo verbale, fu sottoscritto da tutti quelli che furono sopra nominati e dai più illustri personaggi che trovavansi presenti. Di poi fu piegato e fasciato col disegno della chiesa; e con una copia di un'iscrizione latina di D. Francesia, fu riposto in un vaso di vetro, appositamente preparato.
L'iscrizione era di questo tenore:
D. O. M. - UT VOLUNTATIS ET PIETATIS NOSTRAE - SOLEMNE TESTIMONIUM POSTERIS EXTARET - IN MARIAM AUGUSTAM GENITRICEM - CHRISTIANI NOMINIS POTENTEM - TEMPLUM HOC AB INCHOATO EXTRUERE - DIVINA PROVIDENTIA UNICE FRETIS - IN ANIMO FUIT - QUINTO TANDEM CAL. MAI. AN. MDCCCLXV - DUM [101] NOMEN CHRISTIANUM REGERET - SAPIENTIA AC FORTITUDINE PIUS PAPA IX PONTIFEX MAXIMUS -- ANGULAREM AEDIS LAPIDEM IOAN. ANT. ODO EPISCOPUS SEGUSINORUM - DEUM PRECATUS AQUA LUSTRALI RITE EXPIAVIT - ET AMADEUS ALLORROGICUS V. EMM. Il FILIUS EAM PRIMUM IN LOCO SUO CONDIDIT - MAGNO APPARATU AC FREQUENTI CIVIUM CONCURSU. -SALVE O VIRGO PARENS - VOLENS PROPITIA TUOS CLIENTES - MAIESTATI TUAE DEVOTOS - E SUPERIS PRAESENTI SOSPITES AUXILIO.
J. B. Francesia scripsit[5].
Chiuso ermeticamente, il vetro contenente il verbale venne collocato nel cavo fatto in mezzo alla pietra angolare, insieme con varie medaglie di Maria Ausiliatrice e monete d'oro, d'argento e di rame, coniate in quell'anno e immagini sacre e ritratti del Papa. Il venerando Prelato benedisse coll'aspersorio ogni cosa.
Vicino a lui attiravano gli sguardi di tutti i due fratelli Francesco e Michele Paglia che erano i più piccoli dei chierici, eguali per statura meno che media, e similissimi di fisionomia essendo gemelli. L'uno teneva in mano in un elegante vassoio d'argento una cazzuola e un martello, l'altro in eguale vassoio una piccola lastra. Il principe Amedeo incastrò questa sull'orlo del cavo praticato nella pietra angolare e vi pose sopra la prima calce. Quindi i muratori continuarono in quel punto il loro lavoro di costruzione fino all'altezza di oltre un metro.
Compiuti i riti religiosi, i prelodati personaggi entrarono nell'Oratorio. Nel cortile erano schierati in due file gli alunni. [102]
Il Principe volle passarli in rivista: per due volte egli passò lentamente in mezzo a quelle schiere plaudenti, e si fermò innanzi alla banda musicale, compiacendosi nel vedere fra i suonatori alcuni giovani usciti dall'Oratorio, colla divisa del suo stesso reggimento.
Accompagnato da D. Bosco visitò quindi l'Ospizio dando spesso segno di gradimento alle frequenti ovazioni che i giovanetti gli facevano quando passava ad essi vicino; e poi cogli invitati si recò nella gran sala dello studio, ove D. Francesia salutò il Vescovo, il Principe, e gli altri signori con nobile poesia nella quale, fra le altre cose gentili, diceva a Sua Altezza:
Cantato quest'inno, di cui si distribuirono fra i convenuti 1000 copie, si lessero varie altre poesie di attualità, si eseguirono diversi pezzi di musica vocale e istrumentale e si recitò un dialogo scritto da D. Bosco, nel quale si dava un resoconto sulla solennità del giorno[6].
Terminato il piacevole trattenimento, chiudeva la giornata una predica del Can.Lorenzo Gastaldi[7] e una divota azione di grazie al Signore colla benedizione del SS. Sacramento [103] nella chiesa di S. Francesco. S. A. R. e il suo corteggio avevano lasciato l'Oratorio alle cinque e mezzo, mostrandosi ognuno pienamente soddisfatto.
In quella sera l'augusto Principe aveva invitato a pranzo alcune notabilità, alle quali, dopo aver narrata la bella funzione a cui aveva assistito, diceva:
- È una vera meraviglia il bene che fa questo povero prete; facciano altrettanto, se sono capaci, molti altri che pur vantano grandi opere!
E fra gli altri segni di gradimento, commosso per le cordiali accoglienze ricevute dagli alunni dell'Oratorio, volle offrire dalla sua cassetta particolare una graziosa somma per concorrere anch'egli all'innalzamento del sacro edifizio, facendo così nella sua giovanile età omaggio della sua divozione alla gran Madre di Dio.
Nello stesso tempo avendo conosciuto come gli alunni di D. Bosco si esercitassero con piacere in giuochi di ginnastica, dispose che fosse loro recata in dono parte degli attrezzi della propria palestra.
Il generale Rossi annunziava a D. Bosco le generose disposizioni dei Principe:
S. A. R. il Principe Amedeo rammentando le accoglienze avute in cotesta Pia Casa, dove recossi a posare la prima pietra della nuova Chiesa, e volendo contribuire anch'Egli allo incremento di essa, ha determinato di mandare un'oblazione di lire 500 sul tenue suo particolare peculio.
La prego, Rev. Signore, di volerne spedir ricevuta al Contabile Sig. C. L. Doria.
Il Governatore dei Reali Principi
S. A. R. il Duca d'Aosta, cessando il suo soggiorno a Moncalieri, avrebbe determinato di destinare a codesto benemerito Istituto diretto dalla S. V. Ill.ma una parte degli attrezzi di ginnastica che già servirono agli esercizii dell'A. S. R. e che potranno tornare utili agli allievi della S. V. Ill.ma.
Avrò cura di farle conoscere, in un coll'elenco di tali oggetti, il giorno e l'ora in cui le verranno consegnati, affinchè Ella possa delegare persona a riceverli e prendere gli opportuni concerti col Sig. Cav. Obermann sul modo di collocarli a sito.
Il Governatore dei Reali Principi
Questi molteplici attrezzi di gran costo, collocati nel cortile dell'Oratorio, per molto tempo furono per i giovani un potente mezzo di ricreazione, mentre quanti venivano in Valdocco avevano un argomento continuo di ammirare la bontà del Principe.
Il Servo di Dio lo contraccambiò di cuore con un dono singolare. Vicino al luogo della nuova chiesa, in un angolo del cortile, era cresciuto un alberello di pomi, che aveva messo varii bottoni. Don Bosco come lo seppe, meravigliato del caso, avvertì i giovani che non toccassero quell'albero e lasciassero maturare quelle mele, poichè aveva fatto disegno di mandarle in dono al Principe Amedeo.
Ed i giovani correvano, saltavano, e nessuno toccò quell'albero, sicchè le poma vennero a perfetta maturità e di una grossezza mirabile. Don Bosco più non pensava a quella proposta, quando un giorno uno di quei pomi cadde per maturità a terra. Un giovane prese una foglia, vi mise sopra il frutto, ed accompagnato da tutti gli altri, lo portò a Don Bosco in refettorio. Don Bosco fece allora raccogliere gli altri cinque e li mandò al principe, narrandogli il fatto. Il giovane Duca ringraziò D. Bosco dei regalo che gli aveva voluto fare [105] inviandogli un'altra offerta, perchè comperasse a' suoi giovani un po' d'altra frutta, come diceva, in compenso delle saporitissime mele che essi gli avevano mandato.
Il Duca Amedeo serbò sempre grato ricordo del 27 aprile 1865. Nel 1884, recatosi al Santuario d'Oropa, tenne una sera un lungo discorso con Mons. Pietro Tarino, ragionando sul nuovo Santuario che in quel luogo si pensava di erigere, e sulle difficoltà che distornavano dall'incominciarlo. Il Principe avea preso a caldeggiare con forza il cominciamento di tale opera monumentale, esclamando fra l'altro:
- I tempi sono propizii per opere di questa fatta. Osservate D. Bosco! Con nulla in mano ha speso parecchi milioni e trova sempre persone benefiche che lo aiutano nelle grandi e coraggiose imprese alle quali si accinge.
D. Bosco intanto, subito dopo la festa solenne sopra descritta, a memoria dell'avvenimento ed anche perchè maggiormente si commovesse la pubblica carità, faceva stampare e divulgare il suo dialogo recitato al cospetto del Principe, intitolandolo Rimembranza, con un po' di storia della chiesa che si edificava e un breve cenno sulla posa della pietra angolare. Contemporaneamente i tipografi dell'Armonia pubblicavano un fascicolo intitolato: Divozione di Maria Ausiliatrice in Torino. È un compendio storico di due secoli, che finisce con un cenno della nuova chiesa in Valdocco.
I lavori per l'innalzamento del sacro edificio proseguivano colla massima celerità; ma non poteva bastare la lotteria a tutte le spese, e D. Bosco dava prove luminosissime di sua gran fede e divozione verso la SS. Vergine. L'impresa doveva costargli fatiche e cure indicibili per trovare i mezzi occorrenti, ed egli vi si sottopose quotidianamente di grande animo. Mancandogli moltissime volte il danaro per pagare gli operai, o per provvedere materiali, portavasi in persona, o scriveva ad ammalati e ad altri che sapeva essere in gravi angustie, esortandoli a ricorrere con fiducia alla Beata Vergine [106] con la promessa di qualche offerta per la fabbrica della sua chiesa. Così porgeva loro il mezzo di ottenere la grazia, provvedeva all'opera sua il necessario soccorso ed accresceva in pari tempo nei fedeli la gratitudine e la devozione verso la celeste benefattrice.
Per tal modo nel corso del 1865 l’edifizio fu condotto fino al tetto e coperto; e ne fu compiuta anche la volta, ad eccezione del tratto che doveva essere occupato dalla periferia della cupola.
Mentre si andavano compiendo tali costruzioni accadde un fatto, che fece meravigliare gli operai. Un povero rivenditore di frutta era venuto ne' primi giorni d'estate per far negozio delle sue merci nelle parti di Valdocco. Avendo saputo che la chiesa di Maria Ausiliatrice si stava costruendo col privato concorso dei fedeli, volle anch'egli prendervi parte. Con generoso sacrifizio per un povero uomo chiamò il direttore dei lavori e gli consegnò tutta la sua frutta, perchè la dividesse fra i muratori. Volendo poi compiere, secondo la sua espressione, l'opera incominciata, si fece aiutare a mettere sulle spalle una grossa pietra e s'incamminò su pei ponti. Tremava tutto il buon vecchio sotto il grave peso, ma gli pareva leggero pel fine religioso da cui sentivasi animato. Giunto alla cima depose il sasso, e tutto allegro esclamò:
- Ora muoio contento, poichè spero di potere, in qualche modo, partecipare a tutto il bene che si farà in questa chiesa!
DIFFICILMENTE negli anni trascorsi, non solo in Torino ma anche in molte altre città, trovavasi cospicua persona e anche dello stesso volgo, che non sapesse chi era D. Bosco. Ma ciò apparve sempre meglio quando egli ebbe intrapresa la fabbrica del tempio di Maria Ausiliatrice. Io che sempre gli era d'accanto e che doveva rispondere alla massima parte delle lettere a lui indirizzate, posso assicurare che erano centinaia e talvolta migliaia quelle che egli riceveva ogni settimana, con cui si imploravano le sue orazioni, come quelle di un santo che tutto può presso Dio e la [108] Beatissima Vergine. Moltissimi domandavano una benedizione, ma la volevano impartita da lui; mandavano elemosine per la celebrazione di messe, ma chiedevano per sommo favore che fossero da lui celebrate e sovente ottenevano la grazia sospirata. - È questa una testimonianza di Don Michele Rua.
Di queste lettere noi ne abbiamo trovate alcune, che portano nomi dei quali dovremo far menzione più volte in queste pagine.
Sul principio del 1864 da Firenze la marchesa Gerolama Uguccioni domandava preghiere per la sua figlia che doveva prendere una irrevocabile risoluzione per tutta la vita. Nell'aprile del 1865 ricorrevano a D. Bosco, da Venezia e poi da Cremona, la Principessa Elena Di Soresina Vidoni pel felice esito di affari oltre modo dolorosi; nel mese di maggio da Nizza Marittima il Barone Heraud per la sua consorte da più di un anno afflitta da malattia incurabile: da Roma la Duchessa di Sora, figlia del Principe Borghese, per sè, per i suoi cinque bambini e per la conversione di uno stretto parente. Scrivevano eziandio a D. Bosco da Venezia la contessa Carolina Mocenigo Soranzo, figlia della Principessa Elena Di Soresina Vidoni, per ringraziarlo di una sua lettera, delle preghiere fatte per lei e per salutarlo da parte di D. Apollonio: da Firenze la contessa Isabella Gerini per la consolazione provata leggendo i consigli che D. Bosco le aveva scritti: e la Marchesa di Villa Rios per doni destinati alla lotteria. Il 30 settembre la principessa Corsini, invitata dalla Duchessa di Montmorency, inviava da Firenze a D. Bosco, benemerito della religione e dei poverelli di G. C., lire 50 per la nuova chiesa, raccomandandosi alle sue orazioni.
E’ doveroso il dare un saggio di queste lettere spiranti la stessa fiducia, e lo faremo riportando la lettera di un'altra nobildonna fiorentina. [109]
Spero ch'Ella mi perdonerà l'ardire con cui le dirigo la presente, ma la bontà con cui Ella si degnò accogliermi quando nel dicembre dell'anno 1863 mi presentai a Lei per pregarla ad ascoltare le mie confessioni durante il mio soggiorno a Torino, m'incoraggisce a farlo.
Ella si rammenterà quanto le sue parole mi fossero motivo di consolazione, perchè m'incoraggivano a confidare nella Divina Misericordia per la salute delle anime dei miei più cari. Ella mi diceva di pregare per ottenere dalla Divina Provvidenza le grazie necessarie per affrontare i pericoli a cui la mia famiglia si troverebbe esposta, ma ahimè... sento pur troppo ch'io prego così male, che ho gran paura di non meritare di ottenere questa gran grazia.
Siamo in tempi così difficoltosi ed infelici, la mia posizione e quella dei miei è così difficile, che per quanto, mercè la divina grazia la confidenza nella misericordia infinita d'Iddio non mi abbia abbandonata, pure talvolta mi pare di “sperare contr'ogni speranza”.
Conoscendo adunque di aver gran necessità di ricorrere alle preghiere dei buoni ed avendo somma fiducia nelle Sue, ardisco inviarle una piccolissima elemosina pregandola a voler celebrare il Santo Sacrifizio della Messa cinque volte, cioè una per il mio marito G .... una per ciascuno dei miei figli L,... e T.... una per la mia figlia M ...., e una per me secondo la mia intenzione, ch'io dirigo unitamente alla salute delle nostre anime.
So quanto Ella è occupato, e mi rimprovero di venire ancor io a tediarla, ma non posso tacerle che se Ella potesse distogliersi un momento alle sue gravi occupazioni, qualche parola mi sarebbe di sommo conforto.
Mi perdoni, ottimo Signore, il sommo ardire, non mi dimentichi nelle sue preghiere, mi comandi se mi crede buona a servirla in qualunque siasi modo, e mi permetta di sottoscrivermi
Sembra che le tante e nobilissime attinenze avrebbero dovuto togliere a D. Bosco ogni preoccupazione, tanto per la chiesa, quanto per il mantenimento di tutti i suoi giovani. Ma non era così. Le spese enormi che quella esigeva gli rendevano più difficile il mantenimento dell'Ospizio e degli Oratorii, e la [110] sua piena confidenza in Maria SS. era posta sovente a gravi prove, perchè la carità avesse il merito del sacrificio e perchè la sua preghiera salisse continuamente fervorosa al trono delle grazie. La Madonna amava ascoltare la voce del suo devoto: Ascendit justi deprecatio, et descendit Dei miseratio: ha detto S. Agostino. Quindi le strettezze ed i soccorsi si alternavano quotidianamente.
N'è prova una lettera scritta da Don Bosco al Marchese Fassati:
Ill.mo e Car.mo Sig. Marchese,
Se far vuole il giubileo, sig. Marchese, vi è un tempo opportunissimo; io mi trovo nel bisogno di pagare tremila franchi al panattiere dimani mattina prima delle dieci e finora non ho ancora un soldo. Io mi raccomando alla sua carità affinchè faccia quello che può in questo bisogno eccezionale; è proprio un dar da mangiare ai poveri affamati. Nel corso della giornata passerò da Lei, ed Ella mi darà quello che il Signore e la Santa Vergine le ispireranno in cuore.
Dio benedica Lei, Sig. Marchese, la Signora Marchesa ed Azelia, e doni a tutti sanità e grazia con un bel premio nella patria dei beati. Amen.
Con pienezza di stima mi professo,
Della S. V. benemerita e carissima,
Alcuni giorni dopo, ad un nobile signore delle parti di Cuneo, il quale caritatevolmente aveagli imprestato una somma senza chiedere interessi, scriveva:
Credo che il Cav. Oreglia non ritenesse la data del tempo stabilito per restituire a V. S. Ill.ma la somma di f. 2000 a favore di questa povera casa; neppure io in quel momento poteva sovvenirmene. Ora che Ella me lo ricorda, spero nella Divina Provvidenza di poterla [111] soddisfare all'epoca mentovata. Riguardo al contratto di due corpi di casa col Genio, è vero che fu stipulato, ma non si potè ancora effettuare l'intero pagamento per le innumerevoli garanzie e certificati che si vanno ogni giorno richiedendo. Ho poi attualmente un incaglio negli affari, pei lavori che ho in via di una chiesa e per alcune alquanto vistose somme scadute e non potute esigersi. Tuttavia come le dico sopra, atteso lo speciale bisogno che Ella mi accenna di averla, non in luglio ma ai 16 di maggio prossimo spero che l'avrà.
La ringrazio della fotografia che piacquele mandarmi del compianto Mons. Manzini, benefattore di questa casa. Noi abbiamo perduto molto colla sua morte inaspettata.
Dio benedica Lei e la sua famiglia e mi creda di S. V. Ill.ma,
Ma di qualunque genere fossero gli incagli ai pagamenti o le spese previste, la carità di D. Bosco non era mai indecisa nell'accettare giovanetti che gli erano continuamente raccomandati, sebbene procedesse con virtuosa prudenza.
Affinchè io possa rispondere categoricamente per l'accettazione del giovanetto Cerutti, figlio del bigliettario di Novara, bisogna che egli mi dica se intende avviarlo allo studio od a un mestiere, quale istruzione abbia conseguito, più un certificato di condotta morale, e se intende di pagare pensione o entrare per carità.
Avuti questi schiarimenti risponderò tosto nel senso più favorevole che mi sia possibile.
Dica al sig. Can.co Gallenga che non fui più a tempo per fare la sua commissione, perchè le carte erano già spedite.
Dio la benedica; preghi per me e per questi miei poveri giovanetti, mentre mi professo con sincera affezione di V. S. Car.ma,
Se poi avveniva che egli stesso s'incontrasse in qualche povero giovanetto abbandonato, che vedeva nella necessità di avere un ricovero, non esitava un istante ad invitarlo [112] all'Oratorio, ove lo ammetteva fra i suoi figliuoli. Riferiamo dall'Unità Cattolica del 22 aprile:
“Tutti sanno che quell'egregio sacerdote, che è D. Bosco, mantiene, veste e calza e viene educando agli studi e al lavoro, a seconda del caso, poco meno d'un migliaio di giovani, con infinito vantaggio non solo dei giovani stessi, ma della Società. Imperocchè molti di essi sono tolti di mezzo alla strada che li conduce alla carcere, alla galera e peggio. Se volete un saggio del modo semplicissimo con cui egli tende le sue reti a cotesti uccelli svolazzanti qua e colà, ecco ciò che avvenne pochi giorni or sono. D. Bosco s'imbattè in tre birichini di una decina d'anni caduno, i quali ruzzavano e giuocavano tra loro. D. Bosco, come fa ogni qualvolta trova dei ragazzi, che hanno l'aria di abbandonati, si accosta loro per dir qualche parola amorevole, e vedete se havvi modo di giovar loro; e così dice: - Bravi ragazzi, che fate qui? -Eh! ci balocchiamo. - Ma e non potreste andare a lavorare? - Volentieri, se trovassimo lavoro; ma siamo, come lei vede, così laceri, sudici e carichi di fratelli d'Italia, che nessuno ci riceve a lavorare. - Ma se qualcuno vi facesse puliti, e vi desse del lavoro, accettereste? - Oh! sì. -Ebbene venite meco. - Detto fatto: i tre marmocchi, tra contenti e vergognosi, seguono il buon sacerdote che li conduce all'Oratorio. Colà li fa pulire, lavare, vestire in panni nuovi da capo a piedi, e li pone a lavorare. I tre garzoncelli rispondono all'amorevolezza del loro benefattore con assiduità al lavoro e con una riconoscenza che si manifesta con atti di rispetto e di amore ogni volta che lo vedono. Quei tre poverini erano incamminati alla galera e alla forca. Ora riusciranno intelligenti ed onesti operai, come cento e cento loro compagni dell'Oratorio...”.
Questa generosità in D. Bosco non si raffreddò mai e più tardi anche il Teol. Leonardo Murialdo testificava: “Il Servo di Dio accolse gratuitamente nel suo istituto varii giovanetti, sebbene proposti da me, rettore del congenere Collegio degli [113] artigianelli, perchè in questo non potevano per qualche motivo essere ammessi”.
E portava ai suoi alunni, che conosceva tutti per nome e cognome, un affetto appassionato per la salute delle loro anime. Essendo venuto a sapere che uno di questi aveva commesso un grave fallo, ne fu così addolorato, che non potè dormire in tutta la notte e ciò narrava nella sera seguente del pulpitino, lamentandosi dell'offesa che si era fatta a Dio, e mostrandosene molto contristato.
Questa santa passione suggerivagli que' pensieri che esponeva continuamente alla Comunità, dei quali la Cronaca quattro ce ne ricorda ancora del finire del mese di aprile e dei primi di maggio.
Immaginatevi una gallina la quale una sera non abbia voluto entrare nel pollaio. Invano la massaia si è affaticata a spingervela; essa corre pel cortile, sicchè la massaia stanca d'inseguirla chiude il pollaio e si ritira in casa. La gallina passeggia qua e là, becca in terra qualche granello, ed è contenta di esser libera. Cadendo la notte vede la scala appoggiata al fienile, e saltando di gradino in gradino va sul fieno, cerca un posto comodo e vi si adagia per dormire. Ma ecco un rumore la desta. A notte nessuno della casa veglia: i cani girano lontani per le vigne in guardia del raccolto. Una volpe è pur salita e, vista la gallina, si avanza per divorarla. La gallina però spaventata si slancia a volo: la volpe spicca un salto per raggiungerla, ma cade nell'aia, mentre la gallina è riuscita a volare sopra i rami di un albero vicino. La volpe non perde d'occhio la sua preda e accoccolata per terra sta osservandola col muso in alto. La gallina dopo una lunga ora spicca un secondo volo e va a fermarsi sul muro che cinge l'aia. E la volpe appie' del muro. Il muro è più basso del ramo dell'albero. La volpe gira su e giù; vede un asse appoggiato al muro e arrampicandosi su questo corre lungo il sommo verso la gallina, la quale non ha altro scampo che spiccare un terzo volo verso un albero fuori della cinta, ma rimane sopra di un ramo più basso del punto di partenza. Notate: la gallina pel peso del corpo difficilmente può spingere il volo in alto, quindi se lo spazio da varcare non è piccolo ad ogni volo perde di altezza. E la volpe scende, esce per un foro dal quale scolano le acque, e va e gira intorno all'albero e poi si pone in atto di salire lungo il [114] tronco. La gallina teme già di vedersi raggiunta, quindi vola sopra un altro albero un po' distante. E la volpe la segue. L'altezza non è più considerevole e la gallina cieca dal terrore cerca fuggire e rimane sopra una siepe. La volpe si ficca tra i rami, e allora la gallina spicca un ultimo volo, ma innanzi non ha un luogo ove ripararsi. Essa vola e ad ogni istante è più vicina al suolo: la volpe corre sotto di lei cogli occhi di fuoco, e la gallina finisce con caderle tra le zampe e manda un grido e di lei più non rimane che un mucchio di penne sanguinose. Figliuoli, la volpe è il demonio, la gallina sono certi giovani i quali saranno buoni, ma si fidano nelle loro forze, non vogliono regole, come la gallina non volle lasciarsi chiudere nel pollaio. Costoro, inesperti, trascurano gli avvisi perchè hanno le ali, la buona volontà, e anche la preghiera. Ma non pensano che l'inferma natura tende al basso. Certuni sono golosi, e poi poltroni, e poi... e poi... lo sa il Signore. Altri dicono: - Perchè ci proibiscono certe amicizie? noi non facciamo niente di male. - E poi s'incominciano a trascurar le regole, poi si cerca di sfuggire i superiori, poi certe letterine, certi pensieri, certe famigliarità, certe amicizie particolari, certe sensibilità. Si scende, si scende, le ali non bastano, la volpe è sotto che corre e si finisce col cadere nelle sue fauci. - Buona notte.
Un gravissimo pensiero occupa la mia mente e non posso fare a meno che manifestarvelo. Andate dai calzolai e domandate loro: Perchè state in questi laboratorii, lavorate da mane a sera, cucite le scarpe, impegolate gli spaghi, tagliate i cuoi? perchè? Vi sentirete rispondere: Per imparare il mestiere, per divenire buoni calzolai! Andate nel laboratorio dei falegnami e domandate a quei giovani artigiani: Perchè segate, piallate il legno, maneggiate il martello, usate continuamente la squadra, la linea, il compasso? Vi risponderanno: Per diventar buoni falegnami e guadagnarci, quando saremo grandi, un tozzo di pane. E a voi, miei cari giovani, io domando: Perchè avete lasciate le vostre case, perchè siete venuti nell'Oratorio? Voi mi direte: Per studiare, per istruire la nostra mente, per farci uomini.
Ma se tanto si fa per imparare un'arte, per avanzarvi nelle scienze, io domanderò a tutti voi: E che cosa state a fare in questo mondo? Mi risponderete tutti ad una voce, in modo che non si potrà neppur capire quel che diciate: Noi siamo venuti a questo mondo per conoscere, amare, servire il Signore e poi andarlo a godere nella celeste patria; cioè a dire, non è vero? per salvare l'anima vostra! È già qualche tempo che ho nella mente questo pensiero, ed oggi più che mai mi si era fissato nel cuore; perciò ve lo volli significare. Oh se [115] potessi dirvelo come lo sento! Ma le parole mancano, tanto è importante e sublime è il soggetto. Oh se tutti voi aveste nel pensiero questa grande verità, se lavoraste unicamente per salvare la vostra anima, allora non farebbero più bisogno nè regolamenti, nè ammonizioni, nè esercizii di buona morte, perchè avreste tutto ciò che è necessario alla vostra felicità. Oh se tutte le vostre azioni avessero a scopo un fine sì importante, che fortuna sarebbe per voi, che felicità per D. Bosco! Sarebbe tutto ciò che desidero di meglio! L'Oratorio sarebbe un vero paradiso terrestre! Allora non succederebbero più nè furti, nè discorsi cattivi, nè letture pericolose, o mormorazioni, o disubbidienze. Tutti farebbero il loro dovere; perchè, persuadiamoci, e il prete e il chierico, e lo studente e l'artigiano, e il povero e il ricco, tutti devono lavorare a questo fine, altrimenti sarà vana ogni loro fatica.
Eppure vi son qui alcuni che sanno ciò e non vi pensano menomamente. Tutte le loro mire sono di fare una buona merenda e lì pongono tutti i loro pensieri. Se hanno qualche companatico o qualche bottiglia di vino, corrono a cercare certi loro compagni e dando un'occhiata per sapere da che parte siano i superiori, se la svignano per andarsi a godere la loro merenda. E perchè non usano la stessa diligenza per l'anima, lo stesso ardore? Perchè, invece, non vanno in cerca di qualche compagno a persuaderlo di fare un'opera buona, ad andare in loro compagnia a visitare per qualche minuto Gesù Cristo in Sacramento? Quanto meglio sarebbe per essi! Mi ricordo che una volta ascoltando gli esercizii spirituali predicati dalla buon'anima di D. Cafasso, egli trattò così bene delle cure immense che gli uomini si prendono per le cose temporali e della niuna cura che hanno per le cose dell'anima, che quella sera andati poi tutti a cena nessuno ebbe coraggio di mangiare; così grande fu l'impressione che ci fece quella terribile verità.
Miei cari figliuoli, anche noi pensiamo una volta seriamente ad un affare di così grande importanza. Vogliamo essere furbi e non stolti: furbi, corrispondendo alle grazie che Dio ci fa acciocchè ci salviamo; e non stolti, perchè altrimenti verrà un giorno nel quale dovremo piangere la nostra stoltezza.
Sognai e mi parea di essere in chiesa. La Chiesa era tutta ripiena di giovani, ma pochi si accostavano alla SS. Comunione. Lungo la balaustrata vi era un uomo lungo lungo, nero nero, sulla testa del quale spuntavano due corna. Esso aveva in mano una lanterna magica e facea vedere ai diversi giovani diverse cose. Ad uno facea vedere la ricreazione tutta animata dai giuochi ed interessavalo nel suo divertimento prediletto; all'altro presentava i giuochi passati, le perdite fatte e la speranza delle vittorie future; a questo il paese nativo con [116] quelle passeggiate, quei campi, quella casa: a chi faceva vedere nella sua lanterna lo studio, i libri, i lavori dei posti; e a chi la frutta, i dolci e il vino che avea nel baule; e a chi i parenti, o gli amici o qualche cosa di peggio, i peccati, ed anche i denari non consegnati. Quindi pochi si accostavano ai sacramenti. Alcuni vedeano le passeggiate, le vacanze e, lasciando da parte tutto, si fermavano a contemplare i compagni antichi dei loro divertimenti.
Sapete che cosa vuol dire questo sogno? Vuol dire che il demonio fa di tutto per distrarre i giovani in Chiesa, per allontanarli dai SS. Sacramenti. Ed i giovani sono così minchioni da stare a vedere. Figliuoli miei, bisogna rompere questa lanterna del diavolo; e sapete come fare? Dare un'occhiata alla Croce e pensare che allontanarsi dalla Comunione è lo stesso che gettarsi in braccio al demonio.
Stassera vi conterei l'apparizione di Nostra Signora di Monte Bonicca presso Campofreddo nell'anno 1595, narrata da Carlo Pecorini ne' suoi cenni critico storici sulle più celebri apparizioni di Maria SS. Voi da questa intenderete come la Madonna ami che tra i suoi figli ci sia l'amore fraterno e non rancori, gelosie, risse, questioni.
Campofreddo, feudo imperiale, e Masone, feudo della Serenissima di Genova, ambedue grosse borgate della diocesi d'Acqui in Piemonte, erano spesso in armi per inimicizie inveterate e mutua lesione di diritti: quindi aggressioni e massacri. Ne piangevano i buoni col virtuoso D. Gregorio Spinola, feudatario di Campofreddo, e supplicavano la grande pacificatrice, la Madre del bell'amore. Essa non chiuse le orecchie, anzi accordò oltre la domanda. Il 10 settembre 1595, il fervoroso Spinola, mosso certo da Maria, raduna i Campofreddesi e guidali a Masone col Crocifisso in mano, per perorare di pace con quei fieri montanari. Ecco che s'incontrano i due popoli, a cui si mescolano gli Agostiniani delle due case di Masone e Campofreddo, e si propongono accordi, e la pacificazione è sul risolversi.
- Guardate, guardate, grida in quell'istante il fanciulletto Tommaso Olivero, guardate sul Bonicca il Paradiso!
Guardarono quel colle dividente i due paesi; e videro che rifletteva una candida nube, che presto scoperse le sembianze di una splendidissima Signora, in manto celestino e bianco velo sul capo, corteggiata da due verginelle, e raggiante di tanta luce, che abbagliava ogni pupilla. Dopo qualche istante disparve.
-Miracolo grande! - gridarono tutti, e pianti e proponimenti di miglior vita, e dimostrazioni di fratellanza scambievole. - Maria pietosissima è venuta a portare la pace! pace, pace, o fratelli, pace in eterno. [117] Ripetevasi la promessa, quando la seconda volta rinnovossi il prodigio: ancora la cara visione di Lei sfolgorantissima di splendori, e colla compagnia delle due sante. Non dirò se ne rimanessero stupefatti quei fortunati, e quali frutti preziosi ne derivassero. Giurossi una gran pace fra i due borghi; che non patì mai più detrimento, la Vergine cumulò all'usanza favori a favori, e i malati invocando la miracolosa del Monte trovavano alleviamento e salute. Subito si costrusse una cappelletta coll'immagine di Maria ai piedi del Bonicca, che ampliata e adornata nel processo dei tempi, fu sempre riverita pel concorso de' devoti e per le beneficenze della celeste Patrona. Di quegli stessi giorni fu rogato dal notaio Michele de Padio l'atto delle due apparizioni e delle istantanee guarigioni di quattro infermi, giurando, a nome dei due popoli presenti, il feudatario D. Gregorio Spinola coi più notabili di Campofreddo e di Masone.
Così parlava D. Bosco, mentre, quasi null'altro avesse a fare, ultimava un suo nuovo libretto, il fascicolo delle Letture Cattoliche pel mese di giugno portante il titolo: La Pace della Chiesa, ossia il Pontificato di S. Eusebio e S. Melchiade, ultimi martiri delle dieci persecuzioni. Era l'ultimo dei suoi fascicoli sulle vite dei Papi, ed è segnato colla lettera P indicante il numero dei volumetti che su questo argomento già erano stampati. Il fascicolo incomincia con nozioni topografiche intorno la città di Roma.
Il Servo di Dio avrebbe voluto continuare il suo lavoro storico fino a Pio IX, ma con suo gran rincrescimento dovette prima interromperlo e poi rinunziarvi, sia per aver smarriti alcuni quaderni, sia perchè assolutamente gli mancava il tempo. Ma era suo vivo desiderio che altri continuasse e conducesse a termine l'opera, ancorchè dovesse essere terminata dopo la propria morte: e ne diede a qualcheduno il consiglio, che non fu secondato perchè urgevano troppo altri lavori.
Don Bosco non vide adunque continuato il suo disegno di figlio amoroso verso la Chiesa, ma ciò che egli scrisse basta per darci un alto concetto della sua erudizione. Il dottissimo Mons. Luigi Tripepi, che morì Cardinale di S. Chiesa, nelle sue opere nominando D. Bosco fra gli storici più insigni della [118] Chiesa, cita spesso le vite dei Papi dei primi secoli scritte dal Venerabile e ne riporta varii brani facendo di lui i più splendidi elogi. Nei suoi Studii critici sulla vita di Papa Pio I, stampati a Roma nel 1869 da Pietro Marietti, tipografo pontificio, dice che “il dotto e venerato D. Bosco si era dato con mano esperta a delineare le gesta di questo Papa” e “vuolsi rendere gloria immortale ed aver obbligo eterno all'erudito e zelante Bosco, gran lume di Torino e della Chiesa...” “Non avverrà, aggiunge, ch'io non ascolti con singolare compiacimento le belle parole di Giovanni Bosco, per virtù e dottrina venuto a celebrità, il quale seguendo il verisimile e procedendo per congetture scrive del nostro santo: Dalla più tenera età palesò molta bontà di vita e grande attitudine per le scienze.”
E in altro suo volume: I papi e la Vergine, da S. Pietro a S. Celestino, fra qualche commento, scrivendo sul Papa San Telesforo dice: “Per me non rimanga, che l'erudito e pio Bosco, avendo un milione di ragioni, le quali sono gran lume della scienza, non tragga innanzi ad apprenderci col Segero, che degli anacoreti del Carmelo fu S. Telesforo, celebre per dottrina e santità”.
“... E gran mercè allo stesso Bosco, dalle cui parole verrò qui traendo fuori una vaga prova e carissima di quella pietà, che inverso Maria era piena l'anima nobilissima di Telesforo”.
E narrato del precetto che fece quel Santo Pontefice ai sacerdoti di celebrare tre messe nella notte di Natale continua:
“Ora il Bosco togliendo a numerare le ragioni, che mossero Telesforo a far legge di tal rito, una ne arreca, la quale chi abbia alcuna cosa famigliari i disegni dei santi, si renderà certo torni a gloria dell'Immacolata Signora: eccola senza più: - Altra ragione fu di alludere alla triplice nascita del Salvatore: 1° alla nascita eterna del Padre; 2° alla nascita temporale dalla Beatissima Vergine; 3° alla nascita spirituale quando colla sua santa grazia va nel cuore de' fedeli (p. 182). [119] E a pag. 229 così l'eminente scrittore si esprime:
“Niuna cosa al mondo mi terrebbe che al mentovato Bosco io non tributassi onore e riconoscenza, mercecchè a rafforzar le mie prove della divozione, che S. Pio aveva tenerissima alla Benedetta fra le donne, nell'opera dello zelante sacerdote di Torino io vengo soavemente ammaestrato come: - In una peregrinazione l'anno 160 egli (S. Pio) venne fino a Testona, una volta città ed ora piccolo borgo vicino a Moncalieri. Ivi consacrò una chiesa alla Beata Vergine e stabilì sacri ministri che ne avessero la cura... Una divota iscrizione posta sull'ingresso del coro sembra confermare questa credenza.”
Similmente in un'altra pagina (192) che descrive la catacombe Romane, il Tripepi dice D. Bosco uomo sapientissimo.
Erano stati predicati gli esercizi spirituali ai giovani dell'Oratorio dal Sac. Giovanni Bona, Rettore del Santuario della Madonnina presso Brescia, il quale, anni prima, aveva fatto il quaresimale in Torino nella chiesa di S. Filippo. L'entusiasmo destato nei cittadini dalla sua semplice e attraente parola produsse un gran frutto di salute alle anime: ed anche gli alunni di D. Bosco corrisposero quanto meglio si poteva sperare alle sue meditazioni ed istruzioni, veri gioielli intessuti di fatti, paragoni, parabole, descritte con vivezza impareggiabile.
Finiti gli esercizii spirituali, con nuovo ardore gli studenti ripigliavano l'applicazione ai loro doveri e si esercitavano nel dare qualche rappresentazione anche in lingua latina. L'Unità Cattolica del 18 maggio scriveva: [121]
“Oggi (18) gli allievi dell'Oratorio di S. Francesco di Sales reciteranno per la seconda volta la bellissima commedia latina col titolo: Larvarum victor. Questa commedia scritta dal valoroso latinista il P. Palumbo della Compagnia di Gesù è stampata coi tipi dell'Oratorio stesso”.
Il Palumbo stesso ne mandava le sue congratulazioni a Don Bosco:
E' qualche tempo che le debbo un vivo e sentito ringraziamento per la cura presasi in far rappresentare nel suo reputatissimo collegio la commedia latina del Vincitor delle fantasme, scritta da Mons. Rosini, e da me ritoccata. Vengo adunque con questa a sciogliere il mio debito di gratitudine ora che i pubblici diarii, per occasione della detta rappresentanza, fanno le più giuste lodi alla sua operosità ed al suo buon gusto, per saper Ella così bene informare la gioventù alla virtù ed alla classica letteratura. Che se alle sue lodi mescolano anche le mie, di queste stesse io mi tengo debitore a Lei, che si è degnato fare alcun conto dei nostri scherzi Plautini, e metterli in iscena. Non possono per altro negare che Ella, più che un divertimento ai Torinesi, ha procurato un vantaggio alla gioventù studiosa, ed ha dopo mezzo secolo e più attuato quello stesso a cui intese il mio prestantissimo Mons. Rosini. Tanto più che Ella ha voluto non pure produrre la Commedia nella scena, ma sì nella stampa, perchè fosse materiale di studio, e sì la utilità ne divenisse ai giovani più durevole: e non dire che i giovani mentovati, e sopratutto gli attori, conserveranno in quella stampa un ricordo perenne dei loro studii e dei plausi che colsero nella collegiale rappresentanza. Io dunque di tutto ciò la ringrazio vivamente a nome mio, ed a nome di quei pochi già vecchi discepoli della scuola rosiniana, che ancor sopravvivono al tristo scempio, che si è fatto e che tuttora si va facendo ai nostri tempi delle lettere latine, da quelli che pur dicono d'amar la patria, mentre ne odiano le glorie. Gran fortuna, mio veneratissimo Sig. Direttore, se la moderna società, volta oggi coi suoi pensieri a tutt'altro, potrà un tempo congratularsi con lei, o almeno consolarsi della sua memoria, per aver Ella mantenuto vivo in codesto collegio il fuoco sacro della latinità! Sarebbe un'altra bella prova pel laicato, che la Chiesa non fu mai la guastatrice, ma la salvatrice del bello e del buono. [122] Aggiungo i miei ringraziamenti prima al chiarissimo amico Vallauri, dal quale fui stimolato a compiere e mandare costà il lavoro: e poi all'ottimo ed operoso D. Francesia, le cui fatiche in preparare i giovani per la rappresentanza io più che altri posso immaginare ed apprezzare.
Finalmente un saluto ed un plauso cordiale agli attori. E con ciò profferendomele cordialissimamente mi dico con piena stima e rispetto
Non meno che per la classe degli studenti, faceva maravigliare i conoscitori dei bisogni della Società, l'operosità e sapiente intraprendenza di D. Bosco per la classe operaia. Eccone una prova:
La squisita accoglienza che incontrai nel di lei Istituto quando mi recai a visitarlo or sono due anni; e le cortesi informazioni che io ottenni sul prosperamento di esso, le quali poscia potei io medesimo rilevare dai fatti, mi incoraggiscono ad accompagnare con lettera d'introduzione, se pure fa d'uopo, presso di lei l'illustre ed egregio sig. Dott. Biffi, che porge la presente, Direttore d'uno stabilimento sanitario, di molta rinomanza nella nostra Milano, membro della Commissione visitatrice delle Carceri e di varie Accademie, il quale volendo far risaltare l'economia morale e sociale delle case riformatorie, si reca a Torino per viemmeglio conoscere i dati e i risultati dei vari istituti che a quest'opera attendono, ed era desideroso d'essere introdotto nel di Lei tanto applaudito stabilimento. Perdonerà questo tratto di confidenza, persuaso di metterla in rapporto con persona degna di tutta stima e tutta intenta a migliorare la condizione della società.
Col più profondo ossequio mi professo di Lei
Seminario delle Missioni Estere,
Un'altra lettera conferma la medesima stima:
La nobilissima impresa da Lei assunta di ritornare alla pratica del dovere una classe di sciagurati, che o il bisogno, o l'ignoranza, e più spesso il difetto assoluto di educazione domestica pone sul cammino del disonore, ha trovato un'eco anche in questa Provincia, ed io son fortunato che mi si presenti una circostanza, per attestarle i sensi della più profonda ammirazione per l'opera eminentemente cristiana e civile alla quale solo poteva bastare il suo zelo.
Unito con Lei in un medesimo spirito di carità, più volte questo Consiglio Direttivo s'era augurata una qualche occasione che gli fornisse agio di porsi in rapporto colla S. V. molto Rev.da, persuaso che le necessità del tempo consigliano oggi più che mai la unità dei propositi non solo, ma anche la comunanza delle opere nell'esercizio della carità.
Dall'opuscolo recentemente pubblicato che contiene gli atti della Società nostra per gli anni 1862 e 1863 e che ho l'onore di accompagnarle colla presente, Ella vedrà quali sieno i nostri intendimenti, ed in parte anche i risultati per noi ottenuti. Se Ella trovasse nella lettura di questo fascicolo un eccitamento ad entrare in relazione con noi, ad aiutarci dei suoi lumi e consigli, a darci in breve qualche notizia dell'ordinamento per Lei dato alla sua generosa Fondazione, il sottoscritto non ha parole a dirle quanto se ne sentirebbe onorato.
Quando poi Ella mi incoraggiasse nella di Lei benevolenza per questo primo favore, io mi riserverei a valermi anche in altre contingenze del di Lei concorso in profitto d'una istituzione che ha comuni con la sua gli intendimenti e i propositi.
Voglia condonarmi, Molto Rev. Signore, la libertà colla quale io mi dirigo al suo zelo, ed ho l'onore di protestarmi con tutto l'ossequio
Anche il Ministro delle Finanze riconosceva i meriti di D. Bosco per la cura che prendevasi dei giovani poveri ed abbandonati. [124]
Mi è grato di partecipare alla S. V. molto Reverenda che il Signor Ministro delle Finanze ha recentemente concesso, a mia proposta, una sovvenzione di L. 300 al Pio Istituto da Lei con tanta lode diretto.
Il relativo mandato di pagamento spedito in capo della S. V. sarà quanto prima esigibile presso la tesoreria provinciale di Torino.
Sono ben lieto di aver potuto in qualche modo contribuire ad un provvedimento che torna a vantaggio di un Istituto così benemerito dell'umanità ed ho intanto il pregio di ripetermi con ben distinta stima e considerazione
Ma tra i fiori di maggio spuntavano anche spine acute, le quali dovevano ferire dolorosamente il cuore di D. Bosco. Quattro dei suoi sacerdoti erano caduti infermi di malattie incurabili.
D. Francesco Provera, Prefetto del Collegio di Lanzo, ordinato sacerdote nel 1864, sentiva farsi più acuto in un piede il dolore che avealo già afflitto anni prima. Corrodevagli l'osso una carie progressiva, sicchè non andò molto che fu costretto a rimaner inchiodato sopra una sedia. Il dott. Magnetti, che lo curava, lo aveva sottoposto a dolorose operazioni, restando così meravigliato della fortezza colla quale l'infermo sopportava tanti tormenti, che ebbe ad esclamare:
- Quest'uomo deve essere un santo!
Per mesi Don Provera non potè più celebrare la Messa, ma vi suppliva col fare quasi ogni giorno la santa comunione: e intanto continuava a lavorare, a provvedere ogni cosa per mezzo di un confratello, e a dare udienze ai parenti degli alunni. E tutto disimpegnava con carità ed allegria.
Valenti medici, radunati a consulto, dichiararono incurabile il suo male e parlarono di un'amputazione; ma scorgendolo [125] così sfinito conclusero che l'amputazione non sarebbe riuscita a salvarlo, ma solo a farlo soffrire di più; essere perciò miglior partito lasciar fare dalla natura. D. Bosco nell'udire questa prognosi soggiunse:
- Rimanga adunque sotto la cura della Provvidenza!
E Provera, che non potè più posare in terra il piede finchè visse, sostenendo il ginocchio con una piccola gruccia di legno ed appoggiato ad un bastoncello, continuò a muoversi qua e là per la casa. D. Bosco gli aveva predetta questa croce fin dall'anno 1862.
Anche il Direttore del Collegio di Lanzo, il sacerdote Ruffino, era caduto infermo, vittima del suo zelo. Venuto in Torino nei primi giorni della settimana santa per chiedere consigli a D. Bosco, ritornò al suo collegio sull'imperiale della vettura, con un viaggio di quattro ore, esposto ad una pioggia continua. Non appena giunto a casa, seppe che in parrocchia il Vicario e il suo vice parroco non bastavano a contentare il gran numero di penitenti che si preparavano per fare la Pasqua, e senza mutarsi gli abiti si recò a confessare e confessò più ore. Per questa generosa imprudenza, non tardò, essendo di gracile costituzione, a colpirlo un violento mal di petto, che in pochi mesi doveva condurlo agli estremi.
Erano adunque gravemente infermi il Direttore e il Prefetto del Collegio di Lanzo, e D. Bosco provvide col mandare in loro aiuto il Direttore spirituale dell'Oratorio, D. Bartolomeo Fusero, giovane prete, di molta scienza e anch'esso di sante speranze. Pur questi, appena giunto al collegio, fu colpito da lenta paralisi al cervello e dovette essere rinviato a Torino e in fine venire affidato ad una casa di salute.
Il quarto infermo era nell'Oratorio, e D. Bosco nel suo dolore avrebbe per lui offerto in sacrificio la propria vita. Era questi Don Vittorio Alasonatti, ormai maturo pel cielo. Egli andava visibilmente spegnendosi. Un doloroso reuma infieritosi sulla spalla destra ed un'ulcere nella gola che allargandosi [126] minacciava ad ogni ora di soffocarlo, lo costringevano all'inazione. Nella speranza che l'aria nativa venisse a giovargli, cedendo al consiglio di D. Bosco, erasi recato ad Avigliana, donde scriveva al suo caro Superiore:
Sento il dovere di scriverle ed ho forte brama eziandio di avere notizie della preziosa salute di V. S. Stim.ma, coll'appendice dell'andamento dei RR. collaboratori e degli allievi. Le scrivo breve allo scopo di sottomettermi alla rispettabilissima di Lei volontà con sempre nuova costanza, pregandola di comandarmi senza riserva qualora mi creda vantaggiosa una qualche sua disposizione opposta alle precedenti a me comunicate. Pregandola dunque di un cenno per se vel per alium, accetterò come un vero favore qualunque sua comunicazione od ordine o consiglio, perchè la credo emanata dal cuore di mio bene unicamente desideroso. Un'indicazione dell'andamento della casa, della Congregazione, mi sarebbe carissima altresì, quando Ella mi stimi degno di tal favore.
Passo ora alle cose mie, se stima volerle conoscere. Premetto i rispetti di mio padre e della famiglia a V. S. Rev.ma e le accerto che io non potrei per nessun modo bramare attenzioni maggiori, fino ad offerirmi denaro per i bisogni che mi occorressero. La quiete che qui si può godere mi alleggeriva fin dai primi giorni a poco a poco della tosse ostinatissima, asciutta, che mi impediva il sonno. A questo punto non mi molesta più gravemente, ma non lascia di essere difficile a sfogare, procurandomi un rantolo prolungato e frequente. Il mal di capo mi assale ancora per poco mi occupi a leggere, a pregare, a scrivere, ma meno regolarmente. La spalla destra è quella che più mi indolentisce dì e notte, giacchè, malgrado i rimedi sempre usati e continuativi, la ghiandola tiroidea non cede che forse poco, se non forse niente: per il che dopo una prova ancora più o meno prolungata, se così a Lei piacerà e secondo suo consiglio, mi riferirò alle ordinazioni che verrà invocando da V. R. ovvero mi porterò, si Deus dederit, costì per vederla e consultare.
Vede quanto io penso pel corpaccio. Ma e di virtù come io stia, non saprei dirglielo. Mi raccomando alle orazioni dell'Oratorio intiero e massime della S. V. e dei RR. consacerdoti, ai quali prego la Bontà Vostra di degnarsi comunicare i continui e cordiali miei sentimenti [127] di unione in Domino, colla speranza di non venir rigettato dal rispettabilissimo e favorevolissimo loro Consorzio.
Finora non ho fatto visita che ai RR. Parrocchiali di ambe le case di questo Borgo ed ai RR. Cappuccini. Il Vicario Foraneo mi largì f. 10 e D. Balbiano f. 1 per la Chiesa.
Non saprei se D. Martina sia stato servito di copie del disegno, così D. Gavotto ecc. di Giaveno. A D. Martina sarei un qualche pomeriggio contento di portarlo: a Giaveno potrei mandarli, se le mie gambe non vorranno favorirmi meglio, ovvero prenderò la vettura.
Il braccio che porta la mano scrivente spiega quanta sia la sua bravura, e la mia testa proverà l'abbondanza di ordine e chiarezza nella mia esposizione.
Qui il mese di Maria è quanto si può desiderare ben celebrato in ambedue le parrocchie. Oggi è stato il fine del Giubileo. Il nostro Parroco ne è più che non credeva soddisfatto. Ci mancano all'universale pochissimi capri pasqualini. I RR. Cappuccini, i Parrochi ad ogni ora si trovano presti e caritativi a confessare. Deo gratias!
Gli esercizi triduani costì avranno fruttato ad honorem Dei! Utinam! Tanti saluti al Rev. ed ottimo D. Bona, se è ancora tra le amate nostre mura, a D. Cagliero in primis, DD Ghivarello, Savio, Francesia, ecc.
Gradisca la rinnovazione dei sentimenti di mia figliale obbedienza e di sincero ossequio. Voglia il Signore che non venga mai a scemarmi il rispettoso affetto che mi sento per Lei.
Ella mi benedica anima e corpo, a gloria di Dio unicamente, onde io faccia l'adorabilissima sua volontà. Mi perdoni tutto, quanto in questa, e mi reputi sempre
aff.mo sebben indegno servo, figlio ed amico
La seconda lettera, forse l'ultima che scrisse in vita sua D. Alasonatti, continua a svelarci la grande virtù di chi dopo D. Bosco ha diritto di essere chiamato padre della Pia Società di S. Francesco di Sales.
Avigliana, Porta ferrata, 20 maggio 1865.
Molto Rev.do e Carissimo Sig. D. Bosco,
Oggi, sabato, è giorno dei conti, quindi ben è dovere che io rassegni quanto al morale, al letterario e fisico mio andamento si passò nella settimana al mio affezionatissimo sig. Padre, Direttore ed amico vero. [128] Ogni mattino per lo più alle 4 ½ ho finito la S. Messa in cui mi ricordo, com'è di tutta ragione, di V. R., dei compagni e dei giovani. .Non ho più letto nè scritto in tutta la settimana, fuorchè un percorrere superficialmente ed oggi scrivere a Lei ed al sig. D. Savio. Non ho fatto visita a persona, nè oltrepassato il limite della mia parrocchia alla quale tornava qualche giorno nelle ore pomeridiane. La ragione di tutto questo mio fare sta che appena giunto a casa mi trovai serrato più che prima nello stomaco e travagliato dalla tosse per alcuni colpi d'aria presi nel vapore. Il mio fiato era lungo due dita ed il rantolo costante: da due giorni questa faccenda mi volge in bene, mediante camomilla a caldo e l'olio di lino, sui quali mezzi ho molta speranza di portar avanti un po' e presto le forze della mia bestia.
La notte dormo fin circa le due e poi conviene che io mi alzi per le scariche (da veniam) della tosse. Le doglie alla testa e alla spalla continuano, e perciò mi tengo in osservanza del divieto d'occuparmi, sentendole aggravare dopo qualunque applicazione e dopo le refezioni. Dopo la S. Messa prendo il rimedio, e poi mi rifaccio del sonno perduto sinchè mi portano una minestra per colazione. Mi trovo in mezzo a persone che vanno a gara in usarmi attenzioni prevenendo perfino i desiderii miei da loro immaginati. Non è questa una bella vita?!
Non la trattengo di più in sì bassa cosa e la prego di gradire i rispettosi saluti del mio buon papà, di D. Maurizio, dei Parrocchiali nostri e di quel di Buttigliera, con quelli del fratello di Giacomelli, ecc.
Mio padre le fa invito di venire un giorno intero con esso lui (però lunedì posdomani eccettuato) con qualche compagno, per es. il Cavaliere o D. Savio. Io desidero vivamente di vederli e, se verrà, di avere da Lei una benedizione, altrimenti la dia di costì.
La SS. Vergine Auxilium Christianorum ci assista tutti e nel giorno di sua festa ci benedica. Il Signore la conservi ed Ella mi continui la sua benevolenza, alla quale mi pare di aver voluto e voler corrispondere.
Ricordandosi sempre di me, saluti i giovani tutti e massime i sigg. consacerdoti e coadiutori e compagni con D. Giacomelli; mi aiuti colle sue sante orazioni e sacrifizi e da ultimo si degni credermi, se lo merito, col massimo ossequio e con figliale affetto nel Signore
Don Alasonatti vedendo che l'aria nativa non recavagli alcun miglioramento, anzi accresceva i suoi dolori, domandò per favore a D. Bosco di venir a morire nell'Oratorio. Gli fu concesso; ma quale fu la costernazione di D. Bosco, dei preti, [129] dei chierici, dei giovani, di tutta la casa nel vederlo rientrare nell'Oratorio in più lagrimevole stato! Gli si prodigarono tutte le cure dell'arte, e vane erano le visite dei medici più periti, vane le premure degli infermieri, vane le preghiere di tutto l'Oratorio per richiamare al primo vigore quella cara esistenza.
Avuta notizia di questa malattia, Mons. Ghilardi scriveva a D. Celestino Durando da Mondovì, il 20 luglio 1865:
“Oh quanto mi addolora la notizia della disperata salute dell'ottimo D. Alasonatti! Davvero che codesto Stabilimento non aveva bisogno di questa visita del Signore, ma pure conviene baciare la sua benedetta mano anche quando ci percuote perchè sempre mano di un padre il quale, quos corripit, amat. Domani dirò la S. Messa pel suddetto, ed Ella voglia fargli una visita per me dicendogli tante cose di conforto per parte mia. Lo stesso faccia col carissimo D. Bosco, che dirà con S. Paolo: Absit mihi gloriari nisi in cruce Domini nostri Jesu Christi”.
Fra queste pene il Servo di Dio si consolava colla divozione a Maria SS., onorata nel mese di Maggio da tutta la comunità in modo speciale. Dei suoi discorsetti serali la Cronaca ci ha conservato solamente quello del giorno 30 del mese, il quale però è sommamente prezioso.
Vidi un grande altare dedicato a Maria ed ornato magnificamente. Vidi tutti i giovani dell'Oratorio i quali in processione si avanzavano verso di esso. Cantavano le lodi della Vergine Celeste, ma non tutti allo stesso modo benchè cantassero la stessa canzone. Molti cantavano veramente bene e con precisione di battuta e di questi quale più forte e quale più piano. Altri cantavano con voci pessime e roche, altri stonavano, altri venivano innanzi silenziosi e si staccavano dalla fila, altri sbadigliavano e pareano annoiati; altri si urtavano e se la ridevano fra di loro. Tutti poi portavano dei doni da offerire a Maria. Tutti avevano un mazzo di fiori, quale più grosso e quale più piccolo e diversi gli uni dagli altri. Chi aveva un mazzo di rose, chi di garofani, chi di violette, ecc. Altri poi portavano alla Vergine dei doni proprio strani. [130] Chi portava una testa di porcello, chi un gatto, chi un piatto di rospi, chi un coniglio, chi un agnello od altre offerte.
Un bel giovane stava davanti all'altare, il quale a considerarlo attentamente si vedeva che dietro le spalle aveva le ali. Era forse l'Angelo Custode dell'Oratorio, il quale di mano in mano che i giovani offrivano i loro doni, li riceveva e li ponea sull'altare.
I primi offrirono magnifici mazzi di fiori e l'angelo senza dir nulla li posò sull'altare. Molti altri porsero i loro mazzi. Esso li guardò; sciolse il mazzo, ne fece togliere alcuni fiori guasti che cacciò via, e ricomposto il mazzo, lo posò sull'altare. Ad altri che avevano nel loro mazzo fiori belli ma senza odore, come sarebbero le dalie, le camelie, ecc. l'Angelo fe' togliere via anche questi, perchè Maria vuol la realtà e non l'apparenza. E così rifatto il mazzo, l'Angelo l'offerse alla Vergine. Molti tra i fiori avevano delle spine, poche o molte, ed altri dei chiodi, e l'Angelo tolse questi e quelle.
Venne finalmente colui che portava il porcello e l'Angelo gli disse: - Hai tu coraggio di venir ad offrire questo dono a Maria? Sai che cosa significa il porco? Significa il brutto vizio dell'impurità, Maria che è tutta pura non può sopportare questo peccato. Ritirati adunque, chè non sei degno di stare davanti a lei.
Vennero gli altri che avevano un gatto e l'Angelo disse loro: - Anche voi osate portare a Maria questi doni? Sapete che cosa significa il gatto? Esso è figura del furto e voi l'offrite alla Vergine? Sono ladri coloro che prendono danari, roba, libri ai compagni, coloro che rubano commestibili all'Oratorio, che stracciano le vesti per dispetto, che sciupano i denari dei parenti non studiando. - E li fece ritirare anch'essi in disparte.
Vennero coloro che avevano i piatti di rospi e l'Angelo guardandoli sdegnato: - I rospi simboleggiano i vergognosi peccati di scandalo e voi venite ad offrirli alla Vergine? Andate indietro; ritiratevi cogli altri indegni. - E si ritirarono confusi.
Alcuni s'avanzavano con un coltello piantato nel cuore. Quel coltello significava i sacrilegi. E l'Angelo disse loro: - Non vedete che avete la morte nell'anima? che se siete in vita è una speciale misericordia di Dio? altrimenti sareste perduti. Per carità fatevelo cavare quel coltello! - Ed anche costoro furono respinti.
A poco a poco tutti gli altri giovani si avvicinarono. Chi offrì agnelli, chi conigli, chi pesci, chi noci, chi uva, ecc., ecc. L’Angelo accettò tutto e mise tutto sull'altare. E dopo aver così divisi i giovani, i buoni dai cattivi, fece schierare tutti coloro i cui doni erano stati accetti a Maria, davanti all'altare; e coloro che erano stati messi da parte furono con mio dolore molto più numerosi di quello che credeva.
Allora da una parte e dall'altra dell'altare comparvero due altri angioli, i quali sorreggevano due ricchissime ceste piene di magnifiche [131] corone, composte di rose stupende. Queste rose non erano propriamente rose terrene, sibbene come artifiziali, simbolo dell'immortalità.
E l'Angelo Custode prese quelle corone una per una e ne incorono tutti i giovani che erano schierati innanzi all'altare. Fra queste corone ve ne erano delle più grandi e delle più piccole, ma tutte di una bellezza ammirabile. Notate anche che non v'erano i soli attuali giovani della casa, ma sibbene molti altri che io non aveva mai visti. Or bene accadde una cosa mirabile! Vi erano dei giovani così brutti di fisonomia che quasi mettevano schifo e ribrezzo; a costoro toccarono le più belle corone, segno che ad un esteriore così brutto suppliva il dono, la virtù della castità, in grado eminente. Molti altri avevano, pure la stessa virtù, ma in grado meno eminente. Molti si distinguevano per altre virtù, come l'obbedienza, l'umiltà, l'amor di Dio, e tutti in proporzione dell'eminenza di queste virtù avevano proporzionate corone. E l'Angelo disse loro:
- Maria oggi ha voluto che voi foste incoronati di così belle rose. Ricordatevi però di continuare in modo che non vi vengano tolte. Tre sono i mezzi per conservarle. Praticate: 1° L'umiltà; 2° l'ubbidienza; 3° la castità: tre virtù le quali vi renderanno sempre accetti a Maria e un giorno vi faranno degni di ricevere una corona infinitamente più bella di questa.
Allora i giovani incominciarono ad intonare davanti all'altare l'Ave, maris stella.
E cantata la prima strofa, in processione come erano venuti, si mossero per partire, mettendosi a cantare la canzone: Lodate, Maria! con voci così forti che io ne restai sbalordito e meravigliato. Li seguii ancora per qualche tratto e poi tornai indietro per vedere i giovani che l'Angelo aveva messi da parte: ma più non li vidi.
Miei cari! Io so quali furono quelli incoronati e quali quelli scacciati dall'Angelo. Lo dirò ai singoli, acciocchè procurino di portare alla Vergine doni che essa si degni di accettare.
.Intanto alcune osservazioni. -La prima: Tutti portavano fiori alla Vergine, e dei fiori ve ne erano di tutte le qualità, ma osservai che tutti chi più, chi meno, in mezzo ai fiori aveano delle spine. Pensai e ripensai che cosa significassero quelle spine e trovai che realmente significavano la disobbedienza. Tener danari senza licenza e senza volerli consegnare al Prefetto; domandar permesso di andare in un sito e poi andare in un altro; andare a scuola più tardi e quando è già qualche tempo che gli altri vi si trovano; fare insalate e altre merende clandestine; andare nelle camerate altrui quando assolutamente è proibito, qualunque motivo o pretesto possiate avere; alzarsi tardi alla levata; lasciare le pratiche di pietà prescritte; ciarlare quando è tempo di far silenzio; comprar libri senza farli vedere; mandar lettere senza licenza, per mezzo di terza persona, acciocchè non sieno viste e riceverne collo [132] stesso mezzo; far contratti, compre e vendite, l'un l'altro; ecco che cosa significano le spine. Molti di voi dimanderanno: è dunque peccato trasgredire le regole della casa? Pensai già seriamente a questa questione e vi rispondo assolutamente di sì. Non vi dico sia grave o leggero: bisogna regolarsi dalle circostanze, ma peccato lo è. Qualcheduno mi dirà; ma nella legge di Dio non vi è che noi dobbiamo obbedire alle regole della casa! Ascoltate: vi è nei comandamenti: - Onora il padre e la madre! - Sapete che cosa voglion dire quelle parole padre e madre? Comprendono anche chi ne fa le veci. Non sta anche scritto nella S. Scrittura: Oboedite praepositis vestris? Se voi dovete obbedire, è naturale che essi abbiano a comandare. Ecco l'origine delle regole d'un Oratorio, ed ecco se siano obbligatorie sì o no.
Seconda osservazione. - Alcuni avevano in mezzo ai loro fiori dei chiodi, chiodi che avevano servito ad inchiodare il buon Gesù. E come? Si incomincia sempre dalle cose piccole e poi si viene alle grandi. Quel tale volea aver danari per secondare i suoi ghiribizzi; quindi, per spenderli a modo suo, non volle consegnarli; poi incominciò a vendere i suoi libri di scuola e finì col rubacchiare danari e roba ai compagni. Quell'altro volea solleticare la gola, quindi bottiglie, ecc. poi si permise licenze, insomma cadde in peccato mortale. Ecco come si trovarono in quei mazzi i chiodi, ecco come il buon Gesù venne crocifisso. Lo dice l'Apostolo che i peccati tornano a porre in croce il Salvatore: Rursus crucifigentes filium Dei.
Terza osservazione. - Molti giovani avevano tra i fiori freschi e odorosi dei loro mazzi anche dei fiori guasti e marci o dei fiori belli senza odore. Quelli significavano le opere buone ma fatte in peccato mortale, opere che a nulla giovano per accrescere i meriti loro: i fiori poi senza odore sono le opere buone ma fatte per fini umani, per ambizione, solamente per piacere ai maestri e ai superiori. Quindi l'Angelo li rimproverava che osassero portare a Maria simili offerte e li rimandava indietro ad accomodare il loro mazzo. Essi si ritiravano, lo disfacevano, toglievano i fiori guasti e poi, ordinati di nuovo i fiori, li legavano come prima e li riportavano all'Angelo il quale allora li accettava e li poneva sulla mensa. Questi poi nel ritornare non seguivano più alcun ordine, ma appena erano pronti, chi prima chi dopo, ciascuno riportava il suo mazzo e si andava a collocare con quelli che doveano ricevere la corona.
Io vidi in questo sogno tutto ciò che fu e che sarà dei miei giovani. A molti l'ho già detto, agli altri lo dirò. Voi intanto procurate che questa Vergine Celeste da voi riceva sempre doni che non abbiano mai ad essere rifiutati.
DON Bosco, collocata la pietra angolare della nuova chiesa, aveva cominciato a domandar doni che dovevano servire come premi ai numeri vincitori della lotteria. Ecco la circolare, da lui diramata in proposito.
Sono alcuni anni che io ricorreva a V. S. Benemerita invitandola a prendere parte ad una Lotteria iniziata a favore dei poveri giovani che frequentano gli Oratorii maschili di questa città, ed Ella mi porse la mano benefica cui mercè l'opera venne condotta ad un felice risultato. Mentre ho tuttora l'animo pieno di gratitudine per quanto ha fatto, mi si parano davanti novelli bisogni, novelle circostanze che mi spingono ad iniziarne un'altra, come unico mezzo per fare ricorso alla piccola beneficenza. - Fra questi bisogni sono i fitti, la manutenzione, riparazione ed anche la costruzione di locali destinati a questi Oratorii ed ultimamente una chiesa posta in costruzione nel [134] quartiere di Valdocco. - Dal programma e dal piano della Lotteria, che spero di poterle fra breve inviare, vedrà vie meglio spiegato quanto qui solamente accenno. Intanto io con tutta confidenza, calcolando di nuovo sulla efficace di lei cooperazione, la pregherei di tre speciali favori:
1° Di continuarmi il suo favore per un'opera che già altre volte Ella si degnò di beneficare;
2° Indicarmi il nome e il cognome di quelle persone che Ella giudica propense a prestarsi come promotori di quest'opera di beneficenza;
3° Se, mai Ella o qualcheduno di sua conoscenza possedesse doni da destinarsi a questa bisogna, si compiacesse d'inviarli a questa casa in quel modo che le recherà minor disturbo. Imperciocchè per iniziare una Lotteria devesi prima raccogliere un determinato numero di oggetti da descriversi e presentarsi al sig. Prefetto di codesta città e provincia, per quindi ottenere la facoltà di farne la pubblica esposizione.
Mentre per altro ripongo in Lei la più viva fiducia, l'assicuro che mi adoprerò quanto mi sarà possibile per diminuirle il disturbo in tutte le incombenze che possono occorrere nel compiere l'opera che nella sua bontà prende a promuovere.
Iddio che, ricco di grazie, largamente ricompensa un bicchiere d'acqua dato in suo nome, le conceda vita felice e mandi sopra di Lei copiose benedizioni per la carità che sarà per usare a questi poveri giovanetti e per la costruzione della casa del Signore.
Voglia in fine gradire che colla più sentita riconoscenza io abbia l'onore di potermi professare
Oratorio di S. Francesco di Sales
In risposta alle circolari spedite giungevano in gran numero casse e involti, e si enumerarono ben presto 840 premii. Per farne l'esposizione fu destinata una sala che si stendeva in tutto il secondo piano del braccio di fabbrica posta sulla via della Giardiniera. I periti legali esaminarono il valore della prima raccolta di premi e sotto l'elenco di essi ne fissarono il prezzo. [135]
Elenco dei doni fino al N. 840...
A richiesta del Sac. D. Giovanni Bosco dichiaro aver proceduto oggi a l'esame e valutazione degli oggetti d'arte qui sovra descritti, formanti insieme la somma di lire undici mila cinquecento dieci (11.510). - In fede, Torino, li 14 maggio 1865, Professore Giovanni Volpato.
Il sottoscritto a richiesta del signor D. Bosco ha proceduto all'estimazione degli oggetti di vario commercio descritti nell'elenco qui sopra esposto per la somma di lire dodici mila novantuna, (12.091). - In fede, Torino, li 15 maggio 1865, Buzzetti Giuseppe, Estimatore.
A scanso di equivoci si avverte che dal N. uno al N. sessanta furono lasciati in bianco per annotarsi i doni che si spera di ottenere da S. A. il Principe Amedeo e dai Ministri.
Ciò fatto, il Servo di Dio non pose tempo in mezzo nel dar principio alle pratiche per ottenere dall'Autorità civile il permesso della Lotteria. Scriveva al Prefetto Pasolini:
Già altre volte ho fatto ricorso a V. S. Ill.ma nei gravi bisogni degli Oratorii Maschili di questa città ed ho sempre trovato in Lei un potente appoggio. Il medesimo favore spero eziandio di trovare nel caso presente in cui bisogni veramente urgenti si fanno sentire. Questi bisogni sono:
1° Pagare alcuni arretrati del fitto della scuola ed Oratorio festivo di Vanchiglia che monta annualmente a franchi 630; dell'Oratorio di S. Luigi a Porta Nuova di franchi 450 annui; di San Giuseppe a S. Salvario di franchi 300.
2° Estinguere una passività di lire 25.000 dovuta al sig. Filippi a compimento del debito contratto per un corpo di casa dal medesimo venduto, e da me comprato per dare ricetto a maggior numero di poveri giovani.
3° Dare pane ad un numero di circa ottocento poveri giovanetti, i quali nella casa detta Oratorio di S. Francesco di Sales sono provveduti di vitto e vestiario ed avviati al lavoro.
4° Ultimare la costruzione di una nuova chiesa, giacchè quella di cui ci siamo finora serviti, pel notabile aumento di giovanetti capisce nemmeno più la terza parte dei giovani che intervengono.
Affine di provvedere a tutti questi bisogni ho pregato gl'infra nominati signori a radunarsi in una sala del Municipio, i quali esaminata la necessità di tali spese ed avvisando ai mezzi di fare fronte [136] alle medesime, proposero una lotteria di oggetti nel modo spiegato nell'unito programma e piano di regolamento. Per questo bisogno ricorro rispettosamente a V. S. Ill.ma, supplicandola: 1° Di voler approvare la Commissione di questa lotteria nei membri sottonominati con facoltà di pubblicare il programma coi rispettivo regolamento; - 2° Inoltre di poter smerciare biglietti N. 94.404 a cent. 50 caduno che formano lire 47.202 corrispondenti al doppio valore degli infrascritti oggetti. - 3° Che ciascun biglietto sia segnato da un membro della Commissione e marcato col bollo della medesima come nel modulo ivi unito.
Persuaso che questa domanda sarà dalla sua carità benevolmente accolta, Le auguro tutto il bene dal Cielo, mentre ho l'alto onore di potermi colla più sentita gratitudine dichiarare
D. Bosco adunque insieme colla lettera rimetteva al Prefetto la lista dei membri della Commissione, il Programma e il piano della lotteria, il modulo dei biglietti, l'elenco dei doni o premii ottenuti dai benefattori, l'estimo di questi fatto dai periti. Quattro giorni dopo aveva la seguente risposta:
Oratorio di S. Francesco di Sales
IL PREFETTO DELLA PROVINCIA DI TORINO
Visto il ricorso che precede, del sig. Direttore dell'Oratorio di S. Francesco di Sales in questa città, tendente ad ottenere la facoltà di eseguire una lotteria di oggetti mobili stati ad un tal fine donati da erogarsene il prodotto a totale beneficio di detto Oratorio:
Visto il successivo programma, ossia piano di detta Lotteria, susseguito dal modulo del registro a matrice e de' biglietti, non che dell'elenco de' Membri componenti la Commissione;
Visto il primo Elenco, al presente annesso, degli oggetti come sovra donati, valutati dal sig. perito Volpato nella somma di Lire 23.601; [137]
Visto il Regio Decreto 24 settembre 1863, X. 1484;
1° È autorizzata la Lotteria degli oggetti descritti in detto elenco a favore dell'Oratorio di S. Francesco di Sales in Torino mediante l'emissione di numero novanta quattro mila quattrocento quattro biglietti a centesimi cinquanta caduno, producenti la somma di lire 47.202, doppio del valore de' premi. Detta Lotteria verrà eseguita nel modo e sotto le condizioni portate dal piano sovraccennato;
2° Ciascun biglietto sarà firmato da uno de' Membri della Commissione che l'ufficio riconosce composta come nell'elenco che precede, e porterà inoltre la firma di un impiegato di questa Prefettura, che si delega nella persona del sig. Carlo Baccalario;
3° Prima che incominci la distribuzione dei biglietti verrà detta lotteria annunziata al Pubblico mediante analoga notificanza per parte di detta Commissione, in quale notificanza si dovrà far cenno del ricorso, del piano della lotteria, e del presente Decreto ed indicare il luogo, giorno ed ora in cui si effettuerà l'Estrazione.
Questa seguirà in presenza dei delegati della Commissione sotto la presidenza del sig. Sindaco di questa città, i quale è incaricato di rendere conto della regolarità dell'operazione.
4° La Commissione predetta farà poi constare a questo ufficio che l'intiero prodotto della vendita dei biglietti venne erogato ad esclusivo beneficio dell'Istituto ricorrente, a cui pure spetteranno quelli rimasti invenduti.
Ottenuta questa autorizzazione, in pochi giorni veniva diffuso a migliaia di copie nell'Italia settentrionale e centrale il manifesto-invito col Programma e piano della lotteria, coi nomi dei membri della Commissione[8].
Detto invito era accompagnato da una lettera del Segretario della Commissione stessa. [138]
Oratorio di S. Francesco di Sales.
Ho l'onore di inviare a V. S. Ill.ma il programma di una lotteria che a nome della Commissione per la medesima instituita, raccomando alla conosciuta di Lei carità.
E' desiderio della Commissione suddetta di annoverare eziandio V. S. Ill.ma tra i Promotori della medesima, ed ove Ella non mi faccia conoscere il suo parere in contrario, mi terrò come autorizzato di inscrivere il rispettabile di Lei nome nel catalogo dei benemeriti promotori.
Lo scopo della Lotteria e gli oneri annessi all'ufficio di promotore potrà a pieno conoscerli dall'unito programma e piano di Lotteria, già approvati dall'Autorità governativa.
Il Cielo compensi largamente la sua carità e nella fiducia che sarà per dare benigno compatimento al disturbo che le cagiono, ho l'onore dì potermi con gratitudine professare
Cav. FEDERICO OREGLIA DI S. STEFANO,
Con altra lettera circolare il nobile segretario distribuiva biglietti e si raccomandava per la spedizione dei doni raccolti.
Oratorio di S. Francesco di Sales
La Prefettura di questa provincia, mentre approvava la Lotteria alla nota carità di V. S. Ill.ma raccomandata, autorizzava eziandio la prima emissione di biglietti corrispondente al valore dei doni già offerti.
Ora per dare sesto ad alcune urgenti spese che occorrono per questi Oratori maschili, e più ancora per non interrompere i lavori della Chiesa posta in costruzione, che si va alacremente ogni giorno più innalzando fuori terra, ne affido al suo zelo decine N. 8 con preghiera di volerle raccomandare a chi e con quella misura che a Lei sarà beneviso. [139] Nel tempo stesso le fo preghiera di raccogliere que' doni che potrà avere dalle persone caritatevoli e farli pervenire alla sala destinata per la pubblica esposizione, nel modo che Le sarà di minor incomodo.
Le partecipo a nome della Commissione con gran piacere che questa Lotteria è assai bene incominciata e confidiamo che col favore di V. S. sarà a felice risultato condotta.
Voglia gradire i sentimenti della più viva mia gratitudine con cui ho l'onore di potermi professare,
FEDERICO OREGLIA DI S. STEFANO,
Anche per mezzo dei giornali si dava maggior pubblicità alla Lotteria.
L'Unità Cattolica del 19 luglio 1865 stampava:
“Lotteria in Torino. - Già più volte abbiamo raccomandato alla pietà dei nostri lettori la Chiesa, che si sta edificando in Torino in onore di Maria, Auxilium Christianorum. Ora ne piace annunziare la Lotteria, già iniziata per questo effetto nell'Oratorio di S. Francesco di Sales, esortando i buoni cattolici a voler promuovere con le loro oblazioni un'opera incoraggiata dalla Santità di Pio IX e posta sotto la speciale protezione della Reale Famiglia. Sarà accolto con grande riconoscenza qualunque oggetto d'arte o d'industria, e verrà stampato in un catalogo il nome del donatore. Il prezzo di ciascun biglietto è fissato a cent. 50”.
Contemporaneamente D. Bosco si rivolgeva anche con lettere di proprio pugno a conoscenti ed amici perchè lo aiutassero a spacciare i biglietti della Lotteria. Di queste se ne conserva una:
Ho bisogno che tu mi aiuti a smerciare il pacco dei biglietti (venti decine) che ti unisco acchiusi. Per mezzo tuo mi raccomando anche a papà ed a maman affinchè ti vogliano dar mano per lo smercio e così tu me li possa restituire a suo tempo e con tutta tua comodità in danaro corrispondente. [140] Desidero tanto di avere una delle tue visite, ma nel modo che sai tornarmi caro.
Dio ti benedica, mio caro. Saluta i tuoi parenti da parte mia e abbimi sempre con sincera affezione
Sig. Casazza Secondo, via Garibaldi, 33 - Torino.
Così era bene avviata una Lotteria, di cui però l'estrazione doveva essere per varii motivi prorogata fino all'anno 1867.Questa dilazione riuscì vantaggiosa per lo spaccio dei biglietti, ma non poteva togliere D. Bosco da gravi difficoltà. Quindi, pieno di fiducia egli si rivolgeva agli antichi suoi amici e fra gli altri scriveva al sig. Cav. Zaverio di Collegno, che si trovava nella sua villeggiatura di Cumiana:
Il povero D. Bosco si trova nelle strette per fare andare avanti la Chiesa di Maria Ausiliatrice, perciò si raccomanda a Lei onde volesse prenderne qualche pezzo a suo conto:
3 ° Travicelli che sostengono i listelli;
4° Travi che sostengono i travicelli.
Ciascuno di questi lotti (non si spaventi) monta circa a quattro mila franchi, forse qualche centinaio meno. Che ne dice il suo cuore? Io credo che la Madonna SS. la compenserebbe con preparare a Lei, ai cari Emanuele e Luigi, una bella abitazione in cielo, perchè Ella aiuta a compiere la sua casa sopra la terra.
Tale, collana non sarebbe da sborsarsi subito, ma nel corso dell'anno.
Le dico con piacere che i lavori sono già all'altezza della volta delle cappelle, e alla metà d'agosto spero che saremo al coperchio.
Io fo una domanda e so la carità del suo cuore, e perciò faccia quello che può ed io sarà sempre contento e in tutti i casi non mancherò mai d'invocare le benedizioni del Cielo sopra di Lei e sopra i crescenti suoi figliuoletti, cui auguro ogni bene. [141] Raccomando me ed i miei poveri giovani alla carità delle sue preghiere, mentre ho il bello onore di potermi con pienezza di stima professare
Un'altra lettera veniva indirizzata al sig. Cav. Brossa, Prevosto emerito, casa propria S. Salvario, Torino.
Ebbe Ella bontà di farmi sperare qualche sussidio per la chiesa qua posta in costruzione, ed ora mi trovo nel caso di ricorrere appunto alla carità di Lei.
Sabato ho bisogno di due mila franchi per compiere i doveri della quindicina e non so dove prenderli; per altre quindicine è già in gran parte provveduto. Per questo bisogno ricorro a Lei; qualora non giudicasse di fare tale cosa per limosina, mi farebbe un gran piacere di farlo in forma di mutuo; ed io procurerò di farne la restituzione in quel tempo e in quel modo che Ella sarà per indicarmi.
Se Ella non mi dice niente in contrario, sul finire della settimana passerò da Lei a questo fine; a meno che Ella, come di cuore ne la prego, volesse venire a veder questa casa e la chiesa in costruzione.
Spero che la Santa Vergine non mancherà di prepararle una bella camera in Cielo, perchè Ella aiutò a costruirle una casa sovra la terra.
Raccomando me e li miei poveri giovanetti alla carità delle sue preghiere e mi creda con gratitudine
Poco tempo prima, per avere un sussidio a favore dell'Oratorio, Don Bosco aveva diretto una domanda all'Economato generale dei benefizii ecclesiastici, di cui era stato titolare per molti anni il Can. Teol. Abate Michele Angelo Vacchetta, il quale non si era mai rifiutato di favorirlo.
Questi nel febbraio del 1864 aveva dato le sue dimissioni [142] da quell'ufficio, costretto dalle maligne insinuazioni della Gazzetta del Popolo che non voleva più ecclesiastici in quella amministrazione, e moriva il 21 agosto di questo anno 1865, dopo aver chiesta e ottenuta l'assoluzione da varie censure incorse. In pegno della sua continuata benevolenza per D. Bosco egli lasciava nel testamento il seguente articolo: “Art. 10. Lego all'Opera pia di Valdocco in Torino fondata dal sig. D. Bosco un certificato sul debito pubblico della rendita annua di lire cinquanta, coll'obbligo di un modesto anniversario perpetuo a celebrarsi il giorno del mio decesso in suffragio dell'anima mia e de' miei amici e non amici, a pagarsi dal mio crede un anno dopo il mio decesso, senza interesse pendente mora”. L'erede era pronto a soddisfare al legato, purchè D. Bosco presentasse l'atto che lo autorizzasse a ricevere legati come capo di un corpo morale riconosciuto dal Governo; e così il legato non fu adempiuto.
All'abate Vacchetta era succeduto nell'amministrazione dell'Economato Generale un certo avvocato Fenoglio. Don Bosco non conosceva i sentimenti di costui verso l'Oratorio; ma la risposta alla sua domanda venne favorevole.
L'Economo Generale sottoscritto annunzia con premura a V. S. che il Governo di S. M. si è degnato concederle, sulla tesoreria di questo Economato Generale la somma di lire cinquecento a titolo di sussidio, da convertirsi a beneficio di N. 58 chierici nominati nella nota annessa al ricorso.
Tale somma verrà da questo Generale Ufficio pagata a V. S. od a chi sarà da Lei incaricato a riscuoterla, purchè sia persona conosciuta e munita di una regolare quitanza su carta da Bollo debitamente legalizzata e giusta il modulo qui sotto esteso.
IL Servo di Dio aveva ordinato che la Domenica 4 giugno terminasse nell'Oratorio il mese consacrato a Maria, e il 31 maggio partiva per Mirabello. Quivi il 1° giugno, giovedì, si celebrò solennemente la chiusura dello stesso caro mese, con intervento di Mons. Vescovo di Casale ed un nobile corteggio di parroci e altri sacerdoti. Anche la Contessa Callori onorava colla sua presenza quella festa. Gli alunni rappresentarono la commedia latina Phasmatonices che andò a meraviglia.
D. Bosco ritornato a Torino così scriveva al marchese Fassati: [144]
Ill.mo e car.mo sig. Marchese,
Da che V. S. colla famiglia partì per Roma non ho più potuto sapere alcuna notizia di loro; spero per altro che Dio avrà ascoltato le povere nostre preghiere e li avrà tutti conservati in grazia e benedizione.
Abbiamo un suo domestico, quello di Carignano, che viene a scuola all'Oratorio e sembra unire buone idee e buoni costumi. Non ho più veduto se non per lettere la signora Duchessa che ferma la sua dimora ordinaria a Borgo. Al presente però è presso il conte di Camburzano che mi si dice precipitare ogni giorno di male in peggio. Bisogna proprio dire, sig. Marchese, che il Signore ha i suoi fini. Credo che voglia mandare gravi tribolazioni a questa santa famiglia per prepararle il dovuto premio in Paradiso, senza nemmanco toccare il Purgatorio.
In tutti gli angoli si parla dei Vescovi futuri. Ciascuno progetta come gli sembra. Pare voce accreditata che la terna di Torino sia: 1° Mons. Ballerini - 2° Calabiana - 3° Riccardi. - Preghiamo che Dio mandi a buon termine questa ardua impresa.
Oggi si fa la festa dello Statuto. In Torino non c'è movimento, ad eccezione di fango e pioggia che rendono abbastanza incomodi i passaggi per le vie.
Noi abbiamo fatto la chiusa del mese di Maria quest'oggi stesso colla massima soddisfazione. Se vedesse l'eleganza con cui è parato il suo altare. Musica, canto e suono, preghiere, prediche, ecc. è tutto in opera. Il Can. Nasi fu celebrante e predicatore.
La chiesa di Maria Ausiliatrice è già due metri sopra il pavimento e si lavora con alacrità. Ma la Signora Marchesa domanderà: - E le finanze come stanno? - Debbo dirle che colla loro partenza ho perduto il puntello principale della medesima; però il Signore dispose che finora non ci mancasse nulla che abbia potuto far ritardare i lavori.
Giovedì fu rappresentazione latina a Mirabello, ove intervenne Mons. Calabiana con numeroso clero; ogni cosa riuscì brillante; abbiamo parlato molto di Lei; e dicendo io che fra breve le avrei scritto, tosto Mons. Vescovo, D. Rua, la Contessa Callori, Cerruti mi diedero incarico di fare a tutta la famiglia i rispettosi loro saluti.
Il Signore ha fatto una visita alle nostre case. D. Alasonatti, il Direttore e l'Economo di Lanzo, il Direttore spirituale delle nostre scuole caddero tutti quattro contemporaneamente ammalati e finora non appare speranza di guarigione. Sicut Domino placuit, ita factum est.
La nostra lotteria è assai bene avviata. S. A. R. il Principe Amedeo, [145] il Principe Eugenio, la Duchessa di Genova, il Principe Tommaso e la Principessa Margherita, si misero essi stessi per promotori principali. Abbiamo già l'approvazione di una ragguardevole quantità di biglietti. Appena terminata quella dei Sordomuti (7 corr..) daremo subito mano allo spaccio dei medesimi.
Noi tutti qui della casa la salutiamo rispettosamente ed auguriamo ogni bene dal Cielo sopra di Lei e sopra la pia Signora Marchesa, Azelia e sopra la rispettabile famiglia dei sig. Conte Eugenio de Maistre. A tutti sia da Dio concessa sanità e grazia per vivere felici e salvarci in eterno.
Dio la benedica, sig. Marchese, e mi creda quale con pienezza di stima mi professo,
P. S. - La prego di voler mettere la lettera ivi chiusa in qualche buca postale.
Il 10 giugno, sabato precedente la festa della SS. Trinità, da Mons. Balma, Arcivescovo Titolare di Tolemaide, era conferito il presbiterato a D. Giuseppe Lazzero. D. Bosco accompagnò il neo sacerdote al suo paese nativo, Pino Torinese, assistette alla sua prima messa e fece la predica d'occasione. Il parroco D. Giacomo Aubert che ospitò l'amico Don Bosco, il clero, la famiglia, la popolazione, festeggiarono quel fausto avvenimento come meglio poterono. Lo stesso accadde nell'Oratorio perchè D. Lazzero era amato da tutti.
Intanto il Collegio di Mirabello era stato consolato da una predizione fatta da D. Bosco nella sua ultima visita. È pregio dell'opera esporre per intero la cosa.
Nell'anno scolastico 1864-1865 i corsi di V e IV ginnasiale del Piccolo Seminario erano stati affidati al chierico prof. Francesco Cerruti. Ma questi era infermiccio e le soverchie fatiche già sopportate gli avevano esauste le forze, e Don Rua mandò a scongiurare D. Bosco perchè lo dispensasse da quella scuola così pesante. D. Bosco invece rispondeva:
- Cerruti continui a far scuola! [146] Il buon chierico obbedì, ma sul finire dell'aprile 1865 cadde gravemente ammalato.
Or egli stesso attesta quanto segue: “Mi aveva sorpreso grande stanchezza e prostrazione di forze; quindi sputi sanguigni ed alquanto frequenti; poi tosse persistente catarrosa, febbre pressochè continua, respirazione affannosa. Il medico Pasini la credette una bronchite trascurata e seria.
In quel tempo D. Bosco capitò a Mirabello; m'interroga sulla malattia che mi opprimeva, e mi suggerisce alcune pillole che in verità mi fecero molto male. Poi nell'atto di partire mi disse:
- Non è ancora: la tua ora; sta' tranquillo; hai ancora da lavorare prima di guadagnarti il Paradiso.
Il male crebbe però a tal segno che il medico giudicò disperata la guarigione. Ricordò sempre che, me presente, disse:
- Non vi sono più rimedii che si possano applicare; il male è troppo grave, e le forze sono troppo estenuate; perciò riposo assoluto, silenzio rigoroso: non resta altro che lasciar operare la natura. - D. Rua, direttore, che nella sua carità mi prodigava le cure più attente, faceva pregare mattina e sera i giovani, come si suole per gli ammalati gravi. Senonchè il male non accennava punto ad andarsene e D. Rua essendosi recato a Torino ne parlò a D. Bosco e ritornato mi disse: - Sai che cosa? che non è ancora la tua ora e che devi pensare a guarire. Anzi, chi è, mi domandò D. Bosco, quel medico che cura Cerruti? - È il medico Pasini, gli risposi. - Allora quel medico non se ne intende!
In quel giorno in cui D. Rua mi comunicò questa risposta di D. Bosco, mi ricordo che fui sorpreso da tale accesso di tosse che, non potendo più reggere, mi gettai sul letto, ed anche colà mi credeva di spirare da un momento all'altro. Tuttavia il domani ripigliai la mia scuola di quinta ginnasiale; e alla sera stava meglio:, nel giorno seguente mi sentii [147] quasi del tutto guarito e continuai ad insegnare sino alla fine dell'anno. Fidato nelle parole di D. Bosco tutte le settimane facevo viaggio a Torino per assistere a qualche lezione nella Regia Università senza patirne. Anzi nel luglio di quel medesimo anno potei inoltre prepararmi a far l'esame di storia moderna nella stessa Università, alla quale era iscritto come studente della facoltà di Lettere e di Filosofia.
Ricordo inoltre che il medico non sapeva darsi ragione di questa guarigione, a tal segno che ancora alcuni mesi dopo mi domandava con certa meraviglia, come mai e se davvero fossi guarito. - Già, soggiungeva egli: la natura ha tanti segreti e noi non li conosciamo! - Da lui non si potè ottenere di più, perchè quantunque persona onesta, era tuttavia poco inclinato alle pratiche religiose. A questo si era sgraziatamente formato, in modo particolare, colla lettura di una così detta Rivista scientifica, che riceveva mensilmente da Parigi e di cui diede pure a leggere a me alcuni numeri trattanti dell'origine scimmiatica dell'uomo, che, per grazia di Dio, letti li restituii subito, aggiungendo che non me ne mandasse più.
Umanamente parlando io credo che non potessi sopravvivere senza un miracolo, avuto riguardo allo sfinimento di forze già predisposto molto tempo prima per soverchia stanchezza ed alla veemenza del male durata per oltre ad un mese”.
Anche D. Rua con lettera dell'II luglio scriveva a Don Provera, Prefetto a Lanzo: “Tu desideri aver nuove del nostro amato Cerruti, e con mio piacere posso soddisfarti con dartele buone. Egli dopo un mese di malattia si è ristabilito forse meglio che non sia mai stato in tutto quest'anno; anzi ha già ripreso nuovamente la scuola e tutte le altre sue occupazioni. Si degni il Signore conservarlo in salute; e questo dico proprio di cuore, giacchè egli continua sempre ad essere il buon Cerruti”.
Di altre predizioni avverate noi faremo qui cenno. D. Berto Gioachino, scriveva molti anni prima che D. Bosco morisse: [148]
“Nel 1865 trovandomi un sabato a sera a confessarmi da lui nel coro della chiesa, verso il termine dell'anno scolastico, avendo fatto la Vª ginnasiale, stava esponendogli qualche difficoltà che incontrava nell'abbracciare la carriera ecclesiastica e quindi di fermarmi nell'Oratorio; ed egli prevedendo le difficoltà e indovinando il mio pensiero, mi disse:
- Guarda, non inquietarti dei tuoi parenti, imperocchè tanto tuo padre, come tua madre, si salveranno.
- Ed io: Questo va bene; ma io sento che non ho sufficiente capacità per riuscire nello stato ecclesiastico.
- Non temere, facendo ciò che puoi, andrai avanti.
- Ebbene, io continuai, son molto contento di fermarmi qui e se abbraccio questo stato, l'abbraccio unicamente per rimanere presso di Lei, sotto la sua patema direzione, perchè conosce bene il mio naturale. Io non ho più alcuna difficoltà: solo desidererei, a fine di perseverare ed unicamente pel vantaggio dell'anima mia, di potere sempre confessarmi da lei, perchè in lei ho posta tutta la mia illimitata confidenza.
-E siccome confidenza chiama confidenza, così io ti dirò che qualora tu dovessi essere separato da me, lo sarai per poco tempo”.
Infatti egli fu sempre segretario particolare di D. Bosco, avendo la propria camera presso la sua, e solo negli ultimi due anni della vita del Servo di Dio fu sostituito in quell'ufficio di confidenza da un altro confratello. Egli però, fatto archivista, aveva sempre libero accesso nella stanza di Don Bosco, quantunque altra camera gli venisse assegnata, poichè la forza delle cose portava che D. Michele Rua dimorasse vicino al Rettor Maggiore.
Il giovane Luigi Tamone, allievo calzolaio, udì pure la predizione del suo avvenire. Nel 1865 essendo andato a congedarsi da Don Bosco per ritornare a casa sua in Giaveno, [149] dicevagli di volersi arruolare nella milizia come musicante. Era un valente suonatore di tromba.
- E che! gli rispose D. Bosco: tu vuoi essere suonatore? Sappi che a quarant'anni tu avrai finito di suonare e di lavorare: lascia questo disegno.
Tamone tornò a casa, continuò il suo mestiere di calzolaio, fece una modesta fortuna e precisamente a quarant'anni fu preso da tali disturbi di stomaco che gli impedirono l'esercizio del suo mestiere e molto più il suonare. Egli perciò dovette acconciarsi al servizio di messo comunale e nel 1897 ci riferiva la suddetta predizione, asserendo che la debolezza di stomaco non lo aveva più lasciato.
Oltre il dono delle predizioni agli alunni, pareva che D. Bosco avesse conoscenza anche di cose ultramondane.
Il giovane Giuseppe Perazzo in questo stesso anno raccontava a D. Berto il fatto seguente:
“Essendo morto mio padre, io era afflitto e desideravo sapere il suo stato nell'altro mondo. Mi raccomandai perciò a D. Bosco perchè volesse pregare anche per lui; ed egli una volta in confessione mi disse queste precise parole: - Ho veduto tuo padre, era vestito così e così; e me ne fece tanto bene una così minuta e scultoria descrizione che io subito lo riconobbi e soggiunsi: - La sua fisionomia era propriamente questa; era solito ad andar vestito proprio in questo modo. - Ebbene proseguì D. Bosco, tuo padre si trova ancora in purgatorio: prega e fra breve andrà in Paradiso. - Cosa singolare! D. Bosco non lo aveva mai nè visto nè conosciuto.”
Nel giugno intanto, avvicinandosi la festa dell'onomastico di D. Bosco, da ogni parte giungevano lettere degli antichi alunni che gli auguravano ogni felicità e gli esprimevano i sensi della loro riconoscenza. Esse sono veramente degne di essere conservate ed anche di essere lette, tanta stima affettuosa manifestano pel Servo di Dio. Noi ci contenteremo di dame un unico saggio. [150]
Dal Monastero, 20 giugno 1865.
Dopo un lungo e imperdonabile silenzio, ecco che finalmente le scrivo, non volendo lasciar passare una così felice occasione quale è la festa del suo onomastico. E unitamente a me i Padri tutti di questa santa casa la felicitano e si raccomandano alle sue pie preghiere. Che io sia pazzo Ella lo sa; ma sa ancora che io l'amo teneramente: ciò che mi fa sperare voglia credere ch'io pensai sempre a Lei come a tenero padre, sebbene non le abbia scritto. Ben volentieri vorrei anch'io venerdì sera assidermi, come or fa tre anni, vicino al trono di D. Bosco ed abbracciarlo e dirgli tante, tante cose… ma se ciò mi è vietato, nulla mi vieta di pregare per lui, di essere vicino a lui, al mio diletto Padre, al mio impareggiabile signor D. Bosco, che io amo in Gesù e Maria primo dopo Dio. E dico primo dopo Dio, imperocchè se i miei genitori mi diedero la vita fisica, Egli mi diede la vita dell'anima; ciò che è ben più stimabile dono. E il dono maggiore che egli mi fece si è l'avermi inviato in questo Monastero .....
Sa che qualche volta le ho parlato e mi sono raccomandato alle sue preghiere nella certezza morale che Ella mi udiva anche di costì? Certamente, io non ne dubito, Ella mi ha udito ed ha pregato per me...
Se si degna rispondermi, cosa che non è a dire s'io bramo ardentemente, mi dia uno di que' suoi consigli, una di quelle sue ammonizioni... E preghi, preghi per me. Preghi Maria SS. che io non ceda giammai alle istigazioni maligne del demonio, che io l'ami sempre questa mia diletta protettrice e sempre abbia a ricorrere a lei, come sola àncora che mi resta, come sola bussola che mi guidi a Gesù.
Mi riverisca D. Alasonatti, il mio caro Cavaliere, D. Francesia, il malinconico D. Cagliero, D. Boggero, di cui non mi è possibile passar giorno senza memoria e tutti gli altri Don e non Don che io stimo ed amo come fratelli. Mi raccomandi alle preghiere della Casa. Dica a J... e a R... che io li supplico di ottenermi la perseveranza e che io conto molto sulle loro preghiere. A Lei, poi, padre mio, che cosa ho a dire? Quali felicità augurarle? Mi unisco a tutto ciò che si dirà di bene e di gradito in questa festa dell'Oratorio, e specialmente a quello che il tenero affetto di D. Francesia saprà dettare, promettendole le mie povere preghiere e la comunione di sabato.
Pregandola della sua benedizione, e come io fossi in ginocchio dinanzi a Lei, baciandole con effusione la sacra mano, mi segno ...
Alla sera della vigilia di S. Giovanni, essendo gli edifizii splendidamente illuminati, un vasto spazio circolare del cortile, cinto da alte antenne con bandiere, era circondato da banchi sui quali sedevano gli alunni. Un trono era preparato per D. Bosco e in faccia a questo un gran palco a gradini per la banda e per i cantori che dovevano eseguire l'inno, ai lati del trono i seggi per un gran numero di benefattori, e in mezzo a quell'anfiteatro un tavolo sul quale facevano bella figura i doni e i mazzi di fiori. E i poeti ed i prosatori traevano innanzi per leggere i loro componimenti alternati dalle sinfonie e dagli applausi a D. Bosco, che sovente applaudiva insieme con loro, cangiando la dimostrazione in una manifestazione di gioia comune. Terminò con un discorsetto il Servo di Dio, che anche quest'anno appariva sereno, malgrado le malattie de' suoi quattro collaboratori. Ma la sua rassegnazione non potè impedirgli di manifestare ai giovani la sua pena e raccomandar loro perchè l'aiutassero a portare quella croce. Molti piansero, quando alludeva alla vicina morte di Don Alasonatti.
Le dimostrazioni di amore a D. Bosco non si limitavano al giorno del suo onomastico; ma quantunque meno solenni si ripetevano sovente nelle feste scolastiche e religiose, nei cortili quand'egli compariva, nelle scuole, nella sala di studio, nei laboratori e perfino nelle vie della città. Due volte noi stessi abbiamo visto una camerata di ottanta alunni che tornava dal passeggio, la quale, incontrato D. Bosco in una piazza molto frequentata, rotte le file, tutta gli corse incontro e gli si affollò d'intorno per baciargli la mano.
La fine del mese di giugno, colla gioia della festa di San Luigi, aveva recato anche un vivo dolore ai confratelli della Pia Società. Il Direttore D. Domenico Ruffino era stato con molti riguardi trasportato da Lanzo nell'Oratorio ed aveva destato in tutti immensa pietà, solo il vederlo trar fuori dalla vettura in condizioni così disperate. [152] Il Prefetto D. Provera ne aveva dato notizia a Mirabello, soggiungendo quanto D. Bosco aveva manifestato riguardo al Collegio di Lanzo.
“Non ci riuscirono gradite le notizie delle prove, a cui mi scrivesti essere andato soggetto cotesto collegio. Prendiamo parte vivamente alle vostre pene e per quanto dipende da noi vorremmo vederle cessare interamente e a tal uopo innalziamo al Signore calde istanze. Per altra parte dobbiamo consolarci pensando che le vostre prove paiono segni che il vostro stabilimento deve essere opera della Provvidenza: anzi appunto per questo motivo io sarei quasi d'avviso di suggerire a D. Bosco di continuare a tenerlo aperto. Qui abbiamo fatto parecchie feste che riuscirono molto soddisfacenti.
Abbiamo celebrato la festa di S. Luigi, colla processione, portando la statua del santo provveduta dai confratelli della Compagnia; e si è rappresentata una commedia, l'argomento della quale erano le battaglie sostenute da San Luigi per riuscire a farsi religioso, commedia che ci costrinse varie volte a spargere lagrime di tenerezza e che lasciò le più buone impressioni a chiunque aveva un cuore da intendere.” Il protagonista era stato Luigi Lasagna, alunno in quell'anno a Mirabello, che portò la sua parte con tanto sentimento da rendersi vinto alla chiamata del Signore col farsi Salesiano.
D. Rua aggiungeva: “Si è dato l'esame ai chierici di nuovo coll'intervento di Monsignore che ne fu contento. Giovedì della corrente settimana (il 6) andremo a Lu a fare tutti insieme l'esercizio della Buona Morte”.
Intanto la tipografia dell'Oratorio continuava i suoi lavori. Nel mese di luglio era uscito il fascicolo delle Letture Cattoliche: - Del magnetismo animale e dello spiritismo, per un dottore in medicina e chirurgia torinese. Era questi il Dottore Gribaudo. L'opuscolo dà cenni storici della pseudo teurgia e del magnetismo. Tratta dell'elemento naturale e dell'elemento [153] pseudoteurgico di esso; della natura del magnetismo e dei danni che arreca.
Dopo questo si preparavano altri fascicoli.
Pel mese di agosto si pubblicava il fascicolo: Vita della B. Margherita Maria Alacoque con appendice di devote preci al S. Cuore di Gesù.
Pel mese di settembre: Alberto e Nina, racconto ameno.
Per ottobre: Istruzione catechistica intorno al Sacramento della Confermazione o della Santa Cresima, di un parroco dell'Archidiocesi di Torino. In fine del fascicolo si leggeva un'Avvertenza:
“Questo fascicolo si spedisce senza indice perchè nei prossimi mesi sarà seguito da un altro che conterrà le Preghiere e le meditazioni opportune per ricevere devotamente il Sacramento della Cresima ed accostarsi con frutto ai SS. Sacramenti della Confessione e Comunione. Si continuerà in detto fascicolo la numerazione delle pagine e si potrà per tal modo formarne un solo volumetto col presente”.
DON Bosco il 30 giugno aveva ricevuto dal Provveditore agli studi, Francesco Selmi, la richiesta della solita relazione e quistionario intorno il suo Istituto da trasmettersi al Ministero. Mentre egli ordinava la risposta non poteva fare a meno di pensare al venturo anno scolastico. Tre de' suoi sacerdoti, Alasonatti, Ruffino e Fusero, abilitati [155] all'insegnamento del ginnasio, stavano gravemente infermi. Anche di un quarto patentato si stava in apprensione per la debole sanità; un quinto era andato in Seminario.
Nello stesso tempo da più di un mese il Municipio di Cavour aveva ripreso con lui le trattative sospese nel 1860 per affidargli il Collegio - Convitto che da qualche tempo era chiuso. Don Bosco pel desiderio ardente di far del bene alla gioventù in qualunque luogo avesse potuto e per accondiscendere alle istanze del famoso grecista, membro della Regia Accademia delle Scienze, Professore nell'Università di Torino di Teologia, Lettere e Filosofia, e suo amico, l'abate Amedeo Peyron, propendeva di venire agli accordi. Si trattava delle quattro scuole elementari e delle cinque ginnasiali. Il Sindaco, Cav. Cesare Cauda, Maggior Generale, era venuto a Torino a trattarne con D. Bosco. Vi fu scambio di lettere e non rimase altra divergenza fuorchè l'ammontare degli stipendii; cioè se 10000 oppure 8000 lire annuali. In quanto al personale, gli assistenti non sarebbero mancati: i maestri elementari approvati non era difficile provvederli; si era però in difetto di professori patentati, specialmente pel ginnasio superiore.
Don Bosco scrisse a qualche professore, suo amico, addetto a scuole pubbliche, proponendogli una cattedra nel collegio di Cavour con equo stipendio; tra gli altri invitava il prof. Sacerdote Angelo Cantú, di Carmagnola, insegnante nel Liceo di Savona.
Dal detto al fatto avvi un bel tratto, non è vero? Tuttavia vediamo un po' se si può superare questo lungo tratto. L'anno scorso si è detto qualche volta che, trattandosi di aprire un collegio, Ella sarebbe di buona volontà a prendervi parte. Ora si tratta di aprire il collegio di Cavour, ma sono in penuria di personale dirigente; se ne assumerebbe Ella la direzione? Oppure si arrenderebbe a fare una parte, o dirigente o insegnante? Ecco le mie domande. Se Ella in massima mi dice di sì, allora io le scriverò i particolari e credo che sarebbe facilmente d'accordo: altrimenti, re infesta, redibo. [156] Faccia il piacere di pregare pel suo povero D. Bosco, che ha tante cose tra mano per gli altri e dimentica se stesso. Dio la benedica e le dia sanità e grazia mentre con pienezza d'affetto mi professo
L'abate Amedeo Peyron scriveva a D. Bosco:
Nell'interesse del bene che si può fare in Cavour, io le significo che la Comunità è decisa di stabilire un collegio di latinità. Essa tuttavia persiste nelle sole lire 8000; inoltre mi comunicò uno scritto di Lei, contenente quanto Ella esige dalla Comunità, ma desidererebbe pure che fossero determinati per iscritto i doveri che ella si assume. Ciò premesso io sono persuaso che nulla si potrà fare senza che la Comunità ed Ella conferiscano immediatamente ed oralmente insieme.
Per tal fine io le propongo di venire a Cavour ed accettare albergo nella mia villetta, dove la mia famiglia ed io l'accoglieremo come un angelo benedetto. Se io sapessi il giorno e l'ora dei suo arrivo a Pinerolo, le manderei il mio calessetto a prenderla.
Ma prima di venire, favorisca di conferire col sig. Vicario di Cavour il quale ora è a Torino e si recherà da Lei. Egli è in grado di darle le opportune notizie ed intendere le possibili transazioni e me le comunicherà. In Cavour poi, come Ella sarà giunta, il Vicario si terrà in disparte a fine di non compromettersi, ed io solo col mio nipote, che è di Comunità, agirò.
Circa ai doveri che Ella si assume, la consiglierei a comprendervi una scuola serale nei mesi d'inverno. Ciò è di moda e noi dobbiamo cogli odierni uomini entrar colle loro per uscir colle nostre.
La prego di ricordarsi di un tale giovanetto di Cavour, per nome Bima, che io già le raccomandai in questo inverno, ed Ella mi assicurò che lo riceverebbe nel prossimo agosto.
Sono col massimo rispetto di Lei,
D. Bosco si attenne ai consigli dell'abate, ed esposte per iscritto le sue idee sotto forma di convenzione le presentava al Municipio. Poi queste pratiche dovettero essere sospese, sia per l'insufficienza di uno stipendio da dividersi fra nove insegnanti, che dovevano essere patentati; sia perchè nè il Prof. Cantù, causa il suo stato infermiccio, nè altri colleghi poterono aderire all'invito. Forse vi furono anche altre ragioni, ma il fatto sta che per D. Bosco non fu tempo perduto, poichè ebbe campo a studiare e formarsi un giusto criterio sulle condizioni da apporsi quando si fosse trattato altre volte di accettare la direzione ed amministrazione di qualche Collegio Convitto Municipale. Ecco, a titolo di documento, quali furono le convenzioni da lui proposte a Cavour.
DI RIAPERTURA DEL COLLEGIO CONVITTO DI CAVOUR.
Visto il voto emesso dai Signori Membri del Municipio di Cavour nella tornata del 19 maggio scorso per la riapertura dell'antico Collegio Convitto di quel paese e preso in considerazione l'invito fatto nel verbale di formulare una proposta su quanto venne approvato; considerato eziandio il tenore delle lettere che lo accompagnavano ad unico scopo di promuovere il bene morale e scientifico della gioventù studiosa di Cavour e dei paesi vicini, si ridurrebbe il verbale ai seguenti capitoli:
1 ° Il Municipio di Cavour nel desiderio di vedere riaperto l'antico suo Collegio e provvedere un mezzo regolare per l'istruzione elementare e ginnasiale ai giovani studiosi di Cavour ed anche dei paesi vicini si obbliga di pagare la somma di F. 10.000 al Sac. Bosco Gio. con che egli provveda legale e regolare insegnamento per le quattro classi elementari e per le cinque ginnasiali (V. Verbale suddetto).
2° Il Municipio concede il locale detto del Collegio ed il giardino annesso, per uso di scuole, ma non potrà variarne la destinazione.
3° Il Municipio stabilirà una minervale tanto per i Cavouresi quanto pei forestieri che vengono a partecipare dell'insegnamento. I convittori ne sono dispensati.
4° Il Sac. Bosco dal suo canto provvederà maestri approvati per le scuole elementari e ginnasiali, e farà dare l'insegnamento secondo i programmi e le discipline governative. [158]
5° Tutte le spese d'impianto saranno a carico del Sac. Bosco. Il Municipio però come proprietario si obbliga di fare le riparazioni che sono necessarie alla conservazione ed all'uso dei rispettivi locali, secondo il disposto delle leggi civili.
6° Il Municipio provvederà gli oggetti necessarii pel primo impianto delle classi; per gli anni successivi sarà a conto del Sac. Bosco la spesa di cancelleria, riparazione dei banchi, degli scrittoi e delle legna per l'inverno.
7° Il Municipio non dissente che si facciano le scuole serali agli esterni adulti e che si radunino eziandio nei giorni festivi, per imparare la musica vocale ed istrumentale secondo che si potrà effettuare.
Lo stesso Municipio fisserà ogni anno la somma di franchi 150 per dare i premii nelle rispettive classi in fine dell'anno.
8° Tutti i giovani di Cavour possono partecipare ai varii rami d'insegnamento che hanno luogo nelle classi elementari e ginnasiali, ma tutti gli allievi dovranno uniformarsi alla disciplina ed agli orarii stabiliti in ciascuna classe.
9° Per ciò che riguarda ai provvedimenti riguardanti la moralità e la religione il Municipio si rimette al Sac. Bosco d'accordo col Vicario Foraneo di questo paese.
10° Le scuole saranno aperte al cominciare dell'anno scolastico 1865-66.
11° Qualora per qualche ragionevole motivo il Municipio non volesse più continuare nella presente capitolazione (il che certamente non sarà) darà il preventivo diffidamento al Sac. Bosco, di anni cinque, affinchè possa prendere le sue misure e non abbia ad aver danno l'opera di pubblica beneficenza di cui è Direttore in Torino.
12° Attese le gravi spese cui deve sottoporsi il Sac. Bosco, il Municipio per quest'anno procurerà di anticipare la somma di cinque mila franchi pel prossimo ottobre. Il rimanente e negli anni successivi i versamenti si faranno a scadenza, secondo le leggi.
13 ° Alcune cose necessarie al Sac. Bosco e che non dànno dispendio al Municipio saranno trattate verbalmente.
Mentre svaniva questo progetto, un altro glie n'era stato proposto e caldeggiato da persone amanti della cristiana educazione della gioventù, da attuarsi in Occimiano, grossa borgata della Diocesi di Casale, non troppo lontana da Mirabello. Anche qui si voleva un Collegio Convitto, e D. Bosco non si mostrava contrario; e lasciò che i promotori di quell'affare se l'intendessero coi maggiorenti del paese. Che egli dubitasse [159] di non poter albergare in avvenire nel Piccolo Seminario di Mirabello tutti i giovani che vi sarebbero accorsi? Che già prevedesse la convenienza di dover abbandonare Mirabello? Tuttavia non affrettossi a prendere impegni, quantunque il desiderio di veder effettuato quel disegno si mantenesse vivo per parecchio tempo in Occimiano. Ma anche questa proposta doveva dileguarsi, come quella di Cavour.
Abbia la bontà di scusarmi se ho tardato alquanto a risponderle per quella commissione che mi aveva lasciato, partendo io da Torino. Il solo desiderio di darle notizie più certe mi fece tardare sinora. Ho parlato col sig. Marchese Da Passano proprietario di quel locale che Ella sa, denominato il Convento. Il Marchese è contentissimo di cedere a Lei questo locale, massime per fare un'opera molto vantaggiosa al paese. Il vantaggio è spirituale e temporale, e ciò rende il sig. Marchese uno de' più animati promotori di questa sua impresa. Ho parlato con molti del paese e tutti mi cantarono la stessa canzone, che cioè D. Bosco invece di stabilirsi a Mirabello, avrebbe fatto meglio fermarsi ad Occimiano fondando il suo collegio nel Convento, luogo adatto nient'altro che per questo. E quando ho fatto loro sentire che D. Bosco sarebbe ancora disposto a venire, se il paese lo desiderasse, allora dissero che il Comune dovrebbe fare la dimanda, ed offrirsi spontaneamente con favorevoli disposizioni. A questa proposta solo tre o quattro rimasero un po' freddi, ma forse intesero non approvare questa domanda fatta a Lei e non già d'opporsi direttamente quando si trattasse della sua venuta. E poi in qualunque senso lo prenda questo dissenso, non deve fare le meraviglie, perchè sa benissimo che l'accordo perfetto è sempre difficile ad ottenersi in qualunque cosa. Dunque io finisco col far coraggio, come mi suggerì lo stesso sig. Marchese e di esortarla a non temere, chè la cosa riuscirà bene. Faccia la sua interpellanza al Municipio in questi termini: “Non bastandomi all'uopo lo stabilimento di Mirabello, io sarei disposto, se il paese fosse contento, a fondare un altro Collegio in Occimiano. Però, prima d'iniziare: qualsiasi trattato desidererei sapere qual sia il parere del Municipio su questo proposito”. A questa interpellanza il Municipio deve necessariamente rispondere qualche cosa, si radunerà quindi il Consiglio e si discuterà la questione e stia tranquillo, che, spero, avrà voti favorevoli. Andrebbe poi benissimo se avesse una qualche conoscenza o relazione coll'intendente di Casale e far [160] fare da esso la sua interpellanza, perocchè esso sarebbe una persona molto sentita nel paese di Occimiano e sarebbe qui un appoggio considerevole pel suo disegno. Interpellati i membri municipali da un loro superiore devono più pronti rispondere e non oserebbero rifiutare questo invito nè rigettare questa offerta senza addurre buone e sode ragioni. Faccia dunque il meglio; io non posso dirle altro.
Il Sig. Marchese poi lo aspetta desideroso di fare la sua conoscenza e d'intendersi meglio a viva voce su di questo argomento. Io l'ho assicurato che verrà presto, recandosi a Mirabello a vedere il suo stabilimento.
Accetti i miei più cordiali ossequi, come pure quelli del sig. Marchese; e baciandole la mano mi sottoscrivo
Fin dal 5 luglio, benchè sempre inchiodato su d'una sedia co' suoi atroci dolori, il caro D. Provera aveva scritto:
Dolcissimo e M. R. Padre D. Bosco,
A Lanzo si desidera moltissimo la sua risposta sulla continuazione del Collegio. Il Rev. Sig. Vicario ed il Rev. D. Arrò ne sono impazienti. Io con distinzione: se affermativa la desidererei quanto prima: se negativa chiamerei 8, o 10 giorni di tempo a distribuire i 400 biglietti. Ritardai finora per avere programmi da spedire con quelli.
Dietro mia lettera il Sindaco ci procurò subito il mandato di lire 2200; ma l'esattore ci diede ancor nulla. Ci promise buona somma per la metà del corrente mese...
Qui in genere le cose vanno discretamente bene. Spero che Don Sala ci porterà a casa la notizia del giorno in cui avremo il bene di averlo con noi.
Noi preghiamo e lavoriamo, perchè il Signore le mandi consolazioni molte, in compenso dei tanti dispiaceri già dovuti esperimentare in quest'anno.
Vostra S. R.. che ci è padre, ci dia la sua santa benedizione, ci raccomandi alla Vergine SS. perchè ci preservi da nuove disgrazie, specialmente spirituali. Per tutti rispettosamente la riverisco. Godo essere
D. Bosco letta questa lettera, la stessa sera, mentre a tavola si parlava delle miserie che opprimevano il Collegio di Lanzo e anche l'Oratorio, diceva: - Chi è mirabile in tutto questo è D. Provera. Egli non solo si mantiene sereno in mezzo a' suoi mali, ma trova anche il modo di consolare gli altri. - E rispondendo al suo invito per mezzo di D. Sala, gli faceva sapere che si sarebbe recato a quel Collegio, nel tempo che fossero per dettarsi gli esercizi a S. Ignazio. Il buon Padre non sentivasi l'animo di allontanarsi dall'Oratorio, mentre il povero D. Ruffino pareva giunto al termine della vita.
Infatti questi cessò di vivere il 16 luglio, giorno consacrato alla memoria della Madonna del Carmine. Contava 25 anni. Pieno di santa volontà, aveva portato la sua energia e la sua virtù a salute di quel nuovo collegio, facendo concepire di sè le più belle speranze. D. Bosco, dopo che gli ebbe chiusi gli occhi, uscì dalla camera piangendo ed esclamò:
- Caro D. Ruffino, tu mi hai aiutato ed io non ti dimenticherò mai!
Udì queste parole il giovane Giuseppe Daghero, studente di terza ginnasiale.
D. Bosco ricordò sovente D. Domenico Ruffino. Nel 1884, diciannove anni dopo la sua morte, diceva:
- Che bell'anima aveva D. Ruffino, il fratello del nostro Giacomo! Pareva un angiolo in carne; il solo vederlo imparadisava, il suo volto era assai più divoto di quello che suole dipingersi nelle immagini di S. Luigi. Oh quanti angeli Iddio ha mai regalati alla nostra Pia Società! La stessa vita di un Savio Domenico, di un Magone Michele, di un Besucco Francesco, sparisce innanzi all'edificante condotta di molti altri, rimasti sconosciuti e dei quali egualmente non si ebbe mai nulla a dire sui loro così illibati costumi. - E ne faceva i nomi.
Nè solo col ricordarlo, ma colla carità verso la sorella di lui, egli mostrava al defunto la propria riconoscenza. Ce lo [162] dice una sua lettera, diretta alla benemerita Contessa Callori, ove anche apprendiamo qual fosse lo stato d'animo del Venerabile in quei giorni.
La giovane Ruffino è assente e non potrei farla prevenire per domani; sua madre passa qualche giorno col Vicario di Lanzo. Appena potrò parlare con una o coll'altra, vedrò quanto si convenga a farsi e renderò subito informata V. S. Benemerita.
Non ho dimenticato il libro; anzi l'ho tuttora di mira: la sola impotenza mi fece differire la stampa. Che mai! Contemporaneamente cinque sacerdoti dei più importanti caddero ammalati. D. Ruffino, ieri otto giorni, volava glorioso al Paradiso; il prode D. Alasonatti sta per tenergli dietro; gli altri tre lasciano speranza remota di guarigione. In questi momenti s'immagini quante spese, quanti disturbi, quante incombenze caddero sopra le spalle di D. Bosco.
Non si pensi per altro che io sia abbattuto; stanco e non altro. Il Signore diede, cangiò, tolse nel tempo che a lui piacque; sia sempre benedetto il suo santo nome! Sono per altro consolato dalla speranza che dopo il temporale ci sarà bel tempo.
Quando sarà definitivamente stabilita a Vignale, spero di poterle fare una visita e potermi fermare qualche giorno.
O signora Contessa, io mi trovo in un momento in cui ho un gran bisogno di lumi e di forze; mi aiuti colle sue preghiere; e mi raccomandi eziandio alle anime sante che sono di sua conoscenza.
Dal canto mio non mancherò d'invocare la benedizione del Cielo sopra di Lei, sopra il sig. di Lei Marito e sovra tutta la rispettabile famiglia, mentre ho l'onore di potermi professare colla più sentita gratitudine
Le carte del caro D. Ruffino furono gelosamente raccolte. Fra esse era anche la sua Cronaca dell'Oratorio, nella quale si legge una nota:
“Ottobre 1859. - D. Bosco disse a me: “Devi ancor vivere una volta e mezzo quanto hai già vissuto”. Io gli aveva detto per isbaglio di avere 18 anni, quantunque ne avessi 19”. [163]
Ruffino aveva domandato a D. Bosco quanto tempo ancora gli rimanesse di vita; e scrivendo la riferita risposta die' prova evidente dell'importanza che le attribuì, ben conoscendo quante volte eransi avverate le parole del Servo di Dio.
Ma se Don Bosco in questo caso predisse, intese Ruffino il senso vero di quelle parole? Pare che no, poichè D. Bosco non poteva alludere alla sua vita naturale, essendo morto D. Ruffino in età di 25 anni. Anzi appunto in questa morte precoce è da ricercarsi la ragione del non avere D. Bosco spiegato chiaramente il suo pensiero, poichè egli, prudentissimo com'era, non lasciava trapelare simili segreti ai giovani che sapeva maturi per l'eternità. Quindi crediamo di poter dire aver D. Bosco parlato della sua vita salesiana, cioè dall'anno scolastico 1855-56, in cui egli, pur essendo nel Seminario di Giaveno, aveva deciso di volersi dare a D. Bosco. I lettori ricorderanno quanto abbiamo già scritto nel nostro V° volume. Ora dall'anno suddetto al 1859 erano trascorsi quattro anni; ed altri quattro ne trascorsero dopo fino all'autunno del 1863, e due ancora dall'autunno del 1863 al 1865. - Tale, in questo caso, è la nostra opinione. Anche le profezie della Santa Scrittura non tutte si debbono intendere nel senso letterale. Del resto ognuno giudichi come meglio crede.
Noi avremmo potuto omettere la nota citata per dispensarci da ogni spiegazione; ma abbiamo voluto riferirla, perchè non taciamo nulla e non abbiamo nulla da nascondere che riguardi D. Bosco. L'abbiamo anche riferita, perchè nessuno potesse poi muoverci accusa di aver fatto simile omissione e insieme per dichiarare, tanto a chi approva come a chi non approva le esposte riflessioni, che noi, per i primi, non vogliamo pretendere che il Servo di Dio, interrogato o conversando, abbia sempre dovuto e voluto profetizzare.
Ma anche nel suo dolore Don Bosco non dimenticava gli [164] amici, che trattava con inalterabile giovialità. Pel 19 luglio scriveva “al celebre Dottore Vincenzo Lanfranchi - sue mani”, inviandogli, a quanto sembra, una gratificazione doverosa, o forse un semplice augurio di lunghi e lunghi anni di vita.
Mille evviva, mille anni di vita felice. Amen!
Intanto al Conte Pasolini era succeduto nella Prefettura della provincia di Torino, quantunque per breve tempo, il Conte Carlo Cadorna, senatore del Regno. D. Bosco aveva bisogno di avvicinare il nuovo Prefetto essendogli necessaria la sua benevolenza per la lotteria, e il Signore gliene aperse la strada. Il 17 luglio il Cadorna gli scriveva per ordine del Ministero dell'Interno, pregandolo ad accettare nel suo stabilimento il giovane Giovanni Emilio Demonte, di anni 12, il cui padre naturale, che era luogotenente in un Reggimento Fanteria, e avealo abbandonato in mezzo ad una strada, prometteva che avrebbe pagate lire 15 mensili. La piena condiscendenza di D. Bosco fu bene accetta, e conseguì il fine desiderato.
Quindi partiva per S. Ignazio; e da quel santuario, com'era solito, scriveva lettere a que' suoi figliuoli che gli chiedevano consigli. Di quest'anno non ne abbiam potuto raccogliere nessuna; ma poichè ci venne consegnato ancor uno di questi [165] biglietti di qualche anno fa, lo riportiamo qui egualmente, perchè è sempre l'amico delle anime che parla.
Dilecto Filio Cibrario Nicolao, salutem in Domino.
Ut animae tuae curam geram per epistolam tuam postulasti; et exaudita est deprecatio tua. At quantum in te est, cura ut habitu, incessu, sermone, gestu, opere agas et vivas quemadmodum decet Clericum in sortem Domini vocatum.
Dominus conservet te in via mandatorum suorum; ora Deum Pro me, et cura ut valeas.
S. Ignatii apud Lanceum, die 25 Julii 1860.
Disceso a Lanzo, dopo essersi intrattenuto coi consiglieri municipali sugli affari del Collegio, per deferenza al Vicario Albert ritirava il suo licenziamento; e tornava a Torino per la solenne distribuzione de' premi, che era per D. Bosco una delle più care occasioni per formare alla virtù l'animo dei suoi figli. Cominciava ad avvisarli per tempo che doveano andare in vacanza, e, perchè si guardassero dal rispetto umano:
“Dite francamente con S. Paolo - diceva loro - Non erubesco evangelium. Siate uomini e non frasche: Esto vir! Fronte alta, passo franco nel servizio di Dio, in famiglia e fuori, in chiesa e in piazza. Che cosa è il rispetto umano? Un mostro di carta pesta che non morde. Che cosa sono le petulanti parole dei tristi? Bolle di sapone che svaporano in un istante. Non curiamoci degli avversari e dei loro schemi. Il coraggio dei tristi non è fatto che dell'altrui paura. Siate coraggiosi, e li vedrete abbassar le ali. Siate di buon esempio a tutti, e avrete la stima e le lodi di tutto il paese. Tanto più che siete studenti.
Un villanello che abbia fede, che bacia e ribacia nella sua capanna un crocifisso, mi innamora; ma un professore, un capitano, un magistrato, uno studente che al tocco della campana [166] recita colla famiglia l'Angelus, il De profundis pe' suoi morti, questo, dico, m'impone e mi entusiasma!
Siate dunque di onore a voi e all'Oratorio. Ricreazione sì, ma anche studio e pietà. Avete ingegno? servitevene sempre in bene. Rintuzzate l'albagia di certi studenti disonesti che forse troverete al paese, reduci da qualche altro collegio. Ricordatevi che scienza senza coscienza non è che la rovina dell'anima. Fate insomma che la gente vedendovi senza rispetto umano, fedeli alle leggi di Dio e della Chiesa, interrogando chi siate, possa sentirsi rispondere stupefatta:
- Egli è un figlio di D. Bosco!”
Proponeva anche, ai giovani che andavano in vacanze, di obbligarsi a riserbare tutti i giorni nelle loro orazioni un'Ave Maria per la salute dell'anima e pel buon esito delle opere del loro povero Superiore, promettendo che egli avrebbe fatto lo stesso pel bene loro e per quello delle loro famiglie. Si raccomandava caldamente che mai si dimenticassero di recitarla e chiamavala l'Ave Maria vincolata.
Quest'anno distribuì ai più giudiziosi vari biglietti della Lotteria, perchè ne procurassero lo spaccio nei loro paesi.
Chiuso l'anno scolastico, mandava al Can. Vogliotti, Rettore del Seminario e Provicario della Diocesi, i nomi de' suoi giovani che domandavano di vestire l'abito clericale.
Ill.mo e Molto Rev. Sig. Vicario Generale.
Le mando nota dei giovani che desiderano d'essere ammessi all'esame per la vestizione chiericale. Si poterono nemmen ancora ottenere tutte le carte, malgrado ogni sollecitudine per ottenerle. Quelle che mancano le rimetterò a Lei appena le avrò ricevute dai rispettivi parenti. Quest'anno non si diedero in nota quelli d'altre diocesi, ma si notarono solamente quelli che appartengono alla diocesi di Torino o che desiderano d'essere aggregati alla medesima.
Mi rincresce molto che in questi affari io non possa fare le cose [167] regolarmente; ma non si può ottenere, quanto è necessario, per la lontananza e spesso per la negligenza o per l'imperizia di chi deve formulare le dichiarazioni.
Gradisca i sentimenti della mia gratitudine, con cui le auguro ogni bene dal Cielo e mi professo
D. V. S. Ill.ma e Molto Rev.da,
DISTRIBUITI solennemente i premii agli alunni, D. Bosco si affrettò ad intraprendere alcuni viaggi per facilitare lo spaccio dei biglietti della lotteria e per altri affari.
Il 2 agosto partiva per Gozzano, senza darne preavviso al Vescovo di Novara, Mons. Giacomo Filippo de' Marchesi Gentile, che avealo più volte invitato a fargli visita in quella sua villeggiatura. Monsignore voleva discutere e deliberare col Servo di Dio il modo di promuovere efficacemente le vocazioni ecclesiastiche, poichè in diocesi aveva pochissimi chierici; [169] e D. Bosco si era mosso per rispettosa condiscendenza al Prelato. Aveva fatto calcolo di arrivare per l'ora del pranzo, ma, disceso a Novara, per un contrattempo perdeva la coincidenza. Colla solita tranquillità si recò a fare alcune visite e quindi partì.
Giunse a Gozzano verso le 10 ½ di sera e senz'altro andò a battere alla porta del Vescovo. La sua comparsa inaspettata ebbe festose accoglienze, ma gettò il Prelato in un grand'imbarazzo. Questi non teneva in casa alcuna provvista di cibarie, ma giorno per giorno faceva comprare quel tanto che era necessario per sè e per i famigliari. Invitando qualcuno alla sua mensa soleva dire:
- Vi invito a mangiare, ma non v'invito a pranzo.
In quella sera nulla era avanzato della cena; e nella cucina e nella dispensa non si trovava che un po' d'olio e qualche bottiglia di vino. Non una bricciola di pane. A quell'ora anche gli spacci erano chiusi e il Vescovo non aveva coraggio di chiedere al Servo di Dio se avesse bisogno di qualche ristoro; ma il teologo Reina, suo segretario, da lui pregato, lo tolse d'impaccio e chiese a D. Bosco:
- Che dice? gli rispose D. Bosco; dica pure che ho da pranzare. Il convoglio e gli affari mi hanno tradito.
A questa risposta l'imbroglio si fece maggiore, e il segretario espose francamente a lui, che sorrideva, il loro imbarazzo.
Ed ecco proprio in quel momento entrare in quella sala D. Cacciano, missionario apostolico, il quale non di rado era ospite del Vescovo. Sentendo che non vi era più pane, il nuovo arrivato trasse fuori da un involto due pagnotelle, dicendo:
- Sul far della notte, venendo a Gozzano da un paese vicino e camminando in mezzo alla strada, urtai col piede in queste due pagnotte perdute. Non vedendo alcuno per la [170] Via, le raccolsi perchè non voleva che andasse a male questa grazia di Dio. Non pare un tratto ammirabile della Divina Provvidenza per sfamare D. Bosco?
Tuttavia il Vescovo si alzò per ritirarsi in camera, e a Don Reina che lo accompagnava, disse:
- Andate voi a far compagnia a D. Bosco e cercate di preparargli un po' di cena. Io non posso restare, perchè ne avrei troppo rossore.
- Andrò, rispose il Segretario; ma vede, Eccellenza, - osò aggiungere -che cosa si guadagna col far le provviste giorno per giorno?!
Il nobile e ricco Prelato era tutto carità per i poverelli.
Insieme con quei due pani vennero poste sulla tavola due uova chieste ad una buona vicina, ed una bottiglia di vino scelto mandata dal Vescovo. I segretarii D. Reina e D. Delvecchio assistettero a quella cena, frammezzata dalle esclamazioni di D. Bosco, il quale, sempre gioviale e contento, andava ripetendo che da lungo tempo non aveva più fatto un pasto così buono e che non gli era mai parso così gustoso, come quella sera, il pane della Divina Provvidenza.
Il domani il buon Vescovo diede un pranzo sontuoso con inviti in onore di D. Bosco, e da solo a solo tenne con lui una lunga conferenza.
Si trattava di studiare il modo per accrescere in diocesi il numero del vocazioni ecclesiastiche, poichè molte parrocchie erano senza parroco. Non mancavano i seminarii, oltre il maggiore, destinato per i chierici studenti di Teologia. Il seminario di Gozzano riceveva gli alunni di Filosofia, quello del Monte di S. Carlo sopra Arona i corsi di prima e seconda rettorica; quello nell'isola di S. Giulio presso Orta due classi di grammatica latina; quello di Masino la prima ginnasiale e due classi elementari. Ma era chiaro che ad un'educazione data successivamente in quattro seminarii doveva mancare quell'unità di spirito e continuità di direzione, che può riuscire [171] a formare buoni candidati al sacerdozio. Quindi pareva conveniente che almeno gli studenti del ginnasio fossero radunati in un medesimo istituto: ma chi era capace di assumerne la direzione e farsi garante che dando un nuovo indirizzo agli studii e maggior impulso alle pratiche di pietà, si potessero avere i frutti desiderati? D'altra parte l'affidare una simile direzione a D. Bosco e a’ suoi Salesiani non avrebbe destato gelosie e recriminazioni nel clero della Diocesi? Ed era possibile togliere subito d'ufficio e dare un compenso onorevole a que' superiori e maestri, che da anni si trovavano in un seminario che sarebbe venuto a mancare? Ed era prudente mutare uno stato di cose che durava da tanto tempo, e seminare il malcontento fra quelle popolazioni che, colla soppressione di un seminario, avrebbero veduto danneggiati i loro interessi? Non era meglio che, conservandosi i seminari, D. Bosco fondasse in diocesi un collegio con classi elementari e ginnasiali, regolato coi suoi sistemi? Quest'ultimo parve forse il progetto migliore. Ma i mezzi?
Lungo fu il colloquio che il Venerabile tenne col Vescovo il quale, trovando dubbi e difficoltà ad ogni proposta, non prese alcuna decisione e conchiuse:
- Basta, vedremo; se ne parlerà un'altra volta.
Il Servo di Dio, quando uscì dalla stanza del Vescovo, disse a D. Reina, che ansioso pel bene della diocesi aspettava in anticamera:
Lo stesso D. Reina, che aveva indotto il Prelato a chiedere quell'abboccamento con D. Bosco, ci raccontò quanto abbiamo esposto, e ci aggiunse che Don Bosco fu invitato altre volte dal Vescovo a recarsi presso di lui per conferire su quell'importante argomento; ma il Servo di Dio ritenne che non era possibile venire ad una soluzione nelle accennate trattative.
Da Gozzano D. Bosco scriveva alla Contessa Callori: [172]
Spero di poter andare fra breve a farle una visita forse nella prossima settimana da Montemagno.
In quanto ai chierici che Ella con bontà accoglierebbe per fare campagna, non posso averli in libertà, perchè ai dodici del prossimo settembre vi sono esami di belle lettere e di grammatica cui parecchi si preparano. Qua tra chi impara, chi insegna, e chi deve supplire, sono tutti sopraccarichi di fisse occupazioni.
Di quante cose vorrei parlarle, Signora Contessa! Preghi per questa casa, che da una parte ha molte benedizioni, dall'altra molte croci. In ogni cosa sia fatta la volontà del Signore.
Io non mancherò di pregare eziandio per Lei e domanderò costantemente due cose: che Ella e la sua famiglia non abbia a patire danno di sorta nell'attuale minaccia del colera; e che la Santa Vergine tenga a tutti preparata una bella camera in Paradiso.
Qualora non andassi da Montemagno a Vignale, le farei sapere il giorno in cui io potrà trovarmi a Felizzano.
Abbia la bontà di riverire da parte mia il signor di Lei marito e tutta la rispettabile di Lei famiglia.
La Santa Vergine ci conservi tutti suoi e sempre suoi. Amen.
Abbandonando Gozzano, D. Bosco recavasi in una città di altra diocesi, ove era un convento di religiose terziarie in rotta aperta col Vescovo da cui erano dipendenti; e non v'era modo di piegarle all'obbedienza. Volevano abbracciare la stretta regola dell'Ordine del quale erano terziarie, dichiarandosi indipendenti. Appena seppero dell'arrivo di D. Bosco mandarono ad invitarlo che volesse far loro una visita. Il Vescovo, avuta notizia di quell'invito, disse a Don Bosco, che era suo ospite, che v'andasse liberamente ma si tenesse riguardoso, poichè con quella comunità egli aveva già dovuto ricorrere a pene canoniche. [173] D. Bosco vi andò: e fu introdotto nel parlatorio con ogni onore e segno di stima. Tutte le monache erano in ginocchio, e in ginocchio si metteva qualunque di esse si accostasse alla grata per parlargli. Finalmente la Superiora lo invitò a dir loro due parole. D. Bosco si schermì, ma l'altra insisteva.
- Sia pure come desiderate; disse egli: avete voi stima di D. Bosco?
- S'immagini! Noi abbiamo stima di D. Bosco, come di un santo.
- Dunque ascolterete quello che sono per dirvi?... - aggiunse il Venerabile sorridendo di cuore.
- Ebbene: Voi sapete che sta scritto: Oboedite praepositis vestris... Or dunque.....
Ma la Superiora, udita l'antifona, l'interruppe:
- Queste cose non riguardano nè la predicazione, nè la perfezione. Sono cose di confessione, che solo col direttore spirituale si debbono trattare.
- Avete detto che tenete D. Bosco in conto di santo e poi non lo volete ascoltare?
- Lei, mi perdoni, non ci deve entrare in tali questioni; sono cose alle quali pensiamo noi.
E non potè proseguire, chè gli chiusero la cortina in faccia, e dovette ritirarsi.
Tornò all'indomani ed ebbe di bel nuovo ogni più cortese accoglienza. Il Servo di Dio voleva far ancora una prova per tentare di ridurle a buoni sentimenti. Quindi ad un certo punto disse: - Voglio parlarvi come un padre, come un amico.
- Dica, D. Bosco, desidera una tazza di caffè?
- No, grazie. Piuttosto pensate bene... le vostre dissensioni col Vescovo...
- Amerebbe meglio una limonata fresca?
- Lasciatemi dire: voi non riflettete alle conseguenze... [174]
- A queste cose, D. Bosco, dobbiamo pensarci noi! Lei non deve entrarci. Sono cose di spirito, di coscienza; non ci pensi.
E gli interruppero il discorso e la sua caritatevole intenzione non riuscì a nulla.
Il Vescovo dovè finire la questione col sopprimere la casa e disperdere le monache. Due di quelle vennero poi a visitare D. Bosco, ma sempre ostinate nelle loro idee contro il Vescovo.
“Quando negli spiriti, ammoniva D. Bosco i suoi Salesiani, entra e si radica tanta ingiusta ostinazione, in qual modo potrebbe fiorirvi la santità? Dove regna invece l'umile obbedienza, ivi è il trionfo della grazia”.
Di ritorno da questo breve giro, sentendo come a Lanzo la sanità di D. Provera non migliorasse, il Venerabile prese un provvedimento che sperava gli avrebbe giovato, mandandolo all'aria nativa.
Credo bene che ti prepari e ti disponga per fare una gita a Mirabello; ti fermerai qualche giorno qui e concerteremo tutto il da farsi. Intanto:
1° Ultima bene i tuoi conti e metti a giorno di ogni cosa Sala e Bodratto;
2° Di' loro che l'amministrazione del Collegio è momentaneamente lasciata nelle loro mani, si parlino molto spesso e vadano d'accordo per promuovere la maggior gloria di Dio;
3° Il sig. avv. D. Arrò continuerà ad aver cura delle anime de' nostri giovani, finchè si possa trovare qualcuno che possa surrogarlo;
4° Lascia il danaro necessario; se vedi poter avere qualche cosa d'avanzo, portalo giù e faremo provviste pel Collegio.
Tu puoi venire venerdì prossimo, oppure giovedì della seguente settimana. Ma in ogni caso scrivi prima per andarti a prendere con una vettura al discendere dall'omnibus.
Dio ti benedica, mio caro, e arrivederci pel resto. Partendo credo bene che tu non dica se ritornerai o no, perchè questo lo tratteremo poi a Mirabello con papà.
Saluta tutta la famiglia e credimi in Domino
Partito D. Provera, il collegio di Lanzo rimase affidato ai soli chierici, i quali però con mirabile unità di voleri da circa due mesi cooperavano al suo buon andamento. “Eravamo senza preti, scrisse molti anni dopo D. Antonio Sala; pure si mantenne l'ordine in collegio fino al termine dell'anno. D. Arrò e qualche altro sacerdote del paese venivano a celebrare la S. Messa, a confessare e a predicare. Oh! mi ricordo ancora come lavoravamo in quel tempo, perchè le cose procedessero bene. Non volevamo mica che fosse mai detto il collegio andar male perchè v'eravamo solamente noi chierici”.
Intanto era confermata la notizia della micidiale comparsa del colera in Italia. Il morbo s'era sviluppato tra i 200.000 Mussulmani recatisi in pellegrinaggio alla Mecca, causa il vizio e il loro stomachevole sudiciume. Nel ritorno ai loro paesi, molte centinaia giunsero ad Alessandria d'Egitto, ove ben presto l'epidemia comparve. Un gran numero di cittadini, specialmente gli Europei, cercarono scampo trasmigrando altrove; oltre mille si indirizzarono ad Ancona, e l'8 luglio scoppiava il colera anche in questa città. Sul principio parve assai mite; ma non tardò a crescere d'intensità nei primi di agosto. Dal principio dell'infezione al 9 agosto più di mille persone erano colpite e più di 500 perdevano la vita. Il 21 i morti ascendevano a 1130. Circa 16.000 persone abbandonavano la città, rifugiandosi altrove.
Alla notizia di tante sventure, D. Bosco si sentì commosso per la sorte dei poveri giovani che rimanevano orfani non solo in Ancona, ma anche in varie altre provincie nelle quali, benchè leggermente, l'epidemia incominciava a far le sue vittime. Quindi il 9 di agosto scriveva al Cardinale Antonucci, Vescovo di Ancona, una lettera, della quale non ci rimane copia, offrendosi a lui per venire in soccorso de' suoi orfanelli; e nello stesso giorno ne spediva un'altra al Ministro dell'Interno, Giovanni Lanza, facendogli una cordiale esibizione. [176]
Le tristi notizie del colera pervenute in questa città hanno commosso tutti i buoni; ed io stesso nel vivo desiderio di venire anche in minima parte in sussidio alla comune sciagura mi offro di ricoverare in questa casa quel numero di giovinetti che fatti orfani o ridotti alla miseria per questa sciagura, volessero essere qui indirizzati. Io procurerò di tenere preparato posto per un centinaio che 1° siano tra dodici e diciotto anni di età; 2° sani e disposti della persona; 3° abbiano fatto una ferma, che garentisca la loro esenzione dal male che imperversa nella rispettiva loro patria.
Mi voglia credere colla massima stima e gratitudine,
Alla lettera consegnata agli uffici del Ministero dell'Interno in Torino era fatta la seguente risposta:
Riscontro al foglio 9 corrente.
Esibizione del Direttore dell'Oratorio di S. Francesco di Sales pei derelitti in causa del colera.
La filantropica di Lei offerta per ricoverare sino a cento giovani orfani o resi miserabili dalla calamità, che attualmente affligge Ancona e qualche altra città del Regno, è degna di encomio.
In cosa di tanto momento però dovendosi necessariamente informare il sig. Ministro in Firenze, il sottoscritto crede che più completa sarà l'informazione e più facile il mandare ad effetto il suo nobile divisamento, ove fin d'ora si conoscano le condizioni alle quali la S. V. è disposta ad eseguire cotale beneficenza, e cioè se l'accettazione ed il mantenimento dei giovanetti debba seguire gratuitamente, ovvero se Ella chiegga una pensione (che la S. V. sa per altro non potersi corrispondere dallo Stato) o infine se Ella pensa di ricevere una sovvenzione per una volta tanto, ed in quale misura e da chi. [177] Spero che Ella pure troverà necessari cotali schiarimenti, che perciò si compiacerà di aggiungerli al suo pregiato foglio 9 corrente, pervenuto solo in oggi a questa Direzione Generale e che allo scopo Le si rende per essere riformato.
Vorrà ciò fare con tutta sollecitudine, onde non si tardi la buona novella alle vedove ed agli infelici di quella sgraziata città che ne proveranno un grande sollievo.
Non conosciamo quale sia stata la risposta di D. Bosco, ma certamente fu pronta e dovette essere conforme alla generosità del suo cuore. Anche il Ministero non tardò a trasmettere al Prefetto di Ancona l'offerta di Don Bosco di ricoverare nell'Oratorio venti o anche trenta giovani rimasti orfani in quella città.
E quello stesso giorno D. Bosco riceveva un altro plico della Prefettura di Torino:
PREFETTURA DELLA PROVINCIA DI TORINO.
Compio con vera soddisfazione allo speciale incarico affidatomi da questo Sig. Prefetto, di comunicare alla S. V. stimabilissima il testo letterale nel dispaccio telegrafico ricevuto in questo momento (ore 5 pom.) di provenienza da Ancona, firmato dal Prefetto Torre di quella Provincia.
“Ancona -Prefetto, Torino. A nome mio e della Commissione di soccorso prego partecipare al Sacerdote Giovanni Bosco dell'Oratorio di S. Francesco di Sales in cotesta città i vivi ringraziamenti di questo popolo desolato, commosso per generosa offerta che si accetta, di ricevere suo stabilimento venti, ed anche trenta giovani fatti orfani dal colera. Commissione scrive posta Sacerdote Bosco. Il Prefetto Torre”.
Ed ho l'onore di dirmi con perfetta osservanza
Al telegramma faceva seguito una lettera indirizzata a D. Bosco.
COMMISSIONE DI PUBBLICO SOCCORSO
pei danneggiati dal colera in Ancona.
Accettazione di offerta e ringraziamenti.
Ancona, 17 Agosto 1865] L'onorevole membro di questa Commissione, Sig. Conte Carlo Torre, Prefetto della Provincia, ci ha partecipato la egregia offerta, colla quale la S. S. Ill.ma si propone pietosamente di accogliere in cotesto suo stabilimento, alle condizioni ivi indicate, da venti a trenta giovanetti, fatti orfani in questa luttuosa circostanza.
A noi mancano le parole, egregio e M. R. Signore, per esprimerle la commozione dell'animo nostro per un'offerta così generosa, dettata da un pensiero ancor più delicato; tanto più quanto da cotesto nobile paese e dalla sua illustre metropoli ci giungono, d'ora in ora, tratti di carità, in cui è difficile poter dire se più magnifico il dono, o delicato il pensiero, o gentile il modo.
Come ne avrà avuto notizia da un telegramma del Sig. Prefetto al Prefetto di Torino, la Commissione accetta la sua generosa offerta e mentre si riserva di mettersi ulteriormente in corrispondenza colla S. V. Ill.ma man mano che le necessità del momento gliene impongono il bisogno, Essa la prega di gradire i più vivi atti di gratitudine, e di farsi interprete presso i suoi concittadini delle benedizioni di questo popolo desolato, che, nelle sue sciagure, attinge conforto dai singolari tratti di carità che gli giungono da tutte parti d'Italia.
Marinelli Cav. Avv. Clemente, Presidente.
D. Bosco aveva scritto per la seconda volta eziandio al Cardinale Arcivescovo di Ancona, il quale così rispondevagli: [179]
A quest'ora la risposta del mio Vicario Generale alla sua cara lettera le sarà già giunta. Tutta volta aggiungo due righe onde rispondere all'altra del 16 corrente. Io sono intenerito per l'affetto che Ella conserva di me, e ne la ringrazio con tutto il cuore.
Resta poi inteso di quanto mi dice riguardo ai miei orfanelli, e sono penetrato di riconoscenza per tanta bontà ed interesse veramente evangelico ch'Ella ne prende.
Continui a pregare per me e mi creda sempre con vera stima e sincero attaccamento, dopo di averla benedetta cordialmente,
Gli orfani non furono per allora mandati, temendosi che qualcuno portasse l'infezione a Torino; ma alcuni mesi dopo, appena svanito ogni sospetto di pericolo, fu decisa la loro partenza per l'Oratorio.
Nell'Unità Cattolica del 5 ottobre 1865 leggiamo queste linee:
“BENEFICENZA. - Un cattolico di Palermo desiderando di concorrere al sollievo dei poveri colerosi di Ancona, e leggendo nell'Unità Cattolica come l'egregio D. Bosco siasi offerto di ricevere nel suo Istituto alquanti orfanelli anconitani, ci spediva un vaglia di L 30 in favore di detto D. Bosco, perchè se ne servisse in detta caritatevole opera - Il vaglia fu consegnato.”
In quest'anno furono infette in Italia 34 provincie, e 357 comuni; i casi salirono a 21.520 e i morti a 10.975. Così le statistiche ufficiali.
IL 16 agosto D. Bosco aveva compiuto il suo cinquantesimo anno. Come aveva detto qualche anno prima, pareva dovesse essere quello l'ultimo di sua vita. Infatti era stato più volte molto abbattuto di sanità, ma le preghiere che si fecero per lui nell'Oratorio, nel piccolo Seminario di Mirabello, nel Collegio di Lanzo, molteplici e pressanti, avevano ottenuto grazia presso Dio; e D. Bosco si era riavuto. Il suo compleanno venne festeggiato a Montemagno, ove, secondo il consueto, aspettavalo il Marchese Fassati. Vi si fermò appena due giorni e d'accordo col parroco si combinò un triduo di prediche alla popolazione in apparecchio della festa della Natività di Maria SS. [181]
Il Servo di Dio era sempre pronto ad esercitare il sacro Ministero e a spezzare il pane della divina parola alle popolazioni; ma questo suo zelo per la salvezza eterna delle anime appariva instancabile, e in modo speciale, anche nell'opporsi ai protestanti sventando colle armi della carità le loro insidie.
Di quei giorni aveva fatto ristampare a migliaia di copie l'opuscolo: Chi è D. Ambrogio? poichè questo prete disgraziato continuava a spianare la via agli eretici colle sue concioni blasfeme e calunniose sulle piazze delle città e delle borgate. E purtroppo un certo numero d'incauti e di viziosi cadevano nelle reti dei nemici della Chiesa Cattolica.
Il dolore che provava D. Bosco alla notizia di un'apostasia era indicibile. Ci raccontava Giuseppe Buzzetti, che un giorno il Venerabile era in camera discorrendo affabilmente con lui e con altre persone, quand'ecco ad un tratto diventa serio, impallidisce, trema in tutta la persona e rimane cogli occhi fissi ed immobili, come fuori di sè, per alcuni minuti. Spaventati, i circostanti credevano che ciò fosse effetto di uno svenimento, ma ritornato nello stato normale egli disse:
- Ecco: ho veduto la fiammella di un candelotto a spegnersi; è un giovane dell'Oratorio festivo che si è fatto protestante.
Perciò non cessava dal salvare dall'empietà i giovanetti. In quest'anno aveva ricoverati nell'Oratorio molti fanciulli, che era riuscito a far togliere dalle scuole valdesi. Accoglieva due ragazzetti di un ufficiale ungherese protestante, che li aveva raccomandati alla carità dei cattolici. Beneficava i tre figli del famigerato apostata De Achillis, e li toglieva dalla miseria. Mutato ad essi per debiti riguardi nome e cognome, li tenne per molto tempo con sè nell'Oratorio, li mise nella categoria degli studenti, e li istruì nella cattolica religione. Noi li abbiamo conosciuti, convivendo con essi.
Conserviamo anche la domanda fatta da un altro giovanetto a Don Bosco per essere ricevuto in seno alla vera Religione. [182]
Io Giovanelli Avventino Francesco, nato da genitori apostati, fui battezzato nella Chiesa Valdese di Torino, nel mese di Luglio dell'anno 1855, dal Dottore Meille.
Poco dopo i miei genitori mi trasportarono in Marsiglia, ove mi fecero educare in una scuola protestante per lo spazio di circa 8 anni, inviandomi quasi ogni giorno alla Dottrina Protestante nel tempio di detta città.
Ora, per grazia di Dio, son venuto a conoscere l'errore in cui ho vissuto; desidero di abiurare il Protestantismo per affigliarmi alla Chiesa Cattolica che è l'unica vera”.
Continue erano le conquiste dello zelo di D. Bosco sui protestanti, i quali, vedendosi a poco a poco abbandonati da molti dei loro adepti, ricorrevano anche a mezzi scellerati, come consta da una relazione in iscritto, che D. Bosco riceveva da persona bene informata.
“I Valdesi fanno attualmente unica propaganda fra i teneri fanciulli. Ricevono riguardevoli somme dall'Inghilterra per raccogliere orfanelli e figli di povere famiglie cattoliche lattanti ancora, e li mandano nelle Valli, onde siano allevati nel protestantesimo. Alle famiglie Valdesi cui sono consegnati questi figli, la Commissione di evangelizzazione, composta di pastori tutti Valdesi, presieduta dal Pastore Revel, residente in Firenze, passa lire 17 al mese sino a che il bambino abbia raggiunto l'età di anni otto. Dopo contribuisce solamente lire nove. I Valdesi hanno con ciò due scopi: - provvedere alle famiglie dei contadini Valdesi, essendo tutti costoro per natura avarissimi ed avidi di denaro; una famiglia che d'ordinario si ciba di soli pomi di terra considera come una gran risorsa 17 lire mensili: - poter dare tutti gli anni un lungo catalogo di nomi, alla Commissione di propaganda in Londra, di fanciulli tolti ai Cattolici per allevarli nella religione valdese: con ciò dànno ragione del come venga impiegato il danaro che da Londra è spedito in Italia.
Quindi farebbe moltissimo bene un sacerdote zelante posto nella parrocchia di Torre Pellice, il quale con oculatezza s'informasse dalle famiglie valdesi, quali fanciulli allevino, di quali paesi sieno e di quali genitori, e quindi scrivere ai rispettivi parroci onde s'interessino per levarli e collocarli in stabilimenti cattolici. La Pia Società della Santa Infanzia per la China potrebbe interessarsi a strappare quelle povere anime dalle mani degli eretici”. [183] Mentre studiava in qual modo si sarebbe potuto impedire la strage spirituale di tanti innocenti, giungeva al Servo di Dio un'altra penosa notizia. Un buon parroco di Sassari in Sardegna, il quale in una sua venuta a Torino era stato ospite dell'Oratorio e si era lungamente trattenuto con Don Bosco, pregato dal Venerabile a spacciare un certo numero di biglietti della lotteria, gli scriveva:
Molto Rev. Signore e Padre Col.mo,
Or son pochi giorni che dal sig. Sindaco di questa città mi venne consegnato un pacco contenente dieci decine di biglietti per la lotteria a benefizio degli Oratorii maschili di Valdocco, di Porta Nuova e di Vanchiglia, ed essendo la S. V. Direttore dei medesimi, colgo con piacere questa circostanza per scrivere questa mia lettera assicurandola che userò tutta la mia sollecitudine, tanto per la distribuzione dei biglietti, come ancora per la raccolta di doni che persone caritatevoli potranno fare.
Prima d'ora avrei avuto desiderio di scriverle, ma il riflesso che la S. V. è sempre occupata a gloria di Dio ed a sollievo dei poveri, me ne ha distolto, ed aspettava appunto una propizia occasione per averne il motivo.
In Sassari siamo sempre al solito, e non poi tanto male in materia di religione; fa ora due mesi è penetrato in questa città un ministro Evangelico, o dirò meglio antievangelico, il quale fa le sue istruzioni in una sala a pochi proseliti; nel principio vi andarono molti curiosi, ma ora il numero è ristretto, e noi Parroci facciamo di tutto per allontanarne il popolo e metterlo in avvertenza. È la prima volta che l'eresia penetra in Sardegna, e la Vergine Immacolata guarderà questo popolo a Lei tanto devoto.
Se il Signore mi presentasse la circostanza di poter essere in qualche modo utile all'Oratorio di S. Francesco di Sales, io mi riputerei fortunato; sono in un paese dove i poveri trovansi in gran numero dopo la strage del colera, ma ella sa quali possano esser i disegni della Provvidenza. Da parte mia non trascuro niente e tengo sempre presente quel colloquio ch'Ella ebbe tanta bontà di accordarmi; nè posso dimenticare i tratti gentili che da tutti mi furono usati.
Termino questa lunga lettera raccomandandomi alle sue preghiere in un modo particolare, e raccomando ancora la mia Parrocchia; io indegnamente prego per la preziosa salute della S. V. e per il progresso materiale e morale del suo Stabilimento. [184] Gradisca i miei saluti, e più ancora gli atti dei mio distinto rispetto. Mi onori de' suoi graditissimi comandi; non mi dimentichi nel santo Sacrifizio; e mi creda qual ho l'onore di segnarmi
Umil.mo Dev.mo Oss.mo Servitore
Canonico Parroco di Sassari (Sardegna).
P.S. -Faccio le mie congratulazioni per l'atto caritatevole della S. V. nell'accettare trenta orfani nell'Oratorio.
D. Bosco gli rispose suggerendo l'erezione di un Oratorio festivo, la diffusione delle Letture Cattoliche e la frequente predicazione, quali mezzi potenti a combattere il Protestantesimo. E il buon Parroco così ne lo ringraziava:
Ringrazio prima di tutto la S. V. per la compiacenza di avermi risposto con una lettera piena di affezione e gentilezza. Io mi sono adoperato per la distribuzione dei biglietti, e siccome in questa città ci sono molti poveri, segnatamente ciechi e paralitici, non è facile trovare persone che vogliano farne acquisto, essendo di più tutte le famiglie gravate dell'imposta sulla ricchezza mobile: se mi sarà fattibile di poterne distribuire in qualche numero, la renderò avvertita per mandarmene degli altri.
I mezzi che Ella ci ha suggeriti per allontanare da questo paese il flagello dell'eresia li abbiamo in gran parte adottati; le Letture Cattoliche sono qui diffuse; la predicazione è frequente, e il ministro protestante non ha da essere molto contento, essendo scarso l'uditorio, e poco numeroso il concorso di persone, le quali anche prima, posso dirlo, non aveano alcuna religione. Il mezzo più potente di cui egli dispone è il danaro, essendo qui eccessivo il numero degli operai ai bisogni del paese, per cui molti si trovano senza lavoro: e la miseria spinge ad ogni eccesso. A fronte di tutto ciò nutro fiducia che questa mal'erba non attecchirà in Sardegna ove non è mai stata l'eresia; e giacchè la S. V. si esibisce pronta a somministrarci i mezzi che sono in suo potere per combatterla, io a nome ancora dei miei colleghi non lascierò di recarle qualche disturbo, contentandomi per il momento d'una sua preghiera a questo riguardo. [185] Sulla fiducia che non mi dimenticherà nelle sue orazioni, coi sensi di rispettosa stima, passo al bene di raffermarmi
In quei mesi attendeva il Servo di Dio anche una leggera ma noiosa tribolazione.
Amantissimo della pulizia egli desiderava e raccomandava che fosse mantenuta anche dai giovani e nei locali dell'Oratorio. Tutti i giorni si scopavano i pavimenti, le scale e i vasti cortili della ricreazione, posti a mezzogiorno; ogni sabbato si assestavano i laboratorii; e nel giovedì ciascun allievo doveva in ora appositamente fissata ripulire più diligentemente i propri abiti e il proprio letto. Di pari passo andava la nettezza delle persone e la decenza dei vestiti anche nei giorni feriali. Nelle feste poi e in ogni caso di uscita, benchè non avessero alcuna divisa oltre il berretto, tutti gli alunni vestivano convenientemente: e non si faceva distinzione fra studenti e artigiani, fra quelli che pagavano un po' di pensione e quelli che godevano il loro posto gratuitamente; fra quelli che erano provvisti dai parenti e quelli cui l'Oratorio somministrava ogni cosa. Ed era una gioia vedere alla domenica tutti i giovani in aspetto così lindo.
Ma l'Ospizio non era un palazzo di signori, sibbene una dimora di poverelli, benchè nell'edificarlo D. Bosco avesse preso prudenti precauzioni per la pulizia e l'igiene. Al nord un lungo e stretto cortile separava il caseggiato civile da una fila di basse costruzioni per le stalle, il lavatoio, la legnaia e il deposito delle spazzature. Quivi pure si innalzavano a conveniente distanza l'una dall'altra tre torri per gli agiamenti, ai quali davano passaggio lunghi ballatoi ad ogni piano. Era quella, diremmo, la parte rustica dell'Oratorio, il [186] quale però, essendo in piena campagna, aveva da ogni parte il beneficio di una libera ventilazione.
Le sale di scuola e le camerate non avevano certamente pavimenti di marmo, ma come quasi tutte le case della città pianelle di terra cotta, le quali, per altro, per quanto si scopassero producevano sempre nuova polvere al ripetuto passaggio quotidiano di centinaia di ragazzi. Solo il salone dello studio era pavimentato di asfalto.
Tale era l'ordinaria condizione dell'Oratorio, quando il 19 agosto vi giunse improvvisamente una Commissione inviata dall'ufficio dell'Ispettore sanitario, incaricata della visita dei pubblici stabilimenti della città, per esaminarne le condizioni igieniche, in vista dell'estendersi minaccioso del colera.
Quella visita non preveduta avveniva nel tempo delle vacanze autunnali, quando era assente più della metà degli alunni. Era quindi facile trovare impolverato il pavimento nei dormitorii vacanti ed anche le lettiere in parte smontate e i pagliericci asportati per rinnovarne le foglie e lavarne le tele, facendosi appunto la solita pulizia autunnale. Anche nel salone dello studio tavole e panche accatastate aspettavano i riattamenti dai falegnami. Erano lavori che richiedevano più settimane, dopo i quali doveva essere imbiancata la casa. Questo tramestio, richiesto dalla pulitezza e dall'igiene, non poteva non recare momentaneamente le sue conseguenze anche in altri siti, come le strette scale e i pianerottoli; e si può comprendere l'aspetto che viene ad assumere qualsivoglia casa in tempo d'una pulizia generale.
Ma non lo compresero i signori incaricati di visitare l'Oratorio, e ne fecero all'ufficio dell'Ispettore Sanitario una relazione deplorevole: sporchi i locali destinati allo studio e ai dormitori, e in essi i giovani agglomerati; poco ventilati i cortili; i cessi tenuti in generale in cattivo stato; troppo vicino alla cucina e al refettorio il deposito della spazzatura; [187] e varie altre osservazioni, tutte con mal animo esagerate, alcune destituite di fondamento.
Il Municipio dava ordine a D. Bosco di provvedere subito ad una continua sorveglianza sulla pulizia di tutta la casa e gl'ingiungeva alcune dispendiose prescrizioni, e di “non accettare nuovi alunni, finchè la Commissione Municipale di sanità in seguito a nuova visita non avrà stabilito il numero di giovani, di cui sono capaci le sale dello Stabilimento”.
Difatti, trascorsa una settimana, la Commissione Sanitaria tornò a Valdocco, e dietro sua relazione al Municipio il Sindaco Rorà comunicava a Don Bosco aver la Commissione limitato il numero dei ricoverandi a 500, e stabilito che nel grande studio al piano superiore non si potessero radunare più di 200 alunni.
E' da notarsi che fra i Commissari eravi qualche scrittore di giornali anticlericali, i quali furono ben lieti di potersi servire delle giuste misure ordinate dall'autorità cittadina ad impedire la propagazione del morbo, per denigrare Don Bosco.
Il chierico Francesco Dalmazzo il 22 agosto scriveva da Torino a D. Rua in Mirabello: “L'Oratorio fu importunato da visite sanitarie che fecero le più odiose relazioni riguardo all'igiene e ciò perchè ha D. Bosco proposto al Sindaco di Ancona di mandargli giovani rimasti orfani pel colera. I settarii aveano giudicato esser quell'offerta uno scorno per tutta la città di Torino che si vantava di prestare in particolar modo soccorso ai miseri Anconitani. Dall'annesso biglietto che le invia Buzzetti Giuseppe giudichi le infamie che ha pubblicate la Gazzetta del Popolo....”.
Questa infatti, dopo aver narrato con spirito apertamente settario quanto abbiamo già riferito, conchiudeva in tono di trionfo: “Dopo ciò che cosa significhi l'offerta di D. Bosco di ricevere trenta orfani anconitani, lo dica il pubblico! Il bravo Sindaco di Ancona assuma per carità informazioni [188] presso la Commissione Sanitaria di Torino, per non essere poi maledetto dagli orfani stessi!”.
Tutti gli onesti non le prestarono fede e noi stessi udimmo alcuni popolani esclamare:
- Questo è troppo! Se può, faccia quel giornalista quello che sa fare D. Bosco!
Il 30 agosto, anche il Teol. Margotti, dalle colonne dell'Unità Cattolica, entrava in campo a dare il suo giudizio, scrivendo in difesa di D. Bosco:
D. Bosco e l'Oratorio di S. Francesco di Sales. - Da qualche tempo alcuni giornali, appoggiati ad una asserzione della Gazzetta del Popolo, si sono occupati e s'occupano a sparlare intorno allo stato d'igiene, di nettezza e di troppa agglomerazione di giovanetti nell'Oratorio di S. Francesco di Sales. Noi siamo stati più volte a visitar questo stabilimento, e non ci fu mai dato di notare alcuno di sì fatti sconci. Anzi sappiamo che poco fa vi andò il Principe Amedeo accompagnato dal Sindaco di Torino, dal Prefetto e da altri autorevoli cittadini, i quali, dopo aver visitato lo stabilimento, ne diedero i più cordiali segni di soddisfazione, e noi ne eravamo intimamente persuasi, imperocchè ogni anno v'è una visita medica; nè il Ministero, la Questura, il medesimo Municipio di Torino invierebbero colà ragazzi, come sappiamo aver fatto, se vi fossero inconvenienti a temersi.
Tuttavia, spinti dalla diceria, abbiamo voluto portarci sul luogo e visitare questo stabilimento sotto l'aspetto sanitario, numerico e di nettezza, ed abbiamo avuto il piacere di poter confermare di presenza quello di cui prima eravamo già persuasi, vale a dire:
1° Essere ottimo lo stato di sanità di quei giovanetti, mentre consta che nonostante il numero di circa ottocento, passano cinque ed anche sei mesi senza che un fanciullo vada per male in infermeria, se si eccettua il male dell'appetito che è grandissimo;
2° Abbiamo osservato i grandi sforzi per provvedere alle cose necessarie e nulla havvi a desiderare per la nettezza per quanto è possibile per una casa che vive di beneficenza;
3° In quanto al numero è vero che è grande, mentre in via ordinaria va circa agli ottocento, ma il locale ci sembra competente.
Tuttavia dobbiamo lodare la preveggenza di D. Bosco, che appena cominciarono a farsi sentire i tristi effetti del colera in paesi a noi vicini, egli sul finire dello scorso mese di luglio collocò altrove una vistosa parte de' suoi ricoverati, a segno che il loro numero da ottocento venne ora ridotto a trecento. [189] Da ciò noi possiamo arguire che coloro che hanno propagato notizie ostili a questo stabilimento o furono male informati e dovrebbero rettificarle, o furono di quei calunniatori cui gode l'animo quando loro è dato di poter comprimere qualunque opera che non torni di loro gusto.
Costoro dovrebbero almeno riflettere che è un'opera dove sono raccolti a centinaia i poveri figli del popolo. Qui, mercè i continui sacrifici di D. Bosco e de' suoi colleghi, imparano a vivere da buoni cristiani ed apprendono un'arte con cui possono a suo tempo guadagnarsi il pane della vita coll'onesto lavoro delle loro mani.
Opere di questa fatta, da chi ha un cuore in petto, devono essere aiutate, promosse, e solamente i nemici del vero bene sono capaci di deprimerle e di calunniarle.
Il Servo di Dio fu arrendevole ad alcune esigenze dell'Ufficio sanitario e fece affrettare il compimento degli accennati lavori di riparazione e di ripulimento dei locali; si scusò di non obbedire ad ingiunzioni impossibili che lo avrebbero costretto a spese troppo gravose, ed imperturbabile, pur mantenendo il numero de' giovani ricoverati senza diminuirlo di un solo, preparò il posto per quelli resi orfani dal colera. E il numero degli alunni ascese a 900.
Dopo queste ispezioni, l'Oratorio non ebbe più noie per causa d'igiene, e il Governo, i Municipii e la Commissione di Ancona non si ristettero dall'affidargli i giovani rimasti senza parenti. Proprio di quei giorni il Comm. Bona, Senatore del Regno, dal Ministero dei lavori Pubblici, Direzione delle strade ferrate, non curando le diatribe dei giornali, raccomandava all'Oratorio il giovane Cerruti Carlo di Torino, che vi era accettato.
LE trattative colla Commissione d'Ancona e le esigenze igieniche dei Municipio di Torino, avevano trattenuto per qualche giorno D. Bosco all'Oratorio;ma egli non tardava a riprendere i suoi viaggi per distribuire [191] biglietti della Lotteria e chiedere soccorsi per l'erezione della chiesa.
Il 29 agosto era di bel nuovo a Novara, donde scriveva al Marchese Fassati, che attendevalo a Montemagno.
Attese le voci di colera che si fanno ogni giorno sentire a noi più vicine, sarà forse bene prescindere dal triduo che avevamo concertato in onore della Beata Vergine Maria. Se però Ella avesse già fatta parola in proposito, oppure si fosse già dato avviso in pubblico, io e D. Rua siamo ai suoi ordini.
Il Teol. Golzio è disposto di venire a fare meco una gita a Montemagno e il progetto sarebbe di andare lunedì prossimo; partiremo alle 9,30 e giungeremo per l'omnibus delle cinque pomeridiane.
Io spero, sig. Marchese, che Ella, la signora Marchesa, Azelia ed Emanuele godano tutti buona salute: questa è la grazia che io domando per tutta la sua famiglia ogni giorno nella santa Messa ed ho ferma fiducia che la Santa Vergine mi esaudirà in ogni tempo, ma specialmente nei presenti pericoli.
Non so se il maestro Cerruti appaghi l'aspettazione; occorrendo gli dia pure qualunque avviso o consiglio; egli lo prenderà certamente in buona parte. Ritardò qualche giorno la sua andata a Montemagno, perchè io gli aveva scritto a Mirabello, mentre egli era già partito per la sua patria, sicchè la lettera dovette fare un giro duplicato.
La nostra chiesa va avanti, ed una parte delle mura giunge già all'altezza del tetto. Questa chiesa spero che sarà per Lei e per tutta la sua famiglia una caparra sicura dell'efficace protezione di Maria Ausiliatrice. Abbia in Lei molta fiducia.
Avrà veduto da qualche giornale, che oltre la visita che il Signore ci fa nelle persone della Casa, vi sono anche nemici che ci tribolano al di fuori. S'immagini: Borella e Bottero furono dal Municipio incaricati a venire a visitare la nostra casa per lo stato d'igiene e di moralità. Due preziosi modelli!
Preghi tanto per me e per questa nostra casa, e mi abbia sempre tra quelli che con pienezza di stima si professano,
Novara (per quest'oggi), 29 agosto 1865,
Ritornato a Torino, rispondeva ad una nota del Provicario Can. Vogliotti, Rettore del Seminario.
Ill.mo e Molto Rev. Sig. Vicario,
Ho ricevuto la nota dei nostri giovani che si presentarono per l'esame della vestizione chiericale e ne la ringrazio. Sunt bona mixta malis. - Ho piacere che taluni siano stati rimandati perchè vollero andarvi contro mio volere. Mi rincresce per altro di Maffei che è molto lodevole per condotta ed era dei buoni nel suo corso. È proprio un caso eccezionale che sia riuscito male. Examen sive Periculum!
Ho pure ricevuto l'altra sua in cui mi partecipava che Ella si riteneva i 100 biglietti e mi invitava a terminare il conto che da molto avrebbe dovuto essere sistemato. Benedetta miseria! Se non fossi troppo ardito, vorrei fare una addizione alla sua lettera; ma temo di meritarmi il titolo di noioso. Basta, proviamo. Prenderebbe Ella ancora 100 biglietti di questa lotteria? Avrei altri f. 50 che uniti agli altri 350 formerebbero tondamente f. 400 e così ogni debito attuale col Seminario sarebbe saldato.
Per altro ab amicis honesta sunt petenda, e se stima la mia proposta inopportuna, ritirerà volentieri la mia domanda e mi limito a ringraziarla de' benefizi che ci ha fatti altre volte. Le auguro dal Cielo sanità e grazia; raccomando me e questa casa alla carità delle sue preghiere e mi creda con gratitudine di V. S. Ill.ma e Molto Rev.da Torino, 3 settembre 1865,
P. S. - Le unisco il certificato di condotta del Ch. Vittone, che il Vescovo d'Acqui mi manda da esserle trasmesso.
Il giorno 4, ricevute notizie rassicuranti dal Marchese Fassati, egli era a Montemagno con D. Arrò Carroccio di Lanzo a dettare un triduo solenne al popolo. D. Michele Rua per suo invito vi si era recato da Mirabello per aiutarlo a predicare e a confessare. Il frutto fu quale doveva aspettarsi. La popolazione era accesa di sacro entusiasmo. In quelle sere in tutte le famiglie si recitava il santo rosario, come solevasi nell'autunno avanzato al cessare dei lavori in campagna. I penitenti ritornavano a casa pieni di gioia con una medaglia [193] di Maria SS. Ausiliatrice loro donata dai missionarii. Soldati in congedo che avevano combattuto nelle guerre del 1855 e del 1859 protestavano di anteporre tali medaglie della Madonna a quelle del valor militare, meritate sul campo di battaglia. Essi infatti avevano vinto la più gloriosa delle campagne, vincendo il nemico delle loro anime.
Finito il triduo, D. Bosco tornava a Torino e riprendeva le sue sollecitudini per la chiesa in costruzione. Al conte Carlo Cays che villeggiava a Casellette, inviava la seguente:
Con gran piacere ho ricevuta la notizia che notificava la nascita di un erede in Casa Cays, ma questa fu assai rattristata da un'altra che si diceva trovarsi la Signora Contessa molto aggravata dal male. Abbiamo tosto ordinate pubbliche preghiere mattino e sera, ed ora abbiamo avuto la grande consolazione di sapere che la malattia cessò e che riebbe il suo stato ordinario di sanità. Sia Dio e la Santa Vergine Ausiliatrice ringraziata.
Ma, e la nostra chiesa? Ecco la seconda parte della mia lettera. La chiesa è al coperchio; ed ho bisogno che mi aiuti a coprirla. In che modo? Con quei listelli, tegole, assi, reme, remoni, travi e travicelli che ella avesse fuori d'uso e che volesse regalare alla Madonna Ausiliatrice. - Che ne dice Signor Conte? Che ne dice il sig. Luigi e la Signora Contessa? Essendo difficile il questuare danaro, ho pensato di appigliarmi al consiglio del Cav. Zaverio Collegno di questuare materiali.
Compatisca, sig. Conte, la confidenza con cui scrivo; gradisca che io le auguri dal Cielo sanità e grazia, a Lei e a tutta la sua famiglia, e raccomandando me e li miei giovanetti alla carità delle sue sante orazioni godo moltissimo di potermi con gratitudine sincera professare
Un'altra lettera, indirizzata a D. Rua a Torino, non sappiamo da qual paese, ci conferma le sollecitudini del Servo di Dio per innalzare la reggia della sua Ausiliatrice: [194]
C'è una cambiale che scade oggi di f. 1000. Prendi il chiavino che ti unisco, va' in mia camera e nel cancello che tu sai, troverai un groppo di f. 1000; di poi parlerai col Cavaliere o con D. Savio che ti dicano o facciano eglino stessi il versamento di questa somma in quel sito ove l'hanno già fatto un mese addietro.
Io sarà a Torino domani alle 3 pomeridiane.
Dio benedica te e tutta la nostra famiglia ed abbimi tuo
D. Rua aveva con meravigliosa prontezza abbandonato Mirabello per assumere l'ufficio di Prefetto nell'Oratorio, ed erasi già sobbarcato al pesante fardello che aveva deposto D. Alasonatti; fardello davvero gravoso per la complicata amministrazione materiale.
D. Rua stava ordinando il suo collegio pel nuovo anno scolastico, quando D. Provera giunto a Mirabello gli disse:
- D. Bosco ti aspetta a Torino.
E D. Rua, che stava a tavolino scrivendo, non esita un istante: senza fare nessuna interrogazione, nè chiedere spiegazioni, si alza, prende il breviario, e:
- Son pronto! - disse; e partì subito per Torino.
Un'obbedienza così pronta dovette essere un duro sacrificio per lui che amava grandemente i suoi alunni. Tuttavia comparve nell'Oratorio con aspetto così ilare e disinvolto che si sarebbe detto nulla importassegli lasciar un luogo dove aveva dimorato due anni ed era stato l'oggetto dell'amore di tutti.
Quando però chi doveva succedergli nella direzione del piccolo Seminario fu a salutarlo, ei gli disse:
- Dunque tu vai a Mirabello. Salutami i giovani. Amali tu per me. Sono buoni, sai; - ed una lagrima gli spuntò sugli [195] occhi. Quindi riprese: - Verso i confratelli, regolati come un fratello maggiore verso i fratelli minori.
Ma, cosa ancor più notevole, in questi giorni incominciava ad avverarsi una predizione di D. Bosco.
Prima dei 1850 era spesso accaduto che il giovanetto Rua, andando o tornando dalla scuola s'incontrasse col Venerabile. Non appena lo scorgeva, fuor dì sè per la gioia gli correva incontro, e scoprendosi il capo e baciandogli la mano esclamava:
- Oh D. Bosco, mi da' un'immagine?
Il Venerabile si fermava amorevolmente con lui, gli riponeva il berretto in testa e, sorridendo, presentavagli sempre la palma della mano sinistra, mentre colla destra faceva atto di tagliarla a metà: e dicevagli scherzevolmente:
Michelino baciandogli di nuovo e con più affetto la mano si accomiatava pensando: - Con quel gesto che vorrà dire?
Fece questa domanda a D. Bosco quando, presa stanza nell'Oratorio, egli ebbe vestito il 3 ottobre 1852 l'abito clericale: -Rammenta, signor D. Bosco, quegli incontri che ebbi più volte con lei quando andava a scuola dai Fratelli, e che domandandole il dono di un'immagine, lei mi faceva segno di volermi dare metà della mano? Che cosa voleva dirmi?
- Oh mio buon figliuolo, gli aveva detto con accento paterno D. Bosco; ormai tu dovresti comprenderlo, ma lo comprenderai meglio in seguito... e proseguì: - D. Bosco voleva dirti che un giorno avrebbe con te fatto a metà.
Ora adunque, come Prefetto dell'Oratorio, il fedele imitatore delle virtù di D. Bosco incominciava e continuava per 20 anni continui, a dividere con lui tutte le fatiche della direzione generale dell'Oratorio e della Pia Società: e infine come Vicario ne divideva anche l'autorità.
D. Rua intanto preparavasi all'esame di lettere italiane greche e latine per conseguire la patente di professore di rettorica. [196] Fin dal 28 agosto D. Bosco aveagli procurata la fede di buona condotta dal Sindaco, con altri documenti necessari da presentarsi all'Università, ed ora, perchè richiesto, consegnavagli un suo attestato onorifico.
Il sottoscritto di buon grado dichiara che il sac. Rua Michele di Torino insegnò per lo spazio di sei anni nelle classi ginnasiali inferiori e quattro anni nelle ginnasiali superiori colla massima soddisfazione dalla parte de' suoi Superiori e con vantaggio non ordinario dalla parte degli allievi.
Dichiara inoltre che lo giudica degno di speciale encomio, perchè ha sempre spese con zelo le sue fatiche gratuitamente.
Visto per l'autenticità della firma del sig. Sac. D. Giovanni Bosco. Torino, 15 settembre 1865.
Per il Provveditore agli studi.
D. Bosco era tornato all'Oratorio il 19 settembre, ma per ripartirne. Col suo pensiero era però sempre vicino a D. Alasonatti la vita del quale si andava spegnendo. Erasi tentato ogni mezzo per conservarla. Si era provato, come si è detto, di mandarlo ad Avigliana, sua patria, quindi era stato condotto a Mirabello nel piccolo Seminario, quando D. Rua ne era ancor Direttore. Di là si trasferì alla casa amenissima di Trofarello donata alla Pia Società da D. Matteo Franco, e finalmente scorgendo inutile ogni ripiego egli stesso si risolveva di recarsi nel collegio di Lanzo, poichè sentiva la necessità di respirare un'aria molto ossigenata. D. Bosco gli aveva dato per compagno lo scrivente.
Scrivi al signor Canale che accetto il suo raccomandato e lui stesso se vuole venire con noi all'Oratorio. - Gli dirai le tre pensioni. - Pel [197] 24 corrente sono a Torino e lo attendo con noi con gran piacere. Ben inteso che una camera e la nostra mensa è tutta a sua disposizione.
Pel resto ci parleremo presto. Saluta i nostri giovani. Fammi guarire D. Alasonatti. Va' eziandio a fare un caro saluto al sig. Vicario ed un altro a casa Arrò.
Amami nel Signore e credimi sempre tutto tuo
Il 1° di ottobre, festa del SS. Rosario, il Venerabile era ai Becchi con la banda musicale e un bel numero di altri alunni. Quivi fermavasi alcuni giorni e dato ordine che il venerdì, giorno 6, tutta la brigata ritornasse a Torino, scendeva a Chieri e di là scriveva a D. Rua
In breve: 1° Manda due programmi del Collegio di Lanzo al sig. Cav. T. Vaccarino prevosto di Buttigliera d'Asti per rimetterne uno al sig. Arato Guglielmo della Serra.
2° Idem al sig. Can. Caselli, Chieri.
3° A D. Ghivarello che i giovani passeranno a sua casa venerdì. Se volesse andarli ad aspettare, gli farebbero un brindisi.
4° Di qui io vado a Borgo, ma venerdì sono a Torino e ciò per tua norma, in caso che la Marchesa Negrotto di Genova si presentasse a chiedere di me.
Noi stiamo tutti bene, D. Cagliero gode. Saluta D. Francesia e Don Bonetti una cum caeteris.
Per la metà di ottobre era atteso in Acqui, invitatovi con grandi istanze. Lo zelo del Venerabile, come abbiamo già visto, trovava modo di occuparsi anche de' speciali bisogni di qualche Vescovo. [198]
Mi rincresce assai che V. S. M. R. non abbia potuto fare una gita a Strevi il 25, o 26 perduto settembre, epoca in cui avrebbe potuto vedere il sig. D. Luigi Cogrosso ed essere testimonio oculare della guarigione di un parroco che da quattordici anni non poteva più muoversi senza l'aiuto di due gruccie e che gli ottenne dal Signore con sovrannaturale prodigiosa grazia istantanea di camminare, abbandonando le stampelle che lascio nella stessa sala ove si operò la guarigione; e se ne parti alla sera senza aver più bisogno di alcun sostegno. Ieri mi partecipò che da quel giorno ha sempre celebrata la S. Messa e che domenica la cantò (dopo 14 anni), fece la processione ed impartì la benedizione con un concorso straordinario di popolo.
Mi spiace inoltre che non possa venire prima della metà di questo mese, per la ragione che il buon servo di Dio Luigi Cogrosso ritornerà da me il 10 corrente. Non dubito però che se le sarà possibile si varrà di tale congiuntura.
Frattanto devo prevenirla che tutte le indagini da me fatte pel professore di Rettorica, andarono a vuoto. Attendo bensì ancora un riscontro, ma con poca o nessuna speranza. Caldamente pertanto la prego e supplico di togliermi da questo imbroglio, come mi ha promesso e far sì che pel 1° di novembre, se pel 15 corrente non le parteciperò d'essere altrimenti provvisto, me lo possa mandare in compagnia del Ch. Vittone, professore di grammatica.
Porto fiducia che prima di tal'epoca avrò il piacere di abbracciarla in quest'Episcopio e frattanto coi sensi della massima stima ed affetto ecc.
Nell'Oratorio eran tutti meravigliati nel vedere D. Bosco allontanarsi in quest'anno con viaggi continui ed affrettati, cosa prima d'allora mai vista. Si trattava della chiesa di Maria Ausiliatrice. Ma ciò che maggiormente destava stupore era il vederlo, per quanto fosse incomodato, affaticato, contraddetto, gravato di croci pesanti, non perdere la sua pace e il suo buon umore. Faceziava volentieri. Da tempo aveva già conferito titoli nobiliari con feudi, al più antichi de' suoi collaboratori laici. I feudi erano certe piccole pezze di terreno appartenenti [199] in Morialdo alla sua famiglia, alcune delle quali incolte o sabbiose. Quindi c'era il Conte dei Becchi, l'umile frazione della borgata ove egli era nato; il Marchese di Valcappone; il Barone di Baccajao e il Commendatore... non so più di quale commenda.
Con questi titoli era solito a chiamare Rossi, Gastini, Enria, Pelazza, Buzzetti; nè solo in casa, ma anche fuori, specialmente quando in tempo di vacanze viaggiava con qualcuno di essi. Costoro, vestiti con semplicità decorosa, erano felici di continuare la burla e riuscivano a rappresentar bene la loro parte. Con maniere disinvolte e serie scherzavano chiamandosi coi loro titoli rispettivi, facendo allusione a possessioni, villeggiature, e conoscenze che stavano nel regno della luna. Talora chi viaggiava con loro nello stesso vagone, restava meravigliato di trovarsi con persone così cospicue. Altra volta giungendo alle stazioni eran trattati con molti riguardi, poichè i conduttori del convoglio, ai quali D. Bosco non di rado dava una mancia graziosa, si facevano un onore di far loro cortesia, preferenza, o servigio. Accadde pure che giunti in qualche paesello, non avendo ivi persone conoscenti, dovessero andare in qualche albergo per vitto ed alloggio. D. Bosco incominciava a dire:
- Ha fatto buon viaggio, signor conte? Non è forse troppo stanco, signor marchese? che cosa desidera per cena? E lei, barone, non troverà qui certamente i lauti pranzi delle sue cucine! Bisognerà, signori miei, che abbiano pazienza e che si contentino di ciò che potrà trovarsi in questi luoghi!
Naturalmente egli parlava in tono burlesco, ma lo faceva con tanta grazia che l'oste, la sua famiglia e i soliti oziosi nell'udire ripetere questi titoli di nobiltà restavano sbalorditi, e si davano d'attorno per trattare il meglio che potessero quei signori forestieri, ai quali erano pronti a cedere perfino i proprii letti.
L'oste si avvicinava a D. Bosco e dicevagli sotto voce: [200]
- Come! quel signore è un conte? Quell'altro è un marchese?
- Oh poveri noi! E come faremo a trattarli secondo il loro stato?
- Non datevi pena, brav'uomo! Essi si contentano facilmente; sanno compatire.
Pei nostri era una commedia da scoppiar dalle risa! E talvolta anche lo scherzo faceva buon giuoco.
Un giorno il Servo di Dio si recò alla stazione di Porta Nuova per fare un viaggio con Rossi Giuseppe che gli portava la valigia. Al solito arrivò quando il treno era sul partire, e tutti i carrozzoni pieni di gente che stava già cogli sportelli chiusi, o affacciata alle finestrelle come se lo scompartimento fosse tutto occupato, quasi ad impedire che altri salisse con loro. Non potendo D. Bosco trovar posto, si volse a Rossi scherzevolmente ad alta voce esclamando:
- Oh signor Conte, mi rincresce che si prenda tanto incomodo per me! Degnarsi di portarmi la valigia!
- S'immagini, D. Bosco, rispose Rossi con voce abbastanza chiara. Io mi tengo fortunato di poterle prestare questo piccolo servigio.
Alcuni viaggiatori che udirono quelle parole signor Conte e D. Bosco si guardarono in faccia, le ripeterono meravigliati, quindi uno di essi chiamò i due che non erano ancor riusciti ad entrare sul treno:
- Don Bosco! sig. Conte! salgano qui; ci sono ancora due posti.
- Ma io non vorrei dar loro incomodo! dice D. Bosco!
- Salgano! È un onore per noi; ritiro le mie valigie, ci staremo tutti benissimo!
La predizione fatta dal Servo di Dio sulla fine del 1863 continuava intanto ad avverarsi. Dopo grande mortalità in Ancona e in Sardegna, a Napoli dal 13 ottobre al 14 novembre [201] i colpiti dal colera registrati furono 2315 e i morti 1188, numero inferiore al vero; e dopo il 14 il male crebbe d'intensità. Vi furono giorni nei quali si ebbero 200 casi con 80 decessi e vennero rilascitati 40.000 passaporti ai benestanti che vollero andare fuori del regno, in luoghi riputati meno pericolosi.
Fuori d'Italia, Malta, Smirne, Costantinopoli ed altri scali divennero centri d'infezione.
Il colera si diffondeva pure in Francia. A Parigi e nel dipartimento della Senna colpiva sei o sette migliaia di cittadini. A Marsiglia a metà settembre morivano sessanta o settanta persone al giorno. Il morbo si estese pure a Tolone ove scoppiò più micidiale, rimanendone infette altre regioni vicine.
In Ispagna l'invasione del contagio fu così violenta e paurosa che le principali città per poco non si vuotarono di quanti cittadini avevano modo di trovare ricetto altrove, disperdendosi alla campagna o riparando in città non infette. Solamente a Madrid eransi raccolti oltre 60.000 profughi d'altre provincie; e quando l'epidemia comparve anche nella capitale là pure cominciò la fuga e la dispersione.
Nell'Inghilterra il colera non fece stragi considerevoli o tali da commuovere le popolazioni, ma la peste bovina in poche settimane sterminava a centinaia di migliaia i buoi e le vacche; e la febbre gialla in alcuni luoghi posti sul mare mieteva assai vittime umane, infuriando per modo che lo stesso Governo Italiano ebbe ad escludere da suoi emporii marittimi lo provenienze da varie città delle coste brittanniche.
In questo tempo la divozione e la confidenza a Maria Ausiliatrice andava crescendo nell'alta Italia. Fra i varii documenti scegliamo il seguente.
Da Campegine il 12 settembre 1865 la signora Amalia Fulcini Jacobazzi scriveva a D. Bosco:
Da diverse persone, ma particolarmente da una mia intima amica la Contessa Carolina Soranzo da Venezia ho sentito parlare della [202] prodigiosa costruzione della Chiesa che Ella fa costrurre in Torino e dedicata alla nostra cara Madre Maria SS. sotto il titolo Auxilium Christianorum. So pure da quella mia buona amica ch'ella accetta qualunque piccolissima offerta le si faccia per quel tempio: e conoscendo quanto io tema di morire dal colera, mi ha consigliata a fare una piccola offerta alla Madonna per ottenere la grazia d'esser preservata... Mi perdoni se ho avuto l'ardire di dirigerle direttamente i miei caratteri, ma anche in questo mi son tenuta al consiglio della mia buona Carolina che mi ha fatto coraggio.
La persuasione che Maria Ausiliatrice preservasse dal colera quei devoti che concorrevano alla costruzione del suo Santuario in Valdocco si era diffusa in molte città, come noteremo altrove; in essi al timore subentrava una dolce e ben fondata speranza.
ALLA mezzanotte tra il 7 e l'8 ottobre moriva a Lanzo il Sac. Vittorio Alasonatti, Prefetto della Pia Società Salesiana e dell'Oratorio. Era giunto a Lanzo sul finir dell'Agosto, e presago di trovarsi al termine de' suoi giorni, preparavasi alla morte che per lui doveva essere il riposo dopo tante fatiche e la porta degli eterni godimenti. Tutti i giorni recitava i Proficiscere, e ciò da più anni, temendo che in punto di morte gli venisse a mancare questa preghiera, come realmente avvenne.
Quello che soffriva, Dio solo lo sa. L'ulcere alla gola gli aveva incurvata la testa fin quasi alle ginocchia e la spalla destra lo tormentava con vivi dolori. Tuttavia egli stava una gran parte del giorno fuori del letto. [204]
Perfetta era la sua rassegnazione al volere di Dio. Spesso esclamava: Fiat voluntas tua. Il suo pensiero prediletto era: Semper in gratiarum actione manere. La sua giaculatoria favorita: Deo gratias! Ad ogni puntura della spalla ripeteva: Deo gratias! Quando i dolori l'opprimevano maggiormente e le membra gli si contraevano, il volto si affilava, i denti scricchiolavano, il catarro parea soffocarlo, la tosse gli conquassava il petto, e sangue e tabe uscivano dalla sua bocca, non emetteva un grido, non un lamento, anzi un riso, purtroppo spasmodico ed angoscioso, gli sfiorava il labbro! Chi era presente a queste crisi ne riportava un sentimento di compassione per tutto il giorno; eppure la sua prima parola appena potea riavere il fiato era: Deo gratias! Dopo essere stato assopito per qualche minuto, d'aver passato una notte insonne, preso qualche po' di cibo o di bevanda, fatta una breve passeggiata in giardino, ricevuta una buona o cattiva notizia, ripeteva sempre: Deo gratias!
I chierici, quantunque pochi e tutti con le proprie occcupazioni di scuola, studio, ricreazione e passeggiata, si erano divise le ore del giorno e della notte, in modo che qualcuno di loro era sempre pronto a servire il caro infermo. Ma Don Alasonatti studiavasi di dare ad essi ed al Collegio il minor disturbo possibile. Si cercava di preparargli vivande che supponevansi di suo gusto, ma sovente quando gli erano state poste innanzi, si sentiva preso da tale nauseante ripugnanza che, scusandosi, domandava fossero riportate in cucina. Nello stesso tempo proibiva che gliene apprestassero altre.
Recavagli un po' di sollievo una minestrina molto calda, che per ordine del medico, gli veniva recata ogni due ore. Accadde un mattino che il chierico destinato a portargliela dovesse supplire nella scuola un maestro, persuaso avere altri preso il suo posto presso l'infermo. Ma non era così e D. Alasonatti stette tutta la mattina senza il solito ristoro. Aveva alla portata della mano la corda del campanello, ma non volle [205] chiamare alcuno prima dell'una pomeridiana, aspettando che finisse il pranzo della comunità. Allora suonò, corse il Ch. Sala e D. Alasonatti gli chiese sorridendo:
- E di me vi siete dimenticati?
- Come? non le hanno ancora portato il pranzo?
E scese subito in cucina a dare gli ordini, mentre il chierico, causa involontaria di quell'inconveniente, si recò subito presso l'infermo, aspettandosi un meritato rimprovero, e invece alle sue scuse sentissi rispondere affettuosamente:
- Non fa nulla. Portami ora qualche cosa. Deo gratias!
Egli temeva di dover morire repentinamente senza essere assistito dai confratelli; quindi se per qualche istante rimaneva solo, questo pensiero gli cagionava un generale e angoscioso stiramento di nervi. Eppure molte volte costrinse di notte l'infermiere a ritirarsi perchè si riposasse:
- Questo non va, ripeteva, che per me debbano aver incomodo gli altri.
Una sera gli si disse, che se a lui non fosse rincresciuto, i giovani del collegio avrebbero cenato nel prato che stendevasi sotto le finestre della sua camera.
- Io ho nulla in contrario, rispose: solo pregherei che non schiamazzassero troppo, perchè stassera il male mi opprime più del solito.
- Allora sarà meglio privare i giovani di questa ricreazione: quod differtur, non aufertur.
- No, no; vadano pure nel prato; mi fa tanto piacere veder que' cari giovani ed essere spettatore della loro allegria!
E così dicendo fece portare il suo seggiolone vicino alla finestra e vi si assise per godere della vista dei giovani che amava tanto!
Altra volta dopo il pranzo un inserviente suonava il suo flauto e D. Alasonatti sorrideva con un sorriso forzato e doloroso che aveva sempre sulle labbra, quando il suo patire era più veemente. [206] Questo suono le dà noia? - gli dimandò chi lo assisteva.
L'assistente si avvia per uscire, ma D. Alasonatti lo richiama dicendo: - Dove andate?
- Ad avvisare quel servo che lasci di suonare.
- No, no; non voglio che andiate. Poveretto! Questo è il suo unico sollievo e non sia detto che per me debba privarsene. - E l'assistente dovette obbedire.
Anche in mezzo a' suoi dolori si occupava più degli altri che di se stesso. Se vi era un ammalato in casa, domandava ansiosamente delle sue nuove. Se qualche giorno scendeva dai monti un'aria più fredda del solito, comandava a coloro che lo circondavano di mettersi in dosso vesti più grosse: - Perchè, diceva: non vorrei vedervi ammalati. -Sentendo tossire qualcuno, ordinava che gli fosse dato il caffè e voleva poi sapere se l'avesse preso, ed un'ammonizione non poteva mancare a chi non l'avesse obbedito. Domandava sempre ai giovani che lo visitavano:
- Bene, sig. Prefetto; e lei come si sente?
- Io sto meglio, sentendo che gli altri stan bene.
Che se alcuno avesse risposto di sentirsi qualche piccolo incomodo, ne dimostrava tale dispiacere che bisognava poi rispondere alla sua domanda in modo da lasciarlo contento; e perciò, chierici ed alunni, tutti lo assicuravano sempre con dirgli: - Stiamo benissimo.
Voleva pure conoscere tutto l'andamento della casa e ammoniva con grande carità chi aveva bisogno di correggere qualche suo difetto; e in assenza di confessori si offerse di ascoltare le confessioni dei chierici. Allorchè ricordava il gran bene che può fare un sacerdote nel sacro ministero, esclamava:
- Ed io sono un veterano, posto fuori di servizio! [207] La sua preghiera era continua. Tutte le mattine, eccettuati varii giorni delle due ultime sue settimane, volle scendere in chiesa per ascoltare la santa Messa e fare la Comunione, non ostante il gran patire che gli cagionava il digiuno. Finchè potè vi assistè sempre in ginocchio; quando più tardi la debolezza glielo impedì, l'ascoltava stando seduto, inginocchiandosi soltanto al momento dell'elevazione. Qualche volta volle celebrare la santa Messa alle due dopo la mezzanotte; ed era questo uno sforzo veramente eroico, perchè gliene veniva tale spossamento di forze da travagliarlo per tutto il giorno. L'ultima volta che celebrò fu il 1° di ottobre, Domenica del Santo Rosario. Tutti i giorni poi si trascinava nel pomeriggio in chiesa a fare una visita al suo Signore in Sacramento, e vi rimaneva più di un'ora.
Nutriva una specialissima divozione verso Maria SS. Il Rosario con molte altre preghiere era il suo cibo quotidiano. E come pregava! Osservandolo in quel tempo bisognava esclamare: - Questo sacerdote ha veramente una fede viva! - Quando poteva, pregava ad alta voce ad onta delle doglie che gli cagionava alla gola l'articolar le parole; quando non poteva per la violenza della tosse o per l'estrema debolezza, era pure di grande edificazione solo il vederlo svolgere la sua corona. E continuò in questa pia pratica fino all'ultimo giorno.
Una sera era già coricato quando alle 81/2, ora delle orazioni, gli alunni inginocchiati nel cortile, prima di incominciarle presero secondo la consuetudine a cantare una strofa di una lode, e precisamente quella che incomincia Noi siam figli di Maria. Alle prime note di quelle voci infantili, Don Alasonatti che in quel momento pareva prendesse un po' di sonno, si scosse, si sforzò di porsi a sedere sul letto, si tolse il berrettino e unì la sua stanca voce al canto dei giovani. Poi giunse divotamente le mani sul petto e accompagnò sommessamente le preghiere. In quel momento entrava nella sua camera un chierico con una tazza di acqua di camomilla che [208] aveva chiesta per facilitare la digestione, così penosa pel suo stomaco, e gliela presentò; D. Alasonatti gli fece segno di porla sul tavolino.
- Ma scusi, sig. Prefetto, la beva subito; è calda e le farà bene.
- È intempestiva questa tua osservazione; mi porgerai la tazza finite le orazioni.
- Ma dopo le orazioni sarà fredda ed allora è inutile berla.
- Adesso io debbo pregare coi giovani: se sarà fredda, la berrò fredda.- E si raccolse di nuovo in preghiera; conosceva i preziosi vantaggi dell'orazione recitata in comune.
Allorchè la campana suonava l'Angelus, invitava quelli che erano con lui ad inginocchiarsi e lo recitava egli pure.
Un giorno vide un giovane adulto farsi in fretta il segno della croce. Lo prese a parte e gli disse:
- Mio caro, permetti che ti faccia un'osservazione?
- Se D. Bosco ti vedesse fare il segno della croce con quel mal garbo come hai fatto, ti sgriderebbe.
- Scusi, sig. Prefetto! Io veramente non aveva badato a quel che faceva, tuttavia sembravami di averlo fatto bene.
- Quando fai un atto di religione, bada sempre a quel che fai.
- Grazie; procurerò di mettere in pratica l'avviso.
- Non avertela a male. Ti correggo perchè ti voglio bene. Così io stesso vorrei essere avvisato tutte le volte che manco: anzi ti prego di rendermi il servizio che ti ho fatto tutte le volte che ne vedrai il bisogno. Sarà il più gran regalo che potrai farmi. - E replicò: - Dimmi; ti ho forse offeso?
- Oh no, davvero! e gliene rendo grazie infinite.
- Voglimi dunque sempre bene e vatti a divertire.
In vero, egli dava l'esempio di questa esattezza; non ostante che il suo reuma gli rendesse dolentissimo ogni moto [209] del braccio, si sforzava tuttavia di fare con precisione il segno della santa croce.
Ma il male lo aveva ridotto al punto che non poteva più appoggiare il capo da nessuna parte. Se lo posava sul cappezzale, i nervi, divenuti sensibilissimi, gli davano spasimi insopportabili; lo stesso accadeva se avesse sostenuta la fronte colla mano. Allora pregò chi l'assisteva che gli aggiustasse un ordigno di legno dietro alle spalle, che tenesse il suo capo alquanto sollevato, stando egli sempre seduto sul letto:
- Non scandalizzarti, gli diceva, se io cerco qualche mio comodo. Il mio corpo l'offro tutti i giorni al Signore, ma m'incombe anche l'obbligo di tenerlo in vita, finchè piacerà a Lui.
- Io sono già morto; almeno così mi sembra, ed è già qualche settimana che ho questa fissazione. Mi sembra che in me vi siano due uomini: uno che soffre e l'altro che sta contemplando tranquillamente i suoi dolori e lo sfacelo che a poco a poco lo avvicina alla corruzione.
Quale eroica rassegnazione cristiana!
Era già oltre un mese che edificava il Collegio di Lanzo colla sua virtù, quando il 5 ottobre, giorno di giovedì, sentendo che le forze gli andavano gradatamente mancando, nel dopo pranzo, mandò a chiamare il suo confessore, che era il Parroco di Pessinetto, D. Antonio Longo, suo compagno di scuola. Questi, entrato in camera, gli disse:
- Che cosa vuoi che io domandi al Signore per te? vuoi la sanità?
- Sia fatta la volontà di Dio, rispose D. Alasonatti, e semper Deo gratias!
Dopo essersi confessato, supplicò perchè gli venisse recato il Santo Viatico e D. Longo, scorgendo la gravezza del male, acconsentì. Accompagnato dai giovani, il SS. Sacramento entrò dall'infermo, il quale appena lo vide fu preso da tale impeto di amore che rendevagli più affannoso il respiro. [210] Volle egli stesso recitare il Confiteor e con tale unzione che pareva non sentisse più i suoi dolori. Come si fu comunicato, restò assopito in profonda meditazione: e solo dopo circa un quarto d'ora mosse lentamente la testa e fissando gli sguardi su due chierici che si erano fermati vicino al letto, disse loro con voce solenne:
- Imparate da me, o figliuoli, a ricevere in tempo i Santi Sacramenti.
Il giorno dopo sentì qualche leggero miglioramento, perchè le consolazioni delle quali Gesù gli aveva ricolmo il cuore, gli avean fatto dimenticare le sue pene; ma verso sera, sentendo dolori acutissimi, volle di nuovo confessarsi, fece accendere una candela benedetta, e domandò l'Olio Santo. Il Vicario Albert, parroco di Lanzo, gli amministrò il Sacramento, e l'infermo rispose con una divozione così commovente a tutte le preghiere che accompagnano il sacro rito, e con tale sentimento di umile compunzione, che mosse al pianto tutti gli astanti. Avuta anche la Benedizione Papale, ringraziò il Vicario della carità usatagli e si raccomandò alle sue orazioni, qualora in quella notte egli venisse a mancare. Ciò detto, si raccolse a pregare per qualche tempo.
Chi scrive era presso il suo letto; e l'infermo gli fe' cenno di avvicinarsi di più. M'inchinai su di lui per poter intendere ciò che voleva dirmi, ed egli prendendomi per mano, a stento mi disse:
- La prego a voler eseguire le mie ultime volontà. Presto morirò: forse domani non sarò più in vita: non si dimentichi di far pregare per me. Dica a D. Bosco che si ricordi per un mese dell'anima mia nel santo sacrificio... Mi saluti D. Bosco, tutti i sacerdoti, i chierici, l'Oratorio di Torino, la casa di Mirabello, D. Francesco Montebruno di Genova e il Ch. Garino Giovanni... Scriva loro che preghino sempre per me... Dica ai giovani della casa di Torino che mi raccomandino al Signore e che mi perdonino se qualche volta ho fatto sbaglio [211] nel castigarli, e se talvolta ho lasciato di castigarli quando avrei dovuto... In ultimo domando perdono a tutti de' cattivi esempi che ho dati... Mi perdoneranno, non è vero?...
E qui cessò alquanto dal parlare, perchè la soffocazione l'opprimeva: ma poi riprese:
- Io ho nulla di mio da lasciare, perchè quel poco che era mio, l'ho già dato tutto alla casa. Il restante è di mio padre. Ho solo l'uso di tre cose... Lascio il mio orologio al sig. Cavaliere Oreglia, perchè era suo, avendomelo egli donato. Glielo mandi quando io sarò morto, e questo gli ricorderà l'amicizia che ci univa... Alla madre di D. Domenico Ruffino il crocifisso che ho a Torino... Appena poi sarò morto lo faccia sapere a D. Giacomelli, al quale lascio la mia corona colla quale ho recitato con lui tante volte il Rosario, andando a piedi da Torino a S. Ignazio.
Quindi, rivolgendosi a me e stringendomi con più forza la mano, mi disse: -A lei auguro che il Signore dia la sua santa benedizione, acciocchè possa continuare nella strada che ha incominciata... che benedica le sue fatiche... Prosegua nella grande opera che ha intrapresa... Si faccia coraggio... Abbiamo tanto bisogno di preti, che lavorino in mezzo ai giovani... Le auguro che salvi molte anime, migliaia e migliaia di anime, specialmente di poveri giovanetti... Le salvi... Sono troppi i nemici che le insidiano. Oh quanto vi è bisogno di salvarle! Oggigiorno appena nelle campagne o sui monti, e ben di rado, si trova ancora un innocente... Se le venisse fatto di incontrarlo, lo difenda dai cattivi compagni...
Oppresso dalla stanchezza, si tacque; quindi cominciò a rivolgere al Signore le sue preghiere, mormorando parole interrotte:
- O Signore, come voi siete grande nelle vostre misericordie... Perdonatemi!... Io vi offro non solo il mio corpo, ma tutti i miei affetti... Presto io andrò in domum aeternitatis meae... Io vorrei, o Signore, dopo morte essere sepolto nell'angolo [212] più oscuro della terra e che nessuno si ricordasse mai più di me. Io godo, o Signore, che il mio corpo sia dato in preda ai vermi in penitenza dei miei peccati e delle offese che vi ho fatte: godo che la mia lingua, i miei occhi, le mie orecchie vadano a marcire nella fossa in punizione delle loro mancanze. Di una cosa sola mi dolgo, di non poter più lavorare per la vostra gloria. Una grazia sola vi domando, o Signore, ed è quella che io possa morire sia pure fra i più atroci tormenti. Desidero tanto di morire per unirmi a voi ed essere sicuro così di non potervi più offendere ed amarvi col più ardente amore. Sono però disposto a soffrire in vita finchè a voi piacerà ..... Abbiate misericordia di me... O Signore, per molti titoli io vi appartengo... Io ho troppa confidenza in voi, o Signore... Poi esclamava con enfasi: Exurgat Deus, et dissipentur inimici ejus.
E rimase un momento assopito. Risvegliatosi, pareva che un molesto pensiero gli gravasse la memoria e diceva:
-L'obbedienza! l'obbedienza! ... Talvolta ho detto a Don Bosco: voglio questo, voglio quello ... o faccia questo, o altrimenti... Si ha un bel dire: e lì, proprio lì... E l'obbedienza?
Egli ricordava di aver un giorno parlato risolutamente a D. Bosco, perchè gli sembrava che fosse troppo longanime con un tale che ostinavasi a non obbedire con scandalo degli alunni. Conoscendo il fatto al quale alludeva, gli feci osservare:
-Ma lei non poteva fare altrimenti; era necessaria una risoluzione energica.
- Ma io ho detto: o questo, o altrimenti!... In punto di morte le cose si giudicano ben diversamente... Già... mettere il Superiore nell'alternativa: o... o... Ma spero che il Signore mi avrà perdonato. - E si ricompose di nuovo a pregare.
Continuò a labbreggiare orazioni, finchè a un tratto chiamandomi, mi disse:
- Io ho da pregarla di una carità. Se venissi a morire [213] stanotte, mi faccia coraggio... mi ricordi di sperare nella misericordia di Dio... mi dia per l'ultima volta l'assoluzione sacramentale... Me lo promette?
- Sissignore! - gli risposi lagrimando.
Ed egli: - Or bene, soggiunse, lei vada a riposare; casomai mi sentissi venir meno, la farò chiamare.
Il domani mattina si alzò da letto e andò in giardino, ove si assise all'ombra di un pergolato. In mezzo alle cure incessanti dell'Oratorio, egli si era alacremente occupato per far riconoscere ed approvare dalla Santa Sede il culto reso ab immemorabili al Beato Cherubino Testa, religioso dell'Ordine di S. Agostino, morto in Avigliana, sua patria, nel 1479. Le reliquie di questo caro santo, dopo la dispersione dei suoi confratelli, erano state traslate dal sepolcro del Convento nella chiesa parrocchiale di S. Giovanni. Per ben nove anni D. Alasonatti aveva faticato in ricerche di documenti e di prove, e nell'inviare memoriali, redatti in buon latino, alla Sacra Congregazione dei Riti. Ora di giorno in giorno aspettava il sospirato decreto.
Suonava il mezzodì dell'ultimo giorno di sua vita, quando entra in giardino il chierico Sala che gli consegna un grosso plico con varii suggelli. D. Alasonatti lo apre. Era il decreto che approvava e confermava il culto reso dai fedeli al Beato Cherubino, e ne concedeva la messa e l'ufficio a tutto l'Ordine degli Eremiti di S. Agostino e alla città ed archidiocesi di Torino. L'Oremus e le lezioni del secondo notturno eran quelle state composte da D. Alasonatti.
Egli lesse il decreto, stette un momento in silenzio, e finalmente esclamò:
- Sono proprio contento! Finalmente ho l'onore di leggere questo atto!
E, volgendo gli occhi lagrimosi al Cielo, aggiunse: [214]
- Nunc dimittis servum tuum, Domine! Ora muoio contento! Non mi mancava più altro che questa consolazione!
Il chierico gli disse: - Adesso, lei che ha tanto lavorato per l'onore di questo santo, sarà il primo a provare gli effetti della sua intercessione presso il Signore.
Non rispose subito, ma dopo qualche momento di silenzio:
- Domandare! E che ho da domandare? Me ne fa continuamente delle grazie, sicchè non ho niente da domandare.
- Potrebbe chiedere la grazia della sanità.
- No, no; non mi azzardo a domandarla, perchè non la merito. - E a quanti si accostavano a lui, facendo leggere quel decreto dimostrava come ne fosse felice.
Dovendolo assistere, io gli sedeva vicino ed anche a me disse:
- Legga! - e mi porse il decreto.
Com'ebbi finita la lettura, si mise a discorrere della malattia e del suo santo. Io taceva ed ascoltava, quando all'improvviso anch'egli si tacque: poi ripigliò:
- Ed ora Lei vada via... perchè io soffro molto nel parlare, e se lei mi è vicino è impossibile che io taccia. - E stringendomi la mano, ripetè:
- Io l'amo molto, e quando mi è vicino, non posso stare in silenzio.
- Io sono proprio scortese con lei, ripigliò: ma che farei? Se incomincio a parlare non la finisco più. Non se l'avrà a male, non è vero?
- Con me non occorrono queste scuse, - dissi; e andai a sedermi a qualche metro di distanza.
Dopo brevi momenti mi chiamò, e mi disse sorridendo:
- Degli amici non si fa caso quando non se ne ha bisogno e si mandano via; ma quando si ha necessità dei loro aiuto, si chiamano. Lei dunque mi sostenga, perchè sento mancarmi le forze e mi accompagni in camera. [215] Come giunse in camera, si sedette e mi disse:
- Alle 3 desidererei fare un piccolo giro: vorrà avere la bontà d'accompagnarmi?
Ma invece di uscir di camera all'ora che aveva fissata, ne uscì alle 2. Desiderava visitare tutto il collegio. Entrò nella chiesa fermandovisi qualche istante in adorazione; perlustrò il giardino, i cortili, le scuole, i refettorii, le camerate; sembrava che volesse dar loro l'estremo addio. Alle 3 rientrò in camera dicendo di essere troppo stanco e si mise a letto.
- Andiamo incontro alla morte, diceva a chi l'aiutava, e si compose a pregare in devoto raccoglimento.
Verso sera, sollazzandosi gli alunni nel sottoposto cortile, gli fu chiesto se gli recassero disturbo e se si dovesse imporre loro moderazione o silenzio. Ed egli:
- Hanno appena questo poco spazio di tempo per ricrearsi, poveri figliuoli! Lasciateli divertire.
- Mi dica qualche cosa che mi serva in questo momento...
- Che cosa vuole che le dica?... Le dirò che è consolante il pensiero di aver sempre lavorato pel Signore.
- Non è questo... no ...; ciò che mi consola si è il pensare alla misericordia di Dio... Io sono tranquillo... Non sarà forse presunzione questa mia sicurezza?... Eppure cerco qualche argomento serio che mi umili e mi confonda, e non ci riesco.
- Oh quanto bramo di unirmi al Signore: Cupio dissolvi et esse cum Christo!
Quindi die' ordine che appena fosse spirato, uno di noi tosto fosse corso all'Oratorio e facesse telegrafare a D. Bosco, se questi si trovasse ancora a Castelnuovo.
Varii chierici destinati a vegliarlo si trovavano allora nella sua stanza. Avendo dovuto far quelle veglie per più notti, pur essendo lungo il giorno occupati pei giovani, essi si trovavano molto spossati. Il morente se ne accorse e loro [216] comandò che andassero a riposo, ed essi esitando, tanto disse e pregò che dovettero ritirarsi, rimanendo nella stanza il giovanotto Modesto Davico, suo compatriota, mandato da Torino alcun tempo prima, perchè all'occorrenza potesse prestargli i suoi servigi. Anch'io dovetti ritirarmi.
L'infermo aveva in quella sera tale aspetto di serenità che nessuno avrebbe presagito che fosse così prossimo al termine de' suoi patimenti. Ma non era ancora la mezzanotte quando, facendo uno sforzo per sorgere dal letto, chiamò Davico e gli disse:
- Dammi la veste; voglio alzarmi: mi manca il respiro: ho bisogno di passeggiare.
- Ma la temperatura è fredda, osservò il giovane; questa passeggiata potrebbe cagionarle un mal di costa.
- Soffoco, mio caro; ho bisogno di aria.
Il giovane infermiere lo aiutò a scendere dal letto e a vestirsi, e lo sostenne mentre egli s'incamminava verso la porta per recarsi all'aperto, ma fatti alcuni passi il buon sacerdote vacillò e si abbandonò su chi lo sorreggeva. Lo assalse allora qualche colpo di tosse e gli mancò la forza di espettorare, per cui il rantolo gli salì alla gola. Davico, spaventato, non potendo più reggere il peso di un corpo ormai inerte, nè afferrare la corda del campanello troppo lontano, si mise a gridare: -D. Alasonatti muore, D. Alasonatti muore! - Il morente rivolse il capo verso il giovane e lo fissò tranquillamente in volto.
Davico, vedendo che la sua voce non era ascoltata, lo posò adagio per terra, quindi si mise a correre per i corridoi battendo a tutte le porte e ripetendo: - D. Alasonatti muore!
Accorse pel primo il Ch. Sala, che sollevato da terra sulle robuste sue braccia il corpo del santo prete, lo depose sul letto. Con Sala giunsi pur io, ma non fui più a tempo per leggergli le preghiere degli agonizzanti; appena collocato sul letto, D. Alasonatti spirava. In quell'istante suonavano i tocchi [217] della mezzanotte, che apriva la festa della Maternità di Maria Santissima. Il nostro caro Prefetto era morto in piedi, come un valoroso soldato di Dio. Il suo sacrificio era consumato!
Intanto erano accorsi i chierici che silenziosi contemplavano la spoglia esanime di colui che aveva tanto lavorato per loro; e inginocchiati recitarono le litanie della Madonna e il De profundis.
Un'ora dopo il chierico Nicolao Cibrario partiva da Lanzo a piedi e alle 8, percorsi circa 32 chilometri, annunziava a D. Bosco quella dolorosa perdita, consegnandogli una mia lettera nella quale erano descritti gli ultimi momenti del caro D. Alasonatti.
Fattosi giorno la salma, curata e rivestita, fu posta sopra un seggiolone. Il pittore Rollini ne ritrasse le sembianze e un suo amico scultore si prestò a prenderne anche la maschera. Alla sepoltura, che fu solennissima, presero parte i cantori ed altri dell'Oratorio.
Esaminate le carte che il sant'uomo aveva recate con sè, si trovarono due quadernetti, scritti di sua mano, che furono trasmessi a D. Bosco. Uno conteneva i suoi proponimenti degli Esercizi spirituali fatti a S. Ignazio nel 1861 e alcune preghiere alle piaghe di Gesù Crocifisso; l'altro era una scelta di giaculatorie ad ogni anche minima azione della giornata, tratte dai Salmi, e di alcune pratiche divote.
CONTINUI erano i soccorsi che riceveva il Servo di Dio per sviluppare e sostenere l'opera sua, ma eguali erano le sue sollecitudini nel procurarli. Al Commissariato Generale di Torino pel Sindacato e sorveglianza delle Strade Ferrate aveva scritto in questi termini:
Ill.mo Sig. Commissario Generale,
Alcuni bisogni urgenti, in cui attualmente versa questa Casa, mi spingono a ricorrere a V. S. Ill.ma per avere soccorso. Credo che sia anche in qualche modo a Lei noto come il ministro dei lavori pubblici e la Direzione Generale dello Stato abbiano indirizzato a questo stabilimento parecchi giovanetti orfani appartenenti ad impiegati in [219] codesta amministrazione. Parecchi fanno ancora parte dei nostri allievi com'Ella potrà vedere nella nota a parte. Io li ricovero volentieri perchè questa casa fu sempre di buon grado aperta alle autorità governative e perchè la benemerita Direzione delle Ferrovie mi concedeva parecchi favori con trasporti gratuiti che in certo modo le spese occorrenti almeno in parte comportavano. Ma questi favori furono ristretti assai dalla novella Amministrazione. Ora questi giovanetti sono tuttora in numero notevole nello stesso stabilimento; anzi uno di essi, perchè mancante di età, fu ed è eziandio mantenuto a spese dello scrivente nel Collegio di Lanzo.
E' vero che ogni volta che la Direzione inviava qualche ragazzo ci univa sempre qualche sussidio; ma esso per lo più era appena sufficiente a vestirlo e provvederlo del necessario corredo.
In tale stato di cose io mi sono deliberato di ricorrere a V. S. Ill.ma supplicandola a volermi venire in aiuto in questo momento di bisogno essenziale e di accordarmi quel maggiore sussidio che a Lei sembrerà beneviso o complessivamente o per ciascun dei giovanetti ricoverati.
Pieno di fiducia nella nota di lei bontà, le auguro ogni bene dal cielo, mentre colla più sentita gratitudine ho l'onore di potermi professare
Il chiesto sussidio venne concesso.
Commissariato Generale pel sindacato
e sorveglianza delle Strade Ferrate.
Il sottoscritto pregiasi di notificare a V.S. che questo Ministero, accogliendo di buon grado la domando da Lei fatta con sua lettera del 9 p. p. settembre, ha decretato che le venga retribuita la somma di lire 8oo, col mezzo di mandato in capo di Lei, spedito alla Tesoreria Provinciale di Torino.
Questa risposta fu ricevuta da D. Rua, mentre D. Bosco aveva intrapreso, da solo, un nuovo viaggio per recarsi in varie città e distribuire i biglietti della Lotteria. Non abbiamo documenti che descrivano il suo itinerario o ciò che egli fece nei luoghi ove si fermò, ma in compenso abbiamo qualche lettera, il ricordo di qualche sua narrazione, e alcuni cenni di coloro che lo ospitarono.
La sua prima fermata fu a Milano, ove tempo addietro erasi incontrato, nell'Oratorio di D. Serafino Allievi, col signor Giuseppe Pedraglio e col signor Guenzati, ambedue negozianti, che frequentavano quel caro asilo domenicale di numerosa gioventù. Abbiamo già detto della generosità del signor Guenzati per le opere di D. Bosco; ora diremo quello che ci scrisse nel 1909 la figlia di questo benefattore, la signora Carolina Rivolta Guenzati.
“D. Bosco nell'anno 1865, nell'occasione della sua venuta a Milano, onorò la nostra casa accettandovi ospitalità. Qui accadde il seguente fatto. Una signora milanese, certa Pedraglio Marietta, saputo che il venerando D. Bosco si trovava tra noi, venne ad ossequiarlo. Prima ancora che la signora parlasse D. Bosco le chiese: - Lei è malata? -Pur troppo lo sono, rispose quella, e da parecchi mesi; ho preso molte medicine, ho fatto diverse devozioni, ma a nulla giovarono. - Allora D. Bosco le disse: - Vuol guarire? Faccia una novena a Gesù Sacramentato e reciti cinque Pater, Ave, Gloria, aggiungendo le parole: “D. Bosco mi ha detto che voi mi farete guarire, ed io voglio guarire”. Poi mangi e beva. - Al mattino seguente la mia famiglia fu meravigliata dal trovare la signora libera da tutti i disturbi che da tempo l'affliggevano “.
Da Milano si recò a Brescia per visitare i due fratelli sacerdoti Elena, presso i quali pranzò. Uomini pieni di ardente zelo per la salute delle anime, avevano un fiorentissimo oratorio festivo pei giovanetti. D. Bosco aveva scritta loro una lettera, da essi conservata come prezioso pegno di [221] amicizia dell'uomo di Dio. Da uno scritto indirizzato al Cav. Oreglia pare che a Brescia egli visitasse anche la signora Maddalena Girelli, figlia di Maria, nel suo Istituto, contrada S. Antonio.
Da Brescia passò a Lonigo, una cittadina poco lungi dai Monti Berici, ove in quel tempo villeggiava il Conte di Soranzo, suo amicissimo, che abitualmente stava a Cremona e aveva anche un palazzo a Venezia. A Lonigo il Servo di Dio predicò, e di là scriveva a D. Rua:
Ti mando qui una copia di memoriali da farsi copiare come segue: Quello “Eccellenza, ecc.”, vuole essere copiato su carta da bollo di fr. 1.
La lettera farai copiare su carta libera: di poi farai un solo plico, da indirizzarsi come è qui notato, al generale Incisa.
Probabilmente non posso essere a casa se non al prossimo venerdì al più tardi; se posso andrò prima. Intanto nota che ai 18 di questo mese avvi una cambiale di mille franchi che scade. Se ti sembra di poterla pagare non occorre parlarne, altrimenti scrivilo subito per mia norma.
Da' l'unito bigliettino a Rinaudo; mandami (Lonigo presso S. E. il conte Soranzo) i dati per parlare ai parenti di Nicolini padovano.
Saluta tutti i nostri cari amici e Iddio ci aiuti tutti a crescere nel santo timor di Dio.
P.S. - Saluta D. Cagliero e D. Francesia; tira la barba al Cavaliere.
Le due carte che D. Bosco spediva a D. Rua avevano per oggetto una supplica al Generale Petitti, Ministro della Guerra.
Già più volte negli anni passati ho fatto ricorso all'Eccellenza Vostra, per avere sussidio di vestiario pei poveri giovani ricoverati nella casa detta Oratorio di S. Francesco di Sales, ed Ella ci venne sempre in aiuto. [222] Quest'anno molte circostanze concorsero ad accrescere il bisogno di questo stabilimento per modo che attualmente esso versa in gravi strettezze.
Egli è per questo che fo di bel nuovo ricorso alla esperimentata di Lei bontà, supplicandola a voler porgere la benefica mano a questi orfanelli e loro concedere quel numero di coperte, lenzuola, camicie, mutande, calzoni, tuniche, cappotti, scarpe od altro che si degni di concedere, per ripararli dal freddo nella imminente invernale stagione. Siano pure questi oggetti logori e posti fuori di uso, per noi sarà sempre una vera carità, cui mercè si provvederà ad un grave bisogno al quale non si potrebbe altrimenti provvedere.
Sarà forse l'ultimo anno in cui potremo sperare di godere questa beneficenza e perciò in lei riponiamo la più viva fiducia di essere favoriti. Oltre all'incancellabile gratitudine che conserveremo del benefizio, non mancheremo di invocare ogni dì le benedizioni del cielo sopra di lei che annovereremo fra gli insigni nostri benefattori.
Con pienezza di stima, ho l'alto onore di potermi professare della E. V.
Da più anni mediante i buoni uffizii di V. S. chiarissima ho potuto ottenere un sussidio di vestiario pei poveri giovanetti di questa casa, il cui numero monta a circa ottocento.
Qui mi fu supposto che il favore dipende unicamente da lei e perciò con gran fiducia raccomando quanto so e posso alla sua carità lo stato bisognoso di questi poveri giovanetti.
Non potendo altrimenti dimostrare la nostra gratitudine, pregheremo il Signore Iddio affinchè conceda sanità e giorni felici a Lei e a tutta la rispettabile di Lei famiglia.
Colla più sentita gratitudine ho il bello onore di potermi professare
Sig. Generale d'Incisa, Segretario Generale al Ministero della guerra
Da Lonigo, accompagnato dal Conte Soranzo, e dopo aver toccata Padova per dar notizie ai parenti del giovanetto [223] Nicolini ricoverato nell'Oratorio, D. Bosco arrivò a Venezia. Qui gli accadde di udire da un terrazzo della piazza di San Marco le mirabili sinfonie delle bande militari austriache. Senza riflettere, entusiasmato da quella musica, fece atto di applaudire, ma fu subito avvertito essere imprudenza una qualsiasi approvazione. Bollivano, benchè represse, nei cuori dei cittadini le passioni politiche. Infatti quantunque la piazza fosse gremita di popolo, quando i suonatori finirono il loro pezzo, continuò a regnare un silenzio sepolcrale.
A Venezia D. Bosco s'intrattenne col Patriarca, il Card. Giuseppe Luigi Trevisanato, con varii distinti personaggi del clero e della nobiltà e specialmente con D. Apollonio, che fu poi Vescovo di Treviso, a cui il Servo di Dio era carissimo, col Can. Teol. Mons. Berengo e Mons. Giorda.
Ritornato a Lonigo scriveva alcune lettere all'Oratorio.
La tua lettera giunse troppo tardi; pazienza. Da' queste bozze al Cav. Oreglia; la lettera a D. Savio; un caro saluto e la benedizione del Signore a tutti i nostri cari dell'Oratorio. Quante cose ho da raccontare delle Lagune, delle gondole, di S. Marco, di D. Apollonio ecc.! Ogni cosa a suo tempo.
Si Dominus dederit, venerdì alle 8 di sera spero di essere con voi. Ho portato duemila biglietti e ne ho portati pochi.
Congedatosi dal Conte Soranzo e dalla sua famiglia, si avviò per ritornare a Torino. Non abbiamo notizie certe della strada da lui percorsa: ma pare che sia stato per qualche ora anche a Bologna. Rientrò nell'Oratorio il 20 ottobre, dopo aver promesso in tutti i luoghi, pei quali era passato, la protezione della Madonna per coloro che lo avrebbero aiutato a fabbricare la sua chiesa in Valdocco.
I giovani, fra i quali ve n'erano molti raccomandati da [224] Municipii, occupavano già tutto l'Ospizio e lo accolsero con vive dimostrazioni di gioia. Anche i novellini ben presto si accorsero che avevano da fare con un santo. Più volte noi abbiamo recato le testimonianze giurate di chi narrò le prime impressioni avute, quando, entrato nell'Oratorio per esservi educato, potè conoscere l'Uomo di Dio. Ora vogliamo riportane un'altra, la quale, come le precedenti, fu deposta innanzi il Tribunale Ecclesiastico di Torino nel Processo Ordinario per la Causa di Beatificazione. Si verranno a ripetere alcune cose già dette nelle nostre Memorie Biografiche, ma una testimonianza autorevole di più non è superflua in omaggio alla verità.
Il Teologo Don Antonio Berrone di Casalgrasso, Canonico cantore della Metropolitana di Torino, il quale percorse nell'Oratorio le ultime quattro classi ginnasiali dal 1865 al 1869, così confermava nel 1896 la non interrotta stima universale dei giovani per D. Bosco:
“L'amore alla gloria di Dio forma il compendio della sua vita. Io ho sempre ammirato e sentita ammirare la sua condotta esemplare e di sacrificio, modello a noi giovanetti. Nelle disgrazie e nelle traversie lo si vedeva sempre calmo e fidente nel Signore. L'ho osservato tante volte a tavola: egli mangiava con tutta indifferenza senza far parola della qualità dei cibi. Io credo che non abbia mai fatto una passeggiata per puro diporto. La sua camera, arredata semplicissimamente, servì sempre per udienze, studio e riposo.
Era generale la persuasione che D. Bosco fosse dotato di doni soprannaturali. Al mio ingresso nell'Oratorio udii dai miei compagni che egli parecchie volte aveva predetta la morte di qualche giovane e che la predizione si era avverata, come egli aveva assicurato, nelle sue precise circostanze. Ricordo che nel 1865 trovai la chiesa di Maria Ausiliatrice in costruzione e udii dai compagni anziani a ripetere la predizione che D. Bosco aveva fatta negli anni prima, disegnando [225] il luogo e l'ampiezza della medesima: e tanto più è da ammirare questa predizione, perchè D. Bosco in quel tempo non solo era sprovvisto di mezzi, ma ancora poco conosciuto ed osteggiato. Ricordo pure come fosse cosa nota che D. Bosco aveva predetto anni ed anni prima, che l'Oratorio si sarebbe ampliato ed avrebbe prosperato. Era anche voce accreditata negli alunni che D. Bosco leggesse nelle coscienze: ed in prova di questo sta il fatto che quando taluno aveva qualche peccato sulla coscienza non osava presentarsi a lui, eccetto che in confessione, per timore che glielo leggesse in fronte. Io fui testimonio di questo fatto ripetutamente. Era pure persuasione in noi che D. Bosco, anche di lontano, qualche volta abbia conosciuto disordini che avvenivano nell'Oratorio.
Rifulgeva in lui una grande e oculata prudenza, sicchè nell'Oratorio non si ebbero mai a deplorare disordini e scandali che alcune volte si veggono in altri collegi, anche ben diretti. Era suo sistema mettere i giovani nell'impossibilità di mancare. Col suo esempio, colla sorveglianza su tutti manteneva sempre l'ordine e la disciplina, benchè vi fossero alunni in buon numero e di carattere diverso. In tutto ei si regolava con giustizia. Anche quelli che pagavano una retta mensile intiera non corrispondevano a quanto loro si dava dalla casa.
La sua umiltà risplendeva nel suo fare alla buona, dolce, affabile, accessibile a tutti in modo che a guisa di calamita attirava a sè i nostri cuori, per cui era a noi una festa il poterlo avvicinare e parlargli. Ne' suoi discorsi famigliari inculcava sempre il pensiero e il desiderio del Paradiso. Era così viva la sua fede e la sua fiducia nella misericordia di Dio da sperare che tutti noi saremmo andati in Paradiso, e che quanti sarebbero morti nell'Oratorio andrebbero certamente salvi. Ben sovente diceva all'uno e all'altro di noi giovani qualche parola che ci portava a Dio, e questa sua parolina faceva sempre salutare effetto ne' nostri cuori. Era uno spettacolo veramente sorprendente il vedere eziandio l'affollarsi dei forestieri [226] i quali cercavano e volevano ad ogni costo baciargli la mano e la sua benedizione, che possibilmente ricevano in ginocchio. Per noi in que' giorni era una vera privazione non poterlo avvicinare. Egli aveva un dono specialissimo, e fu quello che seppe farsi amare non solo da coloro che rimasero con lui nelle varie sue case, ma ben anche e costantemente da tutti quelli che educati da lui si dispersero poi nelle diverse condizioni sociali.
Nel ricordare ora que' tempi posso affermare che i giovani in generale corrispondevano alle sante industrie di Don Bosco, tenevano una condotta lodevole, ed alcuni di essi degna di ammirazione. Nell'Oratorio fioriva lo spirito di pietà e il santo timor di Dio. Che se qualche volta accadeva che qualche giovane non si addattasse allo spirito della casa, volontariamente ne usciva, cosicchè raro era il caso che si dovesse espellere. Ciò in parte l'ho veduto io stesso e in parte l'ho udito a narrare dagli antichi allievi dell'Oratorio.
La memoria figliale che D. Bosco conservava per sua madre era per noi una lezione di rispetto ai genitori. Di mamma Margherita udii parlare moltissime volte nell'Oratorio, come di donna di grande virtù e pietà, essendosi consecrata totalmente alle opere del suo figlio. Gli allievi che la conobbero, e noi stessi che non la conoscemmo più, avevamo per lei una grande stima ed affetto”.
Noi aggiungeremo uno dei mezzi coi quali D. Bosco accendeva nei giovani lo spirito di preghiera. Dal 1846 fino al 1871, cioè finchè potè, egli fu assiduo nel recitare tutte le sere le orazioni colla comunità. Il giovane Luigi Bussi diceva un giorno sottovoce ad un compagno, mentre gli allievi si radunavano: - Perchè D. Bosco quando si trova in casa viene sempre a dire le orazioni con noi? - Intanto si dava principio alle preghiere e come furono terminate, D. Bosco salì in cattedra, parlò, e quando discese, Bussi gli si avvicinò, dicendogli: - D. Bosco, mi dica una parola! - E D. Bosco gli sussurrò [227] nell'orecchio: - Si dicono le orazioni insieme cogli altri, pel buon esempio! - Il giovane strabiliò essendo certo che D. Bosco non poteva averlo udito.
Il fiorire di tanta virtù nell'Oratorio era uno spettacolo così evidente, che non di rado ricorrevano a D. Bosco per consiglio sacerdoti addetti ad Istituti religiosi di educazione, i quali vedevano da qualche ostacolo impacciata o anche resa vana la loro difficile missione. Se le loro angustie erano esposte per lettera, e per fatti particolari, la risposta di Don Bosco era dettata da una grande prudenza, acciocchè per una indiscrezione altrui non venisse a conoscere quel segreto. Una di queste risposte era così concepita:
“31 ottobre 1865. - In Domino. Casus consideratione dignus. Vide, fac quod potes. Iterum in Domino vale. - Sac. Joan. Bosco”.
Dalla risposta che D. Bosco fece alla circolare del Regio Provveditore degli studi, N. 83, riguardante l'annuario scolastico 1865-66 vediamo la statistica del personale assistente, di quello insegnante, e degli alunni iscritti al ginnasio: - V° ginnasiale: professore Sac. Celestino Durando e 70 alunni; IV°: prof. Sac. Francesia G. B. e 30 alunni; III°: professore Tamagnone Giovanni e 90 alunni; II° professore Sac. Rua Michele e 40 alunni; I°: Dalmazzo Francesco, alunni 90.-D. Bosco notò anche i professori supplenti e insegnanti delle materie accessorie e aggiunse questa osservazione: “Siccome quasi tutti questi insegnanti frequentano ancora qualche corso all'Università, dovendo alcune volte variare l'ora di scuola a seconda dell'orario di quella, non si può precisare il tempo in cui fanno le loro lezioni. Le ore di scuola poi sono quattro e tre quarti ogni giorno”.
Sul finire di ottobre si fece l'accettazione di nuovi soci e l'elezione di tre membri del Capitolo Superiore della Pia Società.
Leggiamo ne' verbali del Capitolo: [228] 24 ottobre 1865. Questa sera radunatosi il Capitolo della Società di S. Francesco di Sales, il Rettore Sacerdote Bosco Giovanni propose e furono accettati i seguenti: Berto Gioachino chierico; Maranzana Francesco chierico; Bernocco Secondo chierico; Cuffia Giacomo chierico; Polledri Eugenio chierico; Franchino G. chierico.
Li 29 ottobre 1865 radunatosi il Capitolo della Pia Società di San Francesco di Sales, il Rettore D. Bosco Giovanni per supplire alla mancanza di due membri capitolari, cioè del Prefetto D. Alasonatti che morì il 7 del corrente, e del Direttore Spirituale D. Fusero colpito da malattia di cervello, elesse nuovo Prefetto D. Rua Michele e nuovo Direttore Spirituale D. Francesia Giovanni.
Radunatisi poi nello stesso giorno tutti i confratelli della Società, si fece l'elezione del terzo consigliere mancante. La maggioranza dei voti cadde su D. Durando Celestino, onde fu da tutti come terzo consigliere riconosciuto.
Nelle conferenze il Servo di Dio cercava assai spesso di trasfondere negli altri la stima altissima che egli aveva delle sue imprese e delle sue opere, la quale aveva radice nell'intima persuasione, che il comando, il consiglio, e l'indirizzo di quanto faceva provenivano da un misterioso impulso celeste. Dal conoscere infatti la volontà di Dio derivava la fermezza incrollabile nel raggiungere una mèta che gli era prefissa.
Dava anche importantissimi avvisi. In generale il suo carattere era alieno dalle singolarità, dalle imitazioni, e dalle novità. Egli teneva per principio che quando le cose vanno bene, non bisogna cangiarle facilmente sotto pretesto di migliorarle.
Quando qualcheduno della Casa gli proponeva questa o quell'altra opera da promuovere, non prescritta dal regolamento, rispondeva:
- Se abbiamo le cose nostre! Promuoviamo queste che ci riguardano. Le cose altrui saranno ottime finchè si vuole, ma non servono per noi e ci allontanano dal nostro scopo. Noi, per bontà del Signore, non abbiamo bisogno di prendere dagli altri, ma gli altri vengano, se loro piace, a prender da noi.
Era poi contrario che s'introducessero nelle nostre case [229] Compagnie nuove o divozioni estranee, ma raccomandava che si coltivassero bene quelle già esistenti nell'Oratorio e si praticassero le nostre pie usanze. Voleva altresì che si eliminasse in certuni la smania di voler adottare o preferire libri stampati da altre tipografie a preferenza di quelli che escono dalla nostra. Diceva:
- Questo è un cattivo gusto, è una pazzia, un'offesa. Facciamo conoscere le cose nostre ai nostri ragazzi ed allievi, e guardiamoci bene dal censurarle!
IL 27 ottobre 1865 moriva a casa sua il giovane Scotti Giuseppe in Vallo di Caluso in età di 12 anni. Scrisse D. Rua sul necrologio: “Rapito dalla morte sul fior degli anni, si può dire di lui: Raptus est ne malitia mutaret intellectum eius. Morì pel grippe lo stesso giorno che era andato a casa.”
Con questo funebre annunzio Don Bosco preparava gli alunni alla vicina solenne commemorazione di tutti i fedeli [231] defunti, e in altra sera narrava loro l'apparizione dell'anima di un padre al figlio irreligioso.
Un uomo sui trentacinque anni, vedovo, padre di due figli, abita in Torino con la sua vecchia e buona madre. La sua vita era tutt'altro che quella di un cristiano: era irreligioso, bestemmiatore. Avvicinandosi la commemorazione dei morti, sua madre gli disse: -Ricordati del tuo povero padre morto già da varii anni e prega per lui!
Il figlio stizzito per questa raccomandazione, che significava molto più di quel che diceva, rispose:
- Che pregare! Se è all'inferno o in paradiso non ha più bisogno delle nostre preghiere; se è in purgatorio a suo tempo ne uscirà.
La povera madre ferita da questa brutale espressione non osò replicare, sia temendo che non uscisse in parole ancor più cattive, sia perchè mantenuta da lui e di naturale timido non osava far rimostranze a chi facilmente andava sulle furie.
Venne la sera e nella notte parve alla madre di udire qualche strano rumore nella camera del figlio. Al mattino lo aspettò in sala mentre era per uscir di casa. Ei apparve con viso stravolto come uno che abbia passato una mala notte. La madre gli disse: - Stanotte mi parve di udire un certo rumore nella tua camera...
- Che rumore! rispose il figlio, voi altre donne siete piene di superstizioni delle quali i preti vi riempiono la testa.
E preso il cappello andò bruscamente fuori di casa. La madre si persuase che in quella notte il figlio realmente aveva passato qualche pauroso momento. All'avvicinarsi della sera questi si era fatto oscuro in volto e stava soprappensiero. All'ora solita si ritirò in camera e si chiuse. Aveva egli pure udito quel rumore misterioso nella notte antecedente e presentiva qualche cosa di peggio.
Egli aveva un animo non facilmente accessibile alla paura, perciò determinossi a star pronto ad ogni evento. Tuttavia prima di mettersi in letto esaminò accuratamente ogni angolo della sua stanza, tolse e rimise i mobili al loro posto, guardò sotto il letto e così assicuratosi che nulla era in camera che potesse produrre rumore, salì in letto. Dapprima stette con esitanza qualche istante, ma vergognandosi di quel suo sgomento spense il lume.
Dinanzi alla sua finestra vi era un lungo poggiuolo che dava accesso ad altre stanze. La luna rischiarava il poggiuolo. Il suo letto era posto in faccia alla finestra. A un tratto ode un passo: era lo stesso strisciar dei piedi di suo padre quando passeggiava per casa colle pantofole, accompagnato dal colpo monotono del bastone col quale era solito sorreggersi. Si alza a sedere sul letto e cogli occhi sbarrati osserva il poggiuolo dal quale veniva il rumore dei passi, che si avvicinava. [232] Ed ecco al di là della finestra passar l'ombra di suo padre: proprio lui, il suo vestito, la sua statura, il suo modo di camminare. L'ombra procedette oltre e poi ripassò d'innanzi alla finestra ritornando indietro. Quel povero figlio non osava neppur respirare. Il rumore dei passi che erasi allontanato di bel nuovo si udiva vicino. Ed ecco che l'ombra si ferma dinanzi all'invetriata e dopo qualche momento benchè quella rimanesse chiusa, penetra nella stanza e si mette a passeggiare su e giù ai piedi del letto.
Quell'uomo non sapeva più in che mondo fosse, pure riprese gli spiriti, e:
- Padre, esclamò: avete bisogno di qualche cosa da me!
Il padre non rispose e continuò a passeggiare.
- Padre, riprese dopo qualche istante, se avete bisogno di preghiere, ditemelo.
- lo ho bisogno di nulla, rispose il padre con voce fioca, e si fermò fissando il figlio.
- Ma dunque perchè siete venuto? si azzardò a domandare.
- Son venuto per dirti che è tempo di finirla cogli scandali che dài ai tuoi figliuoli, a quelle anime semplici che tu avresti dovuto conservare innocenti. Quei poveretti impararono da te, dal padre loro, intendi! la bestemmia, l'irreligione, il disprezzo alla Chiesa ed ai suoi ministri, il vivere scostumato. Son venuto per dirti che Dio è stanco di te e che, se tu non ti emendi, saprai fra poco quanto pesino i suoi castighi.
Così dicendo si allontanava andando verso la finestra.
- Padre! esclamò ancora una volta quell'uomo.
- Muta vita! gli disse e disparve.
Al mattino seguente, cioè stamane, la madre conduceva suo figlio in camera mia e raccontavami ciò che vi ho esposto. Il povero figlio era quasi ebete dallo spavento; mi confermò ogni cosa, si confessò, e la madre lo ricondusse a casa sostenendolo, perchè non poteva reggersi in piedi.
Chi scrive queste pagine incontrò madre e figlio mentre uscivano dalla camera di D. Bosco e sentì dirsi dalla madre lagrimante:
- Pregate per questo mio figlio!
Don Bosco era intanto in grave pensiero, poichè all'Oratorio festivo di S. Luigi sul corso del Re doveva dare un nuovo direttore. Il Teol. Leonardo Murialdo aveva dimesso quell'ufficio nell'ottobre di quest'anno 1865, e recavasi a Parigi nel Seminario di S. Sulpizio, ove per un anno voleva attendere [233] al perfezionamento de' suoi studi teologici, ai quali aveva poste larghe e solide basi nell'Università di Torino. Il Servo di Dio si rivolse al dotto e zelante sacerdote Abate Teodoro Scolari di Muggiate, pregandolo di porsi alla testa dei monelli di Porta Nuova. L'Abate accettò volentieri l'importante incarico, e appena potè incominciò con gran cuore quell'apostolato, in cui durò per varii anni con mirabile zelo, finchè avendo D. Bosco un numero ormai discreto di sacerdoti potè incaricare di quell'Oratorio or l'uno or l'altro dei medesimi secondo le circostanze.
Gli altri Oratorii festivi erano già diretti da preti Salesiani; anche quello di S. Giuseppe in Borgo S. Salvario, aperto dalla famiglia Occelletti, dal 1864 aveva per moderatore D. Francesia Giovanni.
Stabilito il personale dirigente dei suoi oratorii, D. Bosco si rivolgeva a Cortese, Ministro di Grazia, Giustizia e Culti per un sussidio.
Negli scorsi anni V. E. degnavasi accordarmi un caritatevole sussidio sopra la cassa dell'Economato a favore degli Oratorii maschili di S. Francesco di Sales in Valdocco, di S. Luigi a Porta Nuova, del Santo Angelo Custode in Vanchiglia, cui si aggiunse da un anno quello di S. Giuseppe a S. Salvario. Questo sussidio era in aiuto delle spese di culto.
Ora e per l'aumento del nuovo Oratorio e per la somma urgenza che quest'anno havvi di provvedere paramentali ed altro mobiglio di chiesa, mi fo animo non solo a rinnovare la domanda, ma caldamente supplicare affinchè V. E. voglia aumentare il sussidio secondo che verrà dalla carità di lei suggerito.
I giovani abbandonati, che numerosi sogliono radunarsi ne' luoghi suddetti, si uniscono con me per invocare le benedizioni del Cielo sopra dell'E. V. e sopra tutti i loro benefattori, mentre a nome di tutti ho l'alto onore di potermi professare con gratitudine
Questa supplica venne raccomandata al sig. Comm. Fenoglio, Economo Generale, a Torino.
I nostri bisogni si vanno rinnovando anzi moltiplicando e perciò anch'io mi trovo nella necessità di fare novellamente ricorso alla provata di lei carità; e con questo pensiero le raccomando la memoria che qui le unisco con preghiera di indirizzarla e farle fare quel corso che sarà del caso, giacchè non sono ancora informato se basti indirizzarla a V. S. B. oppure inviarla a Firenze.
Voglia Ella dare un benigno compatimento alla libertà con cui scrivo; la sua bontà e cortesia mi hanno inspirata la più grande confidenza.
Le auguro dal Cielo sanità e grazia, mentre con pienezza di stima ho il bell'onore di potermi sottoscrivere rispettosamente
A Direttore del Collegio di Lanzo era stato costituito Don Giovanni Bonetti di Caramagna, che Don Bosco presentava al Vicario Mons. Zappata con una lettera da cui appare come egli porgesse sempre una mano soccorritrice a quei disgraziati sacerdoti che avevano dimenticato la loro dignità e i loro doveri.
A quando a quando varii Vescovi o Vicari capitolari del Piemonte ed anche di qualche Diocesi della Lombardia, mandavano nell'Oratorio quelli del loro clero, i quali erano incorsi nella sospensione a divinis, perchè quivi, sotto la direzione di D. Bosco, attendessero alla loro riforma morale. Il Servo di Dio prestavasi ben volentieri a quest'opera di carità, quantunque più di una volta venissero deluse le sue speranze. Pareva in quei mesi che i poveretti mutassero vita, e forse la mutavano realmente, ma ecco che riabilitati, allontanatisi da Don Bosco, non tardavano a ritornare alle antiche miserie. Tuttavia non pochi furono coloro che, ravvedutisi, perseverarono. [235]
Il Servo di Dio fu largo per più anni nell'accondiscendere a siffatte preghiere dei Prelati, ma poi giudicò esser meglio di non correr rischio di offrire ai giovani lo spettacolo di persone talvolta poco edificanti, quantunque non ci consti che alcuno sia stato ad altri d'inciampo. Contuttociò anche in seguito continuò a fare qualche eccezione, aprendo nell'Oratorio le porte della misericordia a qualche povero apostata per ricondurlo in seno alla Chiesa.
D. Bonetti si presentava adunque al Vicario Capitolare con questa lettera:
Ill.mo e Rev.mo Mons. Vicario,
Dopo suggerimento di V. S. Ill.ma e Rev.ma intorno al Sacerdote V ... A... mi sono deliberato di metterlo alla prova in questa casa. Finora le cose vanno bene: prende parte alle pratiche di pietà, fa la sua meditazione, lettura spirituale, si accosta al Sacramento della penitenza e fa le più calde promesse.
Se Ella credesse bene, egli desidera assai di poter celebrare la Santa Messa. Vorrebbe pure poter confessare, ma io crederei bene una cosa per volta.
Il latore della presente lettera è il Sac. Bonetti, professore e Direttore Spirituale a Mirabello, che io mi trovo nel bisogno di mandare a Lanzo per sottentrare al fu D. Ruffino. Le fo pertanto umile preghiera di voler al medesimo confermare la facoltà di confessare. Ha soltanto con sè una dichiarazione del Vescovo di Casale. La sua regolare patente l'ha a Mirabello. Egli aiuterebbe già questa sera qui nell'Oratorio, dove i nostri giovani si preparano a fare l'esercizio della buona morte in suffragio dell'anima del fu compianto D. Alasonatti.
Domani faremo al medesimo un servizio funebre, come vedrà dall'invito che il medesimo D. Bonetti è incaricato di portarle.
Persuaso che voglia continuare la sua benevolenza a questa casa, le auguro ogni bene dal Cielo e mi professo con pienezza di stima
L'invito al funerale di D. Alasonatti diceva:
I sacerdoti, i chierici ed i giovani dell'Oratorio di S. Francesco di Sales partecipano a V. S. che in seguito alla dolorosa perdita fatta nella persona dell'amato sac. D. Alasonatti Vittorio, Prefetto di questa casa, fanno nella loro chiesa un servizio funebre, religioso, nel giorno 8 del corr. mese, che è il trigesimo di sua morte.
ORARIO: Mattino: Ore 71/2 Preghiere pel defunto, messa letta e comunione. - Ore 10. Messa solenne. - Ore 11. Discorso funebre.
Qualora Ella non possa onorarli della sua presenza, le fanno rispettosa preghiera di recitare un De Profundis in suffragio dell'anima di questo zelante collaboratore e benefattore di questa casa.
L'elogio funebre fu letto dal ch. Antonio Sala, innanzi ad una scelta e numerosa udienza di amici e di benefattori, che insieme cogli alunni prendevano parte alla funzione commovente e decorosa, degna dell'affezione e della riconoscenza che D. Bosco professava per l'indimenticabile suo amico e collaboratore.
Il Cav. Oreglia di S. Stefano doveva fare di quei giorni una gita in alcune città; e il Servo di Dio, ad agevolargli la diffusione delle Letture Cattoliche e lo spaccio dei biglietti della Lotteria, munivalo di questo foglio:
Carissimo e Benemerito Sig. Cav. Oreglia,
Con piacere ho accolta la notizia con cui mi venne significato che V. S. debba fare una gita in alcune città d'Italia per alcuni suoi affari particolari. In questa occasione io vorrei pregarla di adoperarsi a favore di questa nostra casa, al cui vantaggio Ella da più anni consacra le sue fatiche. Senta il progetto.
La diffusione delle Letture Cattoliche, una lotteria per i nostri poveri giovani, e l'ultimazione di una chiesa di cui havvi somma necessità, sono le cose che presentemente occupano me e tutte le persone addette all'Oratorio di S. Francesco di Sales. [237] Ora non potrebbe Ella raccomandare la maggior diffusione di queste Letture in que' siti e presso quelle persone cui sembrasse conveniente?
Non potrebbe prendersi un pacco di biglietti ed affidarli a qualche caritatevole persona, che di certo incontrerà, affinchè ci aiuti a spacciarli per amor di Dio ed in onore di Maria Ausiliatrice?
A queste due domande ella mi risponderà dopo il suo ritorno con esito che spero favorevole.
Dio le doni il buon viaggio e mi creda con gratitudine,
Fra tanti pensieri non cessava di occuparsi dell'incremento della Pia Società di S. Francesco di Sales. Aveva veduto crescere intorno a sè nuove schiere di Salesiani, de' quali un certo numero si era consacrato a Dio coi voti triennali. Nel maggio del 1862, furono ventidue questi generosi, come abbiamo narrato; nel 1863 si aggiunsero a questi sei chierici col sacerdote Bartolomeo Fusero; nel 1864 uno studente, tre coadiutori laici e nove chierici. Erano adunque già quaranta coloro che avevano fatto i voti temporanei, come consta dal libro nel quale son registrate le professioni colla firma del professo e de' testimoni.
Ma essendo stata fin dall'anno precedente collaudata da Roma la Pia Società, D. Bosco aveva deciso che nel mese di novembre si sarebbero emessi i primi voti perpetui, cioè si sarebbero cementate indissolubilmente le pietre già poste nelle fondamenta del suo Istituto.
Tali erano i membri nati della Pia Società, quelli cioè che ancor prima di ogni pubblica approvazione ecclesiastica si erano votati ad aiutarlo nella sua missione.
Da vari anni egli andava mettendo alla prova anche gli altri che domandavano di seguire l'esempio dei primi. Questi potevano dividersi in due classi. La prima, la più numerosa, era composta di quelli che fino dalla prima giovinezza erano stati da lui educati e che egli, conoscendone perfettamente la bontà [238] ed il valore, poteva trattare con piena confidenza. Questi amorevolmente invitava a rimanere con sè, sicuro della loro vocazione, lasciandoli però in piena libertà di corrispondere all'invito, o col rinnovare i voti triennali o col prepararsi a farli perpetui. Molti infatti accettarono la proposta ed altri, terminati i loro studii, si ritirarono e riuscirono buoni preti nelle loro diocesi. L'altra classe era di adulti, laici o sacerdoti, che domandavano di farsi salesiani; e questi senza che quasi si accorgessero del suo proposito, sottometteva ad un probandato, più o meno breve, secondo che parevagli necessario, per assicurarsi della loro virtù e della perseveranza nella presa risoluzione. Altrove abbiamo recato qualche fatto in proposito. Con modi cordiali e cortesi, ma con finezza particolare, ad un professore di filosofia affidava una scuola di prima elementare; ad un oratore di merito la sorveglianza dei famigli; ad un signore distinto l'assistenza di un laboratorio; a questo, che pareva troppo legato alla famiglia, dava l'incarico di un suo mandato nel proprio paese; a quello destinava un posto meno onorevole alla mensa dei superiori. Ma sovratutto osservava come si addattassero alla vita comune e agli incomodi che da questa sono cagionati; e conoscendo che un'occupazione non andava a genio di qualcuno, un bel giorno lo incaricava proprio di questa con un mi faccia il piacere di far la tal cosa, gliene sarò grato!
Ed anche i rimproveri e gli avvisi gli davano norma per giudicare dell'amor proprio di ciascuno. Talora, specialmente col simulare una sottrazione di benevolenza, in varii modi scrutava i sentimenti del cuore e la fermezza nella vocazione. Troviamo in un quaderno di memorie di un Salesiano, entrato già adulto nell'Oratorio e che in quest'anno si preparava a fare i voti, la seguente pagina:
Viveva in una certa aridità di spirito, che non sapeva spiegarmi e mi faceva noiosa la vita. D. Bosco, che mi aveva altre volte ridonata la pace e l'abbondanza di soavità, da qualche giorno pare che non mi [239] osservi. Anche nel dì della sua festa, a' miei versi, che gli declamai con affetto e con intelligenza, non mi guardò, non disse nulla, neppure un semplice bene! come la sua bontà gli fa sempre dire, per incoraggiare il buon volere. Siccome so, che a D. Bosco è spesso noto l'interno dei cuori, ho fatto l'esame di coscienza, per assicurarmi che nulla proprio io abbia fatto di male, che gli possa dispiacere.
Oggi poi Don Bosco mi sottomise ad una gran prova. Venne con un signore a visitare la tipografia, dove mi trovava. Tutti si volsero verso di lui… I compositori, di mano, in mano, che ei passava vicino alla loro cassetta dei caratteri, si muovevano per avvicinarlo con rispetto. Per tutti egli aveva una bella parola, un elogio, una raccomandazione. Sperai che finalmente si sarebbe ricordato di me. Mi passa vicino, anche io baciai la sua mano, fissando gli occhi commosso su lui, con la persuasione che mi avrebbe consolato. Non si accorse di me; e” non mutò aspetto nè mosse collo, nè piegò sua costa”, per dirla con un richiamo di scuola; e neppure pronunziando io il suo nome, nel baciargli la mano, come è nostro costume. Dunque è proprio in collera con me, pensai in me stesso, non c'è più alcun dubbio. Che ho fatto?
Vidi che ero il solo trascurato.
Con l'anima ferita più di quanto uno si possa immaginare, con occhio pietoso accompagnai D. Bosco che continuava il suo giro. Laggiù in quell'angolo estremo, s'incontrò ancora con un giovanetto, che, non fo per dire, ma mi pare che sia leggero, sventato, direi anche di più, cattivo. E vedi bontà del destino! D. Bosco si è fermato vicino a lui, lo presentò a quel signore, e sorridendo, raccontò di lui vita, virtù e miracoli. Poi gli dice di andare al suo posto, e, fingendo di non accorgersene, se lo tira indietro per tempo parecchio. Scherza, dicendogli di tornare a lavorare, e poi con mano tenace lo ferma.
M riposi al mio tavolo. Gli occhi correvano sugli stamponi, la mano cercava di fissare la mente, per intendere ciò che leggeva, ma era fatica inutile, io non capiva nulla. Rilessi, e peggio di prima.
La tipografia era a pian terreno e alcune finestre davano nel cortile.
Mentre dunque io stava in così dolorose distrette di mente e di cuore, sentii battere leggermente con le dita sopra il mio capo sui vetri della finestra. Alzo la testa meravigliato... Chi era? Era D. Bosco, che dal di fuori, dove già si trovava, si volle ricordare di me, mettere fine a quella prova e darmi di nuovo un segno di affetto paterno. Rimasi là come sorpreso, sbalordito! - Oh lei? D. Bosco? - esclamai. Ed egli, con sorriso di ineffabile dolcezza, a farmi cenno con la mano e poi come una bella visione di sogno soave scomparire dal mio sguardo. Che poteva io fare che dire? - Grazie, D. Bosco! gridai alzandomi dalla sedia, e spalancando la finestra. - Grazie della sua bontà! - Ma egli non sentì nulla, e solo voltandosi ancora una volta indietro, parmi dicesse; “Addio, sta allegro!” Fui di nuovo io! [240] Aveva indovinato il mio bisogno, e con affetto paterno lo volle soddisfare, ed il sorriso con cui l'accompagnò l'ho scritto nella memoria e nel cuore.
Un certo numero d'aspiranti veniva meno nelle prove e ritiravasi dall'arringo; ma altri le avevano coraggiosamente superate. Uno di questi scriveva a D. Bosco:
Il giorno 20 ottobre per me sarà memorabile. Oggi appunto compiè l'anno in cui feci di me, della mia volontà e de' miei cari un intiero sacrificio al Signore. Vi fu un Sacerdote mandato da Dio, il sig. Don Bosco, il quale per un tratto di sua carità lo accettò in nome del Signore. Dall'ora in poi io non mi considerai più altro se non come strumento di D. Bosco per fare in ogni cosa la volontà del mio Dio. Fin qui non cessai di benedire quel faustissimo giorno non cessai di ringraziare il Signore per avermi chiamato ad arruolarmi sotto la bandiera di D. Bosco; ed il sentimento di riconoscenza e di gratitudine verso un tanto Padre crebbe talmente in me che mi sento il coraggio di sostenerne qualunque prova.
Reverendissimo Padre, le rinnovo oggi le mie proteste d'ubbidienza e di sudditanza, sempre fermo e costante di consacrare a Dio quest'ultimo scorcio di vita sotto l'amabile direzione della Rev.ma S. V. e di chi la rappresenterà.
Confido nell'aiuto di Dio, di Maria SS., di S. Giuseppe e di San Francesco di Sales, nostro speciale protettore per mandare ad effetto queste mie proteste; mi aiuti anch'Ella, mi ammonisca, mi benedica e mentre le bacio la sacra destra, colla massima riverenza, la prego ad avermi sempre pel suo
D. Bosco adunque, dopo di aver posto alla prova coloro che domandavano di consacrarsi al Signore per tutta la loro vita, ed altri che per quella volta si limitavano a pronunciare i voti triennali, premesse conferenze preparatorie e consultato il Capitolo, accondiscese al desiderio de' suoi cari discepoli. Fu nella sua umile anticamera che egli in più adunanze, degne di eterna memoria, presiedeva alla cara cerimonia dell'emissione dei voti. [241]
Il 10 novembre 1865 dopo radunatisi tutti i confratelli della Pia Società di S. Francesco di Sales, il Sacerdote Lemoyne Giovanni Battista, compiendosi tutte le cerimonie prescritte dal Regolamento, emise innanzi al Rettore Sac. Bosco Giovanni i voti perpetui di castità, povertà ed obbedienza, avendo ai lati i due testimonii Sac. Cagliero Giovanni e Sac. Ghivarello Carlo.
Li 15 novembre dopo essersi radunati tutti i confratelli della Società, premesse le preghiere secondo il regolamento, emisero i voti perpetui innanzi al Rettore Sac. Bosco Giovanni: Rua Michele Sac., Cagliero Giovanni Sac., Francesia Giovanni Sac., Ghivarello Carlo Sac., Bonetti Giovanni Sac., Bonetti Enrico Ch., Racca Pietro ch., Gaia Giuseppe laico, Rossi Domenico laico. Finita la funzione, il Rettore Sac. Bosco Giovanni inculcando ciò che già aveva premesso tenne breve discorso, dicendo specialmente che nessuno facesse i voti per far piacere al Superiore, o per fare i suoi studi, o per qualche interesse o fine umano, nè manco per essere utile alla Società, ma che ciascuno avesse per unico scopo la salvezza dell'anima propria e di quelle del prossimo.
Li 6 dicembre 1865 dopo di essersi radunati tutti i confratelli della Società di S. Francesco di Sales, premessa l'invocazione allo Spirito Santo colle altre preghiere prescritte dalla Regola, innanzi al Rettore Sac. Bosco Giovanni, essendo testimoni il Sac. Rua Michele Prefetto e il Sac. Francesia Giovanni Direttore Spirituale, emisero i voti perpetui il Sac. Durando Celestino di Francesco da Farigliano (Mondovì); Oreglia Federico Cav. S. Stefano, laico, di Bene Vagienna; Jarach Luigi Ch. da Ivrea, Mazzarello Giuseppe Ch. da Mornese, Berto Gioachino Ch. da Villar Almese.
Quindi fecero i voti ad triennium: Savio Angelo Sac. da Castelnuovo d'Asti, Bongiovanni Giuseppe Sac. da Torino, Merlone Secondo Chierico da S. Damiano d'Asti, Tamietti Giovanni da Ferrere Ch., Manassero Giuseppe Ch. da Bene, Rostagno Luigi Ch. da Entraque, Paglia Francesco da Coassolo Canavese, Barberis Giulio Ch. da Mathi Canavese, Ricciardi Chiaffredo Ch. da Villafalletto.
Fin qui dai verbali. Il 29 dicembre all'Oratorio emettevano i voti perpetui anche il Ch. Bodrato Francesco e il Ch. Sala Antonio, e l'II gennaio 1866 pronunciavano pure i voti perpetui in Mirabello, innanzi a D. Rua delegato a riceverli, il Sac. Provera Francesco e il Ch. Cerruti Francesco: e tre chierici con un alunno studente i voti triennali.
COME i primi socii ebbero pronunziati i voti perpetui, coloro che dovevano prendere la direzione dei collegi furono da D. Bosco congedati per la loro destinazione. Partì pel primo D. Giovanni Bonetti, ma appena giunto a Lanzo, parve che non gli si confacesse l'aria troppo fina dei monti, poichè fu preso da un atroce mal di denti con febbre. D. Bosco dopo una settimana richiamavalo a Torino e mandava a Lanzo in suo luogo il sacerdote Giovanni Battista Lemoyne, che era stato destinato pel Piccolo Seminario di Mirabello; e D. Bonetti ritornava al piccolo Seminario assumendone la direzione. Ivi lo avevano atteso cento settanta alunni che presto crebbero fino a duecento. [243] Virtù eminenti, pietà viva e sincera, scienza filosofica e teologica, coltura letteraria non comune adornavano la bell'anima di D. Bonetti. Egli non guardava a fatica nel promuovere il bene materiale, letterario e morale dei giovanetti alle sue cure affidati; e ardeva di zelo per la salute delle loro anime.
Abbiamo molte prove di questo affetto anche ne' suoi scritti. In una lettera al Direttore del Collegio di Lanzo diceva: “Bisogna far noto ai nostri aiutanti di campo che l'aver giovani buoni e che consolino undequaque i superiori, è, specialmente ai tempi in cui viviamo, non solo una grazia, ma direi quasi un privilegio: e quindi dobbiamo meritarcelo da Dio con una condotta santa, preghiera, avvisi, assistenza, vigilanza: insomma dobbiamo mettere in pratica tutte le sapientissime norme che furono date in iscritto da D. Bosco per guida dei Direttori. A questo modo vedremo fiorire nei nostri collegi ogni più bella virtù “.
“La grazia della buona riuscita di un giovane dobbiamo strapparla al cuore di Dio, con uno spirito di grande sacrifizio e di grande preghiera”.
Egli faceva quanto suggeriva agli altri, come si può vedere dalla biografia che scrisse egli stesso del suo alunno Ernesto Saccardi. E che il Signore benedicesse largamente le sue fatiche lo dimostrò la felice riuscita di tanti giovanetti da lui educati dal 1865 al 1877, prima a Mirabello e poi a Borgo S. Martino. La divozione al Sacro Cuore di Gesù, che nel suo cuore aveva ardentissima, animava tutte le sue opere, dava efficacia ai suoi discorsi famigliari, alle sue prediche e all'esercizio del sacro ministero, sicchè ne restavano tutti incantati e persuasi. Parve altresì che il S. Cuore di Gesù cooperasse anche con soprannaturali aiuti al compimento della sua ardua missione. Quanto narriamo accadde a Borgo g. Martino.
Una notte, nel sonno, gli sembrò di vedere un personaggio di sorprendente maestà entrare in sua camera, e sentissi dalla [244] sua voce amorosa invitato a seguirlo. Andò e dietro a lui entrò in un dormitorio, ove a quell'ora tutti i giovani dormivano. Quel personaggio si fermò ai piedi di un letto e disse a D. Bonetti:
- Osserva questo giovane: fra un mese dovrà presentarsi al tribunale di Dio: tocca a te prepararlo!
D. Bonetti nello svegliarsi al mattino restò così impressionato dalla vivezza del sogno che non poteva distrarne la mente. Esitava però a manifestarlo. Poteva essere, è vero, un semplice giuoco di fantasia; ma se era un avviso del Cielo? In ciò nulla d'impossibile. Iddio è troppo vicino a ciascuno di noi: In ipso vivimus, movemur et sumus, e Dio ci ama di un amore inenarrabile! Ma il parlare parevagli che potesse in qualche modo ridondare a sua gloria e avrebbe preferito di tacere. Senonchè rifletteva: “Se dalla mia parola dipendesse la salvezza eterna di un'anima, non avrei poi a soffrire un acuto rimorso per aver taciuto, qualora l'avviso fosse realmente confermato dal fatto?” D'altra parte che male c'era, anche qualora fosse stato un semplice sogno, a risvegliare nei giovani il pensiero degli anni eterni?
Si risolse perciò di parlare, ma non in pubblico, e presi a parte alcuni suoi intimi, manifestò loro il sogno e il giorno nel quale gli era stato detto che il giovane sarebbe morto, pur tacendone il nome. Ma appariva così singolare la cosa, che non potè restare segreta; e da uno all'altro, di confidenza in confidenza, in breve tutti vennero in cognizione del sogno, e l'attesa era generale e vivissima per giudicare del suo avveramento. Tanto più che in casa non eravi alcuno infermo. Ma un giovane, che D. Bonetti aveva, come egli disse, preparato al gran passo, dopo breve malattia moriva precisamente nel tempo indicato. Fra i testimonii del fatto havvi il Sac. Prof. Giuseppe Isnardi.
Nello stesso collegio sul far di una sera un alunno fu colto da male improvviso. Si chiamò in sull'istante il direttore Don Bonetti, che subito accorse, ma lo trovò già morto. Fuori di [245] sè, come se fosse colpa sua che il giovane non avesse ricevuti i Sacramenti, andò a prostrarsi in Chiesa e pianse e pregò lungamente. Il giorno dopo non volle prender cibo, più volte ritornò ai piedi del SS. Sacramento, e infine per celare a tutti il suo angoscioso dolore, uscì all'aperto e s'internò nel bosco del collegio. Estenuato da un digiuno di 24 ore, continuò a pregare passeggiando, quando ad un tratto ristette immobile cogli occhi fissi in alto. Rimase così alquanto tempo col volto raggiante di viva gioia; in fine ricomponendosi esclamò: - Deo gratias! è salvo; è già entrato in paradiso! - E ritornatagli la prima giovialità, si recò a cena. D. Bonetti nulla disse ad alcuno e mai parlò di quel fatto. Ma egli era stato spiato. Il professore D. Giovanni Tamietti lo aveva seguito per sorvegliarlo e consolarlo, e, nascosto fra gli alberi dietro una siepe, aveva veduto e udito quanto abbiamo narrato; ma non osò interrogarlo, nè allora nè poi. Altro testimonio fu D. Carlo Farina.
Ad un sacerdote così accetto al Signore, pochi giorni dopo che aveva preso possesso della sua carica, D. Bosco scriveva:
Giovedì sarà tutto per Mirabello. La sera non si potrebbe fare una conferenza per la Società?
Se puoi, radunali stasera e dimani a sera: dimanda di quelli che loro sembra di essere preparati a fare i voti o triennali o perpetui. Ripeti le cose che furono dette qui: ma nota specialmente che niuno si muova per interesse, o per motivo temporale, ma unicamente per fare un'offerta di se stesso a Dio.
Confortare et esto robustus. Saluta D. Provera, Goffi e tutti gli altri nostri cari maestri, assistenti e giovani di Mirabello.
La grazia di N. S. Gesù Cristo sia sempre con noi. Amen.
P. S. -- Mercoledì conto di trovarmi a Giarole, ad un'ora pomeridiana. [246]
Il giorno 22 D. Bosco era a Mirabello. Percorrendo il tratto di ferrovia da Alessandria a Giarole, trovatosi solo con un signore nello stesso scompartimento, fatto cadere il discorso su cose di religione, lo indusse a confessarsi sullo stesso treno. D. Garino Giovanni ne rende testimonianza.
Nel piccolo Seminario si era preparata una gran festa, nella quale ai maggiorenti del paese invitati e agli alunni D. Bosco presentava con parole di elogio D. Bonetti, come successore di D. Rua.
Da Mirabello il Servo di Dio andava a Tortona accompagnato da D. Giovanni Cagliero, per far visita al giovane Giuseppe Pittaluga, allievo dell'Oratorio, il quale da un anno e mezzo pativa gravi dolori ad una gamba. Questi sul fine di marzo 1864 erasi restituito a casa per curarsi. D. Bosco lo amava molto e ne aveva stima grandissima per il candore mai offuscato della sua bell'anima; e n'era corrisposto con un santo ed eguale affetto. Questo buon giovane colla sua indole affabilissima e soave guadagnavasi tutti i cuori, ovunque andasse.
Il 1° settembre di quell'anno il buon figliuolo aveva dato notizie del suo stato al ch. Enrico Bonetti.
“Scrivo - gli diceva - coi polsi mal fermi. Ho potuto uscir di casa appoggiandomi ad un bastoncello. La mia gamba ora migliora, ora peggiora in modo inquietante. Talvolta mi vengono i brividi per febbre. Il chirurgo dice che il mio male tarderà molto e poi molto a guarire... Lo prego a mandarmi il baule colle mie vesti all'Episcopio di Tortona. So bene che D. Bosco lo vedrà spedire con dolore; ma io conservo sempre nella mia mente il proposito di mantenere al mio padre spirituale e temporale la promessa fattagli. Ma sembra che tale non sia la volontà di Dio. Due o tre volte al giorno dico l'Ave Maria per D. Bosco. Frequento quotidianamente il Seminario e il Rettore mi degna di sua grande amicizia. Mia madre prega continuamente per l'Oratorio”. [247]
Il 2 novembre 1865 aveva scritto al medesimo: “Io me la passo stentatamente da un giorno all'altro, perchè mi trovo al servizio della Cattedrale e qui lavoro e studio. Omnia ad maiorem Dei gloriam. Il mio papà già da quattro mesi si trova gravemente infermo per idropisia pettorale, senza speranza di guarigione; e perciò a me tocca servire anche la Curia Vescovile... Mi raccomando perchè voglia pregare tanto per lui... E come sta il caro D. Bosco, quel caro padre? Gli dica che preghi e faccia pregare Maria SS. per la mia famiglia. Gli dica che se dovesse recarsi a Mirabello, non gli sia grave fare una scappatina fino a Tortona...”.
E Don Bosco rendeva pago il desiderio del suo alunno. Giunto a Tortona, andò subito con D. Cagliero ad ossequiare il Vescovo Mons. Giovanni Negri quasi ottantenne, il quale lo ricevette con molto piacere nella stessa camera da letto ove si trovava, essendo egli infermiccio e così sofferente che tutte le tendine erano abbassate. Quindi si recò a prendere alloggio in Seminario. Quivi si recò subito, appena avvisato, il Pittaluga, pieno di gioia. Appena lo vide, D. Bosco lo assicurò che era venuto proprio per lui e lo intrattenne lungamente, ascoltando le sue confidenze, confortandolo nelle sue angustie, promettendogli il suo aiuto, recando non piccolo sollievo ai suoi dolori. Si fece poi condurre in sua casa, ove consolò e benedisse tutta la famiglia e specialmente l'infermo. Ma appena si seppe essere D. Bosco in città, il Vicario Generale, i Canonici e altri sacerdoti corsero ad ossequiarlo. Il Vescovo, stesso, non ostante l'età e la malferma salute, volle restituirgli la visita.
Nel partire D. Bosco raccomandò il suo giovane al Rettore Can. Ferlosio, che aveva per lui e per i suoi alunni un affetto grande. E il Pittaluga entrava chierico in Seminario.
Tornato all'Oratorio, per aiutare la vocazione religiosa di una buona giovanetta scriveva alla Reverenda Madre Eudosia, superiora delle Fedeli Compagne di Gesù nell'Istituto [248] posto dietro la chiesa della Gran Madre di Dio in Torino. Antica era la sua relazione con quella Comunità, perchè venuta la prima volta in Torino la fondatrice con due suore francesi che conoscevano solamente la loro lingua, egli pazientemente aveva loro insegnato la grammatica italiana.
La giovane Quaranta Teresa di Settimo Torinese mi è caldamente raccomandata come figlia di molta virtù ed aspira a farsi religiosa. Veda V. S. nella sua prudenza se le sembra tornare a maggior gloria di Dio ricevendola nel suo Istituto. Desidero di fare una visita alla sua santa famiglia, e spero di poterla fare fra breve.
Intanto la ringrazio della carità che continua ad usare a questa casa; io mi unisco ai poveri miei giovanetti per augurare a Lei e a tutta la sua Famiglia copiose benedizioni del Cielo e professarmi con gratitudine
Di quei medesimi giorni rallegrava uno dei suoi, il Ch. Giulio Barberis, con un'altra letterina.
1° A colazione un gavasso (pagnotella), a pranzo secondo l'appetito, a merenda niente, a cena secondo l'appetito, ma con temperanza.
2° Niun digiuno, se non quello della Società.
3° Riposo secondo l'orario della casa; svegliandoti mettiti tosto a ripassare qualche parte de' tuoi trattati scolastici.
4° Lo studio essenziale è quello della scuola del Seminario, il resto è solamente accessorio; ogni sollecitudine sia pel primo.
5° Fa' tutto, soffri tutto per guadagnare anime al Signore.
Torino, 6 dicembre 1865. [249]
Intanto erano stati costituiti, secondo le Regole, i Capitoli delle Case di Mirabello e di Lanzo, e i bravi figli di D. Bosco si adoperavano a conseguire con studio indefesso nuovi diplomi per l'insegnamento nelle classi ginnasiali ed elementari.
Fin dall'ottobre i chierici Alessandro Fabre, Pietro Guidazio e Francesco Bodrato appartenenti al Collegio di Lanzo avevano conseguito la patente di maestro elementare per le classi superiori in Novara. Ed ora il 10 dicembre i chierici Paolo Albera e Augusto Croserio della Casa di Mirabello ottenevano nell'Università di Torino il diploma di professore pel ginnasio inferiore.
Nello stesso giorno leggeva la sua tesi di laurea il Sacerdote Francesia Giovanni Battista. Egli aveva finito il terzo anno di Lettere e in vista degli esami presi con lode e dell'età sua, aveva domandato di potersi presentare per la laurea. La guerra contro que' dell'Oratorio non era ancora cessata del tutto, e il Rettore dell'Università Ercole Ricotti gli faceva rispondere non potersi accordare quella licenza essendo contraria al regolamento. D. Francesia era per rassegnarsi a fare ancora un anno di Università, quando lo stesso giorno che aveva ricevuta la risposta negativa s'incontra con D. Turchi Giovanni, il quale gli dice: -Voi di D. Bosco siete proprio sfortunati! Studiate senza posa, prendete tutti gli esami, e pure andate avanti a stento. Io non ho preso esami e ho chiesto di prendere la laurea, anticipandola di un anno ed ebbi tosto risposta favorevole, come l'ebbero anche altri.
In quel mentre il Professore Ricotti aveva date le dimissioni da Rettore dell'Università ed al professore Angelo Serafino, preside della facoltà teologica, come anziano fra i presidi, era toccata quella reggenza. D. Francesia scrisse subito al prof. Serafino dicendogli come avesse ricevuta dal Ricotti una negativa alla sua domanda, ma che avendo saputo di certa scienza, come ad altri fosse stato concesso quel medesimo [250] favore che a lui era stato negato, ad es. a D. Giovanni Turchi, rinnovava la domanda. Il domani riceveva notizia che eragli accordato ciò che domandava. Quindi preso l'esame e sostenuta la tesi, il 13 dicembre veniva laureato dottore in Belle Lettere. Diremo a suo tempo del posto che tenne nella repubblica letteraria questo sacerdote, che D. Bosco soleva chiamare: il celebre D. Francesia!
Anche D. Celestino Durando riusciva ad ottenere un diploma, ma per via diversa.
Il Ministro dell'Istruzione pubblica Giuseppe Natoli, visto il bisogno di insegnanti legali pubblicò l'esame straordinario per le Patenti di Rettorica per coloro che non avessero frequentato il corso dell'Università. Don Durando risolvette di giovarsi di questa concessione.
Michele Coppino, Dottore aggregato alla facoltà di filosofia e lettere, doveva presiedere alla Commissione esaminatrice. Egli si era opposto quanto aveva potuto alla determinazione ministeriale, e non riuscendo a far valere la sua opinione, aveva deliberato di respingere i candidati negli esami.
Quando gli si presentò D. Durando, Coppino prese a dirgli che quella era una prova arrischiata, perchè non si poteva far torto a coloro che per tanti anni avevano frequentati i corsi e fatte tante spese e subito tanti esami; non essere giustizia che altri con un sol esame fosse messo a pari di costoro ed aver subito una cattedra, e poter perfino insegnar in liceo.
Ciò diceva a lui ed agli altri aspiranti coi termini più blandi e più persuasivi. Coloro che dovevano prendere l'esame vollero egualmente presentarsi, e Coppino tenne i voti molto bassi, in modo che non potessero riuscire promossi. Egli però non aveva badato ad un articolo del decreto, il quale disponeva che i voti non si dovessero computare materia per materia, ma sibbene complessivamente. D. Durando secondo Coppino doveva essere rimandato in una materia, ma secondo la legge aveva l'idoneità. Il Segretario della Commissione, [251] grande amico di D. Bosco, aveva fatto questa osservazione; e senza comunicarla a Coppino, segretamente aveva scritto a Firenze al Ministero, riferendo le irregolarità commesse in quell'esame e dichiarando il caso specifico del Durando che aveva diritto alla promozione ed alle patenti, ed era stato giudicato non idoneo. Dagli allegati, spediti al Ministro, risultava come Durando avesse ottenuti molti voti di più di quelli che erano necessari.
Contemporaneamente anche Coppino, che, fisso nelle sue idee gli aveva pur tolto illegalmente un voto dato da lui stesso, scriveva a Firenze l'esito sfavorevole dell'esame, ma con sua meraviglia e sdegno ebbe in risposta dal Ministero come Durando avesse diritto alla patente ed essere necessario consegnargliela.
Coppino replicò che Durando aveva ottenuto un voto di meno per l'idoneità, ma il Ministro insistè citando l'articolo del decreto, e finalmente le patenti furono consegnate, dopo lunghe pratiche.
D. Celestino Durando fu l'unico che in tutta l'Italia godè del favore di quell'esame straordinario. Presso di lui era custodito il carteggio di tutta intiera questa pratica. E noi dobbiamo aggiungere com'egli godesse la stima di tutti i Professori di Torino e specialmente di Tommaso Vallauri, che gli era amico. Fin dal 1860 egli aveva fatto stampare in Pinerolo dal tipografo libraio editore Giuseppe Lubetti Bodoni il suo Nuovo Donato ossia i Principii di grammatica latina ad uso delle scuole ginnasiali inferiori. Questo libro di 192 pagine in 8°, era stato adottato in molte scuole; nel 1876 aveva avuto l'onore dell'undecima edizione di più migliaia di copie, come le precedenti, e fino ai giorni nostri continuò ad avere uno spaccio incalcolabile.
Anche D. Michele Rua, iscritto al secondo anno della Facoltà di Lettere e Filosofia, quale aspirante alla laurea in Lettere, presentavasi nel 1866 a questo esame straordinario [252] per conseguire il diploma di insegnante nella Rettorica. Nelle prove scritte non solo venne approvato all'unanimità, ma ottenne la lode nella composizione poetica. Tuttavia incorse la sorte disgraziata di tutti gli altri candidati per il malanimo dei professori contro la disposizione ministeriale; e non fu ammesso ai verbali, perchè si pretendeva che presentasse documenti legali dai quali risultasse com'egli avesse già fatto scuola con autorizzazione dell'Autorità scolastica, e perchè non si fosse ascritto a tempo debito a questi esami straordinari. Eran cavilli, ma non potè compiere l'esame che avrebbe subito in modo brillante. Egli eccelleva nella storia e nelle lingue italiana, latina e greca; in quest'ultima era valentissimo. Per due anni, 1856-1857, aveva avuto ripetizione di greco da quel famoso grecista che fu l'abate Amedeo Pevron, in casa del quale ei recavasi regolarmente più volte la settimana. E il suo profitto fu tale che traduceva gli autori greci a vista d'occhio. Così narra il Can. Prof. D. Anfossi, suo compagno ed amico, il quale aggiunge che, nel 1866 o nel 1867, dandosi all'Università gli esami di lettere ed essendovi da tradurre una pagina di autore greco, molto difficile, un candidato, non riuscendo a tradurla, trovò modo di eludere la vigilanza del Professore assistente; e chi aveva l'incarico di procurarne la traduzione fu Don Anfossi, il quale comparve innanzi a D. Rua, pregandolo di quel favore. D. Rua che nel suo studio di Prefetto sedeva al tavolo ingombro di carte dando udienza ad alcune persone, prese il testo, lo lesse e quindi currenti calamo ne scrisse la traduzione, che recapitata all'esaminando e tracopiata fedelmente ottenne un ottimo voto. Basta aggiungere che l'Abate Peyron soleva dire:
- Se avessi sei uomini come D. Rua, aprirei un'Università!
Dopo qualche mese otteneva la sua laurea in lettere il Ch. Francesco Cerruti, il cui nome doveva anche risplendere di bella fama nella repubblica letteraria e nelle stesse discipline pedagogiche. [253]
Nell'aprile del 1866 egli si presentava all'esame del quarto anno di Lettere. La Commissione esaminatrice si componeva di tre professori. Uno era Gaspare Gorresio, segretario perpetuo dell'Accademia delle Scienze e bibliotecario della Regia Università. Uomo profondo in molti rami di scienza veniva sovente consultato dai dotti di ogni parte d'Europa, e in special modo sulle antiche lingue orientali. Sacerdote di buoni costumi, in altri tempi famigliare con D. Bosco ma sempre suo ammiratore, aveva deposto l'abito talare. Effetto dei tempi. Il secondo, Casimiro Danna, Professore emerito di Istituzione di Belle Lettere. Il terzo era E. Levriero, preside di un Liceo di Torino, supplente del prof. Coppino all'Università nell'insegnamento della Letteratura Italiana e dei principii di estetica. Costui aveva alti gradi in massoneria; e toccando a lui la presidenza della Commissione, per lavoro iscritto di lingua italiana assegnò il tema: La lirica amorosa nei tempi antichi a Roma e ad Atene. Siccome Cerruti era il solo che presentavasi all'esame, la scelta del tema proposto era non solo poco riguardosa, ma offensiva per un chierico, il quale di più sapevasi alunno di D. Bosco.
Il candidato non si perdette d'animo nello svolgere il tema e dopo aver accennato qual fosse la lirica dei Romani e dei Greci, confrontò l'amore umano e pagano, coll'amore cristiano e divino: di questo descrisse l'oggetto nella Vergine di Nazareth, figlia, sposa, madre nel medesimo tempo; e trattò anche della lirica d'amore dei classici cristiani, citando il Petrarca, Dante, ecc. Mentre ei leggeva la sua composizione agli esaminatori, Danna non soddisfatto da que' sentimenti cristiani, espresse con qualche frase poco cortese il suo fastidio. Il chierico Cerruti, sorpreso e sdegnato, istintivamente gli volse per un istante le spalle, mentre Gorresio con un gesto risentito rimproverò Danna di non lasciar libero l'esaminando nell'esporre i proprii pensieri. Levriero osservò che il tema svolto non era quello da lui [254] proposto, ma in fine dovette rassegnarsi e dare al candidato al pari degli altri un voto favorevole. Superato felicemente questo esame, poco dopo, nel maggio, il ch. Cerruti conseguiva la laurea.
Qui, noi facciam punto su questo argomento e ci dispensiamo dall'enumerare i moltissimi altri che si prepararono nelle case di D. Bosco e riportarono diplomi e lauree pur riserbandoci di fare qualche eccezione. Ci basta aver accennato ai primi che D. Bosco avviò in questo splendido e importantissimo arringo.
Aggiungiamo però come più tardi il Servo di Dio trovò appoggio ove meno se lo aspettava. Il prof. Levriero, avverso per molto tempo all'Oratorio ed alla religione, diveniva più accostabile. Negli ultimi anni di sua vita sentiva tanta venerazione per D. Bosco e provava tanta simpatia pel suo aspetto, che ebbe più volte ad esprimere ai suoi intimi questi sentimenti. Quindi accoglieva con piacere ogni raccomandazione, che il Servo dì Dio gli facesse per qualcuno de' suoi.
DOPO la grande solennità dell'Immacolata Concezione di Maria SS., D. Bosco si accinse a recarsi a Firenze per raccogliere elemosine, spacciare biglietti della Lotteria, procurare nuovi associati alle Letture Cattoliche e sbrigare altri importanti affari. Era la prima volta che vi andava. Cordiali e numerosi inviti che in quest'anno aveva ricevuto dai fiorentini glie ne avevano fatto fare una promessa; e molte dame, fra le quali la Marchesa Luisa Nerli Libri con lettere gliela ricordavano.
L'Arcivescovo lo aspettava, volendo trattare con lui del modo di combattere con efficacia il protestantesimo; e gli aveva offerta ospitalità nel suo palazzo. [256]
Il sig. Cav. Gautier mi recò personalmente il biglietto di V. S. in data del 20 del corrente e Le sono veramente grato dell'avermi Ella così offerta l'occasione di fare la conoscenza di un signore così onesto e religioso.
Parlammo molto di Lei e dell'opera sua, ed ebbi da invidiare a cotesta città un istituto così opportuno e così caritatevole, quale è quello da lei fondato e diretto, che è una perenne e larga sorgente di bene per la società e per la Chiesa. Godo poi moltissimo di sentire che presto Ella si recherà a Firenze. Si rammenti in tal circostanza come in questo Arcivescovado è sempre a sua disposizione una stanza ed un letto. Spero che non vorrà ricusare l’ospitalità che le offro di gran cuore. Ed in questa speranza mi segno con tutto il rispetto e la stima,
Firenze, il dì di S. Pietro, 1865,
+ GIOACHINO, Arcivescovo di Firenze.
Più di tutti D. Giulio Metti, prete dell'Oratorio, chiaro per virtù, autore di molte opere apprezzate, e sacerdote indefesso nell'esercizio del sacro ministero, insisteva perchè Don Bosco facesse quella visita:
E' già un mese che il sig. Cav. Gautier venne a trovarmi e a salutarmi in nome di V. R. annunciandomi che Ella sarebbe venuta a Firenze quanto prima. Comunicai questa notizia alla Marchesa Villarios; la dissi a certi ecclesiastici invogliati di fare un poco di bene e tutti esultarono a quell'annunzio; e spesso mi domandano se D. Bosco è arrivato o quando arriva.
Di più una buona vedova mi chiese di allogare in una casa di educazione due suoi figliuoletti; e le proposi la casa di D. Bosco a Torino, oppure quella che D. Bosco aprirà a Firenze; ed essa pure vien sempre a domandarmi se questo D. Bosco c'è o non c'è. Un altro paio di ragazzetti sarebbero pure in vista. Più; questi preti delle scuole serali, che han bisogno di direzione e di appoggio, aspettano D. Bosco a braccia aperte. Più ancora. La Lotteria della quale ricevei le 100 cartelle, esige che si faccia vedere anche qua D. Bosco, se vuol fare più fortuna. [257] Che facciamo adunque, mio carissimo e Rev. Padre? Viene o non viene? Vuol fare qualche cosa a prò di questa misera capitale, che va a perder tutto il bene dell'anima, mentre non acquista nulla pel corpo? Mi dica qualche cosa per poter rispondere a questa buona gente.
Mille saluti al sig. Cav. S. Stefano e a tutti gli altri suoi egregi cooperatori nell'opera di Dio e a tutti i suoi bambini.
Mi raccomandi al Signore e mi creda
D. Bosco adunque partiva, dopo aver salutato i giovani dell'Oratorio ed essersi raccomandato alle loro preghiere. A D. Rua aveva consegnato scritti i fioretti da praticarsi nei giorni della prossima novena del S. Natale. I fioretti erano i seguenti:
1° Ubbidienza pronta in ogni cosa piacevole, e non piacevole.
2° Umiltà negli abiti, capelli, nel discorrere e nell'ubbidire, nelle cose spregevoli.
3° Carità - sopportar i difetti altrui e procurar di non offendere alcuno.
4° Carità - consolar gli afflitti, prestar servizio, fare del bene a chi si può, del male a nessuno.
5° Carità - avvisar i negligenti, correggere con bontà chi dicesse o proponesse cose cattive.
6° Carità - perdonar ai nemici e dar loro de' buoni consigli se si presenta l'occasione.
8° Fuga dell'ozio, e diligenza nell'adempimento dei propri doveri.
9° Confessione come se fosse l'ultima della vita.
Divota Comunione con promessa di frequentarla.
D. Bosco partì da Torino probabilmente il giorno II dicembre, lunedì, sulla linea di Genova. “Ne' suoi viaggi, afferma Mons. Cagliero, ovunque egli arrivasse era sempre accolto [258] con grande piacere. Gli stessi Vescovi lo ricevevano colle maggiori dimostrazioni di stima e di affetto, sino talvolta a cedergli il primo posto a tavola.”
Giunto a Pisa, il Servo di Dio si affrettava a dar notizie all'Oratorio, mentre i suoi musici di Torino si disponevano ad andare ad Avigliana, ove per la prima volta festeggiavasi con pompa solenne il Beato Cherubino Testa, dopo l'accennata ricognizione del suo culto.
Sono a Pisa col Cardinale Corsi dove vivo veramente da signore: vettura, cocchi, cavalli, cocchieri, camerieri, buoni pranzi, laute cene sono ai miei cenni. Non mi manca altro che i giovani dell'Oratorio e poi sarei contento. Ho veduto l'Arno che divide Pisa per metà, il duomo che è una famosa basilica; la torre pendente che ha la sommità la quale si allontana sette metri dalla base; la torre della fame, dove morì il conte Ugolino di fame co' suoi figli; i frantumi di una casa appartenente a detto conte, che il popolo Pisano atterrò per vendicare i mali che aveva sofferti dal padrone della medesima; un battistero che è una meraviglia di lavoro e di scoltura in marmi; un camposanto di tale e sì svariata magnificenza, che appaga e conserva in pace tutti coloro che ivi hanno la loro dimora. Tutte cose che mi piacciono, ma non ho veduti i miei giovani. Di Firenze poi parlerò quando sarò ritornato a Torino.
Ora veniamo a noi. Ho scritto al Cavaliere; nella sua lettera eravi un bigliettino sigillato, ma che temo di averlo chiuso senza indirizzo. Questo doveva indirizzarsi a D. Francesia affinchè raccomandasse il contenuto al Cav. Vallauri per l'Unità Cattolica. Osserva quello che fu fatto.
Dirai a D. Cagliero che la partita per Avigliana sarebbe di partire al mattino e ritornare alla sera, secondochè sembra propendere Don Valfrè, sebbene vi sia posto preparato per mangiare e dormire. Esso intanto mandi una nota dei giovani notando in principio di nota quelli che avessero bisogno di riguardo e quindi inviarli in case più adattate.
Per la funzione di S. Agostino fu convenuta la somma di f 70. Ciò per norma .
Domenica non sono ancora a Torino; ti farà sapere con altra lettera in qual giorno giungerò. Ho già raccolto qualche danaro, ma non la somma che vuoi tu... Prega e fa' pregare. Dammi molte e minute [259] notizie de' miei cari figli; e di' loro che in tutte le chiese che visito fo sempre qualche preghiera per loro: ed essi preghino eziandio pel loro D. Bosco.
Dio ci benedica e ci conservi tutti e sempre nel santo timor di Dio. Così sia.
N. B. -Il Cardinale di Pisa mi ha date alcune belle immaginette da darsi a tutti i modelli di virtù che abbiamo in nostra casa: tu mi dirai poi quanti sono, quando mi scriverai. Dimandò poi notizie del poeta Francesia: io gli dissi tutte le sue virtù e miracoli.
P. S. - Da' la mia benedizione, e quella di gran lunga più preziosa del Cardinale Corsi, a tutti gli abitanti di nostra casa, compreso Michele. Col suo collegio?
Sempre scherzevole D. Bosco! Michele aveva la cura della stalla.
L'andata del Venerabile a Firenze fu un trionfo. Prese alloggio nel palazzo arcivescovile ove fu trattato con ogni riguardo. Il Capitolo della Metropolitana, il quale voleva onorarlo, desiderava che andasse a far visita al loro magnifico tempio. L'Arcivescovo ne fece motto a D. Bosco e ve lo accompagnò verso le 10 antimeridiane. Tutti i canonici lo attendevano in cappa magna nella sagrestia col Vicario generale di Prato ed il Vescovo di Fiesole. Tali onoranze il Capitolo non suole renderle se non nella circostanza della visita di un Cardinale. All'entrar di D. Bosco tutti si alzarono e gli andarono incontro facendogli mille feste. Quindi fattolo sedere in mezzo a loro, gli lessero alcuni componimenti in prosa ed in poesia, latini ed italiani; fu suonato maestrevolmente il pianoforte e dopo si lesse ancora. Finalmente invitarono D. Bosco a parlare, il quale benchè non si aspettasse simile invito, pure si alzò. Ricordò che nel luogo dove erano radunati erasi dato principio al Concilio di Firenze; che su gli stalli da essi in quel momento occupati, avevano preso [260] posto i Padri della Chiesa; che in quell'aula risuonarono le voci dei legati del Pontefice; quindi continuò riferendo le parole d'elogio e di incoraggiamento che il Papa rivolse all'assemblea, concludendo che egli non avea altri sentimenti migliori di questi da indirizzare ai Prelati presenti e all'illustre Capitolo della Metropolitana di Firenze. Tutti restarono meravigliati a questo discorso, perchè oltre d'esser preso dalla circostanza del luogo, in quel momento riusciva inaspettato e la sua applicazione addattata e lusinghiera.
A Firenze, come dappertutto, il Servo di Dio erasi talmente guadagnato i cuori, che allorquando annunziò la sua partenza fu un'esclamazione generale:
- Debbo andare a Torino, rispondeva D. Bosco a varii egregi signori e signore che volevano persuaderlo a prolungare la sua dimora; mi chiamano là le necessità dell'Oratorio.
Mentre egli usciva dal Duomo si incontrò colla marchesa Gerini, la quale senz'altro gli domandò:
- Perchè vuol ritornare così presto a Torino? Non potrebbe fermarsi ancora qualche giorno con noi?
- I miei giovani mi aspettano.
- Che importa? Aspettino! Quando andrà lo vedranno.
- Che importa? Bisogna che li provveda di pane. Se io non mi do d'attorno, essi non hanno da mangiare.
- Ma se lei volesse fermarsi, non mi sembra che i giovanetti dell'Oratorio per pochi giorni potrebbero soffrirne.
- Per parte mia mi fermerei volentieri. Se essi volessero provvedere di pane i miei giovani io starò qui fino alla fine della settimana.
- E qual somma ci vorrà per i suoi giovani in questi pochi giorni?
- E se si trovassero qui, si fermerebbe davvero?
- Ebbene: io le darò 10.000 lire.
- E Don Bosco a questo patto si ferma!
- E vuole che gliele porti qui subito? Ora non le ho con me. Se si contenta, le manderò la somma stassera in arcivescovado.
- E sia così. Il Signore la benedica.
La nobile signora fu per D. Bosco la mano della Divina Provvidenza. Alla sera gli fu recato il danaro e D. Bosco si fermò.
La notizia di questo fatto si sparse per la città e fu raccolta anche dalla stampa. Così il corrispondente dell'Armonia (cfr. numero del 20 dicembre 1865) narrava a modo suo la cosa:
“È qua da noi D. Bosco, alloggiato nel palazzo dell'Arcivescovo. Ieri appunto (il 16) diceva messa a S. Marco. Raccontano che visitando l'ospizio delle Convertite e interrogato da un crocchio di dame, fra cui la nostra sindachessa, quanto fosse per restar qua, soggiungesse come il bisogno di trovar cinquemila franchi l'obbligasse a tornare a Torino; e che ridottosi alla casa, vi trovasse una lettera con entro tante cedole pel valore di franchi diecimila. È un fatto che D. Bosco ha eccitato la curiosità delle dame fiorentine e che ne ha comunicate parecchie in qualche cappella privata, tenendo ad esse discorsi analoghi alla pia pratica.
In difetto d'altre notizie (chè tutta l'odierna politica della tappa si restringe in adunanze di deputati e in transazioni ministeriali) v'ho dato questa; e l'Armonia se ne valga, se fa al conto suo”.
“Di qualche altro fatto che segnalò la dimora di D. Bosco a Firenze, scrive D. Garino Giovanni, chiesi notizia a Don Apollonio, il quale ne era stato informato dalla signora Contessa di Soresina Vidoni Soranzo. Monsignore mi rispose, [262] mandandomi una lettera in data del 13 aprile 1888, nella quale aveva copiata una relazione di detta Contessa. Dopo la narrazione del rosario tutto fiorito nel dicembre del 1862 o 1863 in una notte d'inverno innanzi ad una finestra della stanza ove era ospitato il Servo di Dio nel Castello di Sommariva del Bosco, si legge:
- Anche a Firenze in casa di mia nonna la Contessa Boutourlin D. Bosco fece alzare una signora che da 25 anni in circa era in letto con una spinite, ed aveva una gamba attratta. Egli le ordinò di girare per la casa, di mangiare, ecc. ed essa fece tutto ciò che egli le comandò senza alcuna fatica. Dopo D. Bosco le chiese se voleva guarire (promettendole la guarigione), oppure se preferiva riammalarsi. Essa vi pensò un momento e poi rispose che credeva essere volontà di Dio che continuasse a patire: e subito fu costretta a ritornare in letto, donde non si alzò più e morì dopo 32 anni di letto, soffrendo pene atrocissime per una carie nelle ossa. Questa santa donna fu la signora Carolina Sorelli -.
Ricevuta da Mons. Apollonio questa relazione, interpellata da me D. Giovanni Garino il 19 aprile 1888 la contessa Soranzo intorno ad alcuni fatti relativi a D. Bosco e noti a detta signora, tra altro mi rispose in questi termini: - “Dell'altro miracolo di Carolina Sorelli avvenuto in casa Boutourlin in Firenze la prima volta che D. Bosco vi andò, nel 1865, nessuno dei testimoni è più in vita. Io lo seppi da D. Bosco stesso che ammirava l'eroica virtù della Sorelli, e poi me ne parlò un'altra persona, che ora è morta a Firenze; e posso assicurare che quanto scrissi a Mons. Apollonio è la pura verità. - Molte altre cose potrei dire di quel santo, specialmente riguardo al suo dono di profezia ed a quello di leggere nel segreto dei cuore. - CAROLINA SORANZO”.
D. Bosco intanto accettava quattro giovanetti toscani per collocarli nel piccolo Seminario di Mirabello. Egli stesso li avrebbe accompagnati fino a Torino, e di qui sarebbero [263] stati condotti a Mirabello. Uno di questi, Ernesto Saccardi, fin dall'infanzia era stato formato alla pietà con un'educazione veramente cristiana. Il giorno della partenza, quando la madre l'ebbe consegnato a D. Bosco, egli asciugatesi le lagrime e stretta e baciata la mano al Servo di Dio, gli disse con volto ilare:
- Finora mia madre era tutto per me; ora mi metto nelle sue mani. Faccia di me quello che giudicherà bene per l'anima mia.
D. Bosco lo confortò, assicurandolo di tutta la sua benevolenza:
- Ti domando soltanto due cose, gli disse: confidenza nelle cose dell'anima e ubbidienza ai tuoi superiori.
- Spero, rispose il giovane, che in questo lei sarà pienamente corrisposto.
Don Bosco partiva da Firenze in compagnia dei nuovi alunni e rientrava all'Oratorio. In questo viaggio egli toccò anche Prato di Toscana, e gli occorse un bel caso.
Era in uno scompartimento insieme con alcuni signori che discorrevano tra di loro delle vicende del giorno, e il discorso cadde sull'istruzione della gioventù. Uno saltò su a dire che si dovevano sopprimere gli studii da gesuita ed i collegi tenuti dai preti, e soggiunse:
- Se io fossi al posto del Governo vorrei annientare quel covile di piccoli gesuiti che tiene D. Bosco in Torino e prendere a calci lui e tutti i suoi giovani, e al loro posto mettere un reggimento di cavalleria.
E volgendosi a D. Bosco che se ne stava appuntando qualche cosa nel taccuino in un angolo della vettura:
- Non è vero, signor Abate, aggiunse, che sarebbe bene fare così?
- A me parrebbe di no, rispose il Servo di Dio: conosce lei D. Bosco?
- Un poco: e non è vero che l'educazione che dà ai suoi [264] giovani non è secondo le nostre idee? Alleva tanti gesuiti e noi non abbiamo più bisogno di tanti frati.
- Ma pure, ripigliò D. Bosco, io sono stato tante volte all'Oratorio, ho parlato con D. Bosco che si chiama il capo dei birichini, ed ho veduto l'istruzione che dà: e posso assicurarla che egli non ha altro di mira che fare di quei poveri giovani buoni cristiani ed onesti cittadini.
L'altro insisteva: -Ma viviamo in altri tempi; è passato il medio evo.
In quel mentre si giungeva ad una stazione, e tutti quei signori discesero.
Passarono sei o sette mesi, e a Roma si pubblicarono appalti per importanti costruzioni. Quel signore, che aveva parlato contro D. Bosco, era un ingegnere e impresario, che avrebbe voluto portarsi agli incanti, ma gli occorrevano buone raccomandazioni. Un giorno s'incontra a Torino con un marchese suo conoscente e lo richiede d'aiuto. Quegli gli dice:
- Vada da D. Bosco, lo supplichi a mio nome e son sicuro che lo raccomanderà al Cardinale Antonelli.
Pochi giorni dopo l'ingegnere si presenta a D. Bosco e lo prega di una lettera di raccomandazione.
- Gliela faccio subito, risponde D. Bosco; e come l'ebbe scritta gliela diede.
Quegli lo ringrazia e gli chiede se comanda qualche cosa per Roma. E il Servo di Dio sorridendo:
- Veda, vorrei una cosa; quando sia dal Cardinale, non gli dica che D. Bosco dovrebbe essere preso a calci, e con lui i suoi giovani, per metterli fuori dell'Oratorio, perchè non starebbe bene.
L'ingegnere fissò bene D. Bosco e riconobbe in lui quel prete innanzi al quale aveva in convoglio parlato male dell'Oratorio; e gli chiese mille scuse, assicurandolo che non avrebbe detto mai più una parola nè contro lui, nè contro il [265] prossimo. Andò a Roma, ebbe l'impresa e guadagnò centomila lire. Divenne in seguito buon cattolico e conservò molta gratitudine al Servo di Dio.
Questo fatto lo abbiamo appreso dal Barone Bianco di Barbania.
Molte lettere, scritte da Firenze dopo la partenza del Venerabile, ci dicono la sua attività e il suo zelo, e insieme il doloroso distacco che avevano sentito i fiorentini per la sua partenza, il vivo desiderio di lui, la fiducia nelle sue preghiere, e il loro impegno per lo spaccio dei biglietti di lotteria. Ne riportiamo qualche brano, anche perchè accennano a varie visite delle quali non abbiamo altra memoria.
Il 21 dicembre il Cav. Carlo Cerboni scriveva a D. Bosco:
“Non avendo io, per un equivoco occorso nel darmene avviso, potuto avere il bene e l'onore tanto bramato di conoscerla personalmente e baciarle la mano nel Conventino delle Suore Terziarie Francescane in Ognissanti, mi prendo la libertà di dirigerle questa mia rispettosa all'oggetto... di chiederle per me una preghiera all'Altissimo specialmente per un bisogno temporale... Accordi la santa sua benedizione a me e a tutta la mia famiglia”.
Il 28 dicembre la nobile signora Luisa Nerli Libri si lamentava col Cav. Oreglia: “Quantunque rassegnata, pure sento immensamente la perdita dell'angelo della mia cara Marianna... D. Bosco non l'ho veduto!... Io era in mezzo al mio dolore, nè potevo uscire; D. Bosco andò, girò in molti luoghi pubblici e case private ove fu portato; a me, disgraziata, nessuno pensò e così non lo vidi!... forse non meritavo questa consolazione, e al solito rassegnazione! rassegnazione! ripeterò. Gli faccia i miei ossequii, gli baci la mano per me e chieda la sua benedizione per la mia famigliuola, che Iddio la benedica sempre e guidi sul sentiero della virtù. Io temo che con i Cognomi Nerli vi sieno stati molti equivoci; l'Enrichetta Nerli ha molto goduto dei favori di D. Bosco; Mamma, [266] io; non si è mai veduto!... Mille felicità per il nuovo anno, e di cuore davvero... Preghi, preghi molto Iddio per me, che con quiete mi presterò alla sua lotteria...”.
La Contessa Virginia de Cambray Digny il 5 gennaio 1866 rispondeva al Cav. Oreglia: - “Mi rincrebbe sommamente sentire che l'ottimo Don Bosco, fosse tuttora afflitto dal male d'occhi di cui soffriva già durante il suo soggiorno in Firenze, e temo che gli strapazzi a cui egli si assoggettò in quei giorni, e più ancora il viaggio in una giornata così rigida qual si fu quella della di lui partenza, possano aver contribuito ad aggravare od almeno a prolungare il male. Voglio sperare che in questi ultimi giorni possa essersi verificato un qualche miglioramento in una salute tanto preziosa .....
Debbo rimaner confusa vedendo ch'Ella in nome di Don Bosco mi porge ringraziamenti per quello ch'io feci mentre Egli era in Firenze, poichè nulla mi sembra aver fatto per usargli qualche cortesia, e se fui a trovarlo e ricercai l'occasione di vederlo, debbo confessare che vi fu molto egoismo in questo mio procedere, e perciò non merito di esser ringraziata con tanta benevolenza. Il pensare che D. Bosco e tutti quelli della sua casa pregheranno per me e per la mia famiglia è motivo per me di gran consolazione, poichè spero mediante la sua intercessione ottenere dal Signore per tutti noi le grazie necessarie per condur vita tale, che possa meritarci la sorte di essere un giorno ammessi a godere (in virtù della divina misericordia) il bel Paradiso. Si degni adunque, gentilissimo sig. Cavaliere, porgere a Don Bosco i miei più sinceri ringraziamenti per si distinto favore, e per la bontà con cui mi accolse quando ebbi la fortuna di vederlo”.
Il 9 gennaio 1866 il P. Domenico Benelli, cappellano della Collegiata di S. Lorenzo, scriveva a D. Bosco: “Ebbi la fortuna di parlarle a Firenze alla scuola dei ragazzi nei chiostri di questa collegiata di S. Lorenzo... Ebbi pure la consolazione di sentire da D. Leone Ponzacchi, cappellano curato alla [267] Prioria delle Filigare, che esso ebbe il contento di accompagnarla da Firenze a Prato, e che le confidò lo stato suo morale, e che per la conferenza avuta con lei si rimise in questa città soddisfatto e tranquillo”.
E in altra lettera del 26 ottobre gli soggiungeva: “Don Ponzacchi dalla conferenza avuta con lei da Firenze a Prato, sentissi notabilmente sollevato, prosegue a star bene e a dedicarsi alla salute delle anime, predicando nella sua ed in altre chiese, confessando ed assistendo malati.”
La signora Teresa Pestallini nata Barbolani Montauto, il cui marito aveva spedito all'Oratorio i denari da D. Bosco raccolti a Firenze, scrive allo stesso D. Bosco mandandogli un'offerta di 80 lire pei suoi giovanetti: “Mio marito mi parlò dell'opera santa che ella con tanto coraggio ha intrapresa; di più la signora Gerolama Uguccioni, a me strettamente legata, mi parlò delle sue virtù e mi incoraggiò a scriverle. Ed io sono ardita a farlo per pregarla a voler dire per me anche una sola Ave Maria, onde Iddio si degni rendermi la salute della quale tanto abbisogno per la mia famiglia avendo quattro piccoli figli, i quali la prego voler benedire insieme con me e mio marito...”
La march. Isabella Gerini il 23 gennaio 1866, dopo aver ringraziato D. Bosco di una sua lettera che annunziavale essere ottima la sua sanità ed essere guarito perfettamente degli occhi; di una “pregiatissima opera” mandata a lei e a suo marito che terranno come prezioso ricordo; della bontà che ha di pregare per essi; concludeva: “Colla certezza che mi ha dato di rivederla qua a primavera, potrò personalmente darle discarico del poco che avrà ricevuto per la Chiesa della Madonna”.
E prima aveva già scritto al Cav. Oreglia: “Finchè avemmo il bene di aver qui D. Bosco non potei scriverle prima che fossero combinate le cose e combinai coll'ottimo D. Bosco ciò che mi era possibile combinare... Spero che la salute di [268] D. Bosco sarà ora migliore ed egli avrà potuto riposarsi un poco dopo le fatiche sostenute in Toscana. Ne aveva gran bisogno...”.
L'11 febbraio 1866, la signorina Marianna Buonamici faceva sapere per lettera a D. Bosco: “Sono la figlia della Buonamici che venni a trovarla insieme con mamma e colla mia piccola sorella, all'Arcivescovado, la mattina antecedente alla sua partenza Ci aveva promesso di venire a celebrare nel nostro Oratorio privato, e con nostro dispiacere non potè venire dovendo andare al Monastero di S. Maria Maddalena. Ma spero che ci farà questo favore al suo ritorno, in primavera, come ci promise... Papà che ebbe il piacere di avvicinarla un momento una sera alla stazione, mi incarica di presentarle i suoi ossequi, unitamente a mamma e alla mia sorellina”.
Anche un povero servitore del marchese Nicolini il 15 gennaio 1866 scriveva a D. Bosco: “Restai molto dispiacente che la S. V. sia partita: se lo avessi saputo sarei venuto prima a Firenze, mi sarei prostrato dinanzi alla S. V. e baciandole la santa mano le avrei chiesto la santa benedizione”. E dopo aver soggiunto, come trasportando un peso siasi fatto male alle reni e che dopo molte cure appena può passeggiare, chiedeva di poter guarire. D. Bosco rispose di proprio pugno al povero servo e sulla lettera, per norma dei segretario, scrisse, come soleva, la nota: Risposto.
Il fascicolo delle Letture Cattoliche, destinato per i due mesi di novembre e dicembre, narrava La vita della Beata Maria degli Angeli Carmelitana scalza, Torinese, con novena di orazioni a suo onore. Questa vita, ammirabile per virtù eroiche, specie quella dell'obbedienza, e per doni soprannaturali, era stata scritta da D. Bosco, il quale la presentava agli Associati colla seguente prefazione:
Crediamo di fare cosa grata al Lettore nel dire subito da quali fonti abbiamo ricavate le memorie riguardanti le meravigliose azioni della Beata Maria degli Angeli.
In primo luogo dal padre Elia di S. Teresa, carmelitano, il quale scrisse la vita della Beata pochi anni dopo la morte di Lei; dal padre Anselmo di S. Luigi Gonzaga dei medesimo Ordine, ed infine ai nostri giorni dal Padre Teppa Barnabita, scrittori tutti dotti e pii. La costante tradizione conferma le cose qui esposte, e tutto è in pieno accordo nell'attestare la santità di questa gloriosa nostra concittadina, nella quale Iddio si compiacque di farsi vedere veramente meraviglioso, come già disse il profeta: Mirabilis Deus in sanctis suis. Egli si fece vedere in Lei mirabile eziandio dai primi suoi anni; mirabile nelle grazie straordinarie, che versò fin d'allora nel suo tenero cuore; mirabile nella pazienza, nella fortezza che le ispirò nei maggiori contrasti; mirabile nella scienza, nella prudenza, nella carità, nello zelo [270] che le infuse da renderla non che una perfetta religiosa, ma un vero apostolo del Signore, un tesoro, un giardino delle sue delizie. Tu insomma, o lettore, troverai nella vita della Beata Maria degli Angeli un perfetto modello di virtù e di santità, tale nondimeno da potersi imitare da ogni cristiano secondo il proprio stato. Ed è in vista di tutto ciò, che si è stimato di pubblicare eziandio nelle Letture Cattoliche il presente compendio della vita di questa inclita sposa di Gesù Cristo, per così porgere ai nostri lettori il mezzo opportuno di trarne spirituale vantaggio. Voglia Iddio che le nostre fatiche ridondino a sua maggior gloria e al maggior bene delle anime. Tu poi, o divoto lettore, se mai nel leggere il presente libretto ti sentirai nascere nel cuore qualche buon pensiero che ti chiami a santo proposito, deh! non rigettarlo; egli è una grazia che ti fa il Signore, egli è un favore che dal cielo ti ottiene la Beata Vergine degli Angeli.
Una vita virtuosa ci faccia seguaci degli esempi della nostra Beata, e ci renda felici nel tempo e nell'eternità.
Il Venerabile aveva scritto questo libro, interrotto dai viaggi e da tante altre occupazioni. In Torino molti visitatori non trovandolo nell'Oratorio ed essendo venuti a conoscenza come solesse ritirarsi qualche ora del giorno nel Convitto Ecclesiastico di S. Francesco d'Assisi, anche là avevano cominciato a ricercarlo. Per avere quindi un po' di tempo libero dovette procurarsi un altro rifugio e lo trovò nelle case di alcuni suoi benefattori ed amici. Costoro mettevano una delle loro camere a sua disposizione con tutto il necessario per scrivere; e D. Bosco ora recavasi dall'uno ora dall'altro, e chiudevasi tranquillo nella stanza assegnatagli.
Uno dei più frequentati da lui era Brosio, il bersagliere, che lo aveva tanto aiutato negli anni difficili dell'Oratorio di Valdocco. Questo signore, il quale sopravvisse al Servo di Dio e di cui ebbe tutta la confidenza, soleva dire:
- D. Bosco fu un grande uomo; fu un gran santo; e fu mio grande amico!
Brosio adunque, interrogato da D. Giovanni Bonetti, gli rispondeva per iscritto: [271]
“Quando D. Bosco scriveva la vita della Beata Maria degli Angeli e altre vite di santi, veniva sovente a passare più ore in mia casa per lavorare con quiete; ed ogni volta, terminato il suo lavoro, si fermava sempre ancora un po' di tempo per discorrere con me.
Un giorno mia moglie lo condusse al letto di una mia figlia indisposta, pregandolo a darle la benedizione. D. Bosco, quando le fu vicino, la prese per mano dicendole: Alzati! - Io che in quel momento non pensava a quello che D. Bosco era per fare, gli dissi: - Non può alzarsi, è inferma.
- Ebbene, mi rispose D. Bosco; la manderemo in paradiso! - Ciò detto le diede una benedizione e recitò una preghiera.
Appena D. Bosco si fu allontanato, mia moglie mi rimproverò per avere io detto che la figlia non poteva alzarsi, soggiungendo: - Non hai visto che D. Bosco voleva guarirla? - Difatti D. Bosco lo sapeva che la ragazza era inferma da lungo tempo, e perchè prenderla per mano e dirle che si alzasse se non per guarirla? Aspettai che D. Bosco ritornasse, ma egli era partito da Torino. - E la povera ragazza poco tempo dopo se ne è proprio andata in Paradiso.
Ma non si è fatto più così colla figlia che tengo ancora vivente, la quale essendo, sì può dire, già morta, D. Bosco me la rese viva, come a lei ho narrato altra volta”.
Insieme con questi ultimi fascicoli dell'anno veniva offerto, come strenna agli associati, Il Galantuomo, almanacco pel 1866. La Civiltà Cattolica anno 1865 vol. IV, pag. 722, scriveva: “Il Galantuomo è un titolo che si affà molto bene a questo piccolo almanacco, poichè esso non contiene che ottime e cristiane sentenze, non insegna che la verità, e non consiglia che il bene”.
Conteneva alcune riflessioni per ogni mese sovra uno dei comandamenti della legge di Dio; la Rimembranza della funzione per la pietra angolare della chiesa di Maria Ausiliatrice; [272] racconti edificanti, fatti ameni, ed epigrammi; ed il piano di regolamento per la lotteria, i cui premii dovevano estrarsi a sorte nell'anno seguente dopo essere stati esposti al pubblico per tre mesi.
In principio aveva questi pensieri:
Il Galantuomo ai suoi lettori.
Godo di potervi di nuovo salutare tutti, o cari miei lettori, tutti quanti ebbero l'onore di leggermi l'anno scorso. Credo che nessuno di essi sia morto; perchè qualora ci fosse stato qualcuno dal Signore chiamato da questa vita all'altra, io gli reciterei di cuore il riposo eterno come per carissimo amico. Perchè già io voglio come condizione necessaria, che i miei lettori siano anche miei amici. Se no, no.
- E che cosa ci darai quest'anno?
- Ci farai di nuovo ridere sulla storia di quel povero Michele?
- Fu quella una felice idea, sai.
- Già il mondo è così cattivo, e fa venire tanta voglia di piangere, che è una vera benedizione dei cielo quando possiamo alzare gli occhi in quadro più ameno di quello che ci presenta questa miserabile terra.
- Dunque grazie e mille grazie per quello che ci regalasti l'anno scorso, ma e quest'anno?
- E quest'anno io voglio divertirvi ma in un altro modo. Storielle amene ne avrete, ma non tanto lepide come le altre; varietas delectat, diceva un tempo la buona memoria del mio maestro di sesta. I burlevoli casi di quel tale li riserberemo per tempi migliori. Imperocchè sebbene io faccia tutti i miei sforzi per non impacciarmi in cose di quaggiù; e parlare di quello che i sapienti con aria dottrinale chiamano politica, tuttavia così di passaggio, senza volerlo, senza pure pensarlo, venni a sapere cose che mi fecero drizzare a dirittura sulla testa quei pochi e bianchi capelli che mi restano ancora. Misericordia! Che figura avreste veduto fare dal vostro Galantuomo, voi, miei cortesi lettori. Ed io non vorrei in mezzo a tante lagrime destare il riso con discapito della mia onoratezza verso di voi e verso di altri che spero vorranno per l'avvenire togliermi in mano e scorrermi con qualche soddisfazione da capo a fondo. Io ho una buona speranza che un altr'anno... ma ehi! non faccio già profezie, sapete! quelle poche che ho voluto, in qualche occasione, avventurarmi a fare, mi costarono care e salate, e mi tolsero la voglia di farne delle altre.. Si credevano proprio quei tali che io fossi qualche pezzo grosso. Poveretti! come cambierebbero sentimento se mi avessero a vedere! [273]
Io dunque ho una buona speranza che un altr'anno, avendo tempi più belli, avrò campo di contarvene anche delle più belle. Vi piace questo patto? Siamo dunque intesi. Ma, e se il povero Galantuomo non ci fosse più? Già è questo un dubbio che nacque anche in me, ma lo chiamava come importuno. Però siccome:
Considerando: 1° Ch'io sono già molto vecchio;
Considerando: 2° Che anche senza avere tanti anni si può morire;
Considerando: 3° Che l'anno è di 365 lunghi giorni e che in questo frattempo possono avvenire di molte cose, e molti possono passare a vita migliore;
Domando che il povero Galantuomo, anche posto che morisse, restasse nella memoria de' suoi umanissimi lettori. Io però credo ancora di scapolarmela per questa volta e di vivere ancora molti anni e così spero di tutti voi. Chi volesse poi altrimenti, resti pure servito.
Ho pensato quest'anno di regalarvi a meditazione di ogni mese un precetto del decalogo. Già è così strapazzato in generale, che non è fuor di proposito il ricordarlo sovente per non doverlo poi ricordare in un momento troppo critico senza vantaggio.
Vi prego, o miei cari lettori, di farmi vedere a molti, farmi leggere, farmi discorrere con molti e molto; massime con quei tali che usano poco alla chiesa e di comandamenti non sanno che farne, con quei tali che voi meglio di me conoscete, e che gridandosi liberi, liberi, sono poi miseri schiavi delle loro passioni. Con costoro io vorrei trattenermi un poco colla speranza di lasciare nella loro mente qualche religioso pensiero.
Inoltre, ancora qualche coserella che non vi dispiacerà sicuramente. E voi, miei amici, conservatevi sani ed allegri, non vogliate prendervela contro il povero Galantuomo, se alcuna volta vi riesce un po' noioso. Che volete, sono vecchio e brontolone, vedo che il mondo va male, vorrei trattenerlo e mi accorgo che mi mancano le forze. Eh sì, ci vuol altro che un povero vecchio per trattenere tutta questa povera macchina. Ho però una buona dose di buona volontà, se bastasse!
State bene, e sempre allegri nel Signore, o miei cari lettori, ed a bel rivederci.
SUL principio del 1866 D. Bosco aveva dodici sacerdoti. Il numero totale dei confratelli della Pia Società era di circa 90. Diciannove avevano emesso i voti perpetui, ventinove i triennali. Gli altri erano semplicemente ascritti.
Lieto di questa bella corona di affezionati collaboratori, il dolce amico delle anime dei giovani aveva loro promesso che il primo giorno dell'anno avrebbe raccontato un sogno e con questo donata la solita strenna. Egli aveva contemplato, come in visione, così allora ci sembrò; l'avvenire della Pia Società, quello fors'anche di altre Congregazioni religiose, e ciò che riguardava i suoi alunni, presenti e futuri. Ma quanto voleva esporre ai giovani era principalmente il loro stato al cospetto di Dio, poichè tutte le sue parole, come abbiamo visto le cento volte, avevano per iscopo di combattere il peccato [275] con una franchezza scevra di rispetti umani. Obbediva al precetto dato dallo Spirito Santo nell'Ecclesiastico (Capo IV, v. 27, 28): Ne verearis proximum in casu suo; ne retineas verbum in tempore salutis. Cioè: come spiega Mons. Martini: “Non dissimulare, per cattivo rossore, i falli del tuo prossimo; nol risparmiare, non tacere quando colla tua correzione tu puoi salvarlo: fa' uso allora della sapienza che Dio ti ha dato e non la tener nascosta quand'ella dee farsi onore, dando gloria a Dio col procurare la emendazione e conversione del fratello che peccò.”
D. Bosco adunque, innanzi alla moltitudine de' suoi giovani, così parlò il lunedì a sera, primo giorno del 1866.
Parvemi di trovarmi poco distante da un paese che all'aspetto pareami Castelnuovo d'Asti, ma non lo era. I giovani tutti dell'Oratorio allegramente si ricreavano in un'immensa prateria; quand'ecco all'improvviso si vedono le acque comparire sui margini di quella pianura, e ci vedemmo da ogni parte circondati da una inondazione, la quale cresceva a misura che si avanzava verso noi. Il Po era straripato e immensi e desolanti torrenti traboccano dalle sue sponde.
Noi, soprafatti da terrore, la demmo a gambe alla volta di un grande molino isolato, distante da altre abitazioni colle mura grosse come quelle di una fortezza; ed io feci sosta nel suo cortile in mezzo ai miei cari giovani costernati. Ma le acque incominciando a penetrare anche in quell'area, fummo costretti a ritirarci tutti in casa e poi a salire nelle stanze superiori. Dalle finestre si vedeva l'estensione del disastro. Dai colli di Superga alle Alpi, invece di prati, campi coltivati, orti, boschi, cascine, villaggi, città, non scorgeasi più altro che la superficie di un lago immenso. A misura che l'acqua cresceva, noi montavamo da un piano all'altro. Perduta ogni umana speranza di salvarci, presi ad incoraggiare i miei cari, dicendo che si mettessero tutti con piena fiducia nelle mani di Dio e nelle braccia della nostra cara madre Maria.
Ma l'acqua già era quasi al livello dell'ultimo piano. Allora lo spavento fu universale ed altro scampo non vedemmo che ritirarci in una grandissima zattera, in forma di nave, apparsa in quell'istante, che galleggiava vicino a noi. Ognuno respirando affannosamente voleva essere il primo a rifugiarvisi, ma nessuno osava, perchè non poteasi avvicinare il barcone alla casa a cagione di un muro che emergeva un po' più alto dei livello delle acque. Poteva però prestare un sol mezzo [276] al tragitto un lungo e stretto tronco di albero: ma era tanto più difficile il passaggio in quanto che quel tronco poggiando per l'una estremità sulla barca, moveasi seguendo il beccheggio della barca stessa, agitata dalle onde.
Fattomi coraggio vi passai per il primo e, per facilitare il trasbordo ai giovani e tranquillarli, stabilii chierici e preti che dal molino sorreggessero alquanto chi partiva, e dal barcone dessero mano a chi arrivava. Ma caso singolare! Dopo un po' di quel lavoro, i chierici e i preti si trovavano così stanchi che chi qua, chi là cadevano di sfinimento; e quelli che li surrogavano correvano la medesima sorte. Meravigliato anche io volli pormi alla prova ed io pure mi sentii così spossato da non potermi più reggere.
Intanto molti giovani impazienti, sia per timore della morte, sia per mostrarsi coraggiosi, trovato un pezzo di asse lungo abbastanza e un po' più largo del tronco d'albero, ne fecero un secondo ponte e, senza aspettare l'aiuto dei chierici e dei preti, precipitosi stavano per slanciarvisi non dando ascolto alle mie grida.
- Cessate, cessate, se no cadrete! - io gridava; ed avvenne che molti, o urtati, o perdendo l'equilibrio, prima di arrivare alla barca, caddero e ingoiati da quelle torbide e putride acque più non si videro. Anche il fragile ponte si era sprofondato con quanti gli stavano sopra. E sì grande fu il numero di que' disgraziati che un quarto de' nostri giovani restò vittima del loro capriccio.
Io che fino allora aveva tenuto ferma l'estremità del tronco d'albero mentre i giovani vi montavano sopra, accortomi che l'inondazione aveva superato l'ostacolo di quella muraglia, trovai modo di spingere la zattera presso il molino. Qui stava D. Cagliero il quale, con un piede sulla finestra e coll'altro sull'orlo della barca, vi fece saltare i giovani rimasti in quelle camere, dando loro la mano e mettendoli in sicuro sulla zattera.
Ma non tutti i giovani erano ancora salvati. Un certo numero erano ascesi nelle soffitte e di qui sul tetto, ove si erano aggruppati sul colmo stretti gli uni agli altri, mentre l'inondazione, crescendo sempre senza fermarsi un istante, copriva già le grondaie ed una parte delle sponde del tetto. Ma coll'acqua era pur salita la barca ed io vedendo quei poveretti in così orribile frangente, gridai loro che pregassero di cuore, che stessero zitti, che scendessero uniti, legati insieme colle braccia per non scivolare. Obbedirono, e siccome il fianco della nave era aderente alla grondaia, aiutati dai compagni vennero essi pure a bordo. Qui vedevasi una grande quantità di pani, custoditi in molti canestri.
Quando furono tutti sulla barca, incerti ancora di uscire da quel pericolo, presi il comando di capitano e dissi ai giovani:
- Maria è la Stella del mare. Essa non abbandona chi in Lei confida: [277] mettiamoci tutti sotto il suo manto; Ella ci scamperà dai perigli e ci guiderà a porto tranquillo.
Quindi abbandonammo ai flutti la nave, che galleggiava ottimamente e si muoveva, allontanandosi da quel luogo. (Facta est quasi navis institoris, de longe portans panem suum). L'impeto delle onde agitate dal vento la spingeva con tale velocità, che noi abbracciati l'un l'altro facemmo un sol corpo per non cadere.
Percorso molto spazio in brevissimo tempo, tutt'a un tratto la barca si fermò e si mise a girare attorno a se stessa con straordinaria rapidità, sicchè pareva dovesse affondarsi. Ma un soffio violentissimo la spinse fuori del vortice. Prese quindi un corso più regolare e ripetendosi ogni tanto qualche mulinello e il soffio dei vento salvatore, andò a fermarsi vicino ad una ripa asciutta, bella e vasta che sembrava ergersi come una collina in mezzo a quel mare.
Molti giovani se ne invaghirono e dicendo che il Signore aveva posto l'uomo sulla terra e non sulle acque, senza domandarne il permesso, uscirono dalla barca giubilando, e, invitando ancor altri a seguirli, ascesero su quella ripa. Breve fu il loro contento, perchè gonfiandosi di nuovo le acque, per un subito infuriare della tempesta invasero le falde di quella bella ripa, e in breve gettando grida disperate quegli infelici si trovarono nell'acqua fino ai fianchi; e poi capovolti dalle onde scomparvero. Io esclamai:
- È proprio vero che chi fa di sua testa, paga di borsa.
La nave intanto in balia di quel turbine minacciava di nuovo di andare a fondo. Vidi allora i miei giovani pallidi in volto e ansanti e: - Fatevi coraggio, gridai loro; Maria non ci abbandonerà. - E unanimi e di cuore recitammo gli atti di fede, di speranza, di carità e di contrizione, alcuni Pater ed Ave e la Salve Regina; quindi, ginocchioni, tenendoci per mano gli uni cogli altri recitavamo ciascuno particolari preghiere. Però parecchi insensati, indifferenti a quel pericolo, quasi nulla fosse avvenuto, alzatisi in piedi e dimenandosi, si aggiravano or qua or là, sghignazzando fra di loro e burlandosi quasi degli atteggiamenti supplichevoli dei loro compagni. Ed ecco che si arresta all'improvviso la nave, e gira con rapidità su se stessa, e un vento furioso sbatte nelle onde quei sciagurati. Erano trenta, ed essendo l'acqua profonda e melmosa appena vi furono dentro, più nulla si vide di loro. Noi intonammo la Salve Regina e più che mai invocammo di cuore la protezione della Stella del mare.
Sopravvenne la calma. Ma la nave, a guisa di un pesce, continuava ad avanzare senza che sapessimo ove ci avrebbe condotti. A bordo ferveva continuamente e in varie guise un'opera di salvazione. Si faceva di tutto per impedire ai giovani di cadere nelle acque e per salvarne i caduti. Poichè vi erano di quelli che sporgendosi incautamente dalle basse sponde della zattera cadevano nel lago; e ve ne [278] erano altri sfacciati e crudeli che, chiamando alcuni compagni vicino alle sponde, con un urtone li gettavano giù. Perciò varii preti preparavano canne robuste, grosse lenze, ed ami di varie specie. Altri attaccavano gli ami alle canne e li distribuivano a questi e a quelli: altri già si trovavano al loro posto colle canne alzate, collo sguardo fisso sulle onde, e attenti al grido di soccorso. Appena cadeva un giovane le canne si abbassavano e il naufrago si afferrava alla lenza, oppure coll'amo restava uncinato nella cintura o nelle vesti e così veniva tratto in salvo. Ma anche fra i deputati alla pesca alcuni disturbavano e impedivano i pescatori e coloro che preparavano e distribuivano gli ami. I chierici poi vigilavano tutt'intorno per tenere indietro i giovanetti che erano ancora una moltitudine.
Io stava ai piedi di un alto pennone piantato nel centro, circondato da moltissimi giovani e da preti e chierici che eseguivano gli ordini miei. Fintantochè furono docili ed obbedienti alle mie parole, tutto andava bene: eravamo tranquilli, contenti, sicuri. Ma non pochi incominciarono a trovar incommoda quella zattera, a temere il viaggio troppo lungo, a lamentarsi de' disagi e pericoli di quella traversata, a disputare sul luogo ove avremmo approdato, a pensare al modo di trovare altro rifugio, ad illudersi colla speranza che poco lungi vi fosse terra nella quale troverebbero sicuro ricovero, a dubitare che presto sarebbero mancate le vettovaglie, a questionare fra di loro, a rifiutarmi obbedienza. Invano io cercava di persuaderli colle ragioni.
Ed ecco in vista altre zattere le quali avvicinandosi sembrava tenessero un corso diverso dal nostro, e quegli imprudenti deliberarono di secondare i loro capricci, di allontanarsi da me e di fare a loro modo. Gettarono nelle acque alcune tavole che erano nella nostra zattera e scopertene altre abbastanza larghe che galleggiavano non molto discosto, vi saltarono sopra e si allontanarono alla volta delle zattere apparse. Fu una scena indescrivibile e dolorosa per me: vedeva quegli infelici che andavano incontro alla rovina. Soffiava il vento, i flutti erano agitati: ed ecco alcuni si sprofondarono sotto di questi che si sollevavano e abbassavano furiosamente: altri furono involti tra le spire dei vortici e trascinati negli abissi: altri urtarono in ostacoli a fior d'acqua e capovolti sparirono: parecchi riuscirono a salir sulle zattere le quali però non tardarono a sommergersi. La notte si fece oscura e buia: e in lontananza udivansi le grida strazianti di coloro che perivano. Naufragarono tutti. In mare mundi submergentur omnes illi quos non suscipit navis ista, cioè la nave di Maria SS.ma.
Il numero dei miei cari figliuoli era diminuito di molto; ciò non ostante continuando a confidare nella Madonna, dopo un intiera notte tenebrosa la nave entrò finalmente come in una specie di stretto angustissimo, tra due sponde limacciose, coperte da cespugli, e grosse scheggie, ciottoli, pali, fascine, assi spezzate, antenne, remi. Tutto [279] intorno alla barca si vedevano tarantole rospi, serpenti, dragoni, coccodrilli, squali, vipere e mille altri animali schifosi. Sopra salici piangenti, i cui rami pendevano sopra la nostra barca, stavano gattoni di forma singolare che sbranavano pezzi di membra umane; e molti scimmioni che penzolando dai rami si sforzavano di toccare e arroncigliare i giovani; ma questi curvandosi impauriti schivavano quelle insidie.
Fu colà, in quel greto, che rivedemmo con grande sorpresa ed orrore i poveri compagni perduti, o che avevano disertato da noi. Dopo il naufragio, erano stati gettati dalle onde su quella spiaggia. Le membra di alcuni erano state fatte a pezzi per l'urto violentissimo contro gli scogli. Altri era sotterrato nel palude e non se ne vedevano che i capelli e la metà di un braccio. Qui sporgeva dal fango un dorso, più in là una testa: altrove galleggiava interamente visibile qualche cadavere.
A un tratto si ode la voce di un giovane della barca, il quale grida:
- Qui è un mostro che divora le carni del tale dei tali!
E chiama ripetutamente per nome quel disgraziato, additandolo ai compagni esterefatti.
Ma ben altro spettacolo presentavasi ai nostri occhi. A poca distanza innalzavasi una gigantesca fornace nella quale divampava un fuoco grande e ardentissimo. In questo apparivano forme umane e si vedevano piedi, gambe, braccia, mani, teste, ora salire ora discendere tra quelle fiamme, confusamente, nella stessa maniera delle civaie nella pentola quando questa bolle. Osservando attentamente, vi scorgemmo tanti nostri allievi e rimanemmo spaventati. Sopra quel fuoco eravi come un gran coperchio, sul quale stavano scritte a grossi caratteri queste parole - -IL SESTO E IL SETTIMO CONDUCONO QUI.
Là vicino v'era pure una vasta e alta prominenza di terra con numerosi alberi silvestri disordinatamente disposti ove si muoveva ancora una moltitudine dei nostri giovani, o caduti nelle onde o allontanatisi nel corso del viaggio. Io scesi a terra, non badando al pericolo, mi avvicinai e vidi che avevano gli occhi, le orecchie, i capelli o persino il cuore pieno d'insetti e vermi schifosi che li rosicchiavano, e cagionavano loro grandissimo dolore. Uno di questi soffriva più degli altri; voleva accostarmi a lui, ma egli mi fuggiva nascondendosi dietro gli alberi. Altri ne vidi che aprendo pel dolore gli abiti, mostravano la persona cinta di serpenti: altri avevano in seno delle vipere.
Additai a tutti una fonte che gettava in gran copia acqua fresca e ferruginosa; chiunque andava a lavarsi in quella guariva all'istante e poteva ritornare alla barca. La maggior parte di quegli infelici ubbidì al mio invito; ma alcuni si rifiutarono. Allora io troncando gli indugi, mi rivolsi a quelli che erano risanati, i quali alle mie istanze [280] mi seguirono con sicurezza, essendosi ritirati i mostri. Appena fummo sulla zattera, questa, spinta dal vento, uscì da quello stretto dalla parte opposta a quella per la quale era entrata e si slanciò di nuovo in un oceano senza confini.
Noi, compiangendo la triste sorte e il fine lagrimevole dei nostri compagni abbandonati in quel luogo, ci mettemmo a cantare: Lodate Maria, o lingue fedeli, in ringraziamento alla gran Madre celeste, di averci sino allora protetti; e sull'istante, quasi al comando di Maria, cessò l'infuriare del vento e la nave prese a scorrere rapida sulle placide onde con una facilità che non si può descrivere. Sembrava che si avanzasse al solo impulso che le davano scherzando i giovani spingendo indietro l'acqua colla palma della mano.
Ed ecco comparire in cielo un'iride, più meravigliosa e varia di un'aurora boreale, ove passando leggemmo scritta a grossi caratteri di luce la parola MEDOUM, senza intenderne il significato. A me parve però che ogni lettera fosse l'iniziale di queste parole: Mater Et Domina Omnis Universi Maria.
Dopo un lungo tratto di viaggio, ecco spuntar terra in fondo all'orizzonte, alla quale a poco a poco avvicinandoci sentivamo destarcisi in cuore una gioia inesprimibile. Quella terra, amenissima per boschetti con ogni specie di alberi presentava il panorama più incantevole, perchè illuminata come dalla luce del sole nascente alle spalle delle sue colline. Era una luce che brillava ineffabilmente quieta, simile a quella di una splendida sera d'estate, che infondeva un senso di riposo e di pace.
E finalmente urtando contro le sabbie del lido e strisciando su di esse la zattera si fermò all'asciutto ai piedi di una bellissima vigna. Si può ben dire di questa zattera: Eam tu Deus pontem fecisti, quo a mundi fluctibus trajicientes ad tranquillum portum tuum deveniamus.
I giovani erano desiderosi di entrare in quella vigna ed alcuni curiosi più degli altri con un salto furono sul lido. Ma fatti appena alcuni passi ricordandosi della sorte disgraziata toccata a quei primi che s'invaghirono della ripa posta in mezzo al mare burrascoso, frettolosi ritornarono alla barca.
Gli occhi di tutti erano a me rivolti e sulla fronte di ognuno leggevasi la domanda:
- D. Bosco, è tempo di discendere e fermarci?
Io prima riflettei alquanto e poi dissi loro: - Discendiamo: è giunto il tempo: ora siamo in sicuro!
Fu un grido generale di gioia! ed ognuno stropicciandosi le mani per la contentezza, entrò in quella vigna disposta col massimo ordine. Dalle viti pendevano grappoli di uva simili a quelli della terra promessa e sugli alberi era ogni sorta di frutti che possono desiderarsi nella bella stagione, di un gusto mai più sentito. In mezzo a quella [281] vastissima vigna sorgeva un gran castello attorniato da un delizioso e regale giardino e da forti mura.
Volgemmo il passo a quella volta per visitarlo, e ci fu concessa libera entrata. Eravamo stanchi ed affamati ed in un'ampia sala tutta guernita d'oro stava apparecchiata per noi una gran tavola con ogni sorta di cibi i più squisiti, di cui ognuno potè servirsi a piacimento. Mentre finivamo di rifocillarci entrò nella sala un nobile garzone, riccamente vestito, di un'avvenenza indescrivibile, il quale con affettuosa e familiare cortesia ci salutò chiamandoci tutti per nome. Vedendoci stupiti e meravigliati per la sua bellezza e per quella di tante cose già osservate, ci disse: - Questo è niente; venite e vedrete.
Noi tutti gli tenemmo dietro e dai parapetti delle logge ci fece contemplare i giardini, dicendoci che di quelli eravamo padroni noi per le nostre ricreazioni. E ci condusse di sala in sala, una più magnifica dell'altra per architettura, colonnati e ornamenti di ogni specie. Aperta poscia una porta che metteva in una cappella, ci invitò ad entrare. Di fuori la cappella sembrava piccola, ma appena ne valicammo la soglia, la scorgemmo sì ampia che da un'estremità all'altra appena ci potevamo vedere. Il pavimento, le mura, le volte erano guernite e ricche con mirabile artificio di marmi, di argento, di oro, e di pietre preziose, che io estatico di meraviglia esclamai: -Ma questa è una bellezza di paradiso: faccio patto di rimaner qui per sempre!
In mezzo a questo gran tempio s'innalzava sovra ricca base una grande, magnifica statua rappresentante Maria Ausiliatrice. Chiamati molti giovani che si erano sparsi qua e là per esaminare la bellezza di quel sacro edificio, tutta la moltitudine si recò innanzi a quella statua per ringraziare la Vergine Celeste dei tanti favori prestatici. Qui mi accorsi dell'immensità di quella chiesa, poichè tutte quelle migliaia di giovani sembravano un piccolo gruppo che occupasse il centro di quella.
Mentre i giovani stavano mirando quella statua che aveva una vaghezza di fisonomia veramente celeste, ad un tratto essa parve animarsi e sorridere. Ed ecco un mormorio, una commozione tra la folla. - La Madonna muove gli occhi! -esclamarono alcuni. E infatti Maria SS. girava con ineffabile bontà i suoi occhi materni su quei giovanetti. Poco dopo un secondo grido generale: - La Madonna muove le mani. - E infatti lentamente aprendo le braccia essa sollevava il manto come per accoglierci tutti sotto di quello. Le lagrime scorreano per forza di commozione sulle nostre guance. - La Madonna muove le labbra! - dissero alcuni. Si fe' un silenzio profondo; e la Madonna aperse la bocca e con una voce argentina, soavissima ci diceva:
- SE VOI SARETE PER ME FIGLIUOLI DEVOTI, IO SARÒ PER VOI MADRE PIETOSA!
A queste parole cademmo tutti in ginocchio ed intonammo il canto: Lodate Maria, o lingue fedeli. [282] Questa armonia era così forte, così soave, che sopraffatto da essa io mi svegliai e così terminò la visione.
Vedete, miei cari figliuoli? In questo sogno possiamo riconoscere il mare burrascoso di questo mondo. Se voi sarete docili ed obbedienti alle mie parole e non darete retta ai cattivi consiglieri, dopo esserci affaticati a fare il bene e fuggire il male, vinte tutte le nostre cattive tendenze, arriveremo finalmente sul termine di nostra vita, ad una spiaggia sicura. Allora ci verrà incontro, mandato dalla Madonna SS. chi, a nome del nostro buon Dio, c'introdurrà, per ristorarci delle nostre fatiche, nel suo reale giardino, cioè nel Paradiso, alla amabilissima sua divina presenza. Ma se facendo il contrario di ciò che io vi predico, vorrete scapricciarvi a vostro modo e non dar retta ai miei consigli, farete miserando naufragio.
Don Bosco dava in circostanze diverse e in privato qualche spiegazione specificata di questo sogno, riguardante non solo l'Oratorio, ma eziandio, come sembra, la Pia Società.
“Il prato è il mondo; l'acqua che minacciava di affogarci, i pericoli del mondo. L'inondazione così terribilmente estesa, i vizii e le massime irreligiose, e le persecuzioni contro i buoni. - Il molino, cioè un posto isolato e tranquillo, ma pur minacciato, la casa del pane, la Chiesa Cattolica. - I canestri di pane, la SS. Eucaristia che serve di viatico ai naviganti. La zattera, l'Oratorio. - Il tronco d'albero che forma il passaggio dal molino alla barca è la Croce, ossia il sacrificio di se stesso a Dio colla mortificazione cristiana. - L'asse messo dai giovani, come ponte più agevole per entrare nella barca, è la regola trasgredita. Molti vi entrano con fini strani e bassi: di far carriera, di lucro, di onori, di comodità, di mutar condizione e stato; costoro sono quelli che poi non pregano e che si burlano della pietà altrui. - I Sacerdoti e i chierici simboleggiano l'obbedienza e indicano i portenti di salvezza che con questa riescono ad operare. - I vortici, le varie e tremende persecuzioni che sorsero e sorgeranno. - L'isola che è sommersa, i disobbedienti che non vogliono star sulla barca [283] e rientrano nel mondo sprezzando la vocazione. - Lo stesso si dica di quelli che cercano di rifugiarsi in altre zattere. Molti caduti nell'acqua porgevano la mano a coloro che stavano sulla barca ed aiutati dai compagni si rimettevano sopra. Erano quelli di buona volontà, che caduti disgraziatamente in peccato si rimettono in grazia di Dio per mezzo della penitenza. - Lo stretto, i gattoni, i scimioni e gli altri mostri sono le rivoluzioni, le occasioni e gli allettamenti alla colpa, ecc. - Gli insetti negli occhi, sulla lingua, nel cuore, gli sguardi cattivi, i discorsi osceni, gli affetti disordinati. - La fontana di acqua ferruginosa, che aveva la virtù di far morire tutti gli insetti e di guarire all'istante, sono i Sacramenti della Confessione e della Comunione. - La fanghiglia e il fuoco sono luogo di peccati e di dannazione. È però da osservarsi che ciò non vuol dire che tutti quelli che caddero nella fanghiglia e più non si videro, e tutti quelli che bruciavano tra le fiamme debbano andar perduti nell'inferno; no! ci liberi Iddio dal dir questo. Ma vuol dire che quelli si trovavano allora in disgrazia di Dio, e se fossero morti in quel momento sarebbero andati eternamente perduti - L'isola felice, il tempio, è la Società Salesiana, stabilita e trionfante. E lo splendido garzone che accoglie i giovani e conduce a visitare il palazzo e il tempio sembra essere un alunno defunto in possesso del paradiso, forse Domenico Savio.
Da questa ultima frase apparisce che in questo, come in altri sogni di D. Bosco, vi è in generale un senso nascosto che si riferisce principalmente alla Pia Società Salesiana. Anzi dobbiamo notare che contemporaneamente ad ogni fase di un sogno, corrispondevano altre apparizioni diremmo parallele e integranti delle cose descritte. Di queste D. Bosco non credette opportuno parlare. Ciò argomentiamo eziandio dall'aver egli ricordato a D. Giulio Barberis nel 1879, come in questo sogno avesse visto D. Cagliero attraversare delle grandi acque ed aiutare altri a valicarle e che esso e i suoi compagni [284] avevano fatte dieci stazioni. Ei prevedeva i loro viaggi in America. Così pure nel 1885 disse aver inteso come questo sogno avesse relazione con quello fatto nel 1854, che cioè D. Cagliero sarebbe stato Vescovo.
Al mattino del 2 gennaio i giovani, desiderosi di saper lo stato della loro coscienza, corsero a confessarsi da lui in sagrestia. Ad uno, il quale dopo la confessione domandavagli come e dove lo avesse visto in quel sogno misterioso, rispose:
- Eri nella barca, e andavi avanti pescando e sei caduto più volte nell'acqua, ma io ti ho tirato fuori e rimesso nella barca.
- E giunto nel tempio si ricorda ancora d'avermi veduto?
- Sì, sì, gli rispose sorridente.
Ad un chierico vercellese che gli domandò in cortile il fatto suo: -Tu disturbavi gli altri e così impedivi la pesca.
Ad un sacerdote che lo richiedeva della parte che rappresentava in quella scena: - Ti ho visto segregato dagli altri, soletto, serio, in un angolo della nave, tutto occupato a preparare ami colle lenze, che gli altri poi venivano a prendere per pescare. - E aggiunse varie altre cose che venti anni dopo si avverarono in modo meraviglioso, e che qui non fa d'uopo esporre.
Gli alunni non dimenticarono questo sogno che loro aveva fatto tanta impressione e il giovane Agostino Semeria da Moltedo Superiore ce lo ricordava per lettera il 24 settembre 1883, confermando colla sua descrizione quanto noi abbiamo sopra esposto ed aggiungendo:
“Mi ricordo eziandio che in una delle sere seguenti, cosa insolita, D. Bosco, ci fece recitare sotto i portici una terza parte del Rosario per i bisogni di Santa Madre Chiesa. Terminata la preghiera, mentre egli inoltravasi in mezzo a noi, accolto con grande festa ed evviva, ci permetteva che lo sollevassimo di peso e lo deponessimo sulla cattedra. Ciò accadeva spesse volte. Lasciati cessare gli applausi, accennò alla [285] gioia che proveranno i giusti nell'approdare alle spiagge dell'eterna felicità, alla pace che gode un cristiano vivendo sempre in grazia di Dio e augurandoci la buona notte ci diceva: - Quando vi spoglierete per mettervi a letto, fatelo con tutta modestia, pensando che Dio vi vede: poscia coricatevi; incrociate le mani sul petto e abbandonandovi nel cuore di Gesù e di Maria prendete riposo.
I GRAVI pensieri che D. Bosco sapeva istillare in modo meraviglioso nell'anima dei giovanetti, erano sempre alternati con ricreazioni, musiche, ed onesti trattenimenti. Narrato il sogno, abbiamo subito un suo invito ai principali benefattori dell'Oratorio e anche ad altri signori dei quali importava molto al Servo di Dio guadagnarsi la benevolenza.
Domenica sera (7) alle ore 6 ½ i giovani di questa casa dànno un piccolo trattenimento teatrale.
Sarebbe loro ed a me di sommo gradimento se V. S. B. colle persone che giudicasse aver seco ci onorasse di sua presenza. [287]
Nel fare questo rispettoso invito, le auguro ogni bene dal cielo e mi professo con gratitudine,
Terminate così le feste natalizie, D. Bosco si recò a far visita al Collegio di Lanzo, ov'erano entrati molti giovani nuovi che non erano ancora da lui conosciuti. Disceso il Servo di Dio in refettorio, a metà della cena si fece serio e voltosi al Direttore gli disse sottovoce:
- In questo momento, vicino alla pompa, all'entrata del secondo cortile, vi sono due giovanetti che bisogna sorvegliare. Manda subito qualcuno il quale li riconduca in ricreazione cogli altri compagni!
Il Direttore die’ quell'incarico a un assistente, che ritornò dicendogli: -Al pozzo non vi era alcuno, ma ne vidi due, e li nominò, che in quell'istante si allontanavano. Li interrogai donde venissero e mi risposero: - Dalla pompa.
Dopo le orazioni il Direttore chiamò a se i due giovani:
- Che discorsi avete fatto stassera fra voi due?
- Nessun discorso - risposero tremando.
- Ebbene, venite con me; D. Bosco vi aspetta; ha qualche cosa da dirvi. - E glieli presentava.
D. Bosco li fissò un istante, poi disse loro una parola nell'orecchio, che li fece arrossire. Erano alunni novelli venuti da poco tempo dalle loro case, i quali, riconoscendosi colpevoli, gli promettevano di farsi migliori. Il domani a sera, dopo aver confessato quasi tutto il giorno, raccontava il sogno della zattera galleggiante.
Intanto da coloro che si prestavano a distribuire i biglietti di lotteria, giungevano notizie ed inviti che domandavano il suo consiglio e la sua presenza.
Da Venezia gli scriveva D. Giuseppe Apollonio: [288]
Accompagnate al nome SS. di Gesù, colla cui festa la Chiesa incomincia il nuovo anno, le mando le mie felicitazioni, i miei augurii. Oh il Signore la benedica, D. Bosco, ed accetti i frutti delle sue apostoliche fatiche in riparazione dei tanti e tanti mali che si commettono in questa nostra povera Italia! Desidero che il Signore le conceda tutte quelle grazie che gli domando per me stesso, desidero che la faccia santo, come si degnò per suo mezzo di far santi que' cari giovanetti di cui si è compiaciuta Vostra Reverenza di mandarmi la biografia. Al qual proposito io la ringrazio con vivo sentimento di gratitudine anche a nome di Mons. Giorda dei carissimi libri che ci fece tenere per mezzo del Console Pontificio Battaggia. Scusi se non le ho scritto prima, ma avendo inteso tempo fa dalla Principessa Elena Vidoni, o da sua figlia, che V. Reverenza era aspettata a Cremona dalle Maddalene, voleva fare un viaggio e due servigi mandandole il danaro de' biglietti ed insieme i nostri ringraziamenti.
Sono dolentissimo di non aver potuto smaltire un maggior numero di que' listini. Io credo che ci siano poche città come questa, in cui i buoni siano battuti da tante parti per elemosine. Quindi tanto più facilmente si rifiutano, quando si tratta di opere di beneficenza fuori di Stato. Lei avrà già ricevuto tutto dalla famiglia Vidoni.
Ho ricevuto una carissima lettera delle Maddalene, a cui ho risposto sottoponendo ai loro occhi alcune delle moltissime osservazioni che sono necessarie a farsi riguardo a quell'argomento. La cosa è nelle mani di Gesù, il quale come ha saputo in un anno beneficare l'opera con 39 mila lire austriache, così può appianare tutte le moltissime altre difficoltà che si attraversano all'attuazione di quel progetto......
Io indegnissimamente prego sempre, sempre, sempre e nella Santa Messa e fuori per V. Reverenza e per le sante opere da Lei dirette; domando un ricambio, cioè che si ricordi di dire qualche volta per me a Gesù, che voglio assolutamente essere tutto suo; che mi dia la grazia di amarlo assai, assai. Se ho questo, non m'importa del resto: - ho tutto!
Colla massima riverenza e stima mi riprotesto
La prego di partecipare le mie felicitazioni ed i miei rispettosi ossequi a cotesta sua santa famiglia. [289] Quest'ultimo periodo ci dice come Don Apollonio conoscesse i Salesiani e i giovani dell'Oratorio. Infatti nell'anno precedente egli era stato qualche mese in mezzo a loro, ospitato cordialmente da D. Bosco, il quale, benchè indirettamente, avealo aiutato in un'opera che doveva riuscire a gloria di Maria SS.
L'Abate Domenico Sire, membro della Compagnia di S. Sulpizio, professore e direttore del Seminario di Parigi, aveva ideata la traduzione in tutte le lingue e in tutti dialetti parlati dai cattolici dell'universo, della Bolla Ineffabilis, colla quale Pio IX aveva proclamato dogma di fede l'Immacolata Concezione di Maria SS. La traduzione doveva esser fatta dai fedeli medesimi, che parlavano la favella nella quale doveasi tradurre la Bolla, eseguita dai migliori letterati capaci di volgarizzarla dal latino con fedeltà ed eleganza, copiata a mano da più periti calligrafi in 10.000 e più fogli finissimi di carta o pergamena tutti della medesima misura di 28 centimetri nell'altezza per 22 di larghezza, fregiati dai più valenti miniatori. All'invito dell'Abate Sire tutto il mondo cattolico applaudì e l'opera fu incominciata. Dopo sette anni se non era al tutto finita, era però stata condotta a tal termine da poter essere offerta in omaggio al Papa per l'anniversario secolare del martirio dei santi apostoli Pietro e Paolo, rilegata in trenta volumi, gioielli d'arte anche per la legatura. Aiutavano lo zelante e indefesso Sulpiziano, a superare le immense difficoltà che presentava l'impresa, moltissimi personaggi di ogni condizione, e fra questi anche D. Apollonio per qualche dialetto dell'alta Italia, a cui anche D. Bosco rese più facile il compito, sia cooperando a quel lavoro, sia mettendolo in relazione coi più distinti letterati del Piemonte.
Ripigliando il racconto, noteremo che, oltre D. Apollonio, la signora Amalia Fulcini Giacobazzi, il 13 gennaio 1866 da Venezia, Canal S. Gregorio N. 234, faceva sapere a D. Bosco [290] come non avessero i biglietti di Lotteria quello spaccio che si desiderava:
“Son proprio desolata di sentire dalle lettere che mi arrivano dalle persone alle quali ho affidata la cura di distribuire i biglietti della Lotteria a Parma, Piacenza, Modena e Bologna che non riescono ad esitarne che pochissimi, anzi l'agente di mio padre a Parma ha già riunito tutto il denaro raccolto dalle diverse parti e i biglietti avanzati. Prima di prendere la dispiacente deliberazione di rimandarle i biglietti avanzati, vorrei sentire, M. R. Don Bosco, s'ella ne ha già spediti molti a Vienna, perchè nel caso che non ne avesse inviati in quella città, oppure che pochi, e se il tempo non è troppo ristretto, io potrei cercare di mandarne ad alcune mie conoscenze, per vedere se potessi essere più fortunata che in quelle città dove sperava poter fare un po' meglio. Approfitto di quest'incontro per augurarle, rev. D. Bosco, un buon anno con mille benedizioni celesti …”.
Da Cremona poi, anche per altri motivi, gli scriveva la Principessa Elena De Soresina Vidoni, il 25 gennaio 1866. Dopo avergli raccomandato una propria figlia la contessa Carolina Mocenigo, inferma, gli faceva sapere: “Le buone monache Sacramentine di Monza la supplicano di andar da loro a benedire la loro cara madre Superiora, la madre Serafina. Non può credere quanto la desiderano... E anche noi teniamo la promessa di una sua visita a Cremona, ed il carnevale è già inoltrato. Quando è che possiamo sperarla? Intanto ci mandi la sua benedizione e faccia la carità di pregare per noi tutti.”
Non parlava de' biglietti a Lei raccomandati. Lo spaccio di questi finora poco fortunato era da attribuirsi alle condizioni sfavorevoli dei tempi.
L'anno 1866 era incominciato con tristi pronostici. I dissidii tra l'Austria e la Prussia, dai quali D. Bosco nel febbraio del 1862 temeva il trionfo della rivoluzione con danno di Roma papale, avevano ormai reso inevitabile il conflitto, al [291] quale dovea prendere parte anche l'Italia. Nel dicembre del 1863 egli aveva annunziata la guerra, la fame e la peste e quest'ultima abbiamo visto come incominciasse a far strage in Italia nel 1865; ed ora la guerra era alle porte.
Ma un'altra sventura stava per sopraggiungere. Il 13 febbraio 1865 il Servo di Dio aveva predetto che la legge della soppressione generale dei conventi non sarebbe passata alle Camere, purchè si pregasse molto. E così, come abbiamo accennato, avvenne, avendola il Ministro ritirata per certe modificazioni volute dai deputati. Ma pur troppo forse le preghiere non erano state sufficienti o fervorose; e fors'anche la giustizia di Dio aveva i suoi fini nel permettere quella soppressione.
Il 22 gennaio, alla riapertura del Parlamento, il Ministero per bocca del Re, nel discorso della Corona, ripresentava il progetto di legge, ritirato il 28 aprile 1865. Qualcuno doveva ricordare come in simile circostanza nel 1855 si era udito ripetere: Grandi funerali in Corte, ed ora nella notte del 21 al 22 gennaio cessava di vivere in Genova, amatissimo dai cittadini, nell'età di venti anni S. A. R. il Principe Oddone, Duca di Monferrato, terzogenito fra i figli maschi di Vittorio Emanuele II. Era soprannominato la gemma di Casa Savoia! In vero, quanto a pietà e carità cristiana, si era vista in lui rivivere la madre, la Regina Maria Adelaide di santa memoria. Solennissimi funerali ebbero luogo a Genova, a Torino, a Soperga, ove fu sepolto il giovane Principe, accompagnato dal pianto dei poveri da lui sempre generosamente beneficati.
Nonostante questo lutto, il 31 gennaio la Camera dichiarava urgentissimo il disegno di legge presentato dal Re, e lo commetteva subito alla disanima degli Uffizi. Lo schema disteso in 105 articoli riduceva le diocesi di tutta l'Italia a sole 69: confiscava a servizio dello Stato tutti i beni ecclesiastici, tollerando uno scarsissimo clero e come salariato dal Governo; ed aboliva tutti, senza alcuna eccezione, gli Ordini Religiosi. [292] Per questo motivo D. Bosco aveva raccomandato ai giovani straordinarie preghiere; aveva fatto recitare sotto i portici il rosario, come si è detto nel capo precedente, ed ora proponeva ad essi i seguenti fioretti per la novena di San Francesco di Sales e della Purificazione di Maria SS.
NOVENA DI S. FRANCESCO DI SALES
E DELLA PURIFICAZIONE DI MARIA SS.
1° Dio nostro padrone. - Non il demonio, non gli uomini, non noi stessi.
2° Anima sola. - Se si perde, tutto è perduto.
3° Perduto per sempre! - Dove andrebbe chi morisse in questa notte?
4° Che si è fatto per l'anima? Che si vuoi fare? - Esame sul passato.
5°Gravezza del peccato mortale. - Perchè ci fa nemici di Dio, ci priva del Paradiso, ci condanna all'inferno.
6° Id. - Ci espone a molti mali anche temporali. Ex. gr. Cacciata di Adamo e di Eva; Lucifero; il diluvio, ecc.
7° Peccato di scandalo. - Esempio del Salvatore.
9° Rimorsi in punto di morte del peccatore.
10° Pace in punto di morte di chi ben vive. - Savio, Magone, Besucco.
11° Buona confessione con fermo proponimento.
12° Buona Comunione con promessa di frequentarla.
Oltre a ciò, quasi per eccitare la fiducia nell'aiuto dei santi nei giorni tristi che si andavano apparecchiando per la Chiesa, per le popolazioni del Piemonte specialmente, usciva il fascicolo delle Letture Cattoliche del mese di gennaio, scritto dal Can. Lorenzo Gastaldi, e intitolato: Memorie storiche del martirio e del culto dei SS. Martiri Solutore, Avventore ed Ottavio, Protettori della città di Torino, raccolte da un sacerdote torinese. Narrava le grazie singolari che i Torinesi avevano ricevute da questi santi martiri, sia per difesa della loro fede, sia per miracolose vittorie ottenute sopra formidabili eserciti nemici; e dimostrava il bisogno di pregare quei santi Patroni nei [293] tempi presenti. Il dotto scrittore confutava eziandio l'errore dei protestanti riguardo il culto dei Santi. La festa principale di questi tre martiri della Legione Tebea si celebra il 20 gennaio.
Col suo libro il Canonico veniva anche a dimostrare sopra qual sacro suolo si andava edificando la chiesa di Maria Ausiliatrice, cioè sopra le stesse zolle bagnate dal sangue di questi tre martiri sulle rive della Dora. Al capo XVI scriveva: - “Sarebbe a desiderarsi che nella nuova chiesa dedicata a Maria Ausiliatrice e che si sta innalzando in Torino nella regione Valdocco, una delle cappelle laterali fosse dedicata a questi tre martiri, in memoria del martirio che essi soffrirono in questi dintorni “; e per questa cappella si offriva egli stesso a far dipingere il quadro.
Via Giulio - Torino, 22 Febbraio 1866.
L'altro dì V. S. mi invitava coi suoi soliti modi santamente seducenti a concorrere per l'erezione d'uno degli altari laterali della sua nuova basilica. A tale invito rispondo, che io farò preparare a mie spese il dipinto a olio della grandezza che sarà giudicata necessaria per uno di tali altari, a patto che sia dedicato ai Santi Martiri Solutore, Avventore ed Ottavio, i quali in queste vicinanze versarono il sangue.
Avrei due giovani da mettere in casa di Lei, uno fabbro-ferraio e l'altro falegname; ma questo ultimo così inclinato alle cose di chiesa che ben potrebbe riuscire un ecclesiastico.
Preghi per me e credami sempre
L'accennato fascicolo veniva annunziato dall'Unità Cattolica il 1° febbraio:
Vediamo con piacere che queste Letture continuano a prosperare e a diffondersi fra di noi. Esse contano già 14 anni di vita sempre mai vegeta e rigogliosa. E non è molto che abbiamo letto una pastorale [294] di Mons. Gentile, Vescovo di Novara, indirizzata ad animare e il Clero ed il popolo, a lui affidati, a leggere e a far leggere questi cari librettini; ed in vista del vero bene che essi fanno fra il popolo a cui sono destinati noi vorremmo vederli sempre più moltiplicati fra di noi. Il primo fascicolo dell'anno corrente tratta dei santi Martiri Torinesi Solutore, Avventore ed Ottavio, scritto da non meno pia che dotta mano .....
Intanto la tipografia dell'Oratorio aveva stampato pel mese di febbraio: La perla nascosta di S. E. il Cardinale Wiseman, Arcivescovo di Westminster. - È una magnifica azione drammatica che descrive il ritorno in famiglia e la morte di S. Alessio. - Dal piano di associazione alle Letture Cattoliche, riprodotto in questo fascicolo, si vede come vi erano associati anche in Francia, in Svizzera, in Austria, in Germania.
Nelle ultime pagine di questo fascicolo D. Bosco faceva stampare l'accennata lettera pastorale di Mons. Jacopo Filippo de' Marchesi Gentile, Vescovo di Novara, in data del 15 di novembre 1865, nella quale il Prelato esponeva ai suoi diocesani il dolore del Santo Padre per l'imperversare continuo della stampa eretica ed immorale, li esortava ad impedirne la diffusione e sopratutto a non lasciarla penetrare nelle loro case e accennava loro come i buoni libri fossero invece sorgente di benedizione e dolce eredità per le famiglie che li accolgono; e soggiungeva:
Molti buoni libri e buoni periodici sono a voi noti, che secondo il vostro zelo potete diffondere nel modo e in quei luoghi dove maggiore ne scorgerete il bisogno. Qui noi ci limitiamo a dirvi una parola in favore dei libretti che si stampano in Torino, sotto il titolo di Letture Cattoliche.
Questa benemerita pubblicazione si sostiene da tredici anni con grande soddisfazione di tutti i buoni. Sono libri di piccola mole che in forma di dialoghi, racconti, novelle o di altri curiosi ed ameni episodii possono interessare ogni genere di persone, ma specialmente la gioventù che ai nostri tempi si mostra tanto avida di lettura. Lo stile, la dicitura, la scelta degli argomenti popolari li portano all'intelligenza di tutti. [295] Sono totalmente estranei alla politica, quindi possono essere ammessi in ogni famiglia.
Il prezzo poi è tanto tenue che ci sembra renderli di facile acquisto a chiunque li desideri. L'associazione importa quindici centesimi mensili.
Il Sommo Pontefice ha già più volte mandato la sua benedizione ai collaboratori di queste pubblicazioni e ne raccomandò la diffusione come cosa delle più utili e delle più eccellenti. Molti Vescovi le hanno già eziandio promosse nelle rispettive diocesi, e noi giudichiamo di compiere un nostro dovere col raccomandarvi altra volta che facciate quanto potete, perchè si sostengano e si conservino dove già esistono, e siano diffuse in quei luoghi dove non fossero ancora conosciute.
A maggiormente diffondere la buona stampa ogni fascicolo portava annunzi bibliografici di altri buoni libri, vendibili presso la tipografia dell'Oratorio di S. Francesco di Sales.
NELLA festa di San Francesco di Sales, celebratasi la domenica di sessagesima, 4 febbraio, i Direttori delle singole case si radunavano nell'anticamera di Don Bosco per la conferenza generale solita a tenersi in questa occasione. Erano presenti tutti i confratelli dell'Oratorio per udire la relazione di uso. Era assente D. Bosco per la morte del Conte De Maistre e in sua vece presiedeva Don Rua.
Primo ebbe la parola D. Pestarino il quale parlò del nuovo fabbricato per collegio che si innalza a Mornese. Disse la popolazione essere entusiasmata, il Vescovo aver dato licenza di lavorare alla domenica e in questo giorno i muratori continuare [297] le costruzioni gratuitamente, mentre più di 200 persone del paese si affaticano a portar materiali. Il desiderio comune di veder finita l'opera aver stretto con vincoli di unione Parroco e parrocchiani, autorità e amministrati, famiglie e famiglie. I giovani, invece di andare ai balli, unirsi a passar la sera in casa sua, e in chiesa divenire molto frequentata la S. Comunione. Il Signore aver dimostrato con speciali favori di gradire quell'impresa. La ruota di un carro passò sopra il piede di un giovane senza recargli alcun danno. Un fabbro ferraio caduto da un'armatura su di un mucchio di pietre non ne riportò alcuna lesione. La quarta parte del Collegio essere quasi compiuta.
D. Giovanni Bonetti Direttore del Collegio di Mirabello parlò pel secondo. Disse nel suo piccolo seminario, come in tutte le istituzioni di questo mondo, esservi del bene e del male. Primo male la sua testa rotta; primo bene quella santa volpe del prefetto D. Provera. Bene, la lettura spirituale fatta in comune che serve molto a ravvivar lo spirito. Male, alcuni confratelli che non osservano le regole coll'esattezza prescritta. Fra i giovani fu stabilita una società perchè vi fossero comunioni per turno, oltre le ordinarie, secondo i fini desiderati da D. Bosco.
Questa parlata destò malumore in qualcuno e specialmente nei chierici di Mirabello. Nelle pubbliche assemblee o lodare o tacere.
Dopo D. Bonetti parlò D. Lemoyne, Direttore del Collegio di Lanzo. Disse ciò che si era fatto per gli alunni interni, e delle cose da farsi per gli alunni esterni, specialmente per vedere di istituire l'Oratorio festivo. In quanto ai chierici ha il piacere di ripetere ciò che l'anno scorso disse in loro elogio il compianto D. Ruffino.
D. Rua coronò la conferenza parlando sull'unità che deve regnare in ciascuna casa. - Unità di direzione; tutto resti concentrato nel Direttore; tutto dipenda da lui. Non si critichino [298] i superiori; i giovani imparino dai chierici: se i chierici saranno obbedienti, lo saran pure i giovani. - Unità di spirito: carità; un chierico non parli mai male di un altro chierico; uno aiuti sempre l'altro: sopportarsi a vicenda, amarsi come fratelli. - Unità materiale; nessuno pretenda eccezioni, in camera, in refettorio, nell'assistenza, se non vi sono speciali motivi. - Castità; avere un gran riguardo nel trattare coi giovani. Ricordarci che questa angelica virtù è la nostra gloria e la nostra corona. Mettere in pratica i mezzi che suggeriva S. Filippo Neri per conservare la virtù della castità.
D. Bosco era andato ad assistere il Conte Rodolfo De Maistre il quale, in età di 75 anni, il 5 febbraio alle 3 pomeridiane spirava in Borgo Cornalense presso Torino nel castello dell'ecc.ma sua sorella, la Duchessa Laval di Montmorency. Era circondato dalla sua famiglia che amava teneramente e da cui veniva riamato con eguale tenerezza di affetto. Figlio del famoso Giuseppe De Maistre, aveva combattuto valorosamente dal 1787 al 1814 per la causa della giustizia: con coscienza ed onore serviva di poi i Reali di Savoia nelle più alte cariche affidategli negli Stati Sardi, e nel 1846 veniva decorato da Re Carlo Alberto dell'Ordine Supremo della SS. Annunziata. Nel 1853 pubblicava a Parigi in due volumi Le Lettere e gli Opuscoli ammirabili del Conte suo padre, premettendovi alcune pagine biografiche del venerato autore. Aveva mandato al servizio del Vicario di Gesù Cristo e alla difesa della Santa Sede due suoi figliuoli, coraggiosi e amanti del Papa; e pochi giorni prima di morire dava pel danaro di S. Pietro un'ultima offerta di mille franchi. Passava all'eterna pace del Cielo, avendo a fianco del suo letto il Servo di Dio, desideratissimo. Questi era stato suo ospite a Roma nel 1858, e nelle sue stanze aveva lavorato per cominciare presso la Santa Sede quelle pratiche che si riferivano all'approvazione della Pia Società di S. Francesco di Sales. [299] Resi gli estremi onori all'indimenticabile amico e benefattore, consolata la sua cara famiglia, Don Bosco tornava a Torino, e riprendeva le sue occupazioni. Queste erano molte e continue, ma aveva al fianco D. Rua. Parli una lettera caratteristica del suo fido aiutante, diretta alla nobile Contessa Callori.
Con piacere ricevo da D. Bosco l'onorevole incarico di scrivere invece di lui, che è continuamente assediato da molteplici occupazioni, alla S. V.
Pertanto riguardo al libro sul SS. Sacramento mi lascia a dirle che non ha alcuna difficoltà riguardo al titolo, che andrà bene come la S. V. lo propose.
Riguardo all'altra opera, con suo rincrescimento Le annunzia che già scrisse una volta a Monsignore; e questi si degnò bensì di rispondere ma non fece. Rescrisse D. Bosco pregandolo a rinviare l'originale, finora però non si ottenne l'intento; di modo che D. Bosco si raccomanda alla S. V. affinchè voglia pur Ella aver la compiacenza di scrivere e far la debita premura a Monsignore, se pur desidera che il detto lavoro possa riuscire di maggior utilità.
Per passare ad altro, credo che a Lei non sia discaro aver nuove di D. Bosco e de' suoi figli, e però mi prendo la libertà di darlene. Grazie al benignissimo Signore noi godiamo buona salute e allegria, e anche D. Bosco pare che stia meglio, il mal d'occhi non è più venuto a molestarlo; e se non fosse di quel benedetto mal di capo godrebbe quasi perfetta salute.
Ci siamo adoperati io e D. Cagliero, dietro le caritatevoli premure da Lei fatteci, per cercar modo di liberarnelo. Gli abbiamo dimandato che potremmo fare per lasciarlo riposare di più; qual lavoro gli è più gravoso per vedere di esonerarnelo; gli domandammo pure se qualche rimedio potrebbe giovargli. Egli si mise a ridere e metà scherzando e metà sul serio ci disse: - So ben io che cosa mi potrebbe far bene! - E noi insistemmo per saperlo. Allora egli: - Avrei bisogno di un elexir di 10 marenghi al giorno, ciò servirebbe tosto a mettere a posto il mio stomaco ed il mio capo. - Noi ci guardammo ridendo assieme, e non potendo noi provvedergli tale elexir, pensai di esporre la ricetta alla S. V. affinchè veda se è possibile provvedernelo.
Del resto la prego di gradire i rispettosi ossequii di D. Bosco, di D. Cagliero e di tanti altri che più da vicino esperimentarono la bontà [300] della Signora Contessa, non che dello scrivente, con cui augurandole buona quaresima godo professarmi con tutta riconoscenza
Nel mese di febbraio di quest'anno 1866 D. Bosco fu a Milano; ed abbiamo qualche cenno di ciò che vi fece.
In data 20 febbraio scrivevagli la signora Amalia Gnecchi Decio:
Penetrata dal maggior rispetto e venerazione ardisco dirigerle queste mie righe per ringraziarla della bontà che ebbe nel venirci a visitare e nel favorirci di tanti preziosi oggetti che cari ci sono per ogni riguardo. Sabato sera noi abbiamo terminata la santa novena a Gesù Sacramentato e a Maria SS. Ausiliatrice che Ella ci aveva consigliato, ed il giorno prima io aveva ricuperata perfettamente la mia salute, ed anche il mio Carlo aveva provato notabile miglioramento dei suoi vecchi incommodi, per cui non possiamo che sentir viva nel cuore la nostra gratitudine verso il buon Dio e Maria SS. per l'insigne grazia accordataci, e ringraziare altresì Vossignoria per l'interesse che si è preso in nostro favore, e giacchè Ella tanto può sul cuore di Gesù e di Maria coroni l'opera col pregare pei nostri bisogni spirituali... Il mio Carlo la ringrazia ben di cuore del dono fattogli del di Lei bel libro La Storia d'Italia e lo conserverà per di lei memoria. Abbiamo pure ricevuto il pacchetto dei biglietti di Lotteria... e nel spedirgliene l'importo aggiungiamo altre lire 400 per Maria SS. Ausiliatrice. Nella stessa occasione le unisco lire 40 di mio padre, lire 5 di mia sorella e lire 10 di mia cognata che si raccomandano alle di lei orazioni .....
I passi di D. Bosco erano adunque contrassegnati dalle benedizioni di Maria Ausiliatrice, e la fama di santità del Servo di Dio andava crescendo.
La signora Luigia Barbò scriveva da Milano in data 26 maggio 1866, raccomandando a D. Bosco una sua figlia cieca di un occhio da due mesi, perchè rovesciatasi la carrozza in cui si trovava, i frantumi del cristallo le aveano offesa la pupilla, e soggiungeva: “Già mi sono note delle grazie speciali ottenute anche in cotesta città, di infermi assai [301] aggravati, che col di lei consiglio e preghiere ne rimasero illesi”.
Nella già citata relazione della Contessa Carolina de Soresina Vidoni Soranzo, interpellata come si è detto da Don Giovanni Garino, leggiamo queste altre notizie:
“Nel 1866 egli era a Milano in casa di una mia amica e le disse che io aveva dato alla luce una bambina, e così appunto era successo in quell'ora medesima o poco prima. Venendo alcuni giorni dopo da me, gli dissi: - Come ha fatto a sapere che io era divenuta madre di una bambina? Non avevo neppure avuto il tempo di telegrafarle. - Egli sorrise e mi rispose: - Vede che ho fatto l'indovino!
Un'altra volta che venne a trovarmi, gli dissi: - Sa, Don Bosco, che il fratello di mio cugino Boutourlin, Filippo Migneis, sta male assai! - D. Bosco mi rispose: - Credo che sia morto! - Verificai che in quell'ora era spirato a Civitavecchia.
Ebbi anche più altre volte prove sicure che egli leggeva nei cuori, avendomi egli detto delle cose che a nessuno io aveva palesato, e predicendomi il futuro che poi a puntino si avverò”.
Ma nel Servo di Dio nulla appariva di straordinario e di manierato; era di un'umiltà ammirabile, resa più cara dall'aspetto gioviale. Le guarigioni, come era giusto, le attribuiva a Maria SS., e gli altri doni straordinari che poteano in qualche modo sembrar personali sapeva velarli con certe frasi o racconti, che deviavano l'ammirazione di chi non lo avesse ben conosciuto.
Un giorno vi fu chi alla sua presenza meravigliavasi delle previsioni avverate, dei segreti scoperti, delle cose che egli umanamente non avrebbe potuto conoscere, e D. Bosco esclamò: - Indovino senza saperlo! Un mattino mi trovai in una casa di religiose e una monaca, a me sconosciuta, portandomi il caffè mostravasi troppo affaccendata per la premura di servirmi. Io le dissi: “Marta, Marta, nimis sollicita [302] es”. Non so se s'intendesse di latino, ma certo capì le parole: Marta, Marta; e andava dicendo poi colle consorelle: - Don Bosco è un santo davvero; è un profeta; senza conoscermi ha saputo che io mi chiamo Marta! - perchè tale per l'appunto era il suo nome.
Similmente nulla era in lui di austero; il suo fare era sempre disinvolto, anzi la sua amabilità gli guadagnava i cuori; e il prestigio della sua santità non cagionava diffidenze o ripugnanze nei mondani, ma la sua conversazione era desideratissima. Questo suo modo di fare gli apriva le porte di tutte le case, e lo rendeva accetto anche agli uomini di principii diversi. Si può dire che D. Bosco fu una di quelle anime che dal Modello Divino seppero trarre mirabile esempio della più bella e serena vita umana. Il più bell'encomio che di lui si possa fare è il medesimo espresso sul conto di S. Teresa dalla sorella di S. Francesco Borgia: “Sia lodato Iddio che ci ha fatto conoscere una santa cui tutti noi possiamo imitare! Il tenore di sua vita non ha nulla di straordinario; ella mangia, dorme, parla, e ride come tutte le altre, senza affettazione, senza cerimonie, alla buona, eppure ben si vede che ella è piena dello spirito di Dio”.
Un illustre signore così ce lo descrive allorchè, ed avveniva non di rado, invitava a mensa qualche amico o benefattore. “Quando co' suoi sacerdoti recavasi nel refettorio comune, si sarebbe detto l'ultimo di loro. E qual intimo suo compiacimento, quando aveva invitato qualche amico a prendere pasto assieme! Venga con noi, quest'oggi! Venga! Veda; ci sarà appena... ma non completava la frase, e sorridendo graziosamente, faceva il gesto dell'allargar le mani, quasi a dire, che bisognava accontentarsi di quello che il convento avrebbe dato. Ma nessuno può immaginarsi quale consolazione si provasse mescendo il sale con D. Bosco. Inter pocula il suo discorso era un po' più accalorato, perchè vi prendevano parte anche gli altri commensali, ma la parola di D. Bosco era [303] più di ogni altra faceta e interessante co' suoi racconti. Sobrio e parco, era misuratissimo: non dissentiva però dal porre in tavola un gocciolo di quel vecchio, che era lieto di offrire al suo invitato, per dimostrargli la sua soddisfazione di averlo commensale: compiacimento che poi chiosava colla solita rubrica: Ci perdoni, se per quest'oggi ha dovuto fare un po' di penitenza! Ma lei ci ha onorato e basta! Proprio così, o buono e vecchio amico!”.
Guadagnati dalle belle maniere, tutti i giorni andava accrescendo il numero de' suoi amici: e nel 1866, e precisamente a Milano, egli fece più stretta conoscenza coll'avvocato Comaschi.
Era il Comaschi di principii così detti liberali, e presidente o patrono della società de' cappellai. A nome di questa si era presentato al generale Garibaldi, mentr'era di passaggio in Milano; e l'eroe dei due mondi si era compiaciuto di quell'omaggio e gli aveva dato in dono il proprio cappello. L'avvocato lo collocò nel salotto sotto una campana di vetro e con vero orgoglio lo faceva ammirare da tutti i suoi visitatori.
Venuto a Torino nel 1859 per patrocinare una sua causa, udì parlare di D. Bosco e volle vederlo. Accompagnato da un altro avvocato, venne all'Oratorio e il Servo di Dio li accolse con la sua incantevole cortesia, intrattenendosi specialmente coll'altro avvocato che già conosceva. Il Comaschi parlò poco, ma osservò attentamente, e restò così ammirato del Venerabile, che poi disse: - Ma D. Bosco non mi sembra un prete come gli altri! - Da quel punto fu compreso per lui da un affetto e da una riverenza indescrivibile. Tornò un giorno nell'Oratorio per vedere D. Antonio Sala, presso il cui villaggio aveva la sua villeggiatura in Brianza; ed avendo visto nella porteria un ritratto di D. Bosco: - Come! disse, non avete altro posto da mettere D. Bosco? Sapete chi è Don Bosco? - e fece al portinaio sbalordito una predica in tutta forma. [304]
Nel 1866 adunque, avendo saputo che D. Bosco si trovava a Milano, lo invitò a pranzo in casa sua. Don Bosco accettò. L'avvocato era fuori di sè dalla gioia nel sedersi a mensa; e il Servo di Dio, che sapeva adattarsi a tutti gli umori, tenne desta l'ilarità dei convitati col noto racconto di quel signore tedesco Dehuc venuto in Italia per andare a Roma. - A que' tempi non c'erano ferrovie e perciò si viaggiava in carrozza facendo varie fermate per riposare. Il Dehuc era amante della birra, ma preferiva il vino e di quel migliore; ed essendo ricchissimo si faceva precedere per qualche giornata di viaggio da una sua staffetta, che in ogni paese ove giungeva ne assaggiava il vino, e se lo trovava buono scriveva con un pennello sulle pareti esterne della locanda: est! se migliore est! est! se ottimo est! est! est! E il padrone lo seguiva facendo tappe più o meno lunghe secondo la bontà del vino: talora era una notte sola, talora erano più giorni, e non erano rare le ubbriacature. Giunse finalmente a Montefiascone ed avendo vista su d'una locanda la scritta est! est! est! saltò giù dalla vettura, affittò una stanza, e prese una sbornia così solenne e potente da crepare. E infatti se ne andò all'altro mondo. Il servo lo fece deporre in una magnifica tomba con un'iscrizione che diceva la causa della sua morte: Est! est! est!... sed propter nimium est Herus meus Joannes Dehuc mortuus est! e nel coperchio ordinò si praticasse un foro dal quale si potesse ogni anno, nell'anniversario della sua morte, intromettere alcune misure di vino per irrorarne le ossa. - La vivacità colla quale D. Bosco raccontò quest'aneddoto fu tale da non potersi più dimenticare.
Il Servo di Dio cercava di guadagnarsi le simpatie di molti per poterne trarre le anime al Signore. L'avvocato Comaschi lo invitò con vivissime insistenze a recarsi ad alloggiare presso di lui ogni qualvolta andasse a Milano, dicendo che lo faceva padrone di casa. E D. Bosco ebbe cara l'offerta ospitalità, ma quanto più l'avvocato aveva occasione di trattare [305] con lui, tanto più diveniva migliore, e a poco a poco mutò idee, il cappello di Garibaldi non ebbe più il posto di onore, ma l'ebbero invece due lettere autografe del Servo di Dio, inquadrate in aurea cornice. Non si può credere quanto divenisse amico ed ammiratore di D. Bosco. Non permise mai che la stanza che aveva destinata a lui fosse occupata da altri, ma la riguardò sempre come un santuario, ove conservava tutto ciò che il Venerabile aveva adoperato alla sua mensa, non permettendo che bicchieri, tovaglioli, e asciugamani fossero lavati. E finchè visse, egli li venerò come reliquie di un santo.
Così ci attestava D. Lorenzo Saluzzo, che n'udì il racconto dagli stessi parenti del Comaschi.
DON Bosco ritornava a Torino per finire con i suoi alunni santamente e allegramente il carnevale (13 febbraio) e una sera dei primi giorni di quaresima annunziava che dopo tre mesi e mezzo un alunno sarebbe stato chiamato all'altra vita: Estote parati!
Intanto si adoperava per tentare l'attuazione di un progetto, che sapeva di riuscita problematica, ma tentare non nocet.
D. Bosco aveva un'idea fissa, che vagheggiava. Era certo che i suoi collegi e quindi le sue scuole si sarebbero moltiplicate in modo meraviglioso, ma vedeva anche la difficoltà di poterle sostenere con professori che avessero tutti i titoli [307] voluti dalle autorità scolastiche. Benchè avesse fatto prendere ai suoi un certo numero di lauree e di diplomi, e altri si preparassero per rendersi idonei all'insegnamento, non s'illudeva coll'escludere la possibilità che parecchi lo avrebbero abbandonato per farsi una posizione indipendente nelle scuole civiche e governative. Negli stessi esami il Rettore dell'Università e il Preside nelle Commissioni esaminatrici si erano dimostrati avversi a quelli che sarebbero rimasti nell'Oratorio. Abbiam narrato il modo col quale erasi cercato d'impedire che fossero ammessi all'Università nel 1863, e l'opposizione al Provveditore Selmi che nel 1864 aveva autorizzato temporaneamente insegnanti senza patenti a fare scuola di ginnasio nell'Oratorio. Nel 1865 quest'opposizione, che sordamente continuava, fu fatta cessare alquanto dal Sindaco di Torino Galvagno, il quale aveva raccomandato molti giovanetti a D. Bosco, che li aveva accettati nell'Ospizio. Tuttavia, come abbiamo narrato non si era voluto sulle prime concedere l'esame di laurea a D. Francesia sul fine del terzo anno di lettere, mentre simile favore avevano ottenuto più altri; a D. Durando, benchè per motivi diversi, il Preside della Commissione rifiutava l'idoneità per l'insegnamento della Rettorica, e solo dopo alcuni mesi si rassegnava a dargli il diploma per ordine espresso del Ministero; Don Rua che aveva subito lo stesso esame in scritto, non era stato ammesso al verbale, perchè non si volle riconoscere legale un documento. D'altra parte è da notare che nelle scuole governative, molti professori insegnavano per solo decreto reale, altri senza avere alcun diploma, ed altri titolari con diploma si facevano sostituire da un maestro non patentato.
Per questo lato adunque erano per D. Bosco tempi di lotta continua; tanto più, che anche nei momenti di tregua apparente egli conosceva le intenzioni e le trame di chi l'osteggiava. Della gravità di questa lotta fece indiretta testimonianza il Grande Oriente della Framassoneria ufficiale di [308] Torino, il quale sul finire del 1865, incontrando D. Bosco, gli disse: - Lo fanno sudar bene, povero D. Bosco! ma darò ordine che lo lascino in pace. - E parve che l'effetto corrispondesse alla sua promessa.
Senonchè il Servo di Dio aveva già maturato il suo progetto. In quest'anno nell'Oratorio alcuni insegnanti del ginnasio facevano scuola senza diplomi, poichè i professori titolari si trovavano occupati in altri gravi uffizi. Il Regio Provveditore si era contentato, senz'altro, della solita dichiarazione o statistica annuale, ma ciò non poteva durare; ci voleva un tentativo risoluto che almeno svincolasse l'Oratorio da ogni legame; ci voleva il coraggio di un colpo di Stato.
- Ho tutti gli oneri di un padre di famiglia, pensò Don Bosco e perchè non debbo averne i diritti secondo la legge?
Si consultò col Sindaco Galvagno, il quale, benchè appartenesse al partito dirigente in Italia, approvò la sua idea e promise di aiutarlo. Sicuro di questo appoggio, D. Bosco indirizzava una supplica al Ministro della Pubblica Istruzione, Domenico Berti.
Credo essere noto a V. E. come da 25 anni in Torino esistano i così detti Oratorii maschili. Consistono essi in appositi locali destinati a raccogliere nei giorni festivi i giovanetti più pericolanti, che dai varii paesi dello Stato intervengono a questa città, e per trattenerli ivi con piacevole ed onesta ricreazione dopo aver compiuto i loro religiosi doveri. Vi sono quattro Oratorii di questo genere, dove si radunano anche più migliaia di ragazzi; e mentre loro è somministrata l'istruzione elementare si ha pure massima cura che ciascuno possa lungo la settimana essere collocato presso qualche padrone. Ma nella moltitudine se ne incontrano di quelli che sono così poveri e privi di assistenza, che forse tornerebbe inutile ogni sollecitudine se non venissero accolti in qualche casa in cui siano alloggiati, istruiti, vestiti, ed avviati a qualche mestiere, con cui a suo tempo possano onestamente guadagnarsi il pane della vita. Di qui incominciò la casa, detta Oratorio di S. Francesco di Sales, ove presentemente sono raccolti circa ottocento giovanetti. Tutti hanno qui regolarmente la scuola serale elementare [309] con altri studii loro addatti. Lungo il giorno poi una parte è occupata a varii mestieri, come sono calzolai, sarti, falegnami, ferrai, legatori da libri, tipografi, compositori, e simili. Altri poi cui la Povvidenza fornì speciale attitudine alle scienze soglionsi destinare allo studio secondario. Costoro riescono compositori nello stabilimento od in altre tipografie; parecchi conseguiscono il diploma per l'insegnamento ginnasiale; alcuni in fine intraprendono altre carriere, cui mercè possono in breve spazio di tempo giungere a procacciarsi onesto sostentamento.
Queste scuole pel passato furono sempre considerate come opere di zelo e di carità, perciò il sig. Ministro della pubblica istruzione in più occasioni le raccomandò, le incoraggì, e fra le altre cose compiacevasi di significare all'esponente che quel Ministero desiderava di concorrere con tutti quei mezzi che erano in suo potere affinchè queste nostre scuole avessero il maggior loro sviluppo[9]. I maestri furono il Direttore coadiuvato da alcuni allievi dello stabilimento, ed anche da persone esterne; ma tutti lavoravano gratuitamente. Perciò i Regi Provveditori agli studi per lo spazio di oltre venti anni, prestandosi in senso il più favorevole, lasciarono piena libertà di insegnare quei rami scolastici che si giudicavano più opportuni pel bene dei giovani, senza badare se il maestro fosse o no patentato. Solamente da qualche anno il Regio Provveditore, sebbene in modo assai benevolo, considerando questo stabilimento soltanto come pubblico ginnasio-convitto, vorrebbe sottomettere queste scuole a tutte le leggi e discipline con cui sono governati e diretti i pubblici collegi, e fra le altre cose vuole che gl'insegnanti delle rispettive classi presentino i loro diplomi o titoli equivalenti. Ora non potendosi se non con dispendio provvedere tali maestri incompatibili, perchè lo stabilimento è totalmente gratuito, sarebbe nel pericolo di dover cessare, con danno grande di tanti figli del basso popolo che pure hanno ingegno e volontà, di fare i corsi secondarii che loro aprirebbero la strada per guadagnarsi da vivere onoratamente.
Dopo tale esposizione io prego rispettosamente la E. V. che:
1° In considerazione dell'art. 251 della legge sulla pubblica istruzione in cui è fatta facoltà ai padri di famiglia ed a chi ne compie le veci di far dare ai loro figliuoli o congiunti l'istruzione secondaria prosciolta da ispezione per parte dello Stato;
2° dell'art. 356 che dispensa le persone, che insegnano a titolo gratuito ai poveri fanciulli delle scuole elementari o tecniche dal far constare la loro idoneità;
3° in considerazione eziandio di quanto V. E. pronunciava testè [310] nella Camera dei deputati con cui proclamava voler concedere ogni possibile facilitazione alla libertà dell'istruzione; prego, dico, V. E.: che voglia considerare il Direttore di questo stabilimento come padre dei giovani ivi ricoverati, cui realmente provvede quanto loro è necessario per la vita materiale e morale; che l'insegnamento è totalmente gratuito ed amministrato a giovani poveri che non hanno altro mezzo per procurarselo; che sarebbe un gran beneficio materiale e morale qualora si potesse liberamente somministrare l'istruzione secondaria a questi giovani secondo la loro capacità e bisogno.
Quindi si conceda al Sac. Bosco Giovanni direttore dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, coadiuvato da caritatevoli persone, di compartire l'istruzione secondaria ai poveri giovani ricoverati in detto stabilimento in conformità degli articoli mentovati, cioè dispensarli dal far constare la loro idoneità all'autorità scolastica, siccome per oltre a ventitre anni si è praticato.
Questo favore non ridonda a favore di alcun privato, giacchè le scuole sono gratuite e gli insegnanti si prestano gratuitamente, ma torna a totale vantaggio di poveri fanciulli, i quali non potrebbero in verun altro modo coltivare l'ingegno che il Signore si degnò loro concedere.
Il desiderio da V. S. in più occasioni dimostrato di coadiuvare il libero insegnamento mi fa sperare che sarà preso in benigna considerazione quanto è qui esposto, e che i giovanetti di questo stabilimento avranno un motivo di più per offrirle gli atti della più sentita riconoscenza loro. Mentre invoco le benedizioni del Cielo sopra di Lei, ho tanto onore di potermi professare,
Questa supplica era appoggiata dalla seguente lettera di raccomandazione del Sindaco di Torino, il quale la fece anche stampare sui giornali, conoscendo l'influenza della pubblica opinione sulle decisioni governative.
Lo stabilimento educativo del chiaro sacerdote D. Bosco, eretto a poco a poco e su modestissima scala, salì mediante le cure indefesse di quel suo direttore, anzi creatore, gradatamente a proporzioni si può [311] dire colossali; il bene che fece in questi 25 anni che corsero dalla sua creazione a questa parte è notorio, è immenso: migliaia e migliaia di giovanetti miseri, abbandonati, costituenti un pericolo per la società, rigenerati, istruiti, fatti laboriosi cittadini chi nelle arti, chi nell'istruzione, chi nel Sacerdozio, chi in varii altri rami, fanno chiara testimonianza a favore di quel benemerito stabilimento, che come co' meschinissimi mezzi a sua disposizione si sorregga e fiorisca non sarebbe concepibile, se dei Torinesi non si conoscesse la feconda ed illuminata carità che là più liberale si mostra ove il vero e solido pubblico interesse scorge richiederlo.
La bella prova che di sè diede sin qui quel pio Istituto, il sommo utile che riversa sulla società, e le lodi specialmente che riscosse in ogni tempo anche dai funzionari governativi, per la parte dell'insegnamento secondario, lo fanno ben degno per ogni riguardo che il Governo gli continui quella benevola assistenza che non gli difettò sin ora, e che voglia perciò aderire alla domanda che il suo direttore dirige all'illuminato sig. Ministro della Pubblica Istruzione, a ciò voglia continuare nel sinora usatogli riguardo, di non costringerlo a tener maestri patentati per la istruzione secondaria ivi gratuitamente impartita ai giovanetti dal Direttore medesimo, coadiuvato da dotte e pie persone, ed i cui frutti si manifestano cotanto sani e copiosi.
Per questi riflessi, e per il vantaggio particolarissimo che da quel pio stabilimento ridonda alla città di Torino, il Sindaco sottoscritto crede dover appoggiare vivamente presso l'Onorevolissimo sig. Ministro della Pubblica Istruzione la surriferita domanda del sig. Direttore D. Bosco, che in nessuna maniera potrebbe reggere al peso che gl'imporrebbe il doversi provvedere per l'insegnamento secondario di maestri patentati e quindi stipendiati, impossibile essendo trovarne che siano ed in posizione e disposti a prestare gratuitamente quell'opera, che costituisce la loro professione dalla quale ricavano il loro sostentamento.
Il Sindaco e Collega aff.mo dei Ministro Berti
nel Consiglio Municipale di Torino
Anche dal Prefetto della Provincia D. Bosco aveva ottenuta una simile raccomandazione.
Queste commendatizie ottennero solo in parte l'effetto desiderato. Il Prefetto rispondeva a D. Bosco: [312]
PREFETTURA DELLA PROVINCIA DI TORINO
Mi affretto a trascrivere qui appresso per norma della S. V. il riscontro in oggi pervenutomi dal Ministero dell'istruzione pubblica in esito della di Lei istanza per conseguire la dispensa delle patenti a favore degli insegnanti di codesto benemerito Istituto:
“Pur tenendo nella meritata considerazione le raccomandazioni di codesto rispettabile Municipio e della Sig. V. Ill.ma, nè potendo d'altra parte il Ministero sanzionare a favore delle scuole dell'Oratorio di S. Francesco di Sales un'eccezione non contemplata dalla legge, il sottoscritto ha data facoltà al R. Provveditore degli studii per codesta Provincia di autorizzare pel solo corrente anno scolastico gli insegnanti delle scuole infrascritte a proseguire nel rispettivo loro còmpito, diffidando in pari tempo il sac. Bosco che se nel veniente anno scolastico non uniformerà alla legge l'Istituto diretto da Lui, sarà costretta la scolastica autorità di procedere contro l'Istituto medesimo a tenore delle vigenti disposizioni. Questo è quanto potevasi fare da questo Ministero a favore di tale istituzione, di cui è ben lungi dal disconoscere la benemerenza e la filantropia, nè più avrebbe potuto, senza derogare a quanto dalla legge è prescritto.”
Da questo punto però il Governo, avendo tra le altre cose da pensare anche alla guerra contro l'Austria, per parecchio tempo lasciò in pace l'Oratorio. L'Angelo delle nostre scuole vegliava su di esse, e proteggevale anche la preghiera e la benedizione del Vicario di Gesù Cristo. Il Venerabile aveva scritto al Sommo Pontefice forse sul principio dell'anno, ma non ci è rimasta nè copia nè memoria della lettera a cui così rispondeva Pio IX.
Diletto Figlio, salute e apostolica benedizione.
Ringraziamo Iddio, diletto Figlio, per la grande abbondanza di grazie che egli concede a cotesto popolo fedele, e per le molte ed utilissime imprese che dispone siano incominciate e condotte a fine pel [313] bene di cotesto medesimo popolo, a dispetto di cui si lanciano tante ingiurie contro la religione cattolica e contro questa Santa Sede con grave scandalo di tutti. Di cuore poi ci congratuliamo con te, coi pii sacerdoti tuoi compagni e colle divote associazioni di cui ci scrivi, ed a cui auguriamo sempre maggior incremento. Del resto puoi conoscere di quanto affetto Noi amiamo te e le opere tue, dalla facilità con cui abbiamo esaudite le tue preci, ed arricchite dette Associazioni dei privilegi ed indulgenze domandate. Le tenga il Signore lontane da ogni insidia del nemico, ne respinga ogni assalto, e prosperi e renda feconde le opere vostre colla sua benedizione. Ciò di cuore a voi auguriamo, mentre auspice di celesti favori e pegno di paterna benevolenza a tutti impartiamo affettuosamente l'Apostolica Benedizione.
Dato a Roma, presso S. Pietro, il 24 febbraio 1866, del nostro. Pontificato 20°[10].
E l'Opera di D. Bosco continuava feconda di grazie per le anime dei giovani. Una lettera di un antico allievo, il già accennato Agostino Semeria, scritta dalla Liguria nel 1883, ci descrive lo zelo del Servo di Dio in quest'anno.
Sono ormai 17 anni che io ho lasciato questo Oratorio e non l'ho ancora messo in dimenticanza. Come potrò io scordarmi di tante cure amorose prodigateci da D. Bosco, negli anni della nostra inesperienza? Ricordandomi di quei tratti di bontà ineffabile, quelle parole affettuose [314] colle quali c'incoraggiava alla virtù, quella pazienza con cui tollerava i nostri difetti, quella sollecitudine per la nostra educazione, mi sento intenerito, commosso e le lagrime non posso trattenere dagli occhi miei.
Mi ricordo che questo buon padre si lamentava amorosamente che parecchi giovani del suo istituto si accostavano di rado ai Sacramenti... Egli che voleva conoscere le piaghe delle anime nostre per curarle ed applicar loro il rimedio necessario, con qualche buon suggerimento, si serviva anche dei sogni. Prima di palesarli ci diceva che di sogni ve ne sono di tre qualità: parte venivano da Dio per animarci al bene, parte dal demonio per stimolarci al male, e parte dalla posizione in cui si trova uno dormendo. Quei che ci raccontava D. Bosco, li credo provenienti da Dio.
Era l'anno dei Signore 1866, circa 15 giorni avanti la festa di San Giuseppe e D. Bosco ci narrava:
“Sognai che io mi trovai in letto e mi si presentò un individuo o fantasma con una lucerna accesa in mano, dicendomi: -D. Bosco! Alzati su e vieni con me!
Io senza paura alcuna discendo dal letto, mi vesto e vo dietro a costui, il quale non lasciò mai che io potessi vederlo in volto. Mi fece traversare varie camerate, percorrendo la corsia di mezzo alle due file di letti tutti occupati dai giovani che dormivano. Osservai passando che sopra i letti stavano gatti attaccati colle zampe di dietro, e colle zampe davanti in atto di arraffare pel volto i giovani dormienti.
Io andava sempre dietro a questo fantasma, il quale finalmente si ferma, poscia gira attorno al letto di un giovane che dormiva. Anch'io mi fermai e gli chiesi perchè facesse ciò! Colui mi rispose: - Per la festa di S. Giuseppe questo giovane deve venire con me! - Io intesi che sarebbe morto.
Allora io ripresi di nuovo con tono assoluto: - Voglio sapere chi sei e a nome di chi parli.
Egli nuovamente parlò: -Se vuoi sapere chi sono, eccoti! -In quel mentre sparì e con lui anche la lucerna, dimodochè io rimasi al buio. Io allora mi avviai per andarmene nuovamente a letto, ma strada facendo urtai non so se in un baule o in un letto o in altro inciampo e mi svegliai.”
Fatta questa narrazione ci spiegò che quei gatti in atto di divorare i giovani che tranquillamente dormivano, significavano i nemici dell'anima nostra, che stanno sempre intorno a noi per farci cadere se siamo in grazia di Dio, o per strozzarci se ci troviamo in disgrazia del Signore, qualora stanco di noi Iddio lo permettesse loro.
“Io conobbi, soggiunse, colui che quello sconosciuto mi disse dover morire per S. Giuseppe; ma chi sia non lo dico a nessuno per non cagionare troppo spavento. Staremo a vedere se questo sogno si avvera. Intanto stiamo tutti apparecchiati a ben morire. A quelli poi che verranno [315] a confessarsi da me, loro suggerirò qualche cosa in particolare”. Passato S. Giuseppe ci disse che proprio nel giorno della festa di questo Santo, alla sera un giovane dell'Oratorio era morto al suo paese nativo.
Si legge nelle necrologie dell'Oratorio: - Il 19 marzo 1866 muore Lupotto Simone in età di 18 anni. Per la sua insigne pietà fu ognora l'edificazione dei suoi compagni. Frequente ai SS.Sacramenti, divoto in ogni sacra funzione, innamorato di Gesù Sacramentato, l'avresti detto un S. Luigi, ogni volta che lo avessi osservato a pregare. Sopportò con eroica rassegnazione la sua lunga malattia. Secondo la predizione di D. Bosco, andò a passare la festa di S. Giuseppe in Paradiso, essendone egli molto divoto. Sicut lilium inter spinas, giacchè in casa trovavasi attorniato da persone da lui ben differenti”.
La lettera di Semeria prosegue:
Un altro giorno D. Bosco narrava:
“Sognai che io era in sagrestia zeppa di giovani che sì confessavano da me. Ed eccoti entrare un capretto dalla porta della sagrestia, aggirarsi intorno ai miei giovani, e giuocare or con l'uno or con l'altro dimodochè fatta perdere ad essi la buona volontà di confessarsi, a poco a poco uno per volta se ne uscirono. Il capretto in ultimo si avvicinò a me ed ebbe l'ardire con i suoi vezzi lusinghieri di allontanare quello del quale io ascoltava la confessione, tenendolo stretto al mio sello. Io adirato diedi un pugno sulla testa a quella bestia, le ruppi un corno e la sforzai a fuggire. Voleva dare anche un forte rimprovero al sagrestano per averlo lasciato entrare.
Intanto mi alzo e vestitomi dei paramenti sacri vado a celebrare la S. Messa. Giunto alla consumazione, ecco entrare per la porta maggiore della chiesa, non uno, ma una moltitudine di capretti, che introdottisi qua e là in mezzo ai banchi, con mille scene svogliavano quei giovani che erano desiderosi di accostarsi alla mensa degli angioli. Alcuni si erano già alzati per andare all'altare, ma allettati da quei perfidi vezzi si mettevano nuovamente al loro posto. Altri erano già vicini alla balaustra, altri ancora erano già inginocchiati all'altare, ma ritornarono indietro senza comunicarsi.
Questi capretti erano i nemici delle anime che colle divagazioni e cogli affetti disordinati tengono i giovani lontani dai Sacramenti...”. [316]
Con queste ed altre parlate D. Bosco preparava gli alunni alle feste pasquali, mentre per loro e per le migliaia di esterni dei quattro Oratorii festivi continuavano i giornalieri catechismi della quaresima. Ma stavagli eziandio a cuore, e ne dava prova ogni anno, che tutti quei suoi giovani, i quali non erano ancora cresimati, ricevessero degnamente questo sacramento.
Intanto sul principio di marzo usciva il terzo fascicolo delle Letture Cattoliche intitolato: Sacra Novena di meditazioni e di preghiere per apparecchiarsi degnamente al Sacramento della Cresima. - Apparecchio prossimo ai Sacramenti della Confessione e Comunione e della Cresima. - Compendio delle interrogazioni principali sopra il catechismo per l'esame dei cresimandi.
Questo fascicolo faceva seguito ad un altro stampato l'anno antecedente pel mese di ottobre col titolo: Istruzione catechistica intorno al Sacramento della Confermazione. Era presentato senza frontispizio e col numero di pagina progressivo, onde, come abbiamo già accennato, potesse essere unito al suddetto per maggior comodo di quelli che volessero valersene.
LA divozione a Maria SS. Ausiliatrice andava sempre più diffondendosi tra i fedeli, anche perchè il Servo di Dio distribuiva le sue medaglie in gran numero. Di queste si celebrava ovunque la straordinaria virtù di preservazione da molti malanni e di rimedio per le malattie: e quindi erano continue e insistenti le domande per averne, benedette dallo stesso D. Bosco. Si aveva fiducia nella Madonna ed anche nelle preghiere del suo Servo fedele e dei giovanetti di lui. S. E. Mons. Andrea Charvaz, Arcivescovo di Genova, scriveva:
Je vous remercie cordialement, mon cher Abbé, des prières, des neuvaines que vous faites réciter pour la délivrance de l'infirmité dont je vous avais parlé. J'unis à cette fin mes pauvres prières aux [318] vôtres, et il me semble que j'en èprouve déjà une amélioration. Mais quel qu'en soit le résultat final que je laisse avec tout abandon à la sainte volonté du bon Dieu, je me réserve de profiter de la première occasion pour vous faire parvenir au moins un léger témoignage de ma reconnaissance et de mon vif intérêt pour votre si utile Etablissement.
Agréez les sentiments pleins d'estime et de dévouement avec lequel je suis, mon cher Abbé,
Passata la fredda stagione si riprendevano i lavori della chiesa di Maria Ausiliatrice, essendo stati preparati i ponti che occorrevano per terminare la volta e innalzare la cupola. Su questa doveva torreggiare una statua della Beata Vergine in rame dorato, e D. Bosco ne aveva cominciato le prime trattative con la ditta Boggio di Torino.
Ciò che gli premeva assai era anche la continuazione delle pratiche per sistemare la pubblica strada innanzi alla chiesa, e a tal fine mandava al Sindaco la seguente memoria:
L'anno scorso, nell'occasione che S. A. Reale il Principe Amedeo, in compagnia del Sig. Sindaco che assisteva, metteva la pietra fondamentale di una nuova chiesa, facevasi domanda che fosse rettilineata la via Cottolengo di fronte al nuovo edifizio. Il Sindaco visitava con bontà ogni cosa e persuaso dell'importanza e del bisogno di quanto, si richiedeva, assicurava il suo favore presso il Municipio.
Ora i lavori del sacro edifizio sono assai inoltrati, il coperchio è terminato, compiuti gli arconi della vólta; onde io fo calda preghiera a V. S. Ill.ma a voler considerare:
1° L'ingegnere civico quando tracciava le linee delle fondamenta si basava sul piano della rettilineazione della detta via Cottolengo, senza di che non si potrebbe nemmeno entrare in chiesa;
2° Questa rettilineazione è già approvata, ed una parte del sito fu già appositamente comprato dal Seminario, e i vicini edifizii hanno già la fronte regolata in questa proporzione;
3° Con questa rettilineazione si alzerebbe alquanto il livello della via, la qual cosa contribuirà non poco a rendere salubre questa località; imperciocchè da più lati si succedono scoli di acque in un basso [319] centro senza corso di uscita. Difatti nel 1854 le case che circondano questo sito furono le più flagellate dal colera: alcune famiglie estinte. A questa necessità si provvederebbe col già approvato rialzamento, cui mercè si darebbe scolo regolare alle diverse affluenze d'acqua;
4° Si potrebbero proseguire i lavori con molto minori spese, occupare maggior numero di persone, soddisfare il desiderio ed il bisogno degli abitanti del quartiere di Valdocco che trovansi lontani dalle chiese e sospirano il termine del nuovo edifizio che darà loro comodità di compiere i doveri religiosi.
Per questi e altri motivi, che V. S. nella sua saviezza sa certamente ideare ed apprezzare, la supplico quanto so e posso a voler effettuare la rettilineazione di via Cottolengo secondo il progetto di ingrandimento già approvato dal Municipio, e secondo richiede il basamento della novella Chiesa, siccome veniva esposto, in memoria già prima inoltrata a tale scopo in città.
Pieno di fiducia che questa domanda, appena che abbia l'onore di presentarsi a V. S., sia presa in benigna considerazione, reputo massimo onore di potermi colla più sentita gratitudine professare
La domanda dopo qualche tempo era esaudita.
Intanto il Venerabile Servo di Dio si rimetteva di nuovo in viaggio, e prima dava istruzioni perchè si attestasse riconoscenza ad un insigne benefattore che lo aveva sempre soccorso fin dal 1850. Era questi il Conte Abate Lunel di Cortemiglia, morto nella metà di febbraio. Ordinava pertanto, che se l'Amministrazione dell'Ospizio di carità in Cherasco, diretto dal suo amico D. Alessandro Ghisolfi, decidesse di fare un funerale solenne a chi era stato anche di quella pia casa grande benefattore, si mandasse pure per la funzione almeno una dozzina di cantori.
Partiva quindi per la linea di Milano, e pare che si recasse a Monza per appagare le vive istanze di Madre Serafina, Superiora delle Sacramentine, la quale desiderava parlargli.
Alla stazione di Milano accadde un fatto degno di memoria, [320] che dimostra come stessero a cuore a D. Bosco anche gli interessi materiali de' suoi benefattori.
Don Michele Rua il 9 aprile 1891 scriveva in Milano la seguente dichiarazione:
“La signora Rosa Guenzati raccontò al sottoscritto che nel 1866 D. Bosco passò per Milano in ferrovia. Non avendo che qualche ora da fermarsi in quella città, non uscì neppure dalla stazione; aveva però prevenuto il di lei consorte di venirlo a trovare colà, come infatti vi andò accompagnato da essa. Discorrendo, D. Bosco dissegli: - Quest'anno, signor Guenzati, faccia gran provvista di tela, chè troverà a rivenderla convenientemente. - Dopo la partenza del Servo di Dio i due coniugi, memori della sua predizione, si diedero a farne ricerca in proporzione molto più abbondante che negli anni precedenti e, come egli aveva prenunziato, si avverò esattamente in guisa che in fin dell'anno, mentre erano molto contenti della benedizione avuta dal Signore per mezzo di Don Bosco, si andavano dicendo l'un l'altro: - Se avessimo avuto anche maggior fede nelle parole di D. Bosco, facendo provvista di tele ancor più abbondante, certamente l'avremmo venduta. Riconoscenti però al Signore del profitto avuto, ne lo ringraziarono dandone parte ai poveri, come erano soliti a fare”.
L'avviso era stato il principio di una vistosa fortuna.
Il Servo di Dio si recò pure a Cremona dove aspettavanlo la Principessa Elena Vidoni, le Suore Maddalene e più altri; e quindi proseguiva per S. Giovanni in Croce presso la nobile famiglia Soranzo.
Di quei giorni inviava una circolare al Cav. Oreglia di S. Stefano perchè la facesse stampare.
Ecco la lettera; la componga e se vi è qualche cosa me lo dirà per correggerla.
Dica a D. Rua che prevenga Damigella Orselli che sabato alle ore [321] una sono da Lei per la minestra. Egli, D. Rua, venga colle lettere alla stazione di Porta Susa.
Scrivo colla fretta. Cerco danari, ma... ma...
Dio benedica Lei e le sue fatiche, e mi creda nel Signore,
La circolare venne subito stampata.
Con grande soddisfazione ho l'onore di partecipare a V. S. Benemerita che la Lotteria già altre volte alla carità di Lei raccomandata trovasi ora arricchita di doni meritevoli della pubblica esposizione. Per la qual cosa la Commissione radunatasi a tal uopo deliberava che si scegliesse un locale annesso all'Oratorio di S. Francesco di Sales e che venisse fissato il giorno 19 del corrente mese, per inaugurare questa pubblica mostra della carità cristiana. Il numero dei doni raggiunge i tremila.
Le fo' pertanto umile preghiera di volervi Ella pure intervenire in questa bella occasione, sia per poterla ringraziare personalmente, sia per onorare gli augusti personaggi che speriamo di avere per quella giornata.
Intanto io mi raccomando caldamente di volerci aiutare collo spaccio dei biglietti e coll'inviare quegli oggetti che Ella per avventura avesse a questo scopo raccolto.
I giovanetti beneficati s'uniscono a me per esternarle la più sentita gratitudine e per augurarle le più copiose benedizioni del cielo, mentre ho l'onore di professarmi con pienezza di stima
Alle ore 2 i signori Promotori e le signore Promotrici si raduneranno in una sala preparata avanti il locale della Esposizione.
2° Canto con accompagnamento; [322]
5° Visita dei doni della Lotteria.
NB. - La pubblica esposizione secondo il decreto della Prefettura durerà tre mesi, dopo cui si diverrà all'estrazione dei numeri vincitori. Il locale è aperto al pubblico ogni giorno dall'una alle cinque pomeridiane.
Il giorno 10 D. Bosco rientrava nell'Oratorio. Per la lotteria incominciata nel 1865 aveva chiesto ed ottenuto la proroga dell'esposizione ufficiale. Sul principio del 1866, si era stampato il catalogo degli oggetti donati. Vi figuravano doni di S. S. Pio IX, delle Loro Altezze Reali il Principe Eugenio di Savoia Carignano, il Principe Tommaso Duca di Genova, il Principe Amedeo Duca d'Aosta, la Duchessa di Genova, ed anche del Ministero degli Interni. Il numero dei premii era di 2524 senza contare quelli regalati alla lotteria, ma con facoltà di ritenerli per uso degli Oratorii festivi. Fra questi si notavano varii attrezzi di ginnastica donati da S. A. R. il Principe Amedeo Duca d'Aosta, disposti nel cortile dell'Ospizio; e la somma di 500 lire, oblazione collettiva dei varii Oratorii di Torino fatta nell'occorrenza del giorno onomastico del loro Direttore e Padre Sac. Giovanni Bosco.
Il 19 marzo, festa di S. Giuseppe, facevasi adunque la solenne inaugurazione della Lotteria. La neve cadeva a larghe falde e non ci fu quindi gran concorso. Venne però il Sindaco Galvagno. Si cantò il Poeta e il Filosofo, operetta buffa di Don Cagliero e fu recitato il seguente dialogo, interessantissimo per più riguardi, scritto da D. Bosco.
Massimo. - Ho bisogno, caro Ernesto, che tu mi dia ragione per cui l'amato nostro Sindaco con tanti insigni personaggi sonsi in questo nostro umile Oratorio radunati.
Ernesto. - Oggi si fa tra noi una grande solennità.
Mass. - Forse la festa di S. Giuseppe? [323]
Ern. - La festa di S. Giuseppe ne porge occasione, ma il vero motivo si è l'inaugurazione della Lotteria.
Mass. - Ma questa Lotteria non fu cominciata, fatta, finita l'anno scorso?
Ern. - L'anno scorso fu cominciata, si raccolsero doni, si prepararono e già si smerciarono alcuni biglietti, ed ora si tratta di mettere in pubblica mostra i doni raccolti, affinchè gli acquisitori dei biglietti possano coi proprii occhi rimirare il numero, la bellezza, il pregio delle offerte.
Mass. - Non sarebbe meglio invece di doni raccogliere tosto i danari? Così potrebbesi risparmiare tempo, lavoro, disturbo ed appagare i bisogni che si hanno.
Ern. - È vero; ma vedi, caro Massimo, molti portano doni e prendono cartellini ovvero biglietti: altri saranno solamente in grado di portare doni, oppure di fare soltanto acquisto di alcuni biglietti. In questo modo ciascuno può concorrere in proporzione assai limitata; perciocchè queste lotterie aprendo la via alla piccola ed alla grande beneficenza sono accessibili ad ogni grado di persone.
Mass. - In buona sostanza il fine ultimo di queste lotterie sono i danari. O danari, danari! Bisogna proprio dirlo che voi siete potenti, giacchè tutti vi vogliono per loro amici.
Ern. - È vero che il fine ultimo è di mettere insieme danari, ma con mezzi leciti. Qui tuttavia vi è la speranza di guadagnare, e ciascuno è libero di prenderci parte, e infine hanno uno scopo nobile, cioè di concorrere a fare una grande opera di carità.
Mass. - Quale sarebbe questa grande opera di carità?
Ern. - L'opera di carità, che si tende a beneficare, sono gli Oratori festivi, dove occorrono non piccole spese per fitti, arredi, riparazioni, maestri, oggetti di ricreazione, ecc., ecc. Occorrono spese per l'Oratorio di S. Francesco di Sales, dove sonvi cose di tutta urgenza sospese per mancanza di mezzi: un motivo poi tutto speciale è la chiesa posta in costruzione, il cui termine è sommamente desiderato.
Mass. - Dove si sta costruendo questa chiesa?
Ern. - Si sta costruendo in sito annesso al cortile del nostro Oratorio, e se da questa sala o da quella dell'esposizione dei doni tu volgi a mezzogiorno o a ponente lo sguardo, ti si presenta un edificio in forma di croce latina. Questo è l'edificio sacro a Maria Ausiliatrice, che qual madre porge la mano ai suoi figli chè l'aiutino a compire questa sua casa, per accrescere sempre più il numero dei suoi divoti in terra e farle poi un dì gloriosa corona in cielo.
Mass. - Mentre parlavi mi venne un pensiero ed è che non mi sembra tanto grande il bisogno di una chiesa in questo sito; tanto più che àvvene già una: quella dell'Oratorio.
Ern. - Ottima osservazione, ma non fa pel caso nostro. L'attuale [324] chiesa di S. Francesco di Sales bastò per qualche tempo, ma ora per la moltitudine dei giovani interni ed esterni è divenuta ristretta e ne potrebbe capire appena un terzo. Se mai tu osservi nel giorno festivo, o caro Massimo, noi siamo in chiesa come le acciughe nel barile. Oltre a ciò ci troviamo in un sito dove sono molte case piene di abitanti, tutti lontani dalle chiese, per modo che si calcola uno spazio di terreno abitato da oltre 30 mila anime, nel cui centro non àvvi chiesa di sorta. Che ne dici, o Massimo? ti sembra necessaria la costruzione di una chiesa?
Mass. - Ciò posto, io sono perfettamente d'accordo sulla necessità d'una chiesa, dove interni, esterni ed eziandio adulti possano intervenire. Avrei ancora una cosa a domandarti?
Mass. - Oggi abbiamo tra noi tanti rispettabili personaggi; fra gli altri il nostro sig. Sindaco, i benemeriti signori della Commissione per la Lotteria, i signori promotori e le signore promotrici della medesima. Non ti sembra a proposito il dirmi in poche parole lo scopo degli Oratorii?
Ern. - In questa domanda puoi essere appagato dall'amico Tancredi, che come più anziano dell'Oratorio è vie meglio informato.
Tancredi. - Di buon grado mi studierò di appagare questo vostro e mio desiderio. Per non ripetere tutte le cose dette nella fausta occorrenza in cui si benedisse la pietra angolare della chiesa, voi, o amici, offrite una copia della Rimembranza delle cose di quella giornata al sig. Sindaco, e con quella pregatelo eziandio a voler gradire un disegno del novello edifizio. Ora dirò solamente in poche parole che gli Oratori festivi sono locali destinati a trattenere i giovanetti con piacevole ed onesta ricreazione nei giorni festivi dopo aver compiuti i loro religiosi doveri. Tali sono quelli del Santo Angelo Custode in Vanchiglia, di S. Luigi a Porta Nuova, di S. Giuseppe a S. Salvario, di S. Francesco di Sales dove noi ci troviamo. Questa Casa poi ha per iscopo di accogliere quei giovanetti cui la morte dei genitori o qualche altro infortunio mette in pericolo di finir male, se non àvvi una casa in cui possano gratuitamente, o quasi gratuitamente, essere accolti. Alcuni di noi sono artigiani; altri, avendo dalla natura sortita speciale attitudine alle scienze, vengono applicati allo studio. Nei tempi addietro l'attuale chiesa bastava, ma ora non più, e fa mestieri di dar mano alla costruzione di un'altra più spaziosa che soddisfaccia al bisogno dei giovani di questa casa, di quelli che intervengono dai varii punti della città ed anche degli adulti che ne vogliono approfittare. Imperciocchè, come ben disse Ernesto, il quartiere di Valdocco è molto popolato e non àvvi tra noi alcuna pubblica chiesa per adempiere i doveri religiosi.
Mass. - Giacchè mi sembri così bene informato delle cose dell'Oratorio [325] e nel tempo stesso sei versato nel disegno, dimmi qualche cosa intorno alla novella chiesa. È da molto tempo che si è incominciata?
Tancr. - Le fondamenta si gettarono l'anno 1864, ma la pietra fondamentale fu solamente benedetta l'anno scorso, il 27 aprile, cioè sono presto undici mesi da che i lavori furono incominciati regolarmente.
Mass. - A qual punto si trova ora l'edificio?
Tancr. - L'edifizio si trova già ben avanzato. Le mura sono pervenute alla loro regolare altezza, il coperchio è compiuto, i grandi archi delle volte terminati; i ponti, i sostegni per le volte sono al loro posto; la cupola, la maestosa cupola è cominciata e speriamo che si eleverà magnifica. A proposito della cupola mi fu detto che in cima alla medesima deve collocarsi una stupenda statua di Maria Ausiliatrice in atto di benedire i Torinesi e tutti gli altri suoi divoti che prendono parte alla costruzione di questo sacro edifizio.
Mass. - Se questa chiesa deve servire per tanta gente dovrà certamente essere molto spaziosa, non è vero?
Tancr. - Di certo. La superficie dell'edifizio è di circa mille duecento metri quadrati; il che significa la capacità di quattro o di cinque mila persone.
Mass. - Ti assicuro che godo assai al pensiero che un tempio di questa fatta si innalzi in Torino all'augusta Regina del Cielo. Ma il danaro per le spese che occorrono dove si prende?
Tancr. - La stessa domanda ho più volte eziandio fatto a me stesso. Pel passato io ne so niente, ma per l'avvenire ogni nostra speranza è fondata sopra il provento della Lotteria, cioè sopra la bontà (si indichino colle mani) di quei signori che per nostro bene e per proseguire la cominciata costruzione idearono una Lotteria, qual unico mezzo di beneficenza.
Mass. - Noi dobbiamo essere molto riconoscenti a questi signori per tanta loro bontà; dobbiamo ringraziarli e conservare incancellabile memoria dei loro favori.
Ern. - Voglio che non solamente siamo loro riconoscenti, ma che preghiamo il cielo acciocchè si degni di spandere copiose benedizioni sopra tutti i promotori e promotrici, ed altri che in qualunque modo porgeranno benefica mano per condurre questa chiesa al sospirato compimento.
Tancr. - Io voglio pregare la santa Vergine che prepari in Cielo una bella corona a tutti questi nostri benefattori.
Mass. - Che vivano molti anni, tutti in sanità con giorni felici; che se mai per disavventura il morbo micidiale del colera si manifestasse di nuovo ne' nostri paesi, niuno di essi abbia a patirne alcun danno. [326]
Tancr. - A voi poi, sig. Sindaco, che vi siete degnato oggi di venire a farci una visita in questo bel giorno, noi porgiamo speciali atti di sentita gratitudine. Che se poi, come si fa ai Sovrani nel giorno delle grandi solennità, ci permettete di chiedervi un favore particolare, vi domandiamo quello stesso già domandato e promesso altra volta, cioè che diciate una parola in appoggio perchè sia rettificata la via Cottolengo di fronte alla novella chiesa, e così si possa avere agevole accesso quando l'edifizio sia compiuto.
Ern. - Signori promotori e signore promotrici, quanto noi qui abbiamo detto fu da parte eziandio de' nostri Superiori e de' nostri compagni; ed ora a nome dei medesimi vi chiediamo benigno compatimento se per la nostra condizione non potemmo prepararvi più nobile, più degna accoglienza, quale vi meritavate e quale noi pure avremmo desiderato. La provata bontà del vostro cuore sappia darci benigno compatimento. Ora facciamo a tutti rispettoso invito di voler onorare di vostra presenza la sala della pubblica esposizione. Che se vi accadesse di trattare con persone benefiche, le quali volessero intervenire in qualsiasi giorno all'esposizione, vi assicuriamo che ci fate un novello favore e sarà sempre rinnovato il piacere ogni volta che ci sarà dato di potervi accogliere fra noi, o persone da voi inviate per far loro vedere i doni che la vostra carità seppe raccogliere ed offerire. Ciò che diciamo di altri diremo ancor più di cuore a tutti i benemeriti promotori o promotrici, ogni qualvolta si compiacessero di rinnovare la visita che in questo giorno con grande nostra festa ed onore ci hanno procurato.
Dopo questo dialogo un giovanetto che compariva la prima volta sulle scene in carattere di Gianduia, recitò una poesia in dialetto piemontese, scritta da D. Giuseppe Bongiovanni, sopra una traccia datagli da D. Bosco. Il giovane in stile berniesco narrò di aver fatto in sogno un lungo viaggio, e di aver trovato nella sala di un magnifico palagio un'enorme quantità di monete d'oro e d'argento e di biglietti di banca; che il padrone aveagli donato tutto il tesoro ed egli riempiute le tasche di quello e caricatesene le spalle quanto poteano portarne, correva per darlo a D. Bosco, gridando che finalmente si erano trovati i danari per la chiesa; ma la sua contentezza durava poco, perchè, cadendo dal letto, si svegliava colle mani vuote. Concludeva dicendo di sperare che i benefattori avrebbero rimediato a quell'inconveniente, perchè avrebbero fatto in modo che il sogno divenisse realtà. [327]
Di questa magnifica poesia ne conserviamo gelosamente copia, come prezioso cimelio di quei tempi[11].
Tale fu la festa per l'inaugurazione della Lotteria, la quale però dichiarossi aperta dopo che S. A. R. la Duchessa di Genova venne a visitarla, accolta con musiche e mille ovazioni dai giovani.
Nel frattempo, essendo cresciuto il numero dei premii donati dai benefattori, si chiedeva ed otteneva di poter spacciare una maggior quantità di biglietti.
La Commissione per la Lotteria approvata con decreto di questa prefettura del 19 maggio 1865 compie il dovere di far conoscere a V. S. Ill.ma come il giorno 19 marzo 1866 siasi aperta al pubblico l'esposizione dei doni regalati a favore della medesima.
Con questa occasione, stante la benigna accoglienza incontrata nel pubblico ed il vistoso numero di oggetti novellamente donati, si trova nel bisogno di ricorrere questa seconda volta alla esperimentata di lei cortesia, onde ottenere:
1° Che venga approvato l'estimo compreso nel numero d'ordine 841 al numero 2524 inclusivo, ai quali aggiungendo i fino ad ora non consegnati numeri dall'uno al cinquantanove inclusivo sommano al totale numero di oggetti 1684 confermanti la complessiva di lire 41.982, come da perizia dei sigg. estimatori in calce sottoscritti.
2° Che in conseguenza sia fatta facoltà di porre in circolazione numero 167.928 biglietti corrispondenti al doppio valore, come già nel precitato decreto di questa Prefettura venne conceduto.
Nella fiducia di essere esaudita, la Commissione porge a V. S. Ill.ma i suoi più sentiti ringraziamenti, mentre a nome della medesima mi professo con distintissima considerazione
Segretario della Commissione. [328]
Seguiva l'elenco dei nuovi doni fra i quali tre di Pio IX: cammeo in conchiglia legato in oro (500 lire); cammeo in pietra dura (800); croce d'oro lavorata a smalto (200).
In calce era il giudizio dei periti.
A richiesta del Sac. Giovanni Bosco dichiaro di avere proceduto oggi all'esame e valutazione degli oggetti d'arte qui sopra descritti, formanti insieme la somma di lire quindicimila quattrocento trenta, dico L. 15.430. In fede.
A richiesta del Sac. Giovanni Bosco dichiaro io sottoscritto di aver proceduto ieri all'esame ed estimazione degli oggetti di chincaglieria e simili sopradescritti, formanti insieme la somma di lire ventisei mila cinquecento cinquanta due lire (26.552). In fede.
Dalla Prefettura si rispondeva col seguente decreto:
IL PREFETTO DELLA PROVINCIA DI TORINO.
Visto l'avanti esteso memoriale presentatosi per parte della Commissione per la lotteria concessa con decreto 19 maggio 1865 a favore dell'Oratorio di S. Francesco di Sales in Torino e tendente ad ottenere una nuova emissione di biglietti in numero di 167.928 corrispondente al doppio valore degli oggetti descritti nel 2° elenco che fa seguito al detto qui annesso memoriale ed estimati in lire 41.982;
Visto lo stesso elenco ed il citato precedente decreto del 19 maggio 1865:
1° È autorizzata per detta Lotteria a favore dell'Oratorio di San Francesco di Sales di questa città la chiesta nuova emissione di numero 167.928 biglietti da centesimi 50 caduno.
2° Prima della distribuzione o vendita ogni biglietto dovrà essere firmato da un membro della Commissione o dal Prefetto o da chi lo rappresenta.
3° Con altro decreto di questo ufficio verrano fissati il luogo, giorno ed ora dell'estrazione della presente lotteria.
I benefattori di D. Bosco avevano riso molto alla poesia di D. Bongiovanni e applaudito. Il sogno doveva infatti divenire realtà, ma non tutta in un colpo. Perciò il Servo di Dio industriavasi anche col chiedere mutui ai suoi amici che ponevano in lui piena fiducia, conoscendo essi per prova che la stessa Madre di Dio se ne rendeva garante.
Scriveva al Sig. Conte Francesco di Viancino:
Io sono pronto a ricevere il giovane Cinzano che V. S. Car.ma colla solita sua carità mi raccomanda e di provarlo per lo studio; àvvi soltanto la difficoltà che qui noi non abbiamo i corsi elementari ed egli fa soltanto seconda. Resterebbe anche a vedere quale attitudine abbia per le scienze. Ella faccia così: gli dia qualche pagina di un libro qualunque e gliela faccia imparare a mente ed appena se ne sarà fatto un giudizio me lo dirà e vedremo di farlo andare avanti.
Ma una cosa che mi dà non poca pena, mi occupa in questi giorni. Ho una scadenza di quattro mila franchi pel principio di aprile. Contava sulla lotteria, che grazie a Dio va bene e si spacciano i biglietti; ma l'incasso del danaro va alle lunghe. Pure si tratta di danaro dovuto ad un provveditore di materiali per la Chiesa, che ci calcola e ne ha assoluto bisogno. Chi sa che V. S. Car.ma non possa fare questa carità a me o piuttosto a Maria SS. Ausiliatrice? Che ne dice? Fosse anche un solo mutuo se non da Lei, presso qualcuno altro a conto mio; ciò basterebbe a levarmi d'impaccio. Certamente somigliante opera di carità le meriterebbe il dovuto compenso e fra le altre cose copiose benedizioni in terra ed una bella camera per Lei e per la sua famiglia in Cielo vicino alla Madre di Dio.
Raccomando me e la mia famiglia alla carità delle sue divote preghiere, mentre ho l'onore di potermi con pienezza di stima professare,
Scriveva anche alla Contessa Callori:
Alleluia! Siamo a Pasqua, perciò pensiamo a pagare i nostri debiti. Ho due mila franchi a disposizione del Sig. Conte di Lei marito. Se [330] egli calcola sopra gli altri due, glieli farò avere prima che termini la settimana; altrimenti me ne servirò fino a giugno. Se ha qualche sito dove io possa portarli, bene, del resto farò una gita a Casale.
Non mi fu più possibile occuparmi del libretto sul SS. Sacramento; credo però che la stampa sia ben diretta. Mons. di Mondovì mi mandò il manoscritto e nella entrante settimana daremo principio alla composizione tipografica. È un lavoro certamente un po' lungo, ma piacerà.
Buon Alleluia, signora Contessa, buone feste. Dio spanda copiose benedizioni sopra di Lei, sopra il pio di Lei marito e sopra tutta la rispettabile famiglia.
Dimenticava una cosa. La statua della Madonna da collocarsi sulla cupola della nuova chiesa, importa una spesa assai maggiore di quanto avevamo pensato. La sua altezza deve essere di quattro metri, quindi con rame di spessore sentito e con lavoro molto diligentato. La spesa è di dodicimila franchi; una Signora s'offre per ottomila. Io non intendo di legare Lei pel rimanente, ad eccezione che questa Madre avesse fatto nevicare o facesse nevicare marenghini in sua casa.
La grazia di N. S. G. C. sia sempre con noi e ci scampi dai pericoli che ogni giorno si vanno avvicinando maggiori.
Con sentita gratitudine mi professo,
Opportuno per lo stato finanziario di D. Bosco usciva il fascicolo di Aprile nelle Letture Cattoliche: -- Dell'impiego del danaro per Giuseppe Frassinetti, Priore a S. Sabina in Genova. - È un aureo libretto che dovrebbe correre per le mani di tutti i cattolici. Dimostra essere il danaro la maggior potenza del mondo, e in mano ai cattivi la causa di tante rovine. Lamenta la mancanza di generosità nei buoni e dice come sia scoraggiante la loro parsimonia nel sostenere le Istituzioni Cattoliche, le quali deperiscono sopraffatte dagli empi. Stabilisce la gran massima che era pur quella di D. Bosco. “I buoni ai giorni nostri non devono più attendere a che cosa siano tenuti rigorosamente per soddisfare al loro dovere dell'elemosina; ma invece a quanto [331] possano lecitamente e prudentemente fare a servizio della buona causa: devono attendere non al dovere ma al potere, e questo possibilmente esaurirlo.” Insiste sull'importanza che i cattolici si riuniscano in società per mettere in comune i mezzi dei quali ponno disporre per conseguire un dato fine. Esorta non solo i ricchi, ma anche i poveri, facendo vedere come specialmente i poveri, benchè con pochi centesimi sono il sostegno di certe opere, come la Propagazione della Fede e la Santa Infanzia e rappresentano la forza di più milioni.
Pel mese di maggio si stampava il fascicolo: Storie e Parabole del Padre Bonaventura, con un'appendice: Non ho tempo. Un materiale stupendo per prediche ai giovanetti ed al popolo.
Pel mese di giugno: Teodulo, ossia il figlio di benedizione, modello per la gioventù, del rev. Padre Michelangelo Marini. È la biografia di un virtuoso studente Belga che viveva nella casa paterna.
E GLI orfani d'Ancona? Dal giorno che l'offerta generosa di Don Bosco era stata accettata con viva gratitudine dalla Commissione di soccorso pei danneggiati dal colera erano passati più mesi. In questo tempo il Servo di Dio, commosso per la sorte di altri giovanetti rimasti orfani e a lui raccomandati da varii luoghi, li aveva accolti nel suo ospizio, aggravandosi di nuovi e considerevoli spese; e tuttavia non aveva mancato di mandare ad Ancona una sua generosa oblazione, mentre con slancio di carità affluivano i soccorsi da molte parti d'Italia e varii istituti offrivano ricovero ai fanciulli derelitti di quella città.
Nei Rendiconti della Commissione di soccorso poi danneggiati dal colera del 1865 in Ancona (stampati dallo Stabilimento Giuseppe Civelli, piazza Cavour, casa Temi, 1869, Ancona) si legge:
Relazione letto dal Segretario Cav. Avv. Bernardo Ferrari nell'adunanza del 26 dicembre 1865.
(II. pag. 10). - L'ultima proposta da voi approvata nella tornata [333] delli 23 agosto era così concepita: “La Commissione delibera che sia accolta in massima generale l'idea di aprire, potendo, per gli orfani che non trovino ricovero in altri pubblici istituti italiani uno stabilimento di ricovero e di educazione avvalendosi all'uopo delle risorse private e pubbliche, quante volte per queste le rappresentanze, che ne hanno diritto, non si rifiutino alle condizioni che si possono esigere.
(pag. II). - Al generoso appello, cui precorsero il sacerdote Bosco e la Benemerita Pergola, hanno risposto 57 stabilimenti di beneficenza. I posti concessi sommano a 48 per maschi, non compresi i posti del Bosco, e a 45 per femmine: in totale 93.
Intanto a D. Bosco giungeva il seguente avviso:
Conformemente alle prese intelligenze, mi pregio d'inviare alla S. V. i tre orfanelli Berluti Gustavo e fratelli Spazzacampagna Adolfo ed Augusto perchè siano ricoverati nell'Istituto da Lei diretto.
Il sig. Conte Giorgio Pichi che si è gentilmente incaricato di accompagnarli costà, avrà l'onore di consegnare alla S. V. Ill.ma i documenti relativi ai detti orfani, e di rinnovarle ad un tempo i ringraziamenti del Comitato per la generosa offerta fatta a favore dei fanciulli Anconitani resi orfani per causa del colera; per la quale ho lusinga di potere in seguito inviarne altri, allorquando la S. V. avrà la gentilezza di indicarmi che vi siano posti disponibili.
Aggradisca gli atti della più distinta stima.
Le intelligenze prese avevano modificate le prime esibizioni di D. Bosco. La Commissione di Ancona aveva ricevuto somme abbondanti dalla pubblica carità che sembrava ragionevole dovessero essere devolute anche a vantaggio degli orfani che avrebbe mandati a Torino. Anzi era stato fatto osservare a D. Bosco che altri istituti di beneficenza ne avevano già ricevuto sussidii; quindi egli non potè a meno di far constare che l'Oratorio, non avendo redditi, viveva di questue, confidando nella Divina Provvidenza. Il Venerabile fu sempre pronto a ricoverare gratuitamente giovani poveri, orfani o derelitti; ma se a loro vantaggio vi erano fondi [334] stanziati dai Municipii, o somme raccolte da pubbliche collette o legati di opere pie, per alto sentimento di prudenza e di giustizia non trascurava mai di farne domanda.
La Commissione fece buon viso alle sue ragioni e venne con lui ad un accordo, come si legge nel citato opuscolo “Rendiconti” ecc. stampato dal Civelli.
Relazione letta dal Presidente Cav. Avv. Clemente Marinelli nell'adunanza della Commissione tenuta il 25 marzo 1866.
(Pag. 24). - E da ultimo un progetto relativo a questa interessantissima classe di sventurati ci venne da un caritatevole Ecclesiastico, il Bosco di Torino, su cui dobbiamo richiamare tutta la nostra attenzione. Questi, che calcolando più sul cuore che sulle forze avevaci da principio offerto nel suo stabilimento trenta posti gratuiti, non potè darne in realtà che cinque. Nè ciò punto scema in noi il debito di gratitudine, avvegnachè se in uno slancio di carità egli non misurò troppo esattamente la corrispondenza dei mezzi, fu sempre ottima l'intenzione; avemmo pur da lui soccorso non tenue; e da lui sopratutto uscì il primo esempio, cui poscia con santa gara emularono i reggitori di tanti e tanti altri Istituti. Or egli ci propone questo partito. Riceverebbe degli orfani di età non minore di 12 anni, non maggiore di 17 anni. Li manterrebbe per tre in quattro anni; farebbe loro apprendere un mestiere i cui proventi (quando nell'apprenderli abbian fatto qualche progresso) messi a moltiplico andrebbero a loro beneficio nell'uscir dal Convitto. Chiede in corrispettivo L. 600 per ciascuno orfano. La capacità del luogo ci fa opinare che la proposta sarebbe attuabile per dieci fanciulli.
Il progetto dal lato finanziario ci si presenta a prima giunta accettabile, fatta ragione del rapporto fra la somma richiesta, il numero dei fanciulli da mantenersi ed educarsi, e la serie d'anni per cui il proponente s'impegna.
L'Istituto per le informazioni, che con tutta l'accuratezza abbiamo procacciate, son tali che presentano ogni opportuna garanzia di salubrità, di moralità, d'opportunità di metodi; talchè non esitiamo a raccomandare alla Commissione la accettazione della proposta, con questo però che il Comitato debba curare le cautele opportune perchè ove l'Istituto fosse mai per cessare innanzi che l'assunto impegno fosse esaurito, abbia a riversarsi della somma sborsata una quota proporzionale alla parte d'obblighi che rimanesse incompiuta.
D'altronde questa combinazione coll'istituto Bosco ci porgerebbe il destro di soccorrere certe creature, che sebben forse più che altre tapine non riuniscono in sè quelle condizioni, che l'inflessibile rigidità delle discipline di altri stabilimenti richiede per l'ammissione, ed alle [335] quali invece in quelli più sciolti da certi vincoli non si guarderebbe così pel sottile.
Citiamo ad esempio la condizione universalmente richiesta dei non avere vivente il padre, sebbene non siano mancati stabilimenti, che per favore speciale ai nostri orfani ne declinarono; mentre avviene assai spesso che i fanciulli più teneri orbati della loro madre poco o niun sussidio vuoi morale vuoi materiale ritraggono dal padre non di rado impotente, talora mal volonteroso.
D. Bosco aveva adunque promesso e si obbligava in corrispettivo alla somma citata di tenere, alimentare, vestire, istruire ed educare gli orfani avviandoli a qualche arte e mestiere, ed anche agli studii, secondo le regole e gli usi dell'Istituto, per un tempo non minore di tre anni.
I giovanetti già accettati erano stati ammessi allo studio, e n'erano contenti, mentre si occupavano con impegno dei loro doveri. Ma la Commissione di Ancona prima di mandarne altri, aveva creduto doveroso il sottoporre l'Oratorio alla sorveglianza di un Comitato che tutelasse il benessere de' suoi raccomandati.
La Commissione di soccorso nella sua adunanza generale del 25 p. p. marzo, dietro proposta del Comitato, approvava il progetto dalla S. V. Ill.ma presentato di ricevere nel suo Istituto 10 orfani per 3 in 4 anni
incaricandosi, dietro lo sborso per parte nostra della somma di L. 6000 (seimila), di mantenerli ed educarli, con che però la S. V. Ill.ma sottometta il suo sistema educativo ed igienico a quella sorveglianza che il Comitato, o chi gli succederà, crederà opportuna, e poste le necessarie garanzie per la restituzione di una proporzionale parte di detta somma nel caso eventuale che tutti o alcuni degli orfani succitati non potessero essere sino alla prescritta età mantenuti nello stabilimento.
Nel comunicarle tale deliberazione, affine di cominciare a darle corso, prego la S. V. a volermi notificare quali garanzie intenda offrire nel caso anzidetto.
Accolga i miei profondi ossequi.
Il Venerabile, che non volle mai accettare intromissioni esterne nel regime della Casa, faceva rispondere:
Ricevo dal sig. D. Bosco l'onorevole incarico di rispondere alla pregiatissima sua delli 7 corrente. D. Bosco non è alieno dall'accettare le proposte fattegli; mi lascia solo di farle notare qualche cosa. Ed in primo luogo secondo il nostro sistema educativo abbiamo un unico amministratore e perciò non si potrebbe in questo stabilimento ammettere una sorveglianza esterna. Inoltre siccome lo stabilimento sussiste di pura beneficenza, così non vi può essere un'amministrazione costante ed invariabile; ma il Superiore deve fare variamente a seconda delle circostanze, come vede tornare più utile ai ricoverati medesimi.
La sorveglianza che potrebbesi ammettere sarebbe quella che si limitasse a prendere notizie di moralità, d'igiene, di profitto nello studio o nel lavoro, ecc.
Le fo' osservare in secondo luogo che D. Bosco accettò già molti giovani inviatigli dal Governo, dal Municipio, dalle Società ferroviarie: anzi quando infieriva il colèra nei nostri paesi ne accettò circa una quarantina mandatigli appunto dal Municipio: in conseguenza trovossi e trovasi tutt'ora responsale di somme assai maggiori di lire 6000 che sarebbergli proposte da cotesta onorevole Commissione; ma non gli si chiese mai dal Governo, nè da altri alcuna garanzia; ed anche in questo non vorrebbe cambiar sistema. D'altronde ha qui ed altrove fabbricati di sua proprietà che ponno certamente servire di garanzia per L. 6000 ed anche di più.
Ciò posto, se queste due condizioni sono ommesse, o almeno interpretate nel senso sopra esposto, potrassi tosto venire alle altre intelligenze che rimangono a prendersi rispetto ai giovanetti dalla loro carità raccomandati.
Lieto della favorevole occasione me ne valgo per esprimere anche per D. Bosco i sensi della più alta stima verso della S. V. e tutta la benemerita Commissione, augurare dal Signore a tutti le più elette benedizioni e godere l'onore di professarmi, ecc., ecc.
La Commissione non insistè sulla deliberazione e il 16 maggio chiedeva al Servo di Dio di collocare nel suo pio Istituto altri otto giovanetti preparati alla partenza.
In questo tempo Don Bosco era in pena, perchè aveva [337] tre chierici che dovevano entrare in servizio nell'esercito e, mentre si andavano già ripetendo voci di guerra, non trovava modo di farli richiamare da qualche Vescovo, secondo il disposto della legge. Ne aveva interessato i loro Ordinari, ma le tre Curie gli avevano risposto aver esse già presentato al Governo la loro lista completa di que' pochi che potevano mandar esenti. Si ripeterono allora le stesse pratiche presso altri Ordinari; e per uno dei chierici, D. Michele Rua scriveva a nome di D. Bosco a Mons. Losanna, Vescovo di Biella.
Fra i giovani che dopo aver compiuto il corso ginnasiale indossarono qui l'abito chiericale, annoverasi certo Bernocco Secondo da Cherasco. Essendo affatto privo di mezzi di fortuna percorse le classi di latinità in questa casa di beneficenza ed anche da chierico vi continua i suoi studi per lo stesso motivo.
Ora è per cadere sotto la leva del 1846 che nel corso di quest'anno sarà pubblicata. Già abbiamo fatto domanda al Rev. Vicario Capitolare affinchè lo volesse richiamare dalla leva, ma non fu più possibile.
Pertanto il sottoscritto si rivolge alla S. V. facendole rispettosa preghiera affinchè lo voglia inscrivere sulla nota dei giovani di codesta diocesi che sono da richiamarsi dalla leva militare, se pure sulla detta nota avvi ancora un po' di margine. Che se anche a Lei non fosse più possibile di richiamarlo, La pregherebbe a farglielo notificare per tempo a fine di potersi ancora rivolgere ad altra diocesi per ottenere il prefato favore.
Per sua norma, questo chierico ha già compiuto il corso di latinità ed ora percorre il primo anno di filosofia. I suoi esami furono soddisfacenti assai, e per moralità ed ingegno è degno di speciale raccomandazione. Pel che si spera che sia per fare buona riuscita nello stato ecclesiastico, cui unicamente aspira.
Si degni di dare benigno compatimento al disturbo che le cagiono e gradisca che le auguri ogni bene dal Cielo, mentre colla più alta stima ho l'onore di professarmi
per D. Bosco, Sac. RUA MICHELE, Prefetto. [338]
Ma anche il Vescovo di Biella doveva trovarsi nell'impossibilità di esaudire la preghiera di D. Bosco, nè esito più felice dovettero avere le suppliche rivolte ad altri Prelati, poichè il Servo di Dio, dopo un mese, era ancora nelle medesime pratiche. Egli stesso scriveva a Mons. Giacomo Filippo Gentile, Vescovo di Novara.
Da più mesi ambiva il giorno di poter fare una visita a V.E. Rev.ma per riverirla e parlarle di alcuni affari, ma un complesso di cose, minute ma continue, me lo hanno impedito. Ora le fo' umile dimanda per tentare il richiamo di tre chierici dal servizio militare per cui già mi era raccomandato al Sig. Vicario Garga affinchè perorasse presso di V. E.. Io la prego del benefizio qualora abbia ancora margine per richiamare.
In caso affermativo io le farei prontamente pervenire:
1° Remissorie dal proprio Vescovo, con data anteriore all'estrazione del numero di sorte.
2° Fede di nascita, di moralità e data della vestizione.
3° Che fanno i loro studii in questa Casa, e perchè prestano aiuto ai poveri giovanetti della Casa e degli Oratorii festivi, e perchè mancano totalmente di mezzi per fare altrove i loro studii.
Con queste tre dichiarazioni fu sempre soddisfatto il Governo, nè mai ci fece alcuna difficoltà.
Ogni cosa però alla nota di Lei saviezza.
La nostra chiesa, Eccellenza, va avanti; e la cupola si va elevando giorno per giorno. Dia la santa sua benedizione a chi lavora e a chi in qualche modo vi coopera.
Noi ci raccomandiamo tutti alla carità delle sue preghiere, ed augurandole dal Cielo sanità e lunghi anni di vita felice, colla più sentita gratitudine ho l'alto onore di potermi professare,
La risposta appagò i suoi voti, sicchè il 29 maggio potè scrivere ai Vicarii di Brugnato, di Alba e a D. Jorio, cappellano del Vescovo di Biella, per avere le remissorie dei tre chierici.
ABBIAMO accennato a voci di guerra. Nel corso di queste Memorie già si dissero le cause delle dissensioni che agitavano l'Alemagna[12]. Le lunghe trattative diplomatiche del ministro Prussiano Ottone Bismarck coll'Austria, ora insidiose, ora insolenti, a nulla avevano approdato. La Dieta di Francoforte riconosceva giuste le ragioni dell'Austria; Bismarck però secondando i disegni de' settarii, intendeva risolutamente di impossessarsi dei due ducati danesi Schleswig e Holstein, escludere l'Impero Austriaco dalla confederazione germanica, ridurre i Sovrani dei piccoli Stati al grado di prefetti prussiani, lasciando loro il titolo e [340] la lista civile. Così si era giunti alla vigilia di una guerra. Prima però di scendere in campo, la Prussia l'8 aprile, auspice il Ministro La Marmora, stringeva alleanza coll'Italia assicurandole il possesso delle Provincie Venete. L'Italia però anelava eziandio ad impadronirsi di Trento col Tirolo Italiano e di Trieste coll'Istria.
L'Imperatore Napoleone che da tempo conosceva ed approvava le mene di Bismarck, che aveagli promesso le Provincie Renane, dichiaravasi neutrale, ma spediva in Italia navi con batterie corazzate, munizioni, vettovaglie, cavalli e altri aiuti d'ogni maniera, e chiedeva al Corpo Legislativo un aumento di 100.000 uomini per gli eserciti di terra e di mare. Napoleone non avrebbe mai permesso che si disfacesse la sua opera in Italia, se all'Austria avesse arriso la vittoria. Varii giornali francesi pubblicarono come egli sperasse in compenso la Sardegna.
Ma la guerra all'Austria, nella mente dei reggitori Italiani e dei capi setta, noti era che un episodio della guerra già dichiarata contro la Chiesa. Nell'aprile si stampava in Firenze un manifesto alla democrazia, che diceva: “La vera, la immensa questione di Roma non si riduce alla presa di possesso della città. È probabile che il Re in epoca non lontana entri in Roma a rimettere l'ordine tra le barricate dei romani. La vera questione di Roma sta nella caduta del Papato, nel coronamento dell'opera incominciata da Lutero, nell'emancipazione della coscienza, nella glorificazione del libero pensiero, nell'inaugurazione della scienza sugli altari del Dio Cattolico”. Nello stesso tempo il principe Gerolamo Napoleone andava ripetendo: “L'Austria è l'appoggio il più potente dei Cattolicismo nel mondo e l'ultimo suo baluardo. È d'uopo abbatterlo, cancellarne le vestigia. La Prussia è ordinata a schiacciarlo a Vienna, come l'Italia a Roma”[13]. [341]
Da ogni male, pur lamentandone le disastrose conseguenze, D. Bosco traeva argomento della necessità di moltiplicare il bene coll'aiuto di Maria SS.ma; e ne dava l'esempio.
Mentre si adoperava per l'esenzione del servizio militare ai suoi chierici, pensando alle maggiori strettezze finanziarie nelle quali lo avrebbero ridotto il ristagno degli affari, la crescente miseria nel popolo che bisognava soccorrere, e gli altri incagli che avrebbe incontrati nell'erezione della sua chiesa, scriveva una lettera al Conte Cibrario, ed inviava una supplica identica al De Falco, Ministro di Grazia, Giustizia e Culti. Questi non gli diede risposta, e D. Bosco ripeteva una eguale domanda nel 1868.
Da molto tempo era grandemente sentito il bisogno di una chiesa fra la numerosa popolazione di Valdocco, regione di questa città.
Oltre a trenta mila abitanti, una moltitudine di ragazzi raccolti da vari lati della città, lamentano tale edifizio per soddisfare ai religiosi doveri.
Mosso da questo bisogno ho divisato di tentare questa impresa in un luogo appositamente comprato, a poca distanza dal piccolo attuale Oratorio di S. Francesco di Sales.
Ma poichè la deficienza dei mezzi opponevasi al cominciamento dei lavori, l'Eccellenza Vostra, per mezzo dell'Economo Generale, conosciuta la gravità del caso, mi incoraggiava colla promessa di franchi quindici mila, siccome era già stato bilanciato per altre chiese di Torino.
Nel timore per altro che l'opera si cominciasse e non si potesse di poi condurre a termine, venivano solamente stanziati sei mila franchi da pagarsi tre mila quando l'edifizio sorgesse fuori di terra, tre mila quando giungesse all'altezza del coperchio.
Era però fatta promessa verbale che mi sarebbero aggiunti gli altri nove mila franchi qualora, eseguiti i lavori prenotati, vi fosse fondata speranza di divenire al compimento dell'Edifizio.
Ora questi lavori vennero appunto terminati; le mura, i cornicioni, il coperchio, i grandi archi interni sono compiuti. Ma adesso eziandio si fa vieppiù sentire la scarsezza del danaro, sia pel frequente ricorso fatto alle persone caritatevoli, sia pel trasferimento della Capitale, laonde si avrebbero gravi difficoltà a continuare l'incominciata impresa, se l'E. V. non mi viene in aiuto. [342]
La supplico pertanto a voler prendere in benigna considerazione migliaia di giovanetti ed una moltitudine di cittadini che sospirano il novello edifizio, ed accordare quel caritatevole sussidio che era stato verbalmente promesso.
Tutti i Torinesi, ma specialmente gli abitanti di Valdocco, si uniscono con me per assicurare l'E. V. della più sentita gratitudine e della più durevole riconoscenza e mentre unanimi auguriamo ogni benedizione celeste sopra di Lei, sopra l'Augusta Persona del nostro Sovrano, reputo al massimo onore di potermi professare,
Contemporaneamente faceva accelerare la spedizione de' materiali da costruzione, prima che divenisse irregolare o fosse sospeso il corso dei treni merci; e in pegno di gratitudine a persona addetta alle Ferrovie che gli aveva prestato benevolo appoggio offriva una copia della sua Storia d'Italia, in legatura elegante, che riuscì, come appare da una lettera che abbiamo fra i documenti, molto gradita.
Nè cessava di prodigare le cure più sollecite alla Lotteria. Di questa, come dell'Oratorio, erasi dimostrato sincero protettore il Sindaco di Torino, il quale non avrebbe permesso che l'opera santa fosse inceppata in qualche modo. E D. Bosco lo contraccambiava coll'accogliere gratuitamente nel suo ospizio que' poverelli, che gli venivano da lui raccomandati[14].
Il 16 aprile indirizzava al Re una supplica pregandolo di accettare altri 400 biglietti della Lotteria, e dal Ministero della R. Casa riceveva la seguente lusinghiera risposta con foglio della Divisione Prima, portante il numero di protocollo 622. [343]
Il particolare interesse che S. M. il Re si degna di prendere per le istituzioni dirette alla educazione della gioventù e di cui la S. V. M. R. ebbe di già a ricevere non dubbie prove, mi animò a rappresentare alla M. S. le circostanze da lei esposte nella pregiata lettera delli 16 scorso aprile, colla quale offre l'acquisto di nuovi biglietti della Lotteria istituita a vantaggio degli Oratorii di S. Francesco in Valdocco.
Mi pregio quindi parteciparle che non ostante i molti oneri che gravitano sul bilancio della Casa di S. M., degnavasi tuttavia la M. S. di autorizzare l'accettazione di altri 400 biglietti della Lotteria suddetta ammontanti alla somma di lire duecento, le quali Ella potrà esigere sul principio del seguente mese alla Tesoreria dell'Intendenza Generale della R. Casa in Torino. Accolga intanto, M. R. Signore, l'attestato di mia distinta considerazione.
Inoltre per compensare con una distinzione onorifica l'offerta di 3000 lire fatta all'Oratorio dal sig. Claudio Gambone, D. Bosco inviava al Conte Cibrario un'istanza, per ottenere un'onorificenza al generoso benefattore. La riportiamo volentieri, perchè dà un'idea della compitezza del Servo di Dio.
Prego rispettosamente l'Eccellenza vostra a degnarsi di leggere con bontà quanto quivi espongo intorno ai titoli di benemerenza del Sig. Gambone Claudio:
1° Esso è da trentasei anni ceraio della Real Corte e delle LL. AA. il Duca di Genova e il Principe di Savoia-Carignano. Nell'arte sua fu sempre tenuto fra i migliori artisti. In tutte le pubbliche esposizioni fu sempre encomiato e fregiato della medaglia d'onore. Nella Esposizione di Firenze riportò il primo premio.
2° Nella trista occasione del colèra in Cuneo nel 1835 e quando lo stesso morbo affliggeva la città di Torino nel 1855, egli veniva eletto visitator aggregato dai rispettivi municipii e ne ottenne lettere di ringraziamento e di lode per lo zelo e la sollecitudine con cui si adoperò in quei calamitosi momenti, come risulta dalla relazione pubblicata nel giornale ufficiale, allora Gazzetta Piemontese. È proprietario di due fabbriche di cera, una in Pinerolo, l'altra in Torino, tesoriere della [344] compagnia della Consorzia di S. Giovanni, membro del Consiglio della Santa Sindone.
3° Si è sempre adoperato a beneficio dei poveri, sia col soccorrerli a domicilio, sia raccomandando ed anche collocando a sue spese fanciulle e fanciulli abbandonati in pii stabilimenti. Ha già fatte molte beneficenze alla casa detta Oratorio di S. Francesco di Sales, dove son raccolti ottocento poveri ragazzi, e presentemente avendo saputo come questa casa versi in grave bisogno fa un'offerta di tre mila franchi.
4° Egli ha tredici documenti autentici che commendano l'attaccamento di questo generoso cittadino verso S. S. R. M. il nostro Sovrano.
In vista di tutti questi titoli di pubblica benemerenza fo' umile preghiera all'E. V. a voler dare al medesimo un segno di soddisfazione concedendogli la Croce Mauriziana, come ornamento di Lui e della sua onorata famiglia.
E' vero che la somma presentemente offerta è inferiore a quanto si deve largire in simili occasioni, ma io prego l'E. V. a voler tener conto dei titoli precedenti che mi sembrano di gran lunga più degni di benevola considerazione.
Quanto si è sopra esposto è tutto appoggiato sopra documenti che si possono produrre a semplice di Lei richiesta.
Io ed i miei poveri giovanetti nutriamo piena fiducia di ottenere il favore, cioè che l'E. V. voglia prendere in benigna considerazione il sovra esposto e concedere al benemerito oblatore la implorata decorazione e così ai benefizi già fatti a questa casa aggiungere questo per cui fo rispettosa preghiera.
Le celesti benedizioni scendano copiose sopra di Lei e sopra tutti quelli che prestano l'opera loro a benefizio della povera gioventù, mentre colla più sentita gratitudine ho l'alto onore di potermi professare della E. V.
Gli affari poi della Lotteria e il desiderio di accontentare qualche parroco che lo richiedeva per la predicazione, frequentemente lo costringevano a recarsi in paesi delle vicine Provincie, per la qual cosa le sue assenze dall'Oratorio dovevano essere in questi mesi molto frequenti. Gli stessi più intimi amici, temendo di non trovarlo a casa, gli chiedevano udienza per lettera. Alla signora Azelia, figlia del Marchese Fassati, egli rispondeva: [345]
Domenica dalle 12 a notte io sono in casa e mi fa molto piacere la visita della Signora Contessa Marne e di qualunque altra persona che seco conduca.
Buona notte a Lei, a Papà, a Mamma. Dio li colmi tutti delle sue benedizioni.
Preghi per me e per questi miei birichini e mi creda nel Signore,
Un'altra lettera, diretta all'ill.ma signora Contessa Bosco-Riccardi, la quale con altre dame riparava il vestiario dei giovani dell'Oratorio, ci fa capire come nel mese di maggio le occupazioni talvolta impedissero a D. Bosco fin anche di recarsi a far visita ai suoi amici e benefattori.
Non posso andare a far visita a V. S. B. come desidero, ma ci vado colla persona di Gesù Cristo nascosto sotto a questi cenci che a Lei raccomando perchè nella sua carità li voglia rappezzare. - È roba grama nel tempo, ma spero che per Lei sarà un tesoro per l'eternità.
Dio benedica Lei, le sue fatiche e tutta la sua famiglia, mentre ho l'onore di potermi con pienezza di stima professare,
Egli adunque moltiplicava se stesso e continuava le escursioni, santificate dal suo zelo per la gloria di Dio e benedette da Maria SS. Ausiliatrice.
Narrava D. Francesco Dalmazzo:
“L'affetto di Don Bosco per le cose di religione e il suo zelo per il decoro della casa di Dio, si mostrò chiaramente in una circostanza in cui l'accompagnai a fare visita ad un parroco [346] in un paese nei pressi di Torino. Dopo aver visitato la casa parrocchiale essendo andati a visitare la chiesa e vedutala diruta e deforme, e tenuta con una negligenza straordinaria, rimproverò francamente il parroco di tanta trascuranza in ciò che riguardava il divin culto ed aggiunse: - La sua canonica è molto ben tenuta e convenientemente addobbata, mentre la casa del Signore è tanto mal tenuta! Perchè non pensa di provvedere il paese di un'altra chiesa?
Non so, se in conseguenza di queste parole, o mosso da altre ragioni, ma ad onore del vero, posso asserire che questo parroco vi provvide con un lascito in morte”.
Le Suore della Carità avevano aperta una casa a Cuneo per raccogliervi ed educare alle faccende domestiche le bambine povere ed abbandonate. Suor Arcangela Volontà ed un'altra suora furono incaricate dell'opera; ma arrivate a Cuneo si trovarono negli impicci, poichè lo stabile non avea nemmen l'idea della forma necessaria, i muri facevan molto dubitare della loro solidità e due sacconi con qualche seggiola formavano tutta la loro mobilia. Due bambine intanto avean preso alloggio in questo palazzo, e non si vedea nemmeno l'ombra di qualche cespite d'entrata. L'istituto era in tali condizioni, quando D. Bosco trovandosi a Cuneo, invitato dal Padre Ciravegna, Gesuita, andò a visitarlo.
Il Venerabile a prima vista riconobbe in quella povertà straordinaria i principii di un'opera che Dio benediceva, e disse alle buone suore: - Io vedo che il superfluo non le imbroglia: non possono, è vero, andare avanti di questo passo, ma stiano tranquille che il Signore le benedirà, facendo prosperare tutte le loro opere; ed a suo tempo darà loro uno stabile vasto e comodo, dove potranno fare gran bene. Quindi uscendo le benedì. Da questa benedizione del santo uomo scorsero ventiquattro anni, e suor Arcangela andava a ringraziarlo a Valsalice dove riposano le sue spoglie mortali, della benedizione data alla loro casa. [347] Questa non si riconosceva più: vi alloggiavano dieci suore e cento bambine, tutte provvedute da quella Divina Provvidenza, che Don Bosco promise favorevole al caritatevole istituto.
In quest'anno ei fu anche a Revello di Saluzzo col Prevosto D. Francesco Geuna Can. e Vicario For., quand'a un tratto si addensò un terribile temporale. Il vento era furioso: incominciava la grandine, e molta gente correva in chiesa per scongiurare la perdita imminente dei raccolti. Il Prevosto corre egli pure a prendere cotta e stola per Don Bosco, il quale, vedendo l'urgenza del pericolo invita il popolo ad invocare Maria Ausiliatrice ed intona: Maria, Auxilium Christianorum, ora pro nobis. Il popolo risponde: ora pro nobis e stava per incominciare la recita di altre preghiere; ma egli ne lo impedisce facendo replicare tre volte la giaculatoria: Maria, Auxilium Christianorum, ora pro nobis. Alla terza volta cessa all'improvviso lo stravento e ricompare il sole. Il parroco e tutta quella gente rimasero fuori di sè dalla gioia per una grazia così manifesta.
D. Bosco non temeva gli incommodi del viaggiare, neppur quello di non giungere in tempo alla partenza del treno, il che avveniva più volte, perchè e nell'andare e nel venire incontrava sempre persone che lo fermavano; ed egli era sempre tutto a tutti. Noi stessi fummo testimoni del fatto seguente.
Una mattina disse ad un confratello di accompagnarlo alla stazione di Porta Nuova; la S. Messa aveva stabilito di celebrarla nel paese al quale era diretto. Ma appena uscito di camera ecco un chierico che aveva bisogno di dirgli due parole all'orecchio. D. Bosco si ferma e lo ascolta. Per la scala ne incontra un altro, il quale desidera parlargli, e D. Bosco si ferma e lo ascolta. In fondo alla scala un terzo lo attendeva e con tutta tranquillità s'intrattiene con lui. Sotto il portico varii preti e chierici lo circondano ed a ciascuno dà soddisfazione. Finalmente s'incammina verso la porta, ma un giovanetto [348] gli corre dietro chiamandolo. D. Bosco si arresta, si volta e risponde alle sue domande. Per avere la sua calma ci voleva una pazienza di Giobbe. Quando giunse alla stazione il treno era partito; ed egli non si scompose affatto; con tutta tranquillità si recò a celebrar messa nella chiesa di S. Carlo e, ritornato alla stazione, partiva col secondo treno.
Era la stessa inalterabile tranquillità sempre unita ad una prudente fermezza, colla quale governava l'Oratorio in certi momenti un po' critici per la irrequieta spensieratezza di qualche giovane.
Nemico risoluto del rispetto umano, non poteva sopportare in casa giovani, i quali fossero causa di questa mala zizzania in mezzo ai compagni. Nell'Oratorio fioriva il piccolo Clero e D. Bongiovanni ne era il Direttore. Avvenne nel 1866 che molti fra gli alunni per varie cause prendessero in uggia coloro che aveano dato il nome a questa Compagnia e non lasciassero sfuggire la menoma occasione per criticarli. L'epiteto più ingiurioso che credevano poter dar loro era quello di Bongioannista. La cosa andò avanti per qualche mese, e il Servo di Dio vedendo che quei del piccolo Clero si lasciavano intimorire, si raffreddavano nella pietà, e alcuni pensavano di abbandonare la Compagnia, dopo aver ammonito in privato vari dei mormoratori, parlò qualche sera con molto calore facendo capire che avrebbe sostenuto il piccolo Clero a qualunque costo. Non calmandosi ancora quell'effervescenza, dopo essersi lamentato dell'inefficacia delle sue parole, annunziò finalmente che chiunque avesse ancora pronunziato il titolo di Bongioannista per sfregio dei compagni o in qualunque modo avesse burlato quei del piccolo Clero, sarebbe stato allontanato immediatamente dall'Oratorio.
Ma gli spensierati erano così inviperiti che, abusando della bontà di D. Bosco, non lasciarono il malvezzo e quindi alcuni, anche per altri demeriti, furono mandati alle loro case. Di costoro rimaneva ancora nell'Oratorio un giovanetto, di [349] grande ingegno, di studio assiduo e di una condotta nel resto veramente buona; che aveva contro il piccolo Clero una amarezza inqualificabile. Egli pure, all'avviso di D. Bosco, invece di mutar sistema si era inviperito, e di frequente andava ripetendo quel termine ingiurioso, aggiungendo spesse volte: -Piuttosto che appartenere al piccolo Clero preferisco di esser scacciato, preferisco la morte! - E masticava la parola spia contro chi credeva fosse causa dell'espulsione dei suoi amici.
Rincresceva al Venerabile involgere costui nella sentenza degli altri, perciò, dissimulando, come se ignorasse perfettamente la sua insolenza, aspettò la palla al balzo. Il momento non tardò. Il giovane portava un grande affetto a D. Bosco, e credeva che quelli del partito del piccolo Clero si fossero appoggiati al Superiore solamente per sostenere la loro causa; quando un bel giorno si presentò in camera di D. Bosco cogli occhi lagrimosi e con una lettera dei suoi parenti. Egli era persuaso, che Don Bosco nulla sapesse del partito che aveva sposato contro il piccolo Clero. Il Venerabile lo accolse amorevolmente e gli chiese che cosa domandasse:
- Sono venuto a pregarla di un piacere.
- I miei parenti mi hanno scritto questa lettera.
- E stanno bene i tuoi parenti?
- Sissignore, di sanità; ma mi dicono che gli affari di famiglia vanno male e sono loro accadute molte disgrazie.
- Non possono più pagare 18 lire al mese di pensione; perciò mi dicono di raccomandarmi a lei perchè mi usi la carità di ridurre a 10 lire mensili la pensione, altrimenti sono costretti a richiamarmi a casa.
- E che difficoltà hai di andare a casa?
- Ah! D. Bosco! Io andare a casa? Io che sono già avanti negli studii e che speravo di farmi prete, veder troncate in un momento tutte le mie speranze? [350]
- Che cosa ci vuoi fare? A casa potrai trovare qualche altro modo per guadagnarti il pane.
- E i compagni del paese che cosa direbbero nel vedermi ritornare? Quale disonore! I miei parenti non possono mandarmi a scuola; mi toccherà lavorare la terra; - e piangeva.
- Ma, caro figlio, che cosa vuoi che ci faccia? Son carico di spese e di debiti; abbi pazienza; vedremo l'anno venturo.
- Ah D. Bosco! non mi abbandoni, mi usi questa carità, mi tenga ancora, contenti i miei parenti che ora sono in tanta afflizione.
- Capisci che se io ribasso a te la pensione è tanto pane di meno che posso dare ad altri poveretti...
Il giovane era oppresso dal dolore e D. Bosco continuò:
- Tuttavia per te io non mi rifiuterò, ma ad una condizione... Dimmi: sei buono?
- Farò tutto quel che potrò per esserlo e per contentarla.
- Ebbene io lo credo; ma ho bisogno che ti scelga uno che sia responsabile di te, che possa vigilare continuamente sulla tua condotta, che mi possa dire che tu meriti davvero quel favore che mi chiedi...
- Sissignore, ci sto a questa condizione, vedrà.
- E che tu seguiti i consigli di colui che sceglieremo a tuo amico e custode.
- Sissignore, lo obbedirò. Mi dica lei chi vuole.
- Conosci qui in casa un certo D. Bongiovanni?
- Sissignore, rispose il povero giovane con voce leggermente turbata.
- Orbene, va' da lui, digli ciò che io ho detto a te. Affidati pienamente a lui e sarai contento. Intanto ti prometto che se D. Bongiovanni mi darà buone notizie, non solo ribasserò la pensione a 10 e anche a 5 lire mensili, ma se i tuoi parenti più non potessero pagar nulla, io sono pronto a tenerti gratuitamente.
Il giovanetto baciò la mano a D. Bosco, ritirossi colla testa [351] bassa, e andò in cerca di D. Bongiovanni, che D. Bosco aveva prevenuto dandogli istruzioni in proposito.
Alla domenica seguente era festa solenne e il piccolo Clero precedendo i ministri sfilava all'altare. Ed ecco con gran meraviglia di tutti gli alunni che attentamente osservavano, cogli occhi bassi e rosso in viso, vestito di talare e cotta, avanzarsi fra gli altri chierichetti anche quel tale! Fu vergogna però di un sol giorno, perchè d'allora in poi continuò a far bene e a farlo con franchezza. Così D. Bosco aveva ottenuto che il fatto smentisse quella protesta: - Piuttosto scacciato che appartenere al piccolo Clero!
Il 30 aprile D. Giuseppe Persi dava principio alla predicazione degli esercizii spirituali nell'Oratorio e D. Bosco scriveva i fioretti che giorno per giorno gli alunni avrebbero offerto a Maria SS. nel mese a Lei consacrato.
1) Passando dinanzi al SS. Sacramento fare una divota e rispettosa genuflessione dicendo col cuore: - Sia lodato G. C. - Giaculatoria: Maria, a voi consacro il mio cuore.
2) Fare una fervorosa preghiera alla Madonna, perchè faccia sì che nessuno dei nostri compagni nel corso di questo mese cada in peccato mortale. - G.: Refugio dei peccatori, pregate per noi.
3) Ciascuno preghi qualche buon compagno od altra persona capace, affinchè gli suggerisca che cosa deve fare per dar maggior gusto a Maria; e poi lo faccia. - G.: Vergine Maria, fatemi grazia di avanzar sempre nella virtù.
4) Fare una protesta di voler essere sempre divoti della Madonna; procurare di portare la sua medaglia al collo e baciarla con divozione ogni sera prima di coricarsi. - G.: V. M., accettatemi sotto il vostro manto e difendetemi da ogni male.
5) Attenzione e diligenza massima nel recitare le orazioni del cristiano; ed in specie quelle che si dicono prima e dopo il cibo, la scuola, lo studio. - G.: Vergine Maria, fate che io vi ami sempre più.
6) Per amor di Maria sopportare con pazienza quei difetti che scorgiamo nel nostro prossimo i quali non si possono facilmente correggere. - G.: V. M., accendete nel mio cuore il fuoco della carità.
7) Offerire a Maria tutte le divozioni da voi praticate in questo [352] mese e domandarle perdono delle trascuranze usate. - G.: Vergine Maria, fate che io vi sia sempre devoto.
8) Impiegar bene il tempo; procurare cioè di non passare un sol minuto in ozio, ma tutto impiegarlo a gloria di Dio. - G.: Vergine Maria, fatemi guadagnare il Paradiso.
9) Fare una qualche mortificazione o corporale o spirituale in onor di Maria. - G.: Vergine Maria, datemi un cuore puro e mondo.
10) Correggere dolcemente qualche compagno che conoscete aver egli qualche difetto sia nel parlare, sia nel modo di agire. - G.: O Vergine Santa, aiutatemi a custodire la mia lingua.
11) Alla mattina, alzandovi, date il primo pensiero a Maria, proponendovi di fare lungo il giorno qualche opera buona in onore di Lei. - G.: Oh quanto sarei felice, se mi portassi bene con Maria.
12) Fare una breve orazione alla SS. Vergine affinchè ci aiuti a fare un fermo proponimento di voler coltivare la virtù della modestia. - G.: Vergine Maria, innamoratemi delle vostre virtù.
13) Fare l'esame diligente di coscienza e prepararsi a fare una confessione come se fosse l'ultima della vita. - G.: O Maria, liberatemi sempre dal peccato.
14) Esatta ubbidienza ai Superiori, ma specialmente al confessore per le cose di spirito, ed al maestro per le cose di scuola. - G.: Vergine Maria, Sede della sapienza, pregate per noi.
15) Mortificare la lingua; astenersi dal dir parola che possa offendere la carità, la moralità ed il buon costume. - G.: O Vergine Maria, fate puro il corpo e santa l'anima mia.
16) Osservare rigoroso silenzio mattino e sera nelle camerate e per quanto è possibile non alzare la voce mentre dal parlatorio si va in camerata dopo le orazioni. - G.: V. M., fate che mi serva della lingua per dar gloria a Dio.
17) Ogni qualvolta reciterete o sentirete recitare il Gloria Patri chinate il capo in segno di venerazione alla SS. Trinità. - G.: V. M., tempio della SS. Trinità, pregate per noi.
18) Osservate tra i vostri scritti, tra le vostre immagini, fra i vostri libri se si trovasse qualche cosa di poco decente e ad onore di Maria gettatela sul fuoco ad ardere. -G.: O Maria, porta del Cielo, pregate per noi.
19) Pensare seriamente a quei doveri del proprio stato ai quali si manca più spesso, implorare l'aiuto divino e promettere a Maria di emendarsene. - G.: Vergine Maria, fate che io serva perfettamente Iddio.
2o) Fare una protesta dinanzi all'altare di Maria di emendarsi a qualunque costo di quel difetto che ciascuno internamente conosce. - G.: Vergine Maria, aiutatemi a conoscere me stesso.
21) Ogni volta che si entra in chiesa prendere l'acqua benedetta [353] e segnarsi con fede e divozione. - G.: Vergine Maria, fate che io non sia mai indifferente negli atti di religione.
22) Per amor di Maria astenersi assolutamente dal mettersi l'un l'altro le mani addosso nemanco per burla. - G.: Vergine Maria, fate che io acquisti grazia e prudenza nel conversare coi miei compagni.
23) Ciascuno inviti un compagno a far seco lui una visita al SS. Sacramento ed a Maria. - G.: Vergine Maria, aiutatemi a farmi santo.
24) Dare un buon consiglio a qualche nostro compagno e chi lo riceve procuri di metterlo in pratica per amor di Maria. - G.: Vergine Maria, impetratemi il dono della pietà.
25) Massima diligenza nel far bene tutti quei lavori che il dovere ci obbliga di fare. - G.: Vergine Maria, aiutatemi a compier bene i miei doveri.
26) Somma prudenza e gelosissima modestia nello spogliarsi e nell'andare a letto alla sera, nell'alzarsi e nel vestirsi al mattino. G.: Vergine Maria, madre della santa purità, pregate per noi.
27) Non commettere la menoma mancanza contro le regole del collegio, specialmente quelle che riguardano le camerate. - G.: Vergine Maria, impetratemi la virtù dell'obbedienza.
28) Massima attenzione nell'ascoltare il Santo Sacrificio della Messa e fare una breve preghiera per colui fra i nostri compagni il quale ama poco Maria. -G.: Vergine Maria, fatemi grazia di acquistare la virtù dell'umiltà.
29) Ciascuno si faccia dire da chi maggiormente è conosciuto di qual difetto specialmente deve correggersi per dar più buon esempio. - G.: V. M., fate che io possa conoscere me stesso.
Anche ai giovani del Collegio di Lanzo scriveva alcuni fioretti e giaculatorie colle quali onorassero la Celeste Madre in questo mese a Lei consecrato.
i suoi figli del Collegio di Lanzo in maggio 1866.
Ascoltare con più divozione la S. Messa, recitando con più attenzione le orazioni che si dicono tutti insieme, e tenere per quanto si può gli occhi rivolti al sacro altare. - Giaculatoria: V. M., fate che io possa custodire bene i sentimenti del mio corpo.
Massima attenzione alle parole che il Direttore dice ogni sera dopo le orazioni con fermo proponimento di metterne in pratica gli avvisi. - G.: V. M., fate che la parola di Dio faccia in me i suoi effetti.
Per amore di Maria far tutto quanto si può per andar subito dove c'inviterà il suono del campanello. - G.: V. M., fate che io possa acquistare la virtù dell'obbedienza. [354] Al segno della levata non ascoltar la pigrizia, ma alzarsi subito e mentre dallo studio si va in chiesa per quanto si può non fermarsi fuori con compagni. - G.: V. M. fate che io sia docile alle divine ispirazioni.
Pregare la SS. Vergine affinchè ci aiuti a fare un proponimento fermo di voler coltivare la virtù della modestia. - G.: Vergine Maria, fate che io cresca sempre in virtù.
Pensare a quei doveri del proprio stato contro i quali si manca più spesso, ricorrere al divino aiuto e promettere alla Vergine Maria di emendarsene. - G.: Vergine Maria, fate che io serva fedelmente Gesù.
Domandar scusa e perdono a chi possiamo aver offeso, mostrar doppio amore con far qualche benefizio a coloro verso i quali ci sentiamo un po' avversi. - G. Vergine Maria, fate che io sia sempre in pace con tutti.
Per amore di Maria santificare la ricreazione, giuocando per quanto si può in comune, e invitando cortesemente all'allegria chi, per qualsiasi causa, fosse sconsolato o inclinasse a star solo. - G.: Vergine Maria, fate che io non disgusti mai il vostro figlio Gesù.
IL Cav. Federico Oreglia di S. Stefano si trovava a Roma da qualche tempo. Quivi non si ignoravano, le esimie virtù di D. Bosco e il 9 maggio la Marchesa. Teresa Patrizi, nata Altieri, scriveva al Servo di Dio raccomandandosi alle sue preghiere per essere liberata da convulsioni che l'affliggevano da tre anni, assicurandolo di confidare in Maria Ausiliatrice. D. Bosco la esortava ad avere una fede viva nella bontà della Madonna e le spediva la risposta, acclusa con altre lettere in un foglio indirizzato al Cavaliere, cui narrava quanto accadeva nell'Oratorio. [356]
Ho ricevuta la sua cara lettera di Firenze e quella di Roma e ne ho comunicato il tenore a tutti quelli della cosa che fecero una stupenda ovazione di evviva al Cavaliere.
Le cose notate ebbero già la loro esecuzione. La tipografia va avanti, ma certamente ha bisogno di sua presenza; Durando è un po' incomodato e va in campagna; il povero D. Francesia lo supplisce in classe. Bonetti andò a casa per un suo fratello che parte militare. Migliassi è già partito. Bisio e Oddone partono oggi; sperano per altro di essere dispensati, ma è difficile. Gromo andò con Garibaldi, altri lo vogliono seguire. Gallo forse dovrà anche partire.
Tutte queste cose accrescono il lavoro, ma il Signore ci dà la sanità a segno che non abbiamo un ammalato in casa. Del resto le cose vanno tutte con tranquillità, nessun lavoro rimane incagliato.
Ma e di danaro come stiamo? I biglietti di lotteria in questi momenti sono divenuti molto pigri, e le esazioni incerte e difficili. Per la chiesa andiamo avanti colla sola questua che fa la Madonna. Gliene darò un cenno.
La settimana scorsa potemmo raccogliere due mila franchi, ma tutta questua della Madonna. Il Direttore dell'Ospedale di Cherasco aveva male ad un braccio e dopo essere stato più mesi in cura all'Ospedale di S. Giovanni se gli voleva fare l'amputazione. Prima egli volle provare a fare la novena che Ella sa, e sabato portò la sua offerta col suo braccio guarito perfettamente.
Il Conte Pollone mandò per ora 150 franchi per essere stato liberato, previa una novena, da un malore che l'aveva portato sull'orlo della tomba.
La Duchessa Melzi di Milano mandò f. 500 perchè sua nuora, dopo una serie d'incomodi che la ridussero a pessimo stato di salute, con una novena a Maria Ausiliatrice pose fine a tutti i suoi mali.
Altre offerte per simili motivi vennero da Chieri, da Asti, da Cuneo, da Saluzzo, da Milano, da Monza, da Venezia. Con queste oblazioni in mezzo alle gravi strettezze in cui ci troviamo, possiamo andare avanti.
Quando Ella propone a qualcheduno di raccomandarsi a Maria con qualche novena stia attento a tre cose:
1° Di non avere niuna speranza nella virtù degli uomini: fede in Dio.
2° La domanda si appoggi totalmente a Gesù Sacramentato, fonte di grazia, di bontà e di benedizione. Si appoggi sopra la potenza di Maria che in questo tempio Dio vuole glorificare sopra la terra.
3° Ma in ogni caso si metta la condizione del fiat voluntas tua e se è bene per l'anima di colui per cui prega.
Ieri tutta la casa ha partecipato alla bella festa di Monsignor suo [357] fratello; Dio lo porti sul primo seggio della Chiesa e ne faccia un gran santo.
Faccia i miei saluti a tanti. Dia queste lettere al loro indirizzo. La sig. Monaca Imoda è un'insigne benefattrice; può ed è ben disposta. La Patrizi si raccomandò per preghiere, ecc.
Dio benedica Lei e le sue fatiche. Riceva i più cari segni di affetto di tutta la Casa e mi creda a nome di tutti,
Sette od etto giovani dell'Oratorio dovettero partire e prendere le armi. Da ogni parte d'Italia muovevano le truppe verso le frontiere venete. Il Governo era pieno di speranza nella vittoria, ma chi aveva sempre vissuto congiurando temette che i partiti sovversivi potessero muovere a tumulto e a ribellione le plebi con grave pericolo dell'unità d'Italia. Perciò per isventare trame, delle quali essi erano maestri e che supponevano ordirsi contro di loro, il 9 maggio la Camera dei Deputati e il 14 dello stesso mese quella del Senato approvavano una legge presentata da Francesco Crispi, che a ragione si disse la legge dei sospetti. Con questa davasi licenza al Governo di mandare a domicilio coatto per un anno gli oziosi, i vagabondi e camorristi, e tutte le persone sospette non solo, ma anche quelle per le quali vi sia fondato motivo di giudicare che si adoprino per restituire l'antico stato di cose e per nuocere in qualunque modo all'unità d'Italia ed alle sue libere Istituzioni. Questa legge, com'era concepita, lasciava ai malvagi facile modo di trasmodare e di applicarla secondo le voglie dei partiti politici, delle private passioni, e degli odii contro il nome cattolico. Infatti, prima ancora che la legge fosse approvata dal Senato e promulgata dal Governo, in Napoli era applicata a danno del Clero. I diarii ufficiosi, come L'Opinione, colorirono la cosa con una delle solite calunnie, dissero cioè che i preti erano complici di una cospirazione, felicemente scoperta, intesa a ristaurare la dinastia dei Borboni. [358] Quindi la legge fu attuata con implacabile rigore contro i Vescovi e altri prelati del Napoletano, indicati come sospetti: Il Questore, chiamatili a sè, intimò loro l'ordine di partire subito, quali alla volta di Roma, quali per Marsiglia, senza dare ad essi il tempo di provvedere alle proprie faccende domestiche, senza riguardo allo stato di sanità, all'età cadente, alla loro povertà, o dignità, senza addurre un minimo motivo che giustificasse tale violazione di ogni diritto. Si disse capo dei congiurati Mons. Salzano, l'uomo più pacifico del mondo, e si cacciò; si cacciarono i Vescovi di Gallipoli, di Oria, di Manfredonia, di Rossano, di Salerno, di Aversa, di Nola e di Termoli col Vicario e il Procancelliere. Il Vescovo di Calvi e Teano nella notte sopra il 19 maggio fu arrestato nella sua casa paterna, condotto a Napoli e, dopo breve sosta conceduta a grande stento, costretto a partire alla volta di Roma dove già altri Vescovi e sacerdoti napoletani si trovavano esuli, solo perchè riputati influenti. Molti altri ragguardevoli personaggi ecclesiastici e laici furono per simile motivo o messi in carcere, o mandati in esiglio fuori d'Italia, o relegati a domicilio coatto. Nel circondario di Nola in una sola notte si operarono circa 200 arresti e centinaia di altri si eseguirono in S. Maria di Capua.
Nè solo nel Napoletano, ma anche in altre parti del regno si usavano tali rigori colle persone di chiesa. Mons. Cantimorri, Vescovo di Parma, venne confinato a Cuneo. A Milano fu incarcerato Mons. Pertusati, Provicario, e con lui in pochi giorni molti sacerdoti. A Bologna si fecero sino a quaranta perquisizioni domiciliari in un sol giorno e, benchè non si scoprisse ombra di reato, parroci, avvocati e giornalisti cattolici furono chiusi in prigione.
Aggiunse ansa ai delatori, uomini pieni di livore settario, una circolare diramata ai Prefetti dal Ministro dell'Interno Ricasoli, Presidente del Consiglio, salito al potere il 20 giugno. La circolare venne pubblicata dalla Gazzetta Ufficiale il 26. [359]
In essa raccomandavasi di esercitare con tutto rigore i diritti che la legge concedeva al fine di prevenire gli attentati che insidie straniere o domestica pravità potessero macchinare a danno della patria.
Ben tosto parecchi altri Vescovi del Napoletano, delle Marche, delle Romagne e della Lombardia videro violato sacrilegamente il loro domicilio, frugate le loro carte, messa sossopra ogni cosa da fastidiose inquisizioni; e poi furono mandati a confino assai lungi delle loro diocesi senza che nulla si fosse potuto rinvenire che desse appiglio ad accusa fiscale. Quasi ogni giorno si leggeva nei giornali qualche elenco di 10, 15 e fino 30 parroci, religiosi, semplici sacerdoti o laici, anche ragguardevoli per natali, che denunziati dal Comitato di vigilanza venivano senz'altro giudizio condannati a domicilio coatto. Essi non erano rei di trame politiche, ma di guardare a Dio e di volere salve le ragioni delle coscienze cattoliche.
Il Venerabile ebbe la fortuna di recare aiuto e conforto ad una di queste nobili vittime, colpita fra le prime dall'indegna persecuzione.
Mons. Pietro Rota, Vescovo di Guastalla, erasi ritirato nella canonica della parrocchia suburbana di S. Rocco, quand'ecco il 13 maggio, alle 3 pomeridiane, gli si presenta il Delegato di pubblica sicurezza e il tenente dei carabinieri di quella città con uno squadrone di cavalleria, coll'ordine perentorio di eseguire una perquisizione al carteggio di Monsignore e di intimargli l'immediata partenza per una tra poche città proposte. Il buon Prelato, ricevette colla solita imperturbabilità la nuova tribolazione, emettendo per altro la seguente protesta, inviata telegraficamente alla Prefettura di Reggio.
“S. Rocco, 13 maggio 1866. - Pressato da ordini governativi ad allontanarmi dalla diocesi senza conoscerne i motivi, premesse le proteste contro la violazione della immunità personale come Vescovo e come libero cittadino, cedendo [360] unicamente alla forza, eleggo per mio domicilio provvisorio Torino, insistendo per la mia pronta restituzione in diocesi, dove ho diritto e dovere di risiedere. Pietro, Vescovo di Guastalla”.
Dopo un'ora e mezzo di perquisizione, come era da supporre, non si trovò nessun capo d'accusa; tuttavia Mons. Rota partiva nella sua carrozza per Reggio, accompagnato dal Delegato e dal Tenente suddetto; e il mattino del 14, per ferrovia, scortato sempre da un addetto alla Pubblica Sicurezza, recavasi a Torino, ove giunse verso sera ed entrò in città, senza sapere, non conoscendo persona, ove fermare il piede. Presentatosi ai Signori della Missione, fu accolto con ogni riguardo, ma seppe che essendo già ivi ospitati due Vescovi strappati dalle loro sedi non era possibile ospitarne un terzo. Di là si recò alla Piccola Casa della Divina Provvidenza; ma, essendo questa un'opera pia, gli fu accennato il timore di qualche molestia da parte del Governo e insieme gli fu addotta la ragione di non avere un appartamento decoroso, e fu consigliato di presentarsi a D. Bosco, il quale facilmente gli avrebbe accordata la chiesta ospitalità.
L'Oratorio più volte all'anno vedeva Vescovi tra le sue mura, accoltivi da D. Bosco con una singolare venerazione: per lui e pe' suoi alunni era sempre una festa di famiglia l'arrivo di un Pastore della Chiesa. Chiunque egli fosse, veniva subito invitato a celebrare la messa della comunità o impartire la benedizione col SS. Sacramento, e si procurava che vi fosse musica in chiesa, e fuori il suono della banda non mancava di ossequiarlo. Il Venerabile stesso lo accompagnava nella visita delle scuole, dei laboratorii, tenendo sempre per rispetto la berretta in mano, come non mancava di baciargli l'anello in presenza de' suoi giovani. Soleva anche nella parlata della sera ricordare alla comunità la fortuna avuta nella giornata.
Mons. Rota adunque, che conosceva l'Oratorio solamente [361] per fama, vi si presentò a notte fatta con una certa ansietà, chiedendo di D. Bosco; e D. Bosco era fuori di Torino. Ma gli venne incontro D. Giovanni Cagliero, il quale, sentito il suo bisogno, senza punto esitare, lo accolse con tanta benevolenza che il buon Vescovo si riebbe come se fosse entrato in casa sua.
Al domani D. Bosco ritornava e, come gli fu detto del nuovo ospite, esclamò: - È un Vescovo; stando egli con noi, avremo pure con noi il Signore: non temiamo. - E si recò subito ad ossequiarlo facendogli mille feste; lo ringraziò dell'onore che gli faceva; e si scusò di non poterlo trattare come si meritava. L'illustre esule lo interruppe, dicendo:
- Ella, Don Bosco, accoglie i poveri e gli abbandonati; chi ora più abbandonato di me? Mi consideri come un povero orfanello; mi basta che mi dia ricovero, come darebbe ad uno di essi!
Quando si seppe per l'Oratorio chi fosse quel Vescovo che si era veduto nel cortile e in chiesa, e per qual motivo vi si sarebbe fermato, fu una festa per tutti. “È segno che Dio benedice il nostro Oratorio” disse D. Bosco alla sera; e i giovani si separarono gridando sotto le finestre di Monsignore: Evviva il Vescovo di Guastalla!
All'Oratorio non si stava al largo: ma il buono e santo esigliato si contentò di una piccola camera ove dormiva e di un'anticamera ove riceveva e gli si preparava la mensa. Don Bosco volle che per lui si facesse cucina a parte.
Monsignore si affrettò a scrivere una lettera pastorale agli amati suoi diocesani manifestando il suo dolore per essere stato costretto a partire senza poter dar loro un addio ed ora a vivere lontano dai suoi figli; augurava loro la pace vera che si trova solo nella grazia di Dio; esortavali a non dar retta ai maestri d'eresia venuti ad appiattarsi nella sua vigna per devastarla; raccomandava le opere buone e la frequenza de' Sacramenti; e prometteva che avrebbe pregato tutti i giorni nella santa Messa anche per quelli che forse l'odiavano senza [362] saperne il motivo, pronto ad abbracciare tutti col medesimo affetto. La lettera recava la data: In Torino, dall'Oratorio di S. Francesco di Sales, il giorno di S. Gregorio VII (25 maggio), ed aveva anche la firma del Pro-Segretario: Sac. Giovanni Cagliero.
D. Bosco la fece stampare in Casa e la spediva alla Curia di Guastalla.
Monsignore fu per sei mesi l'edificazione di tutti. Prestavasi a confessare chiunque lo richiedesse di questa carità; ma ciò che formò la meraviglia dei giovani fu il vederlo ogni otto giorni recarsi in sacrestia e confessarsi da D. Bosco dopo aver atteso, in ginocchio sul nudo pavimento e in fila cogli alunni, il suo turno. Quando si vide quel venerando Pastore, reso più venerando per le persecuzioni che soffriva con tanta rassegnazione, comparire per la prima volta in sacrestia a questo fine, tutti si levarono pel rispetto a fine di cedergli il posto. Ma egli si allontanò in un angolo, ove stette immobile aspettando che gli altri fossero passati.
Don Bosco leniva non poco il suo dolore, anzi lo consolava, circondandolo di tante attenzioni, che quel buon Vescovo diceva in seguito a D. Rua e ad altri che il tempo più felice della sua vita l'aveva passato all'Oratorio. Quasi ogni giorno D. Bosco invitava o prelati, o distinti ecclesiastici a fargli compagnia a mensa. Per mezzo delle stesse autorità civili e politiche della città, non solo gli fece togliere i rigori del domicilio coatto, che gli vietavano l'uscita fuori dalla cinta, ma la Prefettura, rendendosi responsabile in faccia al Governo, gli diede ampia licenza di recarsi ove meglio gli piacesse in larghissimo spazio intorno a Torino.
Ed egli ne approfittò per andare a Mondovì, presso il Vescovo Ghilardi che lo ricevette al suono di tutte le campane e lo trattenne alcuni giorni; e nella calda stagione D. Bosco fece sì che l'avesse ospite nella sua villa il Conte Filippo Radicati di Passerano, suo insigne benefattore, Consigliere di [363] Prefettura, che fungeva da Vice-prefetto. Anche la famiglia dei Conti Appiano di Castelletto, unita da vincoli di parentela e da quelli di viva fede cristiana al Conte Radicati, gareggiava con lui in generosi atti di venerazione verso l'illustre esiliato.
Quanti venivano a conoscerlo restavano edificati della sua virtù, della sua pazienza, della sua rassegnazione e principalmente di quella sua singolare modestia, che univa ad una vasta erudizione e profonda dottrina. Nè stava ozioso; ma nel suo zelo apostolico spendeva il tempo confessando, catechizzando, cresimando e conferendo le sacre ordinazioni nella chiesa dell'Oratorio, quasi fino a far credere che la Divina Provvidenza si fosse servita di chi lo volle condannato all'esiglio per preparargli una solenne giustificazione, anzi un trionfo.
Pochi giorni dopo l'arrivo del Vescovo di Guastalla, Don Bosco aveva ricevuto una consolazione, da lui ambita più di ogni fortuna, quella di leggere i venerati caratteri del Vicario di Gesù Cristo.
PIO PAPA IX[15]
Diletto Figlio, salute ed apostolica benedizione.
Con vero piacere abbiamo ricevuta la lettera colla quale ti piacque accompagnare il dono della tua Storia d'Italia, narrata alla gioventù, [364] stampata da cotesta tipografia in Torino insieme col volume delle Iscrizioni del Dott. Vallauri. Sebbene noi non abbiamo potuto, per le molte e gravissime nostre occupazioni, leggere detta Storia, tuttavia il dono ci tornò gradito, e te ne ringraziamo di cuore.
Continua intanto, Diletto figlio, ad istillare con gran cura negli animi dei giovanetti i santissimi precetti della divina nostra religione e formarli alla pietà, all'onestà dei costumi ed alla pratica d'ogni virtù; e non cessare d'innalzare a Dio frequenti preghiere per il trionfo della sua Santa Chiesa, e d'implorare il potentissimo patrocinio della Vergine Maria.
In fine auspice di tutti i celesti carismi e qual pegno della nostra speciale paterna carità, di tutto cuore ti impartiamo, o Diletto figlio, l'Apostolica Benedizione.
Dato a Roma, presso S. Pietro, il 21 maggio 1866, vigesimo dei nostro Pontificato.
Al diletto figlio Sac. Giovanni Bosco - Torino.
Poco tempo prima il Sommo Pontefice aveva concesse a D. Bosco alcune grazie, richieste colla seguente supplica:
Il sacerdote Bosco Giovanni prostrato ai piedi di Vostra Santità espone rispettosamente il bisogno di alcuni giovani ricoverati nella Casa dell'Oratorio di S. Francesco di Sales. Dando essi chiari segni di vocazione allo stato ecclesiastico furono avviati agli studi, e presentemente sono pressochè giunti al termine dei corsi stabiliti per chi aspira a questa carriera. Ecco il nome de' giovani ed il favore che loro occorre:
1° Bongiovanni Domenico, insignito del Diaconato, per essere ordinato sacerdote nel prossimo sabato della SS. Trinità abbisogna di ottenere le necessarie dimissorie, essendo la Sede Arcivescovile vacante, e di essere dispensato di tre mesi e dodici giorni sopra l'età dai Sacri Canoni prescritta. -Nacque il 3 settembre 1842.
2° Cibrario Nicolao, diacono, cui occorrono soltanto le dimissorie per essere ammesso all'ordinazione del Sacerdozio.
3° Cerruti Francesco dimanda le dimissorie per essere ammesso alla tonsura, coi quattro minori, quindi a suo tempo agli altri Ordini Maggiori.
Questi sono i favori che colla massima venerazione si dimandano alla patema carità di Vostra Beatitudine.
LE glorie e l'amore di Maria col loro ineffabile sorriso dissipavano nell'anima di Don Bosco ogni dolore, ogni preoccupazione, scoraggiamento, umiliazione, e stanchezza. Le sue glorie predicava dai pulpiti, ricordava nei discorsi privati, stampava nei libri, narrava nelle lettere. Ne scriveva di quei giorni alla signora Elisa Melzi Sardi di Milano, la quale il 22 maggio lo ringraziava vivamente non solo dell'autografo, ma anche per le sue preghiere nelle quali molto sperava. [366] Al cav. Oreglia, sempre occupato in Roma, dava nuove commissioni per vari benefattori di quella città e narrava nuove meraviglie di Maria Ausiliatrice.
Ho ricevuto la sua lettera cui credo abbia già risposto la mia di lunedì scorso, almeno in parte. Io l'ho letta ai nostri cari giovani che ne provarono la massima consolazione e le mandano i loro più caldi sensi di stima e di affezione.
Mi fu spedito da Roma il biglietto che qui le unisco per sua norma e per ringraziare ove sia d'uopo il Cardinale Riario.
Non so se quella signora Marchesa Patrizi sia la stessa cui ho già scritto un biglietto: se non lo è e comunque sia, le rimetto questo scritterello, in cui dico che la sua pia intenzione sarà secondata.
Alla Contessa Calderari dica che se le scrivessi più a lungo sull'argomento che mi aveva accennato, le cagionerei angustia. Abbia la bontà di rileggere la mia lettera, stia tranquilla e lasci tutto sopra di me.
A Lei, sig. Cavaliere, fa specie la bontà e cortesia di S. E. il March. Cavalletti, Senatore di Roma. Queste a me non sono cose nuove. Fin dal tempo che fui a Roma, il compianto Card. Marini aveva più volte parlato della religione, carità e zelo di quest'illustre famiglia. Se mai avesse occasione di poterlo ancora vedere, gli offra gli omaggi della mia grande venerazione; pel passato pregava per lui in genere, ora pregherò e farò pregare appositamente per lui e per la sua famiglia. Gli dica che la Divina Provvidenza gli prepara un bel mazzetto di rose scelte, ma per prenderle bisogna che stringa le molte spine sottostanti. In breve saprà tutto: non posso scrivere di più. Io mi raccomando, alle divote preghiere di lui e della sua famiglia, e domenica farò fare la comunione ai nostri giovani secondo la santa di lui intenzione.
Credo che non sappia ancora la novità della chiesa. I quaranta muratori che dovevano lavorare furono ridotti al numero di otto per mancanza di mezzi. È un momento per noi assai calamitoso per l'impotenza in cui i soliti nostri benefattori si trovano. Speriamo che Dio manderà quanto prima la pace fra i popoli cristiani e che i sudditi potranno unirsi intorno al loro sovrano ed occuparsi tutti con un animo più tranquillo alla salvezza dell'anima.
Ieri l'altro, venerdì, Maria Ausiliatrice ha fatto una buona questua.
Una signora che da un anno era travagliata dalla gotta ed era incapace di fare un passo sulle sue gambe, si raccomandò alla celeste Benefattrice, si fece una preghiera con tutta la famiglia in onore dell'Augusto Sacramento dell'altare. Che vuole mai! Dio è buono, Dio è [367] grande! Terminavano le preghiere e la benedizione e l'altra gettò via le stampelle, e si levò in piedi e nella meraviglia di tutti si pose liberamente a camminare. Ieri andò a fare le sue divozioni alla Consolata, di poi venne a fare una graziosa oblazione per la chiesa, che ci servi appunto a pagare il capo mastro, il quale attendeva danaro. Sia sempre benedetta la grande Madre del Salvatore.
Noi desideriamo quanto prima il suo ritorno, ma rimanga pure a Roma finchè abbia soddisfatto la sua divozione e compiuti gli affari che la riguardano.
Faccia il piacere di salutare da parte mia Monsignor suo fratello, il p. Oreglia, p. Brunengo, p. Fantoni, la famiglia Vitelleschi, e la nostra benefattrice la Marchesa Villarios colla sua famiglia. Codesti saluti sono da estendersi a Mons. Manacorda ed a quelli cui vedrà del caso.
La grazia di N. S. G. C. sia sempre con noi. Amen.
N.B. -Si ricordi che giunto a Torino conviene prepari un supplente nella Tipografia pei casi di sua assenza.
Nel ricordare le meraviglie operate dalla Madonna, oltre il bisogno di uno sfogo al suo immenso affetto per la Madre di Dio, egli aveva per iscopo di giovare al prossimo. Voleva ravvivare in tutto il mondo una fiducia illimitata in Colei che in mezzo alle angustie, alle tribolazioni, agli errori, ai pericoli di questa povera vita mortale, era e sarebbe sempre stata l'amorosa, la pronta, la potente sua Ausiliatrice. Per ordine di Maria aveva fondata l'opera sua ed ora innalzava una chiesa, non cessando d'indicare la necessità dei Sacramenti che tolgono il peccato, o da questo preservano le anime, essendo il peccato che rende miseri i popoli.
Tale era la sua missione e ne aveva assicurazione celeste; ma per raggiungere questo fine non bastava scriverne o parlarne privatamente. Bisognava mettere in pratica ciò che il Vangelo insegna: -Dite in pieno giorno, quello che io vi dico all'oscuro: predicate sui tetti quel che vi è stato detto in [368] un orecchio. - Era indispensabile dar fiato alla tromba e farne udire il suono a tutto l'universo. La pubblicità colla stampa! La gente come poteva amare ciò che non conosceva? Voluntas non fertur in incognitum.
E D. Bosco prese la sua risoluzione. Sapeva benissimo che il suo disegno era una novità a cui non si era assuefatti in Piemonte; prevedeva che i maligni avrebbero potuto attribuirgli mire d'interesse, di vanagloria e anche di imprudente inconsideratezza; che più d'uno l'avrebbe criticato di fanatismo; che sarebbero sorte difficoltà e opposizioni; ma egli non si turbava per così poco, e d'altra parte era convinto chè opera Dei revelare et confiteri honorificum est. Difatti fin dalle prime mosse trovò incagli, e di questi e di altre cose dava notizia al Cav. Oreglia.
Nelle opere del Signore il demonio ci mette tosto le corna. Appena stampato il fatto Morelli, alcuni giornali presero a parlarne, il figlio di lui tutto democratico, studente dell'Università, volle assolutamente che il padre riparasse il disonore, come diceva, che a lui ne avveniva e senza dir altro si presentò minaccioso all Unità Cattolica. Colà senza prevenirci inserì la rettificazione che ammette tutto il fatto, ma dice che fu fatta la pubblicazione senza suo ordine e permesso. Questa clausola è erronea, poichè nella relazione che abbiamo in casa e sottoscritta da lui dice precisamente: “Do ampio permesso che questa relazione sia letta e pubblicata nel modo che tornerà a maggior gloria di Dio”.
Che farci adesso? Giunto che sia D. Durando dalla campagna, si aggiusterà ogni cosa. Pazienza.
Malgrado questo, Maria Ausiliatrice continua a benedirci, e fra le altre benedizioni àvvi quella conseguita quest'oggi dell'aggiustamento delle Letture Cattoliche. È vero che abbiamo dovuto sottoporci a gravi sacrifizii; ma adesso sono definitivamente nostre.
Di qui a qualche giorno passerò a prendere i settecento fr. che mi accenna presso il sig. Conte Demagistris. Ottimo quanto fece al proposito.
Interrompo la lettera per ricevere una limosina fattami da una, persona che aveva una lite complicatissima. Si raccomandò e fece una novella a Maria Ausiliatrice promettendo qualche cosa per continuare la chiesa. Oggi termina la novella e la lite è aggiustata definitivamente. [369]
In quanto al suo soggiorno in Roma stia a tempo illimitato, cioè finchè abbia diecimila franchi da portare a casa per la chiesa e per pagare il panattiere. Con questo voglio dire che qui si ha vero bisogno del suo ritorno, ma che può rimanere a Roma finchè può fare qualche cosa che sia di maggior gloria di Dio e a sollievo dell'Oratorio.
In quanto all'andare a Roma per me è affare molto grave pei momenti che corrono. Debbo prendere lezione dagli avvenimenti che succederanno nello spazio di due settimane.
Non posso nominarli tutti, ma la prego di salutare tutti quelli che Essa mi ha notato, e specialmente i nostri benefattori. Dica a tutti che dimani diremo messa e i giovani faranno la loro comunione colle solite preghiere per i benefattori della chiesa.
Dio benedica Lei, sig. Cavaliere, e benedica le sue fatiche e faccia che ogni sua parola salvi un'anima e guadagni un marengo. Amen.
P. S. Riceverà per la posta la musica ed i libri richiesti.
In questa lettera si parla di due fatti, che vogliono una spiegazione. Il primo riguarda la pubblicazione di una grazia di Maria Ausiliatrice stampata sul numero 101, (29 aprile 1866) dell'Unità Cattolica. Era la prima grazia che si pubblicava, affine di provare coi fatti la bontà di Maria SS. verso coloro che cooperavano all'edificazione della sua chiesa in Valdocco ed all'incremento delle imprese salesiane. Si voleva che il più illustre fra i giornali cattolici d'Italia avesse questo onore: d'altra parte nello stesso foglio erano apparse le più ampie relazioni delle meraviglie operate da Maria SS. invocata sotto lo stesso titolo nella città di Spoleto. Dopo questa pubblicazione si sarebbe continuato, come infatti si fece, a dar conoscenza al popolo cristiano, di quanto la Madonna sotto il titolo di Ausiliatrice avrebbe meravigliosamente operato dal nuovo Santuario a vantaggio dei suoi devoti.
Pertanto D. Durando erasi presentato al suo professore ed amico Tommaso Vallauri, pregandolo a voler inserire nell'Unità Cattolica il manoscritto della grazia. A quei tempi [370] il Teol. Margotti non aveva ancor stretta coll'Oratorio quell'intima relazione che ebbe di poi. Il prof. Vallauri, che era collaboratore dell'Unità Cattolica, accondiscese alle istanze di Durando, dicendo che per parte sua non aveva difficoltà: ma però ne avrebbe parlato a Margotti. Il Teologo, letta la relazione, non volle darla alle stampe, se prima non fosse stata approvata dall'Autorità Ecclesiastica. Venne quindi rimandata quella carta, con notizia della condizione apposta, a D. Durando, il quale recavasi a far visita al Can. Vogliotti pregandolo a volervi porre il suo visto: ma il canonico rifiutossi assolutamente. Che fare? In Seminario eravi fra i superiori il Teologo Olivero, amicissimo dell'Oratorio e persona influente sull'animo del Vogliotti. A costui si rivolse Don Durando, e il Teol. Olivero tanto disse che il Pro-Vicario accondiscese a porvi la firma. E l'articolo venne pubblicato tale quale lo trascriviamo.
Mosso dalle molte cose, che ogni giorno leggo a favore della nostra Cattolica Religione nel pregiatissimo giornale di V. S., mi feci animo a porgerle preghiera di volere nelle colonne del medesimo pubblicare la seguente relazione di guarigione straordinaria, direi quasi miracolosa, che io ottenni ad intercessione di Maria Ausiliatrice. Da nove mesi travagliato da un malore che aveva aspetto di ossificazione cancrenosa, io giaceva in un letto consumato dal morbo e da acuti dolori. Una parte del capo e la guancia sinistra era venuta preda del morbo vorace. Medicine d'ogni genere, valenti medici in particolare ed in consulto erano stati da me richiesti, ma tutto inutilmente. La cosa in cui i periti dell'arte si accordavano, era questa: se il male veniva in suppurazione, locchè già si conosceva inevitabile, sarei morto istantaneamente; altrimenti avrei dovuto fra breve egualmente soccombere alla violenza del male. Pertanto in mezzo ai dolori ed alla tristezza, io vedeva la morte che a grandi passi mi si andava ogni giorno avvicinando, senza speranza di farle ritardare l'arrivo fatale.
In quel tempo per tratto di bontà l'ottimo sacerdote D. Bosco venne a visitarmi, e dopo aver intesa la narrazione della malattia, mi disse che alcuni si erano raccomandati a Maria Ausiliatrice ed avevano [371] ottenuti non ordinarii favori e mi suggerì di fare una novena a questa Madre Celeste, e: Se da Maria otterrà la guarigione, mi diceva, porterà poi qualche oblazione per continuare i lavori della chiesa posta in costruzione in Valdocco, appunto sotto il nome di Maria Ausiliatrice. Non avendo più speranza nei mezzi umani, di buon grado mi appigliai a quel suggerimento, e per nove giorni la mia famiglia, amici ed io, per quanto il male me lo permetteva, pregavamo all'uopo di disporre in mio prò per intercessione della B. V. la clemenza divina.
L'ultimo giorno della novena il prelodato sacerdote si compiacque di rinnovarmi la sua visita, sempre confortandomi nella speranza di Maria SS., e, prima di lasciarmi, dopo breve preghiera mi die' la benedizione e mi soggiunse che al domani avrebbe celebrata la messa per me.
All'indomani alle sette e un quarto del mattino si comincia la messa, da quanto mi venne narrato, e noi pregavamo in famiglia, ed alle sette e mezzo mi sento un'esacerbazione del male e mentre lo spasimo mi faceva temere sinistre conseguenze, mi accorgo che comincia una violenta suppurazione. Il miglioramento comincia subito sensibile ed è perseverante. L'allegrezza si spande per tutta la famiglia, ed in breve, potrei dire istantaneamente, mi trovo perfettamente guarito: e mi trovai guarito da un malore che a detta dei medici era incurabile e qualora anche si fosse trovato metodo di cura, avrebbe richiesto mesi ed anni di dolorosa e difficile convalescenza.
Ora io non solamente sono perfettamente guarito, ma godo di uno stato di salute tale, che anche prima della mia malattia non godeva. Questo favore lo riconosco da Dio, ottenuto dall'augusta sua Madre sotto il titolo di Maria Ausiliatrice.
La prima cosa che feci fu di ringraziare Iddio di un così segnalato favore, e tosto andai a compiere la mia promessa con una oblazione per il novello tempio che maestoso si va elevando in questa città nella regione di Valdocco.
Quale omaggio alla verità desidero che la presente relazione sia letta o pubblicata nel modo che sembrerà tornare a maggior gloria di Dio e ad onore della Beata Vergine Maria.
MORELLI GIUSEPPE, già sindaco di Caselle.
Can. A. VOGLIOTTI, R. Ecclesiastico.
Il figlio del signor Morelli, che pur era stato scolaro di D. Durando, letto quel giornale, si dichiarò offeso, e costrinse [372] il padre a stendere la seguente dichiarazione che apparve nel N. 116, 18 maggio, dell'Unita' Cattolica.
Sig. Direttore dell’ “Unità Cattolica”.
Nel numero 101 dei suo accreditato periodico scorgo la narrazione di un avvenimento, autenticato colla firma Giuseppe Morelli, ex-sindaco di Caselle.
A fronte di sifatta inserzione nel suddetto giornale a totale mia insaputa e chè da altri giornali veniva riprodotta, non posso a meno di altamente protestare, dichiarando non essere la detta pubblicazione opera mia, ma sibbene di persone di cui per delicatezza taccio il nome. Torino, il 13 maggio 1866.
Don Bosco non si diede per inteso della mal consigliata protesta e fece ristampare la stessa grazia nel fascicolo di luglio delle Letture Cattoliche, col titolo: Viva Maria Ausiliatrice, e questa nota:
“Non sappiamo per quali motivi si è voluto contestare l'autenticità di questa relazione, ma noi ti possiamo assicurare, o lettore, che quanto pubblichiamo non è che la pura verità. E facciamo questa pubblicazione più volontieri ancora, pel desiderio che ci anima, di far conoscere a tutti i divoti di Maria SS., quanto questa nostra buona Madre Celeste soccorre i suoi figli anche nelle cose temporali. E che non farà poi dal Cielo per salvare le anime nostre?”.
La potenza di Maria, invocata col titolo di Ausiliatrice, benchè fosse già conosciuta in molti luoghi, era diremmo quasi, ristretta in un certo numero di famiglie, ma non appena la stampa prese a parlarne, si dilatò come scintilla elettrica la confidenza in Lei.
“Altri e poi altri, stampava D. Bosco nel 1868, le si raccomandarono facendo la novena e promettendo qualche oblazione se ottenevano la grazia implorata. E qui se io volessi esporre la moltitudine dei fatti, dovrei farne non un piccolo libretto, ma grossi volumi. [373]
Male di capo cessato, febbri vinte, piaghe ed ulceri cancrenose sanate, reumatismi cessati, convulsioni risanate, male d'occhi, di orecchi, di denti, di reni istantaneamente guariti; tali sono i mezzi di cui servissi la misericordia del Signore per somministrarci quanto era necessario a condurre a termine questa chiesa.
Torino, Genova, Bologna, Napoli, ma più di ogni altra città, Milano, Firenze, Roma furono le città che, avendo in modo speciale provata la benefica influenza della Madre delle grazie invocata sotto il nome di Aiuto dei cristiani, dimostrarono eziandio la loro gratitudine colle oblazioni. Anche più remoti paesi, come Palermo, Vienna, Parigi, Londra e Berlino, ricorsero colla solita preghiera e colla solita promessa a Maria Ausiliatrice. Non mi consta che alcuno sia ricorso invano. Un favore spirituale o temporale più o meno segnalato fu sempre il frutto della dimanda e del ricorso fatto alla pietosa Madre, al potente aiuto dei cristiani. Ricorsero, ottennero il celeste favore, fecero la loro offerta senza esserne in alcun modo richiesti”.
DON Bosco nella lettera del 22 maggio al cavaliere Oreglia aveva scritto: “Maria Ausiliatrice continua a benedirci e fra le altre benedizioni àvvi quella conseguita quest'oggi, dell'aggiustamento delle Letture Cattoliche. È vero che abbiamo dovuto sottoporci a gravi sacrifici, ma adesso sono definitivamente nostre”. Purtroppo invece, per qualche tempo ancora, non fu che una speranza.
Furono infatti non comuni le noie che il Servo di Dio dovette sopportare per questo accomodamento, invocato invano da più anni. Egli aveva ideato la pubblicazione di queste Letture, ne aveva steso il programma, cominciato la stampa, l'aveva sempre assistita e corretta colla massima diligenza, ogni fascicolo era stato da lui composto o redatto a stile e dicitura adattata, aveva fatto viaggi, scritto e fatto scrivere lettere per le propagazione di queste Letture, insomma poteva ben dire che non aveva “mai pensato che le Letture [375] Cattoliche fossero proprietà altrui[16].” I comproprietari erano sorti a fianco della sua umiltà e della sua longanimità, ed anche della sua profonda venerazione per ogni Pastore della Chiesa, e specialmente pel suo eroico disinteresse. È vero che il Vescovo d'Ivrea vi aveva impegnato una cartella del reddito di 425 lire e si era contratto un forte debito col Marchese Birago; ma anche gli abbonamenti dovevano aver accumulato una somma più che sufficiente a far fronte ad ogni obbligazione.
A D. Bosco però premeva assai il superare ogni difficoltà, unicamente per assicurare l'esistenza alle sue Letture. Ed ecco che il Vicario generale d'Ivrea Can. Pinoli viene a Torino per conbinare un accomodamento, che disse sarebbe stato accettato dal suo Vescovo.
Movente di questo passo era stata l'intimazione fatta dal Tipografo Paravia a Mons. Moreno di pagare il debito di L. 4265 contratto dai suoi rappresentanti per la stampa delle Letture Cattoliche anteriormente al 1864, cioè prima che Don Bosco avocasse a sè l'amministrazione delle medesime. Ma essendo tre coloro che sostenevano di essere i proprietari di quell'associazione, bisognava sciogliere ogni dubbio e accertare il diritto di ciascuno e quindi anche le obbligazioni.
Il Teol. Valinotti aveva pregato per questo il Conte Carlo Cays di Giletta a voler essere arbitro della questione, dandogli per consulente legale l'avvocato Deamicis.
Il Conte aveva accettato l'incarico, e deliberava che per finir ogni cosa era assolutamente necessario, ad evitare ogni ombra di litigio innanzi ai tribunali, che prima base dell'aggiustamento fosse là consolidazione della proprietà delle Letture Cattoliche in un solo dei tre che si dicevano proprietari. A quest'ultimo si sarebbe addossato il debito con Paravia. Bisognava poi stabilire, qual più e qual meno, ciò che il proprietario [376] finale dovesse dare ai due comproprietari rinuncianti. Il Teol. Valinotti dichiarò che tenendosi pago della morale soddisfazione di avere contribuito colla sua persona ad un'opera buona, come sono le Letture Cattoliche, chiedeva soltanto di essere esonerato da qualsiasi obbligazione riguardo i conti da esso lui presentati dal 1854 al 1864.
Per tal modo lo scioglimento del problema veniva a restringersi alle persone del Vescovo e di D. Bosco. E si preferiva di consolidare la proprietà nel solo D. Bosco, perchè accettando egli il risultamento dei conti presentati, non era più necessario di venire sopra di un'ulteriore revisione di quelli che erano ancora a presentarsi dal 1864 al giorno d'oggi, essendo questi stati tenuti da lui stesso. Con ciò nulla più rimaneva a cercarsi, salvo la differenza tra il credito di Monsignore verso le Letture Cattoliche, e quello delle Letture Cattoliche verso del Vescovo. Ma erano conti approssimativi, essendosi tenuta una contabilità inesattissima.
I primi conti dati dal tipografo De Agostini dal 1853 al 1857 erano disperatamente oscuri; quelli posteriori del Teologo Valinotti, più limpidi. Ma la verifica non si poteva fare di corsa; e l'arbitro dovette impiegarvi non poco tempo. Il risultato del suo studio fu il seguente:
- Il debito delle Letture Cattoliche verso Monsignore, proveniente dalla vendita della rendita di franchi 425 nel 1856 e dal residuo (3388 lire) del debito Birago stimavasi di lire 9428. Il debito di Monsignore verso le Letture Cattoliche, per abbonamenti ritirati dal 1853 al 1864, dedotti i pagamenti da lui fatti dal 1853 al 1855 colla somma di 1677 lire, risultava di 8264. In conseguenza il debito delle Letture Cattoliche verso Monsignore si riduceva a 1164 lire. Ma siccome il Vescovo, secondo le lettere del Can. Pinoli al Teol. Valinotti, aveva espresso il desiderio di avere egli la proprietà delle Letture Cattoliche; nel caso, conchiusero il Conte e l'avvocato, si potrebbe mutare la prima proposta, e qualora [377] ciò fosse per convenire a Monsignore, egli potrebbe per intiero ritenere la proprietà, addossandosi pure per intiero il debito verso il Paravia. Questo concentramento della proprietà delle Letture Cattoliche, trarrebbe naturalmente con sè i residui attivi dell'attuale gestione e così questi andrebbero in ricompensa di quelli che D. Bosco può avere realizzato dal 1864; ed il vantaggio che Don Bosco può avere percepito nei due anni di sua gestione, varrebbe per compensarlo della opera prestata, opera che certamente merita non piccolo riguardo.
Tali erano state le conclusioni dell'arbitrato il giorno 22 maggio. Nei giorni 23 e 24 si tenne ancora qualche seduta e D. Bosco si avvide che quei d'Ivrea intendevano di imporgli una gravosa condizione, come appare da una sua lettera al conte Cays.
L'altro ieri quando io affidava a Lei la conclusione o meglio l'ultimazione della vertenza Letture Cattoliche, io teneva conto di quanto erasi detto alcuni istanti prima relativamente al credito Birago e agli interessi della cedola di Mons. Vescovo d'Ivrea. Ma ieri la cosa prese aspetto diverso, poichè vi sarebbe portata a mio carico la somma di oltre cinquemila franchi di più.
Io, come Direttore di un'opera di beneficenza, non posso in coscienza assumermi questo debito senza prima depurare alcune cose. Per la qual cosa se mi si volle accollare unicamente il debito Paravia, siccome in passato fu solamente richiesto e dal sig. T. Valinotti e dall'Avv. Pinoli, io l'accetto nel senso inteso mercoledì. Che se non si accetta, trattandosi di somma vistosa io lascerò altre occupazioni e voglio io stesso rivedere i conti e mettere anche in nota alcuni miei esposti in più luoghi, in diversi tempi e presso a diverse persone. Io non ho mai voluto toccare questo cantino perchè non mi pensava che si tirassero fuori tante somme credute estinte o quasi estinte. Il Teol. Valinotti medesimo ebbemi più volte a dire: Colla rendita di fr. 200 comprata per le Letture Cattoliche resta pagato Monsignore. Il debito Birago è pressochè estinto, etc.
E' vero che àvvi il debito Paravia che urge e a questo riguardo si può rimediare così: Io risponderò alla cedola per mio conto ed il Teologo per la parte sua faccia quella risposta che crederà. [378]
1° Che le dissi e lo confermo tuttora, che se vede qualche conclusione, che in buona coscienza io possa accettare, l'accetterò senza farvi sopra alcun riflesso;
2° Se si vogliono troncare tutti gli indugi, io accetto il debito Paravia purchè sia affar finito, ed io non metterò più in nota alcuno de' miei esposti.
Creda, caro sig. Conte, che questo affare mi è una spina pungente al cuore; da una parte vorrei evitare fino l'ombra di questioni, dall'altra ho una schiera di giovani affamati che stringono a cercare ogni più piccola risorsa per soddisfare alle loro necessità; e questa fu la cagione per cui ne soffro assai nella stessa sanità. - Mi rincresce poi in modo speciale pel molto disturbo che si è dato V. S.; Dio la rimeriti ed io non mancherò di pregare affinchè la ricompensa sia copiosa.
La prego, se così giudica bene, di comunicare questi miei sentimenti al prelodato sig. Teologo Valinotti, e di credermi quale colla più sentita gratitudine mi professo
Torino, 25 maggio, matt. 1866.
N.B. - Questa mattina debbo andare per la città a motivo di alcuni ammalati e non sarò a casa fino alle 10½.
Il conte Cays mantenne il proprio arbitrato e scriveva al Vescovo d'Ivrea, il 27 maggio, dandogliene notizia e relazione esatta, e concludeva:
“Sottopongo i due progetti o sistemi all'E. V. Rev.ma. Se li crede equitativi e giusti entrambi, voglia avere la bontà di pronunziarsi, per quello che più le aggrada. Il Teol. Valinotti e il Sac. D. Bosco, rispettosi ai suoi cenni, anticipatamente fin d'ora vi aderiscono. In quanto a me le chieggo scusa della temerità che ebbi nell'accettare un incarico superiore alla mia capacità. Le assicuro però che se ho accettato, io l'ho fatto perchè non ho potuto resistere alle fattemi istanze; e più specialmente alla bontà dell'Eccellenza Vostra, che si degnò approvare la scelta fatta dal Teol. Valinotti “.
Mons. Moreno gli rispondeva con due lettere del 28 e 31 maggio colle quali chiedevagli che gli fossero spediti i documenti e le carte relative alla contabilità, dimostrando di non [379] approvare il risultato del resoconto dei debiti e dei crediti per essergli questo cagione di perdite troppo gravi, se non avesse rinunciato al diritto di proprietà sulle Letture Cattoliche.
Il Cays rimetteva a Monsignore i libri dei conti e le carte per mezzo del cerimoniere rev. D. Sarraglia e gli scriveva il 1° di giugno. Dopo avergli esposto la ragionevolezza del risultato del proprio esame sui conti presentati, soggiungeva:
“…… Invitato ad emettere il mio arbitrato in questione, massime sul definire il pagamento a farsi al Tipografo Paravia, io ho accettato l'incarico nella ferma persuasione che questa questione dovesse risolversi all'amichevole e non a punta di diritto. Questo è troppo difficile da stabilirsi e non so se dopo due o tre anni di lite se ne verrà a capo e se allora non si dovrà poi venire alla transazione, che ho creduto di dover proporre in sul bel principio.
Il mio primo pensiero sarebbe stato di troncare subito la questione col proporre che la proprietà delle Letture Cattoliche rimanesse definitivamente consolidata in D. Bosco, a condizione che questi si assumesse il carico di pagare per intero il debito verso Paravia.
Non mi sarei sentito di aggravarlo ancora del residuo debito verso la S. V. Rev.ma, risultato dal conto che le ho spedito, perchè i calcoli che si hanno a fare per venire in chiaro di questo risultato, posano sopra basi troppo incerte da non poterne fare argomento di un serio scaricamento.
E come si avrà una certezza del risultato del calcolo, mentre manca l'epoca precisa dell'alienazione delle rendite, e ancora non si conosce neanche l'ammontare preciso dei prodotto di essa alienazione? D'altronde poi fra i diversi calcoli che si possono istituire ve ne ha persino di quelli che vengono ad un risultamento opposto. Fra tutti questi dubbi io ho creduto meglio di astenermi da un assoluto arbitramento; ho pensato di esporre questi dubbi all'E. V. Rev.ma e lasciare a Lei l'apprezzamento della mia proposta: tanto più che in questo modo il merito dell'abbandono del residuo, o di parte del residuo del suo credito, sarebbe tutto stato effetto della di Lei generosità.
Mi conforta in questo la lusinga che forse Ella avrebbe accondisceso a questa transazione in vista del desiderio di terminare prontamente ogni questione, sia anche in riguardo dei moltissimi benefizii che arreca alla povera gioventù l'Istituto di D. Bosco, che non si limitano ai giovani di Torino, ma che si estendono per anche a molti delle altre diocesi. Mi gode l'animo di essermi attenuto al secondo partito. Nel desiderio di troncare la questione, forse avrò pregiudicato, senza volerlo, i diritti di qualcheduno. [380]
Così la cosa rimanendo tuttora indecisa, sarà terminata da chi meglio di me saprà apprezzare le ragioni di equità e di giustizia che militano in questa controversia e terminare con reciproca convenienza delle parti questa già troppo protratta soluzione”.
Monsignore stette fermo ne' suoi propositi, e il 2 giugno chiedeva per lettera al Conte di poter esaminare la contabilità tenuta da D. Bosco dal 1864 al 1866, cioè dal tempo nel quale D. Bosco aveva presa l'amministrazione delle Letture Cattoliche. Il Conte essendo andato due volte all'Oratorio non potè fare la commissione, perchè D. Bosco si trovava fuori di Torino: lasciava però al segretario la lettera di Monsignore, al quale fra le altre cose scriveva il 4 giugno:
“La presentazione di questi conti non troncherà la questione, perchè quand'anche fossero chiari come il sole, non per questo saranno distinti tutti i diritti, perchè si avrà tuttora a discutere sul rimborso da darsi all'Oratorio, per le spese di stampa e pel lavoro dei ragazzi di quell'istituto, e ciò che più monta, sull'estimazione da darsi all'opera che tutto solo vi prestò D. Bosco da quell'epoca in poi. Se si viene alla resa dei conti bisognerà pur venire alla fin fine anche a questo calcolo; perciò è a prevedersi che la cosa non sarà finita così presto.
Vedo che tale non è il suo parere. Egli è perciò che rassegno nelle sue mani ogni mandato di conciliatore arbitro e ritirandomi fin d'ora, prego l'Eccellenza Vostra a volermi considerare d'ora innanzi come affatto estraneo a questa vertenza.
Mi rincresce che l'opera mia sia rimasta inutile in tutto questo affare; posso però assicurarla che vi ho messo tutta la mia buona volontà.
Il 5 giugno Monsignor d'Ivrea scriveva al Conte ringraziandolo della sua opera e, scusandosi, insisteva di voler vedere la contabilità di D. Bosco; la sua causa essere così grave da non poter prendere una decisione, senza averne piena cognizione; asseriva esservi tali considerazioni, le quali potevano di certo mostrare la realtà delle cose ben diversa dall'aspetto in cui la vedeva considerata dal Conte.
Troncate così le trattative per parte del Conte Cays, que' [381] d'Ivrea furono costretti a riprenderle il 20 luglio, perchè il Tipografo Paravia aveva loro mandato ad intimare legalmente il pagamento del suo credito e la causa era stata messa a ruolo.
Il Teol. Valinotti ne dava notizia al Conte, e lo pregava di vedere se poteva ancora in tempo conciliare la vertenza, e di impedire lo scandalo di quella lite e d'intendersi coll'avv. Deamicis. Prometteva che quanto essi farebbero sarebbe ben fatto e gli dava parola di far contentare Monsignore. Gli mandava anche una lettera del Can. Pinoli dalla quale risultava che le ultime pretese di Monsignore sarebbero, che rimanendo D. Bosco proprietario delle Letture Cattoliche si assumesse il debito verso Paravia, e gli sborsasse la somma di 1700 lire come residuo di ogni suo avere, e non già sole 1163 e 82 centesimi.
Il 22 luglio il Conte Cays dalla sua villeggiatura di Casellette comunicava la proposta a D. Bosco, il quale, come abbiam visto, era disposto ad assumersi il debito con Paravia pur di essere esonerato da qualunque altro pagamento. Ma il Servo di Dio non aveva fatto nessuna promessa in proposito, nè potevasi pretendere che egli stesse ad una semplice proposta, quando questa non solo non era stata accettata dalla parte avversaria, ma veniva aggravata da nuove obbligazioni. Pertanto, egli mandava questa risposta al Conte.
Una serie di affari mi hanno obbligato a passare più giorni fuori di casa e questo è il solo motivo per cui non ho potuto prima rispondere alla venerata di lei lettera intorno al benedetto affare delle Letture Cattoliche. Io mi pensava che essendomi interamente rimesso agli arbitri scelti dal sig. Teol. Valinotti e confermati con lettera di Mons. Vescovo Moreno, dovesse ogni cosa risolversi senza ulteriori discussioni sui conti. Tanto più, come Ella di certo ricorda, si dovettero accettare tutti i debiti dei cinque primi anni sulla asserzione verbale, [382] senza poter verificare i crediti; non si diedero i conti del 1856; sebbene sottoscritti dal Teol. Valinotti; io non ho tenuto conto degli esposti che tra viaggi, posta, libri, mantenimento di alcuni giovani ad hoc non è minore di cinque mila franchi. A tutto questo si passò sopra per venire ad un qualche accomodamento. Ella proponeva che io accettassi il debito Paravia colle Letture Cattoliche; oppure ciò accettasse Monsig. Vescovo, senza parlare più di altro interesse. Io mi sono totalmente rimesso e mi rimetto ancora. Adesso si propongono altre e poi altre condizioni e di più l'avv. Can. Pinoli nella sua lettera mi qualifica con espressioni che certamente io non userei mai verso di lui.
Mi si dice che io vengo sempre creando delle nuove difficoltà. Ella sa, sig. Conte, se ho una volta sola variate o modificate le cose proposte, ad eccezione che io non ho per nulla contato dieci anni di lavoro per le Letture Cattoliche.
Per far adunque vedere ch'io non ho cangiato e non cangio sillaba delle passate intelligenze prese, ripeto che io sono pronto a lavarmi le mani delle Letture Cattoliche e cedere tutto a Monsignore; con che si prenda il debito Paravia.
Dal canto mio rinnovo il già detto e mi prendo il debito Paravia colle Letture Cattoliche senza altra obbligazione, se così meglio aggrada. Qualora per altro si volesse mettere un termine ad ogni vertenza io offrirei mille franchi a Monsignore purchè tal debito si estingua con Letture Cattoliche o con altri libri che sieno di nostra proprietà. Darei anche volentieri il danaro contante, ma non posso pel motivo che non ne ho.
A dirla poi schietta, sig. Conte, io mi pensava che attesi i molti giovani chierici ed aspiranti della diocesi d'Ivrea che furono tenuti e si tengono gratuitamente in questa casa a favore di quella medesima diocesi, pensava, dico, che non si sarebbe andato tanto pel sottile in fatto di interesse.
Compatisca il tenore di questa lettera, se mai trovasse qualche espressione non moderata. Le molte occupazioni, i nostri bisogni, i molti disturbi avuti a questo riguardo mi hanno fatto scrivere un po' in fretta e forse un po' risentito.
La ringrazio della bontà che usò per me in questo ed altri affari riguardanti a questo Oratorio ed assicurandola della più sentita mia gratitudine, ho l'onore di professarmi,
Al sig. Conte Cays di Giletta - Alpignano-Casellette. [383]
A questa lettera, D. Bosco univa un biglietto personale pel Conte, scritto da Strevi colla stessa data 4 agosto.
Ho scritto io in modo ufficiale; se mai ella stimasse di mandare questa medesima lettera all'avv. Pinoli, io lo stimerò a proposito.
Buona campagna a lei, sig. Conte, a tutta la crescente e cresciuta famiglia. Dio li benedica tutti, preghi per me che con pienezza di stima ho il bel piacere di potermi professare,
Pare che il Conte si rimettesse pienamente a ciò che gli suggeriva D. Bosco; e il Servo di Dio, affrettandosi a ringraziarlo, compiegava nella risposta un poscritto da unirsi alla lettera del 4 agosto, dal quale appare come l'animo suo fosse alieno da ogni questione.
Ho ricevuta la cara sua lettera e la ringrazio. Le acchiudo questo P. S. perchè se sembra bene lo mandi con la mia lettera antecedente al Vescovo. Comunque fanno, io confermo che l'avrò come opera di carità, qualunque conclusione giudichi bene di fare. Raccomando me e li miei giovanetti alla carità delle sante sue preghiere ed augurandole ogni bene dal Cielo mi professo con gratitudine
P. S. - Terminata la lettera e sempre più bramando che l'affare delle Letture Cattoliche sia in qualche modo terminato do' a lei piena facoltà di portare la somma di L. 1000 (di cui nella lettera) a L. 1163,82 siccome ella aveva proposto nella lettera scritta a Mons. Vescovo d'Ivrea. Anzi se ella vuole accettare carta bianca e non parlarmi di questo affare, se non quando si trattasse di sottoscrivere la convenzione, [384] io l'avrei come una vera opera di carità. Le mie occupazioni ed i miei fastidii non mi permettono di occuparmi più di questo spiacevolissimo affare.
Il Conte notificò le proposte al Can. Pinoli, mentre questi il 16 agosto si rivolgeva a lui esponendogli come gli pesasse che si andasse avanti nella lite Paravia, con certo pericolo di pagare gravi spese lasciando che il tribunale pronunciasse sentenza; quindi lo pregava d'interessarsi perchè la lite Paravia fosse tosto finita senza sentenza: accettava di ridurre la domanda a 1500 lire, ma pagate in contanti per poter fare acquisto di rendite sul debito pubblico da sostituire in parte le alienate, le quali hanno una destinazione a carico di Monsignore. Pertanto la lite con Paravia venne sospesa, e in base alla lettera del Can. Pinoli la compilazione della intelligenza fa affidata all'avv. Deamicis (avvocato del Teol. Valinotti), con cui si doveva pure intendere D. Bosco per le opportune correzioni. La base si fu che D. Bosco si sarebbe incaricato di pagare a Paravia fr. 4265, residuo suo credito, e che avrebbe sborsato a Mons. d'Ivrea fr. 1500 in tre distinte rate, cioè fr. 500 dopo un anno, altri 500 dopo il secondo, altri 500 dopo il terzo. Con questo D. Bosco sarebbe rimasto unico proprietario delle Letture Cattoliche e Mons. d'Ivrea ed il Teol. Valinotti si sarebbero obbligati a tenerlo rilevato da ogni qual siasi pretesa di chicchessia verso la passata Amministrazione delle medesime Letture Cattoliche. Il Conte Cays non si occupò più di queste trattative che dovevano essere sistemate tra le parti coll'assistenza del sig. Avv. Deamicis.
Ciò non ostante parve dovesse andar fallito l'intero componimento. Il Can. Pinoli intendeva che D. Bosco pagasse a Paravia non solo il suo credito, ma le spese della lite e gli interessi del capitale. Di ciò non era stato fatto cenno nel [385] progetto di accomodamento. E il 24 novembre il Canonico scriveva al Conte che non era possibile imporre a Monsignore nuovi sacrifici, che Paravia si era lagnato che non si ponesse fine alla disgustosa questione ed essere angustiato di dovere pensare a dar movimento al procedimento giudiziario con grave accrescimento di spese. Quindi si lamentava che l'accrescimento della cifra del debito Paravia fosse cagionato dalle more che D. Bosco aveva convenute al pagamento. Finiva col pregare il Conte a volere fare ancora qualche ufficio presso D. Bosco, affinchè mantenesse l'impegnata parola e cessasse l'angustiosa posizione di quelli tutti che avevano ed ebbero parte in quest'affare.
Il Conte gli rispondeva sul principiar di dicembre.
……Ieri mattina mi sono recato dal sig. D. Bosco ed ecco il risultato del nostro colloquio. D. Bosco è dipostissimo a mantenere la proposta tal quale era stata fatta per la definitiva conclusione della vertenza: che cioè egli si sarebbe incaricato di pagare il debito verso Paravia nella cifra appunto in cui era stato accertato, cioè in quella di fr. 4200. Questa somma era stata precisata appositamente, affinchè fosse stabilito il vero debito di D. Bosco, oltre alle 1500 convenute a retrodarsi a Mons., al qual pagamento D. Bosco non oppone difficoltà. La questione sopravvenuta di poi degli interessi e delle spese di lite si presenta sotto un altro aspetto: o si tratta degli interessi che possono decorrere dopo il componimento della vertenza ed è giusto che quando D. Bosco non possa subito soddisfare al sig. Paravia tutte le lire 4200 di cui si è caricato, se ne assuma il pagamento degli interessi dall'epoca del componimento in poi, di questo D. Bosco pienamente acconsente: ovvero si tratta degli interessi che può pretendere Paravia anteriori alla data del componimento, in questo caso parmi che questi non essendo stati specificati nell'aggiustamento, dovrebbero rientrare nel novero di quelle eventualità da cui Monsignore o il Teol. Valinotti doveva tenere rilevato D. Bosco. Così pure della domanda di rimborso di lite. Tale almeno doveva essere l'effetto dell'assunto, accertato il debito Paravia, nella precisa somma di lire 4 200, se non erro[17], e dall'altra condizione che dovesse D. Bosco essere rilevato da ogni qualsiasi [386] altra pretesa di chicchessia, il che tutto si fece all'oggetto di specificare il vero debito di D. Bosco che erasi così limitato alle lire 4200 da pagarsi a Paravia ed alle 1500 dovute a Monsignore. Tale almeno, bisogna che il dica, si fu il senso della mia proposta.
Ella mi dice che Monsignore non è disposto a fare maggiori sacrificii dei convenuti, ma questo pare non possa dirsi nuovo, come non potrebbe dirsi nuovo qualunque altro fosse per nascere da una di quelle eventualità a cui ha rapporto la condizione apposta che il Sig. D. Bosco verrebbe ad essere rilevato da ogni domanda e molestia. Del resto quando Monsignore volesse disporsi a fare qualche sacrifizio, ella sa che lo farebbe a favore di un'opera che è manifestamente degna di tutte le simpatie. Ella sa le grandi spese che D. Bosco ha sulle spalle. I settecento e più giovani che il medesimo ha da mantenere, non sono una bagatella, e se alcuni pagano, ve ne sono moltissimi che non pagano. Fra questi non pochi sono della Diocesi d'Ivrea, varii dei quali anche chierici mandati o raccomandati dallo stesso Monsignore. Non dico questo per spingere Monsignore a mutar direzione alle opere di carità che esercita nella sua diocesi, ma soltanto per muoverlo a continuare a quest'opera le sue beneficenze con appianare quest'ultimo ostacolo.
Mi scusi della libertà con cui mi sono espresso, ma ho creduto doverle spiegare tutto il mio pensiero.
Dopo tre mesi, il 22 febbraio 1867, era consegnata a Don Bosco la seguente proposta dall'Avv. Deamicis.
Il Teol. Valinotti propone per mezzo del sottoscritto che venga terminata la differenza nella questione ultimamente insorta per rimborso della spesa di lite al Sig. Paravia e pel pagamento degli interessi della somma di lire 4265 al Sig. Paravia, dovute per stampa delle Letture Cattoliche, nei seguenti termini di transazione tra il medesimo Sig. Teol. Valinotti ed il Sig. D. Bosco.
Il Teol. Valinotti si assume l'obbligazione di tacitare il Sig. Paravia nella sua domanda d'indennità di spese di lite, degli interessi che gli possano spettare sull'anzidetta somma, come risulteranno essere al Paravia dovuti dall'epoca della giudiziale sua domanda fino al giorno in cui D. Bosco incaricava il Sig. Avv. Deamicis con lettera dei Sig. Cav. Oreglia di S. Stefano di stendere la scrittura di transazione delle vertenze, sia col Teol. Valinotti, sia con Mons. Vescovo d'Ivrea, cioè il 16 settembre 1866.
D'altra parte il Sac. D. Bosco resterà obbligato a pagare oltre alla somma delle lire 4265 dovute a Paravia anche i relativi interessi dall'epoca della sopraccennata lettera come anche le spese di lite che il Paravia fosse in diritto di ripetere da quella epoca stessa in poi. Naturalmente si domanda che si facciano prontamente le opportune pratiche [387] perchè venga sospeso ogni ulteriore atto della lite pendente col sig. Paravia.
Ciò è quanto sono incaricato di proporre al Sig. D. Bosco per parte del Teol. Valinotti e che spero possa essere accettato.
La risposta fu inviata al Teologo dal Conte Cays.
Sono stato oggi da Lei per annunziarle che dopo la di lei proposta di addossarsi la parte di interessi e di spese di lite anteriore alla lettera del Segretario del Sac. D. Bosco all'Avv. Deamicis, che è del 16 settembre 1866, lasciando la parte che è posteriore a tale epoca a carico di D. Bosco, l'affare sembra aver preso una buona piega. Posso assicurarla che per parte di D. Bosco non ci sarà difficoltà ad accettare detta proposta; di più mi è grato di dirle che anche Paravia si adatta a ritirare gli interessi a partir soltanto dal giorno della giudiziale sua domanda. Ebbi oggi appunto per questo un congresso col causidico Rodella, a cui intervenne anche Paravia. Tutto sarebbe sistemato, solo non posso ancora precisare la somma esatta delle spese della lite, la quale non mi sarà comunicata che posdomani mercoledì 27 corrente. Però posso fin d'ora accennarle che a quanto mi disse lo stesso Sig. Rodella non si scosterà di molto dalle lire 150.
Mi pare che si potrebbe terminare ogni cosa in un medesimo atto, cioè nel divenire alla stipulazione della convenzione tra Mons. Vescovo d'Ivrea e socii da una parte e D. Bosco dall'altra per la cessione delle Letture Cattoliche: pagare contemporaneamente gli interessi e le spese di lite dovute al Paravia, sia quelle anteriori al 16 settembre, sia quelle posteriori, ciascuno per la parte che lo concerne, e stabilire nel medesimo tempo le epoche del pagamento sia delle 4265 da pagarsi da Don Bosco al Sig. Paravia, sia anche delle lire 1500 da pagarsi dallo stesso D. Bosco a Mons. Vescovo d'Ivrea, secondo i concerti presi.
Resta un'ultima questioncella, la quale dovrebbe essere tagliata a guisa del nodo gordiano, ed è la questione del pagamento delle spese di registrazione della convenzione a farsi. Io sono d'avviso che sia a pagarsi per metà caduno, da Monsignore da un parte e da D. Bosco dall'altra.
Quando Ella trovi accettabili le sopra indicate proposizioni, abbia la compiacenza di farmelo sapere, ed intanto io mi riserbo di farle conoscere l'esatto riparto delle spese di lite, tostochè il sig. Rodella me le abbia notate.
Gradisca i miei sinceri complimenti e mi creda
Da ambe le parti fu accettata come definitiva la convenzione, ne fu steso l'atto legale e il Teol. Valinotti scriveva al Conte Cays.
Fino da ieri ho ricevuto dall'Avv. Deamicis le tre copie di convenzione tra D. Bosco, Monsignor d'Ivrea e me. Le ho firmate e quindi inviate tosto per la posta al Can. Pinoli per la firma propria e di Monsignore, pregandolo di ritornarle per posta, tosto firmate, all'Avv. Deamicis.
Forse in giornata saranno di ritorno, sicchè non rimarrà a farsi che la firma di D. Bosco...
Al mio ritorno a Torino rimetterò a Lei tutti i registri che tengo e le carte relative, perchè siano passate a D. Bosco...
Il Signore benedica il buon andamento delle Letture Cattoliche, e benedica anche V. S. che tanto fece per finire la vertenza; io mi terrò contento se il Signore mi tiene conto di quello che ho fatto con pieno disinteresse, checchè si dica da altri.
Gradisca coi sentimenti di riconoscenza l'attestato della perfetta considerazione, con cui ho l'onore di ripetermi,
Dopo questo carteggio tra il Conte Cays ed il Teol. Valinotti, la scrittura del 16 settembre firmata da Valinotti fu trasmessa ad Ivrea al Can. Pinoli, perchè la firmasse come procuratore di Monsignore. Ma Pinoli la rimandò, dicendo che Monsignore non voleva comparir proprietario e che perciò avevala firmata egli solo, proponendo di tener rilevato D. Bosco da ogni pretesa di Monsignore.
La proposta non parve sufficiente, perciò si scrisse a Pinoli dal sig. Avv. Deamicis in tal senso ed il Conte scrisse a Monsignore la seguente lettera; nella quale appaiono ben chiare le fasi delle trattative, la lealtà e il fine criterio del nobile patrizio. [389]
Egli è con una certa ripugnanza che io vengo a parlarle ancora una volta delle Letture Cattoliche. Ella certamente si ricorda come fino dal mese di aprile dell'anno scorso io avessi accettato l'incarico di arbitrare fra la questione insorta nella gestione di quelle Letture per varii interessi fra V. E., il Teol. Valinotti ed il Sac. Bosco. Avrà certamente presente come con lettera 27 maggio io le facessi la proposizione di scegliere tra la rinunzia per parte sua alla proprietà delle Letture Cattoliche a favore di D. Bosco, mediante il compenso di L. 1163,82 somma stata così liquidata, somma che D. Bosco (oltre all'incarico di altre 4265 da pagarsi al sig. Paravia quale creditore antico della medesima gestione) avrebbe sborsato a Monsignore; ovvero ritenendo V. E. la proprietà delle medesime Letture si disponesse ad accollarsi il debito verso la ditta Paravia. Rilessi ancor oggi la sua risposta delli 28 maggio in cui accennando a sacrificii di cambiali e di cedole che aveva dovuto fare fino da quando aveva dato vita alle Letture Cattoliche mi diceva che voleva prendere piena cognizione dei conti di quella gestione, prima di determinarsi senza cognizione di causa in una questione ben grave; ed in altra lettera del 31 stesso mi ripeteva che io avrei trovato ragionevole che Ella vedesse i conti di quella gestione, poichè si trattava, oltre a molti sacrificii che ivi accennava, anche di quello di “abbandonare il diritto di proprietà di una pubblicazione che fu sempre in prosperità per numero di associati”, ecc. Si ricorderà infine come io non avendo potuto mandarle che una parte dei conti, e nulla perciò essendosi potuto terminare, le abbia scritto in data 2 giugno, che a mio avviso in questa questione bisognava lasciar da parte la resa esatta dei conti giacchè in tutti si rinvenivano molte lacune da non poter servir di base ad un assestamento e giusto e pronto come era necessario stante l'urgenza di troncare la lite colla ditta Paravia, che perciò io rassegnava nelle di lei mani il mandato di paciere, giacchè col mio arbitrato non avevo potuto ottenere niun risultato. Ella ebbe ancora la compiacenza di rispondermi con lettera 5 giugno per ringraziarmi, come ebbe la bontà di esprimersi, delle pene che mi era dato per quest'affare.
Qui termina la prima fase di questa pratica in cui fu sempre questione di cessione della proprietà, o per parte di Monsignore e del Teol. Valinotti a D. Bosco, o per parte di D. Bosco a Monsignore solo.
La seconda fase incominciò con lettera del Can. Pinoli trasmessami dal Teol. Valinotti il 20 luglio, con cui mi faceva pregare di ricominciare le trattative col Sac. D. Bosco. Qui forse io ho avuto torto non [390] scrivendone prima alla S. V. Rev.ma onde informarmi delle sue precise intenzioni al proposito. Ma siccome mi si parlava sempre nell'interesse di Monsignore io lo credetti munito, il Can. Pinoli, di valido mandato o quanto meno di apposita approvazione. Forse chi mi scriveva di tale affare, voleva prima appianare ogni difficoltà per poscia farne a V. E. la communicazione ufficiale, quando tutto fosse inteso tra noi. Checchè ne sia, io fui sempre autorizzato a credere che le trattative si facessero a nome di V. E. e che perciò le trattative avessero per base il consenso di V. E. alla cessione delle Letture Cattoliche mediante quei compensi sui quali si discuteva. La lettera adunque del Can. Pinoli mi incaricava di rannodare le trattative di questa cessione a D. Bosco sulle seguenti basi: che cioè D. Bosco venisse ad acquistare la proprietà assoluta delle Letture Cattoliche a condizione che oltre all'assumersi il debito verso la ditta Paravia di L. 4265, sborsasse pure a V. E. la somma di lire 1700 come residuo di ogni suo avere, avvece delle lire 1163,82, base della mia prima proposta. Ripresi di buon grado le trattative col Sac. D. Bosco, ed in queste non si trattò più di altro che della quotità della somma a darsi a V. E. Rev.ma, quale somma finalmente venne stabilita in lire 1500 dallo stesso Can. Pinoli, il quale in sua lettera 16 agosto così la proponeva, tagliando, come diceva, a mezzo la differenza tra la somma da me liquidata e la sua domanda anteriore di L. 1700; e soggiungeva: che mi interessassi a che la lite Paravia fosse tosto finita senza sentenza.
La proposta fu accettata da D. Bosco colla condizione di pagare a Monsignore detta somma in tre rate di lire 500 da un anno all'altro e così in anni tre senza interessi e si fu verso la metà di settembre che si compilò il progetto di cessione delle Letture Cattoliche da farsi da V. E. e dal Teol. Valinotti a D. Bosco, mediante cui D. Bosco, appena fosse divenuto proprietario delle Letture Cattoliche, assumendosi il debito verso Paravia, avrebbe tosto fatto cessare la lite che verteva a cagione di tale antico debito.
Tutto pareva terminato e la scrittura mi si disse accettata da tutti gli interessati, quando in sul finire di novembre, mi pervenne altra lettera del Can. Pinoli in data 20 novembre in cui lagnandosi della mancanza di parola di D. Bosco, mi faceva intendere come la stipulazione dell'atto di cessione non avesse potuto aver luogo a cagione di differenze insorte per il pagamento delle spese di lite e degli interessi arretrati che la ditta Paravia pretendeva, ed ai quali D. Bosco non voleva sottostare. Qui dovetti di bel nuovo intromettermi, e dopo molte parole, anche questa questione degli interessi e delle spese venne felicemente risolta. Si fu allora che ripristinate da me le trattative con Paravia, io ottenni che fosse sospesa la lite, e tutto era ed è inteso tra D. Bosco e Paravia, solo più si attendeva che la cessione delle Letture Cattoliche fosse definitivamente fatta, mediante la accettazione e firma [391] di quella stessa convenzione del 16 settembre, che il Can. Pinoli mi diceva da tutti accettata. Ora questa appunto è la scrittura di cui furono spedite ad Ivrea tre copie originali già firmate da D. Valinotti onde fossero firmate da V. E. Rev.ma o dal Can. Pinoli, quale procuratore di V. E., munito di suo speciale mandato, per poscia conchiudere la seconda scrittura tra D. Bosco ed il sig. Paravia, e così porre fine ad ogni litigio. Non mi sarei mai aspettato che tale scrittura non ricevesse l'approvazione dell'E. V., tanto più che mi risultava che già fosse stata accettata in base, anzi anche nella precisa sua forma. Lascio a Lei il pensare quale non fosse la mia sorpresa quando vidi rinviate le tre copie con la sola firma del Can. Pinoli in nome proprio, con una lettera del medesimo Pinoli ove declinando la facoltà di stipulare a nome di V. E. si limita a proporre di tener rilevato D. Bosco da ogni futura molestia sulla proprietà delle Letture Cattoliche. Dopo quanto era stato detto e disputato sulla proprietà di dette Letture, era impossibile accettare una simile proposta. La cessione deve essere fatta dal vero proprietario, o quanto meno a suo nome da chi ebbe da lui speciale mandato. Niuno certamente avrebbe potuto consigliare a Don Bosco di accettare tale proposta, e molto meno ad assumersi per atto pubblico il debito verso Paravia delle 4265 lire, se prima non abbia ottenuto una regolare cessione della proprietà delle Letture Cattoliche, e niuno altresì non potrebbe riconoscere per valida una cessione che non fosse fatta dal vero proprietario delle medesime, o da chi ne fosse da esso debitamente autorizzato. Bisognerebbe quanto meno che risultasse da qualche scritto della rinuncia che V. E. intendesse di fare alla proprietà di queste Letture.
Ecco il motivo di questa mia, di fare cioè conoscere alla E. V. le fasi delle trattative e come tutto mi abbia autorizzato a portarle al punto in cui si trovano, nella persuasione che V. E. avesse la ferma decisa intenzione di rinunciare a tale proprietà. Ora dipende dalla risposta sua a por termine a questa questione. Se accetta la proposta conciliazione, D. Bosco prenderà i suoi concerti col sig. Paravia, e tutto sarà terminato; se non l'accetta, sarà impossibile di sospendere più a lungo la lite, la quale riprenderà il suo corso con quelle conseguenze che è facile pur troppo di prevedere.
Le ripeto che ho preso la penna con ripugnanza, ma ho creduto dover ciò fare per esporre il movente di mia condotta in questo affare. Tutte le carte che ritengo, relative a questa pratica mi erano argomento a corroborarmi nell'idea che le trattative procedevano di suo consenso. Lavorando in questo senso si è aperta una strada, forse l'unica, ad una pacifica soluzione.
Avrò forse errato, ma, se ho preso abbaglio, non mi sia ascritto a mancanza di buona volontà: ho cercato di conciliare tutti gli interessi e di fare la parte di ognuno. Se non son riuscito, pazienza; non ho però [392] rimorso di non aver fatto quanto dipendesse da me. Intanto chiedendole scusa di questo lungo disturbo e forse anche del troppo ardire, mi faccio premuroso dovere di protestarmi con profonda venerazione, ecc.
Il Vescovo non poteva non riconoscere le evidenti ragioni del Conte; ma fece attendere ancor qualche tempo la sua firma.
Fino a ieri mi arrise il pensiero di poter dare alla S. V. Ill.ma, risposta verbale intorno a quello che si compiacque scrivermi col preg.mo suo foglio del 3 andante, ed ora che dovetti dismetterlo, porgendole riscontro, anzi tutto la ringrazio delle tante pene che si è pure prese eziandio a mio riguardo. Credo che dalle comunicazioni avute nello scorso anno e dalle cose quindi seguite, Ella si sarà convinta che io non mi sono mai occupato de' conti e delle contabilità concernente le Letture Cattoliche, quantunque abbia per esse somministrate somme così cospicue. Quindi spero che facilmente vorrà persuadersi che io non cambiai punto dopo le ultime comunicazioni scambiatesi tra lei e me in giugno. Mi tenni sempre persuaso che li signori Can. Pinoli e Valinotti non sogliono fare cose pregiudizievoli ai miei interessi; e così sto al presente. Del resto fondai l'Istruttore e mi fu rapinato. Feci comprare il Piemonte, e da altri mi fu alienato. Ideai e organizzai la Biblioteca Ecclesiastica, e mi venne guasta, estinta. Fondai e diressi l'Armonia, e mi venne assassinata. Per mia disgrazia sono Vescovo e taccio.
E rinnovandole i miei ringraziamenti sincerissimi per tante dimostrazioni di stima che si compiacque darmi e delle molte pene che si prese a mio riguardo mi do l'onore di ripetermi colla più ossequiosa considerazione.
Finalmente Mons. Luigi Moreno si arrendeva all'invocata cessione, ma Don Bosco perdeva un amico.
Il teol. Valinotti compiva le ultime pratiche. [393]
…La pregherei a far conoscere al Sig. D. Bosco che può mandare quando che siasi a ritirare libri e carte che tengo riguardanti le Letture Cattoliche (che Dio benedica!); però desidero avere una dichiara di tal remissione di carte etc. firmata da D. Bosco.
Conoscerà V. S. Ill.ma a quest'ora la morte del Can. Pinoli avvenuta il mattino del 14 corr. dopo seria malattia! Lo raccomando a sue preghiere.
Voglia gradire i sentimenti della perfetta mia considerazione con cui ho l'onore di rinnovarmi
Ci siamo diffusi nell'esposizione di questa vertenza, per mostrare viemeglio quanto sieno costate a D. Bosco le Letture Cattoliche.
DAL meum ac tuum frigidum illud verbum! che Don Bosco dovette pronunziare, con grande suo dispiacere, per rivendicare una proprietà della quale volea lasciar erede la Pia Società Salesiana, ritorniamo col racconto alla fine di maggio del 1866.
Nell'Oratorio stavasi in attesa dell'avveramento imminente di una delle solite predizioni di D. Bosco, fatta come già si disse, alla metà del mese di febbraio. Nel maggio era morto in età di 16 anni Giuseppe Rosa di Verolengo. Era caduto [395] infermo nella seconda settimana di marzo e restituito ai parenti il giorno 14. Di lui scrisse D. Rua nel necrologio:
“Dimorò pochi mesi in questo Oratorio, ma furono sufficenti a lasciar di lui una cara memoria. Docile ai suoi superiori, diligente in ogni suo dovere, occupava sempre i primi posti nella sua classe. Allegro ed amorevole con tutti, era da tutti amato. Morì a casa sua, munito di tutti i conforti della religione”.
Era forse questi l'indicato dalla predizione? No. D. Bosco aveva detto che la morte sarebbe avvenuta dopo tre mesi e mezzo; ed egli stesso in una lettera diretta al Cav. Oreglia, che trovavasi ancora in Roma ci dice per prima cosa il nome del defunto ed accenna al compimento delle sue parole.
Siamo ai tre mesi e mezzo e ieri, però a casa sua, moriva il nostro allievo Gili calzolaio. Egli potè prepararsi nel modo più consolante. Raccomandi al Signore l'anima di lui.
Nelle due unite lettere ringrazio e raccomando: ciò per sua norma.
Nella casa godiamo tutti buona salute: Durando fu incomodato; ora sta bene: finalmente gli venne spiccato il diploma di laurea per cui si mossero tante difficoltà.
Noi desideriamo tutti il suo ritorno, ma se può fare qualche cosa ritardi pure: io desidererei e se, fosse obbediente, le comanderei di non venire a Torino finchè non abbia in saccoccia diecimila franchi, essendo questo il bisogno per continuare con un po' di energia i lavori della chiesa.
Al suo ritorno parleremo sulla possibilità della mia gita a Roma: ci sono difficoltà politiche, finanziarie, morali e religiose; ella mi darà poi il suo parere.
Attese le molte incombenze a farsi pel biglietto della ferrovia è meglio aver pazienza e fare tale spesa.
Vedendo il sig. Canori Focardi gli dica che la partenza di suo figlio fu certamente per lui una spina; ma in breve avrà una rosa che farà dimenticare tutto. Lo saluti da parte mia.
So che la Marchesa Villarios e casa Vitelleschi si occupano molto a nostro vantaggio ed io professo loro la più sentita gratitudine; ma dica loro che io non voglio lavorino per niente. Il nostro padrone è ricco e può pagare. Dunque io lo pregherò e lo farò pregare affinchè dia [396] il centuplo a tutti in questa vita con una bella camera a caduno in Paradiso.
Non dimentichi la pratica per un sussidio da parte del principe Torlonia.
Dio l'accompagni e benedica tutti i suoi passi; preghi per noi mentre a nome di tutti, perfino di Sirtori e di Jarach, me le professo nel Signore,
Il 31 maggio era la festa del Corpus Domini, ed in quel giorno gli alunni dell'Oratorio chiudevano solennemente il mese di Maria. Pel 3 giugno era stata fissata la stessa cara funzione a Mirabello col Vescovo di Casale, e a Lanzo ove dovea anche commemorarsi S. Filippo Neri, titolare del Collegio, coll'intervento di D. Bosco. In ambedue le case era preparata come al solito la distribuzione dei premi a sei giovani che il maggior numero dei voti dei compagni, dati segretamente da ciascuno, designava come i più commendevoli fra tutti per religione e morale condotta.
Prima di lasciar Torino D. Bosco scriveva di nuovo al Cavaliere annunciandogli, fra altre cose, qualche disposizione del Governo per la guerra; e a due nobili giovanetti, il Barone Gregorio Cavalchini Garofoli, e il Marchese Emanuele Fassati, convittori nel Collegio Mongrée in Francia diretto dai Rev.mi Padri Gesuiti.
La prego di far tenere l'unita lettera alla signora Duchessa di Sora e di sapermi poi dire le osservazioni che farà su questa lettera; io ho risposto a tutto quello che mi domandò ed altro ancora.
L'affare Morelli qui in Torino passò inosservato, però noi rettificheremo ristampandolo nell'attuale fascicolo delle Letture Cattoliche. Credo che sarà bene che se ne passi così anche a Roma.
Se può raccomandare alla Civiltà Cattolica due parole sulla novella edizione della Storia d'Italia, sarebbe forse cosa utile.
Dica alla signora padrona del sig. Aisca di Alessandro, che di buon grado pregherò per Lei e farò anche pregare i giovani della casa. Dirò [397] a Maria Ausiliatrice che le prepari una bella camera in Paradiso, che è la mercede assicurata a quelli che con fede prendono parte ad innalzarle questo tempio in terra.
Oggi è pubblicato per Torino che le corse delle Ferrovie tra Torino, Bologna, Firenze sono tutte sospese.
Se vede di poter fare qualche cosa a maggior gloria di Dio, differisca pure il suo ritorno. Dio benedica le sue fatiche. Riceva i saluti di tutta la casa e mi creda sempre,
Ho ricevuto con piacere la tua lettera ed ho dato le tue notizie ai giovani che fecero parte alla carovana di Tortona. Ne ebbero vero piacere e dànno a me il piacevole incarico di ringraziarti e salutarti. Certamente io vorrei trattenermi alquanto a parlare teco, ma le cose che vorrei dirti non si possono confidare alla carta. Se ti piace di farmi poi una visita nelle prossime vacanze io ti dirò quanto vorrei scriverti. Come amico dell'anima tua non posso a meno che darti alcuni ricordi fondamentali e sono tre FFF. Cioè: 1° fuga dell'ozio; 2° fuga dei compagni che fanno cattivi discorsi o dànno cattivi consigli; 3° frequentare confessione, comunione con fervore e con frutto. Ti prego di salutare i tuoi due fratelli, Emanuele Callori, e gli altri piemontesi di costà che tu ravvisassi di mia conoscenza.
Dio ti benedica e ti conservi nella sua santa grazia; prega per me che ti sono.
Nella cara tua, che ti sei compiaciuto inviarmi, dimandavi che avessi pregato perchè la Santa Vergine ti concedesse buona volontà ed energia di studiare. L'ho fatto volentieri e ben di cuore in tutto il mese di Maria.
Non so per altro se io sia stato esaudito. Amerei molto di saperlo; sebbene io abbia motivo a credere affermativamente. Papà, maman, ed Azelia stanno bene; spesso li vedo alle cinque mezzo di sera ed il nostro discorso in gran parte è sempre di te. Gli altri sono sempre inquieti per timore che tu non vada avanti nello studio e così tu aggiunga loro qualche dispiacere ai molti che tu sai già avere essi avuto in quest'anno. Io li consolo sempre, appoggiato sull'ingegno, buona [398] volontà e promesse di Emanuele. Mi sbaglierò? Credo di no. Ancora due mesi e poi che bella festa se i tuoi esami riusciranno bene! Dunque, caro Emanuele, io continuerò a raccomandarti al Signore; tu fa' uno sforzo: fatica, diligenza, sommessione, ubbidienza, tutto sia in movimento, perchè riescano gli esami.
Dio ti benedica, caro Emanuele, sii sempre la consolazione de' tuoi genitori colla buona condotta; prega eziandio per me che di cuore ti sono
Il 1° giugno i chierici dell'Oratorio studenti di teologia e filosofia avevano subito lodevolmente gli esami in Seminario e il mattino del sabato 2 giugno D. Bosco arrivava a Lanzo, accolto con grande entusiasmo. In quella circostanza, con quella amabilità paterna che nulla dimentica e tutto prevede, disse che essendo stato D. Bonetti ricevuto a Mirabello con grandi feste quando nel passato novembre entrava in carica di direttore, mentre il direttore di Lanzo sia per i lutti che avevano addolorato il collegio, sia pel mandato ricevuto d'urgenza, era entrato solo, senza feste, senza presentazioni, intendeva e aveva disposto perchè la festa di S. Filippo supplisse al mancato festivo ricevimento.
Egli intanto impiegò tutto il dopopranzo nel confessare. Alla sera la banda musicale dell'Oratorio seguita dai cantori, saliva al Collegio, facendo risuonare le vie del paese delle sue marce. D. Bosco comparve sulla porta della chiesa, applaudito freneticamente dai giovani. Entrati tutti in chiesa, che era uno splendore per parati, fiori e lampadari, si impartì la benedizione. La domenica mattina comunione generale, messa cantata in parrocchia e processione col SS. Sacramento. A mensa sedettero con D. Bosco il Clero, il Sindaco Druetti coi consiglieri municipali. Quindi vespro, predica, benedizione, teatro, fuochi artificiali. Fu un giubilo universale; musiche e canti tutto il giorno.
Tornato a Torino riprendeva la sua corrispondenza. [399]
Ho ricevuto la sua lettera in cui mi fa cenno della carità che alcune pie persone di Roma fanno a questa Casa. Le ringrazi in genere da parte mia e dica pure a tutti che pregherò e farò pregare tanto il Signore da costringerlo a dar loro il centuplo in questa vita e la felicità eterna nell'altra.
Speciali ringraziamenti siano resi alla signora Duchessa di Sora per la parte che prende allo spaccio dei nostri biglietti, e sull'oggetto prezioso che una di lei caritatevole amica ci mandò. Dica al primogenito di questa signora che io voglio raccomandarlo ogni giorno nella S. Messa, affinchè a qualunque costo si conservi per la strada del Paradiso.
Mi rincresce che non posso per ora scrivere alla signora Marchesa Vitelleschi Matilde; spero di poterlo fare in breve, ma fin d'ora non mancherò di farle parte delle preghiere che in questa Casa si andranno ogni giorno mattino e sera facendo.
Favorisca di dare la letterina racchiusa alla signora Contessa Bentivoglio.
Non posso per ora riscontrare alle care lettere di Alberto e di Giovanni Vitelleschi; ma lo farò tra breve.
Le cose qui si fanno gravi, ed io credo bene che solleciti il suo ritorno. Pertanto nella prossima settimana noi l'attendiamo all'Oratorio, ad eccezione che avesse qualche affare da ultimare.
Dimenticava di pregarla a fare i miei ringraziamenti al sig. Aicardi che mi ha scritto una lettera modello. La conserverò qual cara memoria di lettera veramente cristiana. Dio lo benedica nel tempo e lo renda felice nell'eternità.
Noi qui della Casa stiamo bene in sanità, ma abbiamo da fare a più non posso.
Umili ossequi ai suoi fratelli, a P. Brunengo, a casa Vitelleschi, Villarios, ecc.
Riceva i segni della più sincera affezione da parte di tutta la casa e specialmente da parte mia che le auguro ogni benedizione del cielo, mentre ho il piacere di professarmi tutto suo nel Signore
P.S. - Ci sarebbe caro se ci scrivesse il giorno approssimativo del suo arrivo tra noi. Il Cav. Villanova ed il Conte Villa sono in mia camera, domandano di Lei, la salutano e le augurano buon viaggio. Fu eziandio qui suo zio il conte Della Margherita e ci parleremo. [400]
Sull'orizzonte politico intanto s'erano addensati neri nuvoloni.
La Prussia aveva ultimati i suoi formidabili armamenti e i piccoli Stati della confederazione al nord già a lei infeudati dovevano fornirle tutto l'agio per i trasporti militari e 57.000 soldati. Il 4 giugno le sue truppe invadono improvvisamente l'Holstein e la piccola guarnigione Austriaca è costretta a ritirarsi. Il 13 l'Austria manda i passaporti all'ambasciatore prussiano a Vienna e richiama il suo da Berlino: il 14 chiede la cooperazione dell'esercito federale, di 157.000 uomini; e la Dieta ammette la proposta Austriaca coi voti favorevoli di 9 Stati contro 5 e l'astensione di uno. Ma il 16 giugno con rapidità fulminea 50.000 prussiani invadono l'Annover, la Sassonia e l'Assia elettorale, e benchè con gravi loro perdite costringono il Re di Annover a capitolare, il Re di Sassonia a fuggire in Boemia; e fanno prigioniero l'Elettore di Assia. Ciò accadde dal 16 al 20 giugno. Il 19 Re Guglielmo di Prussia pubblicava il suo bando di guerra contro l'Austria.
Anche in Italia in brevissimo tempo erano state prese tutte le disposizioni necessarie per trasportare l'esercito e la flotta dal piede di pace in cui erano al piede di guerra; ma continuava ancora, sebbene ridotto, il servizio ferroviario pei viaggiatori. D. Bosco ne assicurava il Cavaliere che avevagli annunziato il prossimo suo arrivo a Torino, e gli dava nello stesso tempo varie incombenze ed importanti notizie.
Venga pure tranquillo che non àvvi incaglio di sorta pei viaggiatori; così mi assicurò il Prefetto di questa provincia. Prima di partire si faccia una nota del nome, cognome, dimora delle persone con cui sarà conveniente di tenere relazione. Comperi fra altre cose una mezza dozzina di crocifissi un po' puliti, che si possano portare al collo da persone signore che li domandano.
Bisio, Peirano maggiore partirono per la guardia mobilizzata; [401] Gallo partì per la riserva del 1842. Così noi ci troviamo privati di molte persone importanti. In ogni cosa sia Iddio benedetto.
Prima di partire, saluti chi di ragione da parte mia ed assicuri ognuno della nostra gratitudine, delle nostre preghiere a Dio ed a Maria Ausiliatrice, affinchè questa celeste benefattrice li colmi de' suoi tesori nel tempo e li renda beati nell'eternità. A molti non ho ancora scritto lettera, ma lo farà dopo il suo ritorno.
Se è possibile di fare una gita a Roma non differirò, ma c'è molto a pensarvi, tanto più che la casa in questi momenti ha sommo bisogno di assistenza.
Ho una serie di fatti e di cose da scriverle, ma bisogna avere pazienza e parlarcene dopo il suo ritorno. Sebbene io desideri che questo sia presto, tuttavia compia le cose sue; giorno più giorno meno procureremo di cavarcela.
Giovedì (21) io sono a Mirabello: chi sa che non possa darsi il caso che Ella nel suo ritorno possa passare colà per fare insieme ritorno a Torino?
Noi facciamo la novena della Consolata, e tutti i giorni ho sempre indirizzate alcune comunioni con una messa a Dio per la famiglia Villarios e Vitelleschi, che usano a lei tanti riguardi e che si adoperano con tanto zelo per questa Casa nostra.
Dio la benedica e le conceda buon viaggio, e mi abbia sempre nel Signore
P.S. - La cupola della chiesa si va elevando e non aspetta altro che danaro.
Per più motivi il Servo di Dio desiderava il ritorno del Cav. Oreglia. Questi aveva molta influenza su due giovani confratelli, largamente e in ogni modo beneficati, i quali presi dallo spirito di superbia e dalla smania di libertà, in que' giorni cagionavano gravi dispiaceri; e D. Bosco sperava che si sarebbero arresi e calmati alle parole del Cavaliere. Le cose erano giunte al punto, che il Servo di Dio li doveva sopportare in pace, per timore non facessero un mal passo.
Di queste sue pene abbiamo cenno in una lettera alla Contessa Callori, che conosceva que' due individui. [402]
Al 21 del corrente mese, se il Signore mel concederà, farò una gita a Mirabello, e nell'andata o nel ritorno calcolo una fermata a Casale: quindi avrò la consolazione di trattenermi un poco di presenza con Lei a discorrere di alcune mie gite alquanto più lontane.
C... e L... sembrano maniaci. Sparlano e minacciano pubblicità contro D. Bosco e pochi giorni dopo le loro minacce apparve un articolo contro alla nostra Casa nel Conte di Cavour. Alcuni lo attribuiscono a loro. Compatisco la miseria umana e prendo ogni giorno lezione che bisogna lavorare per la gloria del Signore e non per la benevolenza degli uomini.
M raccomando per altro in modo speciale alle divote di Lei preghiere.
Dio benedica Lei, il suo sig. Marito e tutta la famiglia, mentre con sentita gratitudine ho l'onore di professarmi
Di quei giorni molte madri trepidanti sulla sorte dei loro figli ricorrevano al Venerabile, perchè li raccomandasse alla protezione di Maria SS. Ausiliatrice. Fra le lettere che abbiamo in archivio ne scegliamo due. La prima è della Marchesa Nerli.
Come le annunziava con altra mia il mio unico figlio è partito volontario per l'armata ed entrerà nel Battaglione delle Guide dell'Esercito regolare, credendo suo dovere di rendere questo servigio al paese. Questa risoluzione è caduta sul mio capo come un fulmine, perchè sebbene ne mostrasse vivissimo desiderio da circa un mese a questa parte, io ero alienissima dal crederlo capace di arrivare a darmi questo gravissimo dolore, essendo arrivato a quest'età senza mai intraprendere la più piccola cosa se non dopo averne avuto il consenso della madre. Oh che tempi disgraziati per tutti! Lo stato dell'animo mio le sarà più facile il capirlo che a me dimostrarglielo! Sono straziata nella parte più sensibile, e, se Iddio per sua misericordia non mi avesse soccorso con la sua grazia, la mia ragione sarebbe smarrita. A quante cose [403] penso: la prima però è l'anima del mio figliuolo, perchè prima di tutto mi sento legata a quella essendo eterna!
Ella si ricorderà quanto le raccomandai il mio figliuolo, e le belle promesse che mi fece.
Ora davvero è il tempo di mantenerle e conto sulle sue orazioni e su quelle dei suoi giovanetti. In mezzo a tanta amarezza mi solleva il pensiero che a Dio è niente impossibile e che da un gran male ne può cavare un gran bene ed in fondo del cuore ho il presentimento che Mario, lontano dalla famiglia, ove era idolatrato, sentirà il bisogno di diventare più devoto, e penserà più all'anima sua, in vista anche dei pericoli maggiori a cui va esposto.
Ora è in Milano, ma pare che dimani debba partire per il deposito di Caserta, lontano dal fuoco per il momento, ma sempre in mezzo ai pericoli di tutti i generi, se Maria SS. non me lo salva. Senta, prometto fin da questo momento a questa gran Madre, se me lo protegge dai tanti pericoli per il corpo e di più se me lo fa ritornare a casa anche più buono e devoto di quello che era, un dono da rimanere nella sua nuova chiesa di Torino sotto il titolo di Maria SS. Ausiliatrice che si fabbrica sotto la sua direzione. Ella mi sarà di guida per la scelta, non sapendo cosa potrà essere di maggior utilità, perchè desidero che sia una cosa d'uso. Speriamo che a suo tempo possa soddisfare a questa promessa. Mi raccomandi molto a Dio, perchè anch'io profitti di quest'afflizione per il mio vantaggio spirituale. La Moma Uguccioni vuole essergli rammentata. Mi benedica ogni giorno unitamente a mio figlio e famiglia e mi creda
L'altra lettera è diretta al Cav. Oreglia.
Avrei desiderato rispondere con maggior sollecitudine alla pregiatissima sua del 26 giugno e dirle che era ben lieta di sentire che la mia sorella e mio cognato avessero contribuito a procurare qualche vantaggio a cotesto tanto meritevole Oratorio, mediante le relazioni che le fecero fare fra i loro parenti ed amici. Lo sapeva già che era stata una gran soddisfazione per mio cognato e mia sorella l'aver l'onore di conoscerla e di sentirle narrare tanti atti sublimi ed edificanti della vita dell'ottimo D. Bosco, talchè le sono gratissima di aver accettata la mia lettera per i medesimi e di averla consegnata con tanta esattezza.
Ho ricevuto questa stessa mattina una lettera di mia sorella... Essa scrive aver saputo dalla Marchesa di Villa Rios che D. Bosco era stato [404] ammalato e che ciò la teneva molto in pensiero; questa notizia mi ha recato molto dispiacere; la vita di quel sant'uomo è tanto preziosa. Egli è in grado di giovare tanto all'umanità in questi tristi momenti colle sue opere, i suoi esempi, i suoi consigli, che il sentirlo anche lievemente minacciato è cosa ben dolorosa per quelli che hanno la fortuna di conoscerlo.
Vorrei essere rassicurata sul conto di una vita così preziosa .....
La prego dire a D. Bosco che non ho parole per ringraziarlo del sommo favore che mi fa pregando ogni giorno nella S. Messa, onde Maria SS. prenda sotto la sua speciale protezione quei miei figliuoli che fossero al campo; ringrazio anche Lei, sig. Conte, di avermi data questa buona notizia che mi ha dato forza e coraggio in questi tristi giorni. Per ora il mio figlio maggiore non si è trovato esposto a pericoli, poichè fa parte del IV Corpo di armata, ma d'ora innanzi avendo passato il Po può da un momento all'altro trovarsi chiamato a battaglia. L'altro è tuttora qui al deposito del medesimo Reggimento come semplice soldato per imparare il maneggio delle armi, ma temo che presto dovrà anch'egli partire. Li raccomando entrambi alle preghiere di D. Bosco ed alle sue, sig. Conte, e la prego anche d'intercedermi dal Signore la rassegnazione e la forza di portare questa e le altre croci che piacerà al Signore d'impormi in sconto dei miei falli.
Voglia far gradire a D. Bosco i miei ossequi, e mi creda sempre,
Con una predizione consolante il Servo di Dio aveva in queste circostanze messo in pace il cuore di una madre, moglie di un nobilissimo dignitario del Regno. Il suo secondogenito, entusiasmato per la guerra, era fuggito di casa per seguire la bandiera di Garibaldi. La signora tutta desolata ne scrisse subito a D. Bosco, il quale le rispose a volta di corriere, che bandisse dall'animo ogni timore poichè il figlio sarebbe ritornato a lei più buono di quello che era prima di partire. Infatti, al corpo di arruolamento, i capi al leggere il cognome di quel giovane, lo chiamarono, lo misero da parte, non vollero che partisse coi volontari e lo aggregarono allo stato maggiore del distretto. Così rimase salvo da ogni pericolo e venne poi insignito del grado di ufficiale ed ebbe tempo a pensare al dolore [405] cagionato ai suoi genitori. Essendo di ottimo cuore provò vivissimo il pentimento del suo trascorso, e, finita la guerra, ritornò a casa, avverando colla sua condotta il vaticinio di D. Bosco.
Mentre consolava le madri, per quello zelo preventivo che possedeva in grado meraviglioso, cercava colle Letture Cattoliche d'infondere nei figli partiti pel campo sentimenti di fedel spirito di sacrificio, fedeltà nell'adempimento del loro dovere. Pel mese di luglio usciva il fascicolo: Una parola da amico all'esercito: per Vittorio Marchiale. Nella prefazione si legge:
Cari soldati - Voi non amate de' libri voluminosi, ed io perciò ve ne offro uno di piccola mole, di tenue valore e che potrete portare nella scarsella colla borsa del tabacco e del denaro. Leggete tutto quanto è scritto sia con carattere minuto, sia in carattere più grande, poichè in ogni pagina ravviserete la parola di un amico, il quale se potè così poco per voi, ha se non altro il merito della brevità.
L'autore, un sacerdote, in tre articoli spiega quelle parole di S. Pietro (I, XI, 17): Deum timete - Regem honorificate - Fraternitatem diligite; e dimostra: 1° Il rispetto umano essere una viltà ed una follia; 2° virtù necessaria, l'obbedienza (montar la guardia, fare gli esercizi militari, esporre la vita sul campo di battaglia); 3° dovere il vincere l'egoismo e l'orgoglio, l'esser generosi col perdonare le offese e col non fare duelli.
In appendice erano esposti due fatti: Giovanni Sobieski e la liberazione di Vienna: Una grazia di Maria SS. Ausiliatrice.
Infine alcuni canti pei militari.
Per causa della guerra si erano chiuse le Università e tutte le altre scuole pubbliche anticipando gli esami. D. Bosco però fece dare gli esami nell'Oratorio nel tempo stabilito e studiò di tener presso di sè nelle vacanze quel maggior numero di alunni che gli era possibile, anzi ne accettava qualcuno novello raccomandato dalla Prefettura di Torino. Non ostante le sue strettezze finanziarie, le scemate ordinazioni di certi lavori, la partenza per l'esercito di alcuni capi di laboratorio, tutti gli artigianelli ebbero pane ed occupazioni, anche perchè la fabbrica della chiesa esigeva l'opera dei fabbri ferrai e dei falegnami.
Ma il Servo di Dio doveva provvedere anche ai chierici pei quali occorrevano spese maggiori. Oltre a quelli che erano ascritti alla Pia Società, altri ne manteneva gratuitamente da più anni l'Oratorio, i quali facevano i loro studi per aggregarsi, fatti preti, al clero delle loro diocesi e appartenevano a famiglie povere: ed altri D. Bosco ne aspettava dal Seminario, i quali, finito l'anno scolastico e non avendo [407] parenti che li mantenessero, si erano raccomandati alla sua carità pel tempo delle vacanze. Per tutti chiedeva qualche aiuto al Vicario Capitolare.
La diminuzione delle vocazioni allo stato ecclesiastico e il bisogno di buoni sacerdoti sono due cose talmente sentite che non occorre parlarne. Egli deve perciò interessare tutti, ma specialmente i membri del Clero, a darsi sollecitudine per ovviare a questo bisogno. Io pure nella mia pochezza, spinto dal desiderio di fare quel che posso, ho scelto alcuni giovanetti che per ingegno e bontà di costumi facevano sperar buona riuscita e li posi a studiare il latino. L'aspettazione fu appagata e da qualche tempo ogni anno ho la consolazione di presentare un certo numero di candidati all'esame della vestizione clericale. Alcuni sono già Sacerdoti. Dagli esami e dalla condotta tenuta in tempo del clericato il Superiore Ecclesiastico può giudicare che le speranze non furono deluse. Questi giovani essendo per la maggior parte poveri, ho dovuto finora ricorrere alla carità di privati benefattori che attualmente non potrebbero continuare la loro beneficenza, onde mio malgrado sarò nella necessità di desistere dalla coltura di una sessantina di giovanetti la cui età, ingegno, indole e costumi lasciano sperare ottima riuscita per lo stato ecclesiastico.
Per questo motivo mi sono rivolto a V. S. Ill.ma e Rev.ma, pregandola umilmente, ma con tutta l'effusione dell'animo, a voler prendere in benigna considerazione questo bisogno e venire in mio aiuto affinchè io possa provvedere ai chierici che ivi prestano la loro assistenza, ai maestri che insegnano, ai giovani che o in tutto o in parte hanno bisogno di sovvenzione.
Io sono pieno di fiducia che nella sua bontà vorrà prendere a favorire un'opera che unicamente tende a somministrare buoni ministri alla Chiesa e così promuovere il bene di nostra S. Cattolica Religione, a maggior gloria di Dio ed a vantaggio delle anime.
Augurandole dal cielo largo compenso, mi professo con gratitudine e stima,
La risposta di Mons. Vicario, che più volte aveva soccorso l'Oratorio, dimostra quali fossero le strettezze della Curia Torinese in quei giorni. [408]
Se vi è Stabilimento, che giudichi degno e meritevole di favorevoli riguardi, o persona della quale pronuncii lo stesso giudizio, si è la S. V. Ill.ma e lo Stabilimento da Lei saggiatamente eretto ed amministrato perciò se non la posso sovvenire mi è di grave rincrescimento. Ma la cosa è proprio così. Fondi o mezzi io non ne ho alcuni. Dei redditi del Vescovato, o della Curia o del posto di Vicario Capitolare, io non ho un soldo. Non ho menomo assegno per qualsiasi Curiale spedizione, nè per ragione di onorario, o d'incerti, o di diritti per firme. Soggiaccio invece a molte passività, alle quali non andrei soggetto come semplice Canonico che è solo il mio provento. Cappellanie o benefizii di mia collazione al presente non ne ho veruno e sono ben disposto a favorire in questo i suoi chierici, ma devo avere riguardo a tanti altri, pure meritevolissimi e indigentissimi. Redditi di Curia non ne ho per certo a disporre, poichè appena sono sufficienti ai tenui onorarii degli impiegati; altronde per molte cause che ella può ben conoscere codesti redditi ogni dì si attenuano di molto, e se accadesse di qualche sopravvanzo io debbo riserbarlo al Vescovo successore, al quale dovrò render conto dei proventi della vacanza. I redditi del R. Economato ella saprà come non siano per niente a mia disposizione; sicchè non resta che il nemo dat quod non habet. Altronde tutti gli altri chierici, sia allievi del Seminario (dei quali non è forse un solo che paghi la pensione intera e forse non sei od otto che la paghino mezza) sia esteri, sono nella medesima condizione e medesime urgenze di quelli del di lei Oratorio, sicchè con somma mia pena non posso dal lato finanziario rispondere iuxta vota et merita al pregiatissimo di Lei foglio del giorno di ieri.
Quindi abbia pazienza d'accontentarsi di tutto quel tanto che mi resta da poter favorire esso e i suoi buoni chierici. Gradisca i miei rispetti e intanto mi dichiaro
GIUSEPPE ZAPPATA, Vic. Gen. Cap.
Inesaudita la sua domanda, D. Bosco patrocinava presso il Can. Vogliotti, Rettore del Seminario e Provicario Diocesano, la causa particolare di un povero chierico che gli si era raccomandato.
Lo scorso autunno io raccomandava a V. S. Ill.ma il chierico Fusero Clemente, come impotente a pagarsi pensione di sorta; io stesso l'avevo qui tenuto gratis provvedendolo perfino degli abiti e libri. Ella [409] si compiaceva rispondermi non so se verbalmente o per iscritto che visto il caso del chierico Fusero l'avessi pure incoraggiato e inviato in Seminario, e se la buona condotta corrispondeva avrebbe goduto la pensione gratuita.
Nel corso dell'anno non gli fu detto niente; ma adesso mi scrive che non se gli vuole ritornare il corredo se non paga il suo debito. Credo che non abbia demeritato sia nello studio sia nella pietà; perciò mi raccomando a Lei con preghiera di voler far scrivere una parola all'Economo di Bra in proposito. Tanto più che le miserie di quella famiglia, dopo una serie d'infortuni, muovono proprio alla compassione e direi alle lagrime.
Abbiamo udito con vero rincrescimento lo stato cagionevole di sua sanità, e, non potendo fare altro, l'abbiamo raccomandata al Signore con preghiere speciali e comuni.
Voglia Iddio esaudirci e concederle lunghi anni di vita felice. Con pienezza di stima ho l'onore di potermi professare
La pronta e benevola condiscendenza del Canonico lo incoraggiò ad inoltrare presso di lui una nuova domanda identica a quella già inviata al Vicario Capitolare.
Nutriva viva speranza di potere in quest'anno fare a meno di ricorrere per ottenere sussidio dal Seminario a favore dei poveri chierici di questa casa; ma la cessazione di molte fonti di beneficenza hanno condotto a gravi strettezze i chierici e me stesso, che a totale mio carico debbo loro provvedere vitto, vestito, e quanto altro occorre.
Egli è per questo che rinnovo la preghiera per ottenere da lei quel maggiore sussidio che alla amministrazione del Seminario sarà beneviso.
Il numero dei chierici tra qui e Lanzo è di cinquanta. Essi impiegano tutta la loro vita nell'assistere, catechizzare, istruire poveri fanciulli, specialmente quelli che frequentano gli Oratori maschili di questa città.
Pieno di fiducia che V. S. Ill.ma prenderà in benigna considerazione quanto sopra fu esposto, l'assicuro della più sentita gratitudine con cui ho l'onore di potermi professare
Obbl.mo Servitore e ricorrente
Tre giorni dopo, scriveva al medesimo, per ottenere ai chierici di Lanzo la facoltà di subire gli esami presso una Commissione speciale.
Per l'anticipazione e per la fretta con cui in quest'anno si dovettero dare gli esami pei chierici, non si poterono prevenire gli assistenti ed i maestri del Collegio di Lanzo. Essi desidererebbero ora di subirlo, ma per gli esami del Collegio che si anticipano, l'assistenza che devono prestare e le spese che devono fare per recarsi a Torino, tornerebbe di grave incommodo se dovessero qui venire.
Pertanto per mezzo mio fanno a Lei rispettosa preghiera a voler, come l'anno scorso, delegare il sig. Vicario di Lanzo e qualche altro sacerdote a Lei beneviso per dare questo esame.
Pieno di fiducia che agli altri favori voglia aggiungere anche questo, le auguro dal Signore sanità e vita felice, mentre con sentita gratitudine ho l'onore di potermi professare,
P.S. -Il latore della presente è l'Economo di Lanzo che accetterebbe qualunque risposta anche verbale che giudicasse fare.
Nel frattempo egli era stato a Mirabello, ove il 21 giugno i giovani del piccolo Seminario celebravano solennemente la festa di S. Luigi Gonzaga. Colà trovò il Teol. Antonio Belasio, del quale abbiamo già fatto parola, il quale recitò il panegirico del santo.
Uno studente della quinta ginnasiale, il miglior giovane del Collegio, giaceva a letto gravemente infermo. Si chiamava Francesco Rapetti; il padre gli aveva ottenuto che fosse annoverato tra i chierici della diocesi di Alessandria e con essi richiamato dalla leva militare. Il giorno 21 il Rapetti volle passarlo levato, ma, verso sera, non potendo più reggersi in piedi, si pose a letto.
Dopo breve ora fu preso da tali spasimi che parve fosse [411] per morire: e qualcuno della casa suppose e disse essere già morto. Siccome l'infermeria era vicina alla camera occupata da D. Bosco, Vincenzo Provera, fratello di D. Francesco, Prefetto del Collegio, venne ad invitare il Servo di Dio che volesse accettare per quella notte ospitalità nella sua casa paterna. D. Bosco nutriva grande stima ed affetto per il vecchio Provera e per la sua famiglia. Non si recava mai a Mirabello senza fargli visita e soleva dire che la famiglia di D. Bosco e quella di Papà Provera ne formavano una sola; nè scriveva mai al Direttore senza mandargli un saluto affettuoso; e a lui ed ai membri della sua famiglia soleva anche inviare certi biglietti o strenne personali, quando in Torino ciò faceva coi giovani. Accettò quindi volentieri l'invito.
Entrato che fu egli in quella casa, tutte le porte furono chiuse a chiave e le chiavi vennero ritirate. Ora accadde un fatto, che ci narrò Vincenzo Provera, confermato da una lettera che la signora Carolina Provera, suora delle Fedeli Compagne, scriveva da Parigi dopo la morte di D. Bosco a Don Evasio Rabagliati.
... Bramerebbe sapere con esattezza il fatto della sparizione del venerando D. Bosco da casa mia. Veramente non saprei dirle di più di quello che già le ho narrato. Una sera ad ora tarda, colla mia sorella Colombina stavamo aspettando il fratello Vincenzo che ritornasse dal collegio, quando egli giunse frettoloso, dicendo: - Presto, presto, preparate camera e letto: l'allievo ammalato nella camera vicina a quella del sig. D. Bosco è spirato. Non è conveniente che D. Bosco passi la notte nella sua camera. Egli accettò di venire in casa nostra. - Così fu. Il domani mattina mi alzai per tempissimo e le porte della casa erano chiuse. Tutti noi di famiglia andavamo in punta di piedi e facevamo quanto era possibile per evitare ogni sorta di rumore, affine di non disturbare D. Bosco nel suo riposo. Quand'ecco con nostra maraviglia un tale, non so più chi fosse, venendo dal collegio circa alle 6 ci disse che D. Bosco era nel piccolo Seminario e già celebrava la S. Messa.
- Non è possibile, gli rispondemmo: egli non è uscito ancora dalla camera: nessuno di noi l'ha veduto. - Le porte si apersero solamente sul tardi. Per uscire D. Bosco non poteva fare a meno che di passare per una stanza ove noi di famiglia ci tenevamo radunati, precisamente [412] per vederlo, dargli il buon giorno ed averne la benedizione. Quindi stupefatti ci ripetemmo l'un l'altro: - Come ha egli potuto uscire?
E' vero che la camera in cui il rev. Sig. D. Bosco passò la notte aveva due porte, ed una metteva in una scala comune col vicino, ma andati subito a verificare la trovammo come sempre ermeticamente chiusa e non smosse le robuste serrature.
Più volte di ciò parlammo in famiglia, ma sempre si conchiuse: - Come egli sia uscito non lo sappiamo.
Il giovane Rapetti, riavutosi alquanto dalla gravissima crisi, desiderava ardentemente di parlare con D. Bosco il quale, celebrata la S. Messa, ben di cuore si recò a visitarlo. Amandolo qual tenero figlio, lo raccomandò alla SS. Vergine, e dettegli parole di conforto che lo rallegrarono santamente, gli diede in fine la benedizione. Prima però di compartirgliela, lo interrogò se voleva che domandasse a Dio la grazia di guarire sull'istante. - No, rispose l'infermo; ma desidero di fare la volontà di Dio! - E il buon giovane spirava nel bacio del Signore il 22 giugno.
La mattina del 22 D. Bosco era tornato a Torino, e il 23 telegrammi da Firenze recavano la preveduta e dolorosa notizia che la legge sui beni ecclesiastici era definitivamente approvata. Il Governo, pronta ogni cosa per la guerra, dichiarava urgente il bisogno di trarre dai beni della Chiesa sussidii per provvedere alla penuria dell'erario. Per la conservazione degli Ordini Religiosi ancora esistenti erano state fatte al Parlamento 191.000 istanze; ma la rabbia dei settari contro le istituzioni cattoliche aveva tenuto conto delle 16.000, le quali, per istigazione dello stesso Governo, ne domandavano l'abolizione.
Il giorno 19 giugno la Camera elettiva, non accettando la proposta diminuzione dei Vescovadi, ma imponendo nuovi oneri sulle loro mense, aveva infatti approvato la legge che sopprimeva senza alcuna eccezione tutte le Corporazioni religiose ed altri enti ecclesiastici, e che attribuiva allo Stato il possesso di tutti i loro beni. Indarno deputati liberali, come il [413] Ricciardi, supplicarono che almeno risparmiassero le Suore di carità, gli Ospitalieri, detti Fate bene fratelli, i Monasteri di Camaldoli e di Montecassino; non si volle che neppure una vittima sfuggisse all'eccidio.
Ai religiosi espulsi venne assegnata una pensione annuale: degli Ordini possidenti, i sacerdoti e le suore coriste ebbero il massimo di 600 lire e il minimo di 360, secondo l'età; i laici e le converse il massimo di 480 e il minimo di 200. Degli Ordini mendicanti, i sacerdoti e le coriste 250 lire; i laici e le converse 140 lire, se aveano oltre 60 anni, 95 se un'età inferiore. Quest'ultima categoria era la più numerosa.
Alle monache fu data la scelta tra l'assegno e una pensione vitalizia regolata sulla dote da esse pagata nell'entrare in Religione, e si acconsentiva, a loro richiesta, di lasciarle nel monastero, o in parte di esso designata dal Governo; però quando fossero ridotte a sei sarebbero state concentrate in altra casa anche di Ordine diverso.
Il 23 giugno questa legge passava al Senato con 87 voti contro 22; e il Reggente Principe di Carignano la sanzionava il 7 luglio.
Così gli ordini religiosi furono spogliati delle loro case, rendite e possedimenti, in modo che in alcune provincie le monache furono ridotte alla più squallida miseria. Una quantità straordinaria di fondi rurali fu posta all'asta pubblica; moltissime chiese convertite in usi profani; monasteri e conventi mutati in caserme, in carceri e scuole; vasi sacri tolti alle chiese passarono ai rigattieri ed agli ebrei; e gran numero di religiosi delle nuove provincie, assai più maltratati dall'ultima legge che da quella del 1855, dovettero andar cercando in altri luoghi, e specialmente in Piemonte, un onesto sostentamento.
D. Bosco, che tanto amava i religiosi, affrettossi a soccorrere quei tribolati.
“Ricordo, testificò D. Francesco Dalmazzo, come Don [414] Bosco invitasse religiosi di ogni parte del Piemonte dispersi, ad accettare ospitalità in qualunque delle sue case, come difatti parecchi anche degli Ordini mendicanti accettarono, dimorando alcuni più anni, altri per tutta la vita, presso di lui provvisti del necessario. Così pure, essendosi adunati insieme alcuni padri Gesuiti in Torino ed il Governo avendone ordinato lo sfratto, D. Bosco incaricò me di andare dal P. Secondo Franco, loro Superiore, con incarico di offrire loro ospitalità in qualunque nostra casa per quel tempo che avessero desiderato; e io rammento che in quella circostanza il P. Franco, piangendo per la commozione, esclamò: - Che gran cuore ha mai quel D. Bosco! È veramente un santo! - E mi commise di ringraziarlo dicendo che avevano già provvisto ad ogni cosa, ma che avrebbe ricordato sempre la carità dell'uomo di Dio”.
IL 19 giugno Re Vittorio Emanuele aveva intimato la guerra all'Austria. L'esercito italiano forte di 219.000 uomini e 456 cannoni fu diviso in due corpi. Uno era sotto gli ordini immediati del Re, che aveva per capo di Stato Maggiore il generale La Marmora e doveva operare sul Mincio; l'altro sotto il generale Cialdini doveva avanzarsi sul basso Po presso Ferrara. Un terzo corpo di 30.000 volontari sotto Garibaldi aveva ordine di tentare un'invasione nel Trentino. Alle mosse dell'esercito dovevano andar congiunte le operazioni della flotta composta di 36 vascelli, fra i quali 12 corazzati. Gli Austriaci avevano in Italia 180.000, omini e nell'Adriatico una flotta di 27 navi, di cui 7 corazzate.
Il Re partiva da Firenze il 21 alla volta del quartiere generale di Cremona. I battaglioni comandati da La Marmora la mattina del 23 passavano il Mincio, e il giorno 24 erano assaliti a Custoza, nel centro del quadrilatero, da tutto il nerbo delle [416] forze dell'Arciduca Alberto. La battaglia durò tutto il giorno e fu perduta dagli Italiani, quantunque strenuamente combattessero. Dovettero quindi rimanere qualche tempo nell'inazione per riordinarsi.
La sconfortante notizia giungeva a Torino nella notte del 25 giugno, quando si era già celebrata nell'Oratorio la festa dell'onomastico di D. Bosco. L'accademia musico-letteraria si tenne il 23 a sera. V'erano accorsi i Direttori di Mirabello e di Lanzo e ciascuno aveva condotto un alunno come rappresentante della loro comunità. La sera del 24 l'accademia non si ripetè, come si fece uno o due anni dopo e poi sempre, e D. Bosco si era ritirato in camera. Aveva già in mente un nuovo progetto, quello cioè di fondare un istituto femminile destinato all'istruzione delle fanciulle e a coadiuvare i Salesiani nella loro missione: ed aperse il suo pensiero al Direttore del Collegio di Lanzo, il quale subito scrisse ciò che aveva udito. Ecco il racconto.
“Era calato il sole del giorno di S. Giovanni Battista: bellissima splendeva in cielo la luna, un fresco venticello rinfrescava gli estivi calori. Io salii in camera di D. Bosco e rimasi solo con lui per circa due ore. Dal cortile saliva il mormorio dei giovani che passeggiavano allegramente. Su tutte le finestre dell'Oratorio e le ringhiere dei poggiuoli, erano accese cento e cento fiammelle dentro bicchieri colorati. In mezzo del cortile stava la banda musicale, la quale di quando in quando eseguiva le più soavi sinfonie. D. Bosco ed io ci avvicinammo alla finestra e ci appoggiammo uno in faccia all'altro nel vano di questa. Lo spettacolo era incantevole: una gioia ineffabile riempiva il cuore. Dal cortile non potevamo essere veduti perchè noi eravamo nell'ombra; io però di quando in quando agitava fuori della finestra il mio fazzoletto bianco e i giovani vedendolo prorompevano in un entusiastico grido di Viva D. Bosco!
Don Bosco sorrideva. Siamo stati lungo tempo senza [417] proferire parola assorti nei nostri pensieri, quando io esclamai:
- Ah D. Bosco, che bella sera! Ricorda i sogni antichi? Ecco i giovani, ecco i preti ed i chierici che la Madonna le aveva promessi!
- Quanto è buono il Signore, mi rispose D. Bosco.
- E sono circa vent'anni e il pane non è mai mancato a nessuno! Tutto si fece e senza aver niente! Che cosa è l'uomo in quest'opere? Se l'impresa fosse umana, cinquanta volte avremmo fatto fallimento!
- Non dici tutto; osserva come va rapidamente crescendo la nostra Pia Società in numero di individui e di opere! Tutti i giorni diciamo: basta, fermiamoci! e una mano misteriosa ci spinge sempre avanti.
E così dicendo egli aveva la faccia rivolta verso la cupola sorgente e, ricordando gli antichi sogni, fissava gli sguardi su quella, che involta nei bianchi raggi della luna gli sembrava una visione celeste. Lo sguardo e l'aspetto di D. Bosco avevano in quell'istante un non so che d'ispirato. Ricademmo nel nostro silenzio in preda a mille emozioni.
Finalmente io presi a parlare per la seconda volta:
- Dica D. Bosco; non le sembra che manchi ancora qualche cosa per completare l'opera sua?
- Che vuoi dire con queste parole?
Io rimasi un momento esitante e poi ripigliai:
- E per le fanciulle non farà niente? Non le sembra che se avessimo anche un istituto di suore affigliato alla nostra Pia Società, fondato da Lei, questo sarebbe il coronamento dell'opera? Il Signore aveva anche le pie donne che lo seguivano et ministrabant ei. Quanti lavori potrebbero fare le suore a vantaggio dei nostri poveri alunni. E poi non potrebbero fare per le fanciulle ciò che noi facciamo per i giovanetti?
Io aveva esitato a manifestare il mio pensiero, perchè [418] temeva che Don Bosco fosse contrario. Egli pensò alquanto e con mia meraviglia rispose:
- Sì, anche questo sarà fatto; avremo le suore, ma non subito però; un po' più tardi”. - Esse infatti vennero regolarmente istituite nel 1872.
Il giorno dopo D. Bosco scriveva ai giovanetti di Lanzo.
Ai miei cari figliuoli di Lanzo.
Non potete immaginarvi, o figli carissimi, quanta allegrezza mi abbia arrecata la visita del sig. Direttore D. Lemoyne col vostro incaricato Chiariglione, mio buon amico.
Questa allegrezza crebbe ancora di più quando ho potuto leggere le belle ed affettuose composizioni che dalle varie classi, dai varii individui, assistenti, maestri e prefetto mi furono inviate. Le ho voluto leggere tutte senza mai sospenderle nè interromperle se non da qualche frequente lagrima di commozione. Voleste poi aggiungere ancora una offerta in danaro per la nuova chiesa e ciò pose colmo al mio piacere ed alla vostra bontà.
Miei cari figli, abbiate tutta la mia gratitudine. Mi avete, è vero, detto parecchie cose che non si possono applicare a me, ma tuttavia io le ricevo come cari segni di benevolenza del vostro bel cuore.
Oh siate sempre benedetti dal Signore! D. Lemoyne vi dirà molte cose da parte mia; esso è il vostro direttore, amatelo e siategli ubbidienti e confidenti come a me stesso. Egli lavora di buon animo per voi, nè altro desidera che il vostro bene. Oh quante cose egli mi raccontò di voi!
Gradite adunque che vi dica: “Evviva il sig. Direttore D. Lemoyne, evviva a tutti gli altri superiori del Collegio, evviva, applausi prolungati a tutti i miei cari figli di Lanzo”.
Spero di rivedervi presto e ci parleremo di cose molto importanti.
Intanto pregate per me ed io non mancherò di raccomandarvi al Signore nella S. Messa.
La grazia di N. S. G. C. sia sempre con voi e la Santa Vergine ci aiuti tutti a camminare per la via del Cielo. Amen.
Vi sono con pienezza di affezione,
Agli amatissimi giovani del Collegio Convitto di Lanzo, il loro amico Sac. Bosco Giovanni. [419] Di quei giorni nell'Oratorio si stava preparando una rappresentazione in lingua latina. Il biglietto d'invito, scritto da D. Francesia, che da molti anni presiedeva al teatro ed esercitava gli attori, era stato spedito il 23 giugno.
Lectori salutem[18].
Pueri mei musis mansuetioribus
Operam qui navant, latinam fabulam
Propediem, septima et vigesima junii dabunt.
Hora secunda, postmeridiano tempore.
Est comoediae agendae A l e a r i a nomen
Et eius auctor clarissimus Palumbus,
Maxime qui sales plautinos callet.
Et iam res nova sane nobis praesagit
Multos doctiores spectatores fore,
Quos inter gaudeo te adnumerarier.
Verum si adsies, meus ni obficiet amor,
Tu nostrum cum aliis optime adprobaveris
Morem, quem sumsi abhinc aliquot iam annos,
In hac studiorum pueros ratione
Meos exercendi. Fac venias. Vale.
Domi, ex aedibus quae vulgo feruntur: Oratorio di S. Francesco di Sales -Valdocco.
Augustae Taurinorum, IX kal. Julii an. M. DCCC. LXVI.
D. Bosco volle assistere alla rappresentazione, non solo per contentare i suoi alunni, ma per rendere onore ai numerosi invitati. V’era con lui anche il giovane segretario che erasi scelto quest'anno, il ch. Berto Gioachino, il quale sui primordi del suo importantissimo ufficio dimostravasi alquanto timido ed affannato per timore di non corrispondere pienamente alla fiducia in lui riposta dal Superiore. D. Bosco lo rassicurò. Narra lo stesso Ch. Berto:
“L’anno 1866 mentre accompagnava Don Bosco dalla sua camera al teatro, passando per la scaletta dello studio ed essendo da solo con lui, mi disse: - Guarda, tu hai troppo timore di Don Bosco; credi che io sia rigoroso e tanto esigente e perciò sembra che abbi timore di me. Non osi parlarmi liberamente. [420]
Sei sempre in ansietà di non potermi contentare. Deponi pure ogni timore. Tu sai che D. Bosco ti vuol bene: perciò se ne fai delle piccole non ci bada e se ne fai delle grosse te le perdona”.
Appena libero dalle esigenze impostegli da questi giorni di tanto trambusto, scriveva alla Contessa Callori.
Il giorno 22 di questo mese partiva da Mirabello per andare a Casale, ma giunto alla stazione ho trovate le corse sospese e dopo quindici ore di aspetto in Alessandria potei in fine giungere a Torino. Per questo motivo non ho potuto andare a riverire Lei e la sua famiglia come desiderava e parlarle dei nostri affari.
Ora le dirà che dopo dimani scade il mio debito verso il sig. Conte ed io debbo procurare di pagare il debito per acquistarmi credito. Quando Ella era in casa Collegno mi disse che in questa epoca avrebbe fatto una oblazione per la chiesa o per l'altare di S. Giuseppe, ma non fissò precisamente la somma. Abbia adunque la bontà di dirmi:
1° Se la sua carità comporta che faccia oblazioni in questo momento per noi e quali.
2° Dove dovrei indirizzare il danaro pel sig. Conte.
3° Se il sig. Conte per avventura ha pagamenti che possa fare con biglietti, oppure, siccome è cosa ragionevole, debbo cangiare i biglietti in Napoleoni secondo che ho ricevuto.
Appena la ferrovia faccia il suo corso regolare, andrò a farle una visita a Casale, oppure a Vignale, ed allora avrò il piacere di vedere Cesarino, che nel rispondere alla sua lettera aveva scambiato con Bimbo.
O Signora Contessa, ho bisogno dell'aiuto delle sue preghiere. Mi trovo con tante cose tra mano, che non saprei dove cominciare o dove finire. Grazie a Dio però lo stato morale della Casa va bene, ad eccezione di qualche spina che è inseparabile dalle vicende umane.
Dio benedica Lei, signora Contessa, e benedica tutta la sua famiglia; li conservi tutti nella grazia del Signore e nella pace del cuore.
Colla più sentita gratitudine e con pienezza di stima ho l'onore di potermi professare
Don Bosco accennava a qualche spina. Tale doveva essere stata anche la morte di un suo alunno dell'Oratorio avvenuta da pochi giorni e la gravissima malattia di un altro a Mirabello. D. Rua Michele notò nel necrologio:
Muore Borgna Luigi in età di 12 anni, nativo di Casotto. Fanciullo di costumi molto buoni, dava di sè ottime speranze. Sebbene da poco tempo fosse entrato nella casa, tuttavia già apparteneva alla Compagnia del SS. Sacramento ed era pure ascritto al Clero in cui spiccava per la sua particolare compostezza in tempo delle sacre funzioni.
Un altro giovanetto, che egli aveva condotto con sè da Firenze e consegnato al Direttore del Piccolo Seminario di Mirabello, si trovava in gravi condizioni di salute. Da due mesi una tosse ostinata non lo abbandonava. I Superiori gli prodigavano ogni cura, ma senza prò. Era questi Ernesto Saccardi da Brozzi (Firenze) di virtù così specchiata, che meritò gli venisse scritta la vita da D. Bonetti. I compagni lo chiamavano l'Angelo. Ricordando le antecedenti sue malattie e considerando la sua gracile complessione si incominciò a temere della sua vita. D'accordo col medico, D. Bonetti decise di mandarlo a Torino, per due ragioni: per fargli cangiare aria e perchè fosse visitato dai più celebri dottori di questa città. Comunicarono la decisione a Saccardi, e gli piacque. Egli desiderava molto di trovarsi vicino a D. Bosco, cui tanto amava e considerava qual padre dell'anima sua. Più volte aveva detto che la morte non gli avrebbe in alcun modo fatto paura, se in quel momento avesse potuto essere assistito da D. Bosco. Fu adunque accompagnato a Torino da un maestro incaricato di assisterlo durante il viaggio e consegnarlo nelle mani di D. Bosco che lo aspettava. Giungeva nell'Oratorio il 30 giugno. Furono chiamati i più rinomati dottori e la risposta del consulto fu tale da cagionare una profonda ferita al cuore di quanti amavano il buon giovane. Era ormai finita in cielo la sua corona; egli aveva saputo in breve tempo renderla assai bella e ricca; e gli angioli si disponevano a porgliela [422] in capo. Tranquillo, anzi contento, assistito da D. Bosco moriva il 4 luglio.
Alcuni giorni dopo D. Bosco notificava alla desolata madre le circostanze della morte edificante del figlio.
Sebbene egli passasse molto tempo fuori di letto e facesse le sue divozioni in chiesa, tuttavia postosi a letto domandò di ricevere i SS. Sacramenti, e ne fu appagato. Una sera dopo essersi confessato mi disse di aver una pena, e me la espresse. - Io temo, disse, che la malattia vada in lungo, e che ella mi mandi a casa. Se ciò fosse, povero me! - Io lo consolai tosto dicendogli che, fosse stata lunga o breve la sua malattia, l'avrei sempre tenuto meco, nè gli avrei lasciato mancare alcuna cosa che gli avesse giovato o per l'anima o pel corpo. Pieno di contentezza soggiunse: - Dunque io sarò sempre con D. Bosco e figlio di D. Bosco. Sia Dio benedetto.
- Però, gli dissi, se Dio ti volesse con lui in Paradiso, io giudicherei di lasciarti andare, che ne dici?
- Oh sì, che vi andrei volentieri in Paradiso.
Debbo notare che il suo più gran timore era di essere mandato a casa, e il solo parlargliene facevagli aumentare il male. - A mia casa, soleva dire, vi sono certi pericoli dell'anima, che io non potrei fuggire; pur troppo, pur troppo!...
Qui ommetto molte cose riguardo all'avanzarsi della malattia, al ricevere i SS. Sacramenti; nemmeno mi fermo a parlare di sua pazienza, della pietà, del fervore, cose tutte che potrebbero formare materia di un bel libretto. Dico solamente che un giorno avendogli detto se desiderava che invitassimo la madre sua a venirlo visitare: - No, rispose egli, perchè forse non mi potrebbe trovar vivo; e poi ella mi ama assai, e sarebbe per lei dolore troppo grande il vedermi morire. Io stesso ne patirei gravemente.
La sera precedente alla sua morte gli domandai se mi comandasse qualche cosa, e soggiunse: - Dica ai miei compagni che dimani sarò colla Madonna in Paradiso. - Stassera replicai, scriviamo una lettera al padre Giulio Metti; vuoi da lui qualche cosa? - Oh! padre Giulio, esclamò egli, caro padre Giulio, io vi ringrazio che mi abbiate salvata l'anima, mandandomi qua. Dio ve ne rimeriti.
Ai 4 di luglio, alle nove del mattino, io gli stava accanto per osservare l'andamento del male, e persistendo egli che di quel giorno voleva andare colla Madonna in Paradiso, gli chiesi chi lo assicurava di questo. - Me lo assicura Colei che ho scelto per mia madre; Ella non cangerà quanto mi disse. - Allora giudicai bene di chiedergli se avesse qualche commissione per sua madre. - Sì, rispose, dica a mia madre che io la ringrazio di quanto ha fatto per me; che le domando perdono dei dispiaceri [423] che le ho dati. Cara madre, continuò egli, voi avete fatti grande sacrifizi per me; ma siatene certa, voi mi avete salvata l'anima, e questo vale per tutto. Voi perdete un figlio in terra, ma lo acquisterete in cielo. So che vi recherà un gran dolore la notizia della mia morte ma voi siete cristiana; fatene un sacrifizio al Signore in suffragio dell'anima mia.
Dopo queste parole gli comandai di riposarsi alquanto, ed ubbidì, Poco dopo continuò: -Dica ancora a mia madre che io muoio contento senza la minima pena della morte. Oh madre amata, io vado al Cielo; fatevi coraggio; colà vi attendo, e pregherà sempre Iddio per voi. Salutate tutti i miei parenti, e dite loro che al punto della morte si raccoglie quello che si è seminato nel corso della vita.
Voleva dir altro, ma ne fu talmente commosso che io lo consigliai a tacere. -Ho ancora una cosa a dire, e vorrei poterla dire, mi perdoni. - Parla pure, io eseguirò qualunque tuo ordine. - È cosa dolorosa, soggiunse, mi pesa, ma gliela raccomando. Preghi mia madre che procuri di parlare con alcuni compagni che ella conosce, e dica loro che io muoio col rimorso di averli conosciuti. Facciano essi in modo di riparare il loro scandalo prima del punto della morte.
Molti altri detti e pii pensieri esternò in quegli ultimi momenti, che io spero di poterle poi esporre verbalmente.
Erano le II del mattino, ed egli con volto allegro e rassegnato pregava e baciava il crocifisso. Dopo alcuni momenti cessò di parlare, guardò gli astanti, fe' un sorriso, e l'anima sua volò al Signore.
Uno spettacolo avvenne dopo la sua morte. Il suo cadavere divenne così avvenente che sembrava proprio un angelo fatto col pennello; i suoi compagni si deliziavano nel rimirarlo. Trentasei ore dopo conservava le sue sembianze, ed entrando nella camera mortuaria ed avvicinandosi allo stesso cadavere, non sentivasi odore di nessuna sorta.
Durante la malattia e subito spirato sonosi fatte speciali preghiere pel defunto. La sepoltura fu maestosa e pia. I suoi compagni lo accompagnarono finchè il cadavere fu consegnato al deposito. Tutti i superiori di questa casa e dell'altro collegio, ove visse maggior tempo, vanno d'accordo nel dire che abbiamo perduto una perla preziosa.
Due cose pertanto la devono consolare in questa disgrazia: 1° Una morte la più preziosa che si possa desiderare agli occhi di Dio, e questo per una madre cristiana vale per tutto. 2° Non gli mancò nulla che potesse giovargli all'anima e al corpo. Quando spirava stavano intorno al suo letto più sacerdoti, più chierici, più compagni, che pregavano per lui.
Adoriamo pertanto i decreti della Divina Provvidenza, che certamente in ogni cosa ha i suoi fini. Noi dobbiamo dire che Iddio se lo volesse prendere, affinchè i pericoli del mondo non pervertissero la sua [424] mente, non guastassero il suo cuore, nè ingannassero la sua anima già matura pel Cielo. Consoliamoci a vicenda nella speranza che presto lo rivedremo in una vita migliore.
La notizia di questa morte fu tosto spedita a Mirabello, e l'impressione dolorosa che ne ricevettero gli alunni fu temperata dall'asserzione di un avvenimento sorprendente, ripetutosi più volte.
Predicando in quel piccolo Seminario il Teol. Antonio Belasio, D. Belmonte dall'orchestra e tutti gli altri che erano con lui notarono un vivo muoversi ed agitarsi dei ragazzi di prima e seconda elementare (circa trenta) nel tempo della benedizione, e anche prima, quando era esposto il SS. Sacramento. Erano gesti e voci mal represse di meraviglia. Dopo la funzione essi corsero in cortile affermando tutti di aver visto nell'Ostia Santa, bellissimo, il Bambino Gesù.
Due sere successive accadde questo fatto singolare con sempre crescente stupore e gioia dei piccolini che soli videro quella meraviglia.
Il Teologo volle interrogarli ad uno ad uno, separatamente, e si stupì nell'udire che tutti facevano la stessa identica descrizione dei Bambino, sicchè rimase persuaso che fosse vera quell'apparizione.
D. Belmonte stesso ci fece questo racconto.
Qualcuno la credette un'allucinazione, perchè presso il piccolo trono del Santissimo vi erano due piramidi di fiori sporgenti, i quali nello spazio che racchiudevano potevano formare una tal quale figura di bambino. Noi non entriamo in disputa. Diciamo solo che se fu illusione, questa aveva fondamento in due grandi verità: che là sul trono era realmente vivo e vero N. S. Gesù Cristo, e che è egli che disse: Sinite parvulos venire ad me: Deliciae meae esse cum filiis hominum.
D. Bosco venne informato dell'avvenimento e ne faceva cenno in una sua lettera al ch. Francesco Cerruti, ormai vicino [425] alle sacre ordinazioni, a cui studiavasi di formare il patrimonio ecclesiastico. A tutti i suoi preti, eziandio a quelli che erano usciti dall'Oratorio, l'avea procurato con non comune diligenza e vivi impegni: e in quest'anno continuava ad adoperarsi da più mesi presso il Re, l'Economato, l'Opera Pia di S. Paolo, e la Curia, in favore di quei suoi chierici che si preparavano a ricevere gli ordini maggiori. Ma le pratiche e il carteggio si moltiplicavano, e le difficoltà e le dilazioni non finivano mai.
Tra i giovani accolti nella casa detta Oratorio di S. Francesco di Sales trovansi due chierici che per la loro condotta morale e per la speciale attitudine alle scienze, vennero destinati allo studio ed in breve compiuto il corso ginnasiale e liceale pervennero al 5° anno di Teologia che presentemente percorrono.
Essendo essi privi affatto di beni di fortuna, procurarono di corrispondere alla carità loro usata col più vivo zelo, col fare i catechismi, assistere i loro compagni, insegnare nelle scuole diurne e nelle serali. Ora avrebbero età, studio e le altre qualità necessarie per essere ammessi agli ordini sacri; ma loro manca il patrimonio ecclesiastico, nè hanno parenti che loro lo possano provvedere.
Per questo motivo il sottoscritto ricorre umilmente alla clemenza di V. S. M. supplicandola affinchè si degni di prenderli in benigna considerazione e loro accordare sovra la cassa dell'Economato la pensione ecclesiastica, almeno finchè non possano essere altrimenti provveduti. Questo atto insigne di beneficenza tornerebbe eziandio di grande aiuto a questa casa, al cui vantaggio essi impiegano tutte le loro fatiche.
Tutti unanimi ripongono piena fiducia nella bontà sovrana già molte volte esperimentata; e assicurandola che invocheranno ogni giorno le benedizioni del Cielo sovra l'augusta di lei persona e sopra tutta la reale famiglia, a nome di tutti colla più sentita gratitudine si protesta
Al ch. Prof. Cerruti scriveva:
C'è, non c'è, è promesso, sarà ottenuto, poi è sospeso, difficoltà et caetera: ed in fine dei conti ogni cosa va a lungo. - Dunque prendiamo una via sicura, a tua comodità fa' una gita a Torino, di qui tratteremo del tuo patrimonio e, se fa bisogno, andremo a Saluggia per appoggiare una parte sopra gli stabili che ti riguardano... Il resto ce lo diremo.
Se tu sei veramente allegro, procura di fare star bene tutti gli abitanti del piccolo Seminario. Saprai già la morte nel nostro caro Saccardi. Di’ pure ai compagni che lo invochino dal Cielo, chè certamente a quest'ora è in gloria col Signore, in compagnia di Rapetti, vera copia di Savio Domenico. Saluta D. Bonetti e D. Provera una cum caeteris hic habitantibus: perdona il latino; non badavo che scrivevo ad un professore.
Se il fatto del Bambino continua ne' medesimi termini, dì a Don Bonetti che tenga memoria d'ogni più piccola particolarità, specialmente col far scrivere il racconto separatamente da tutti quelli che l'hanno veduto, dopo se ne farà un estratto da questi documenti.
Cerruti, coraggio, dovremo combattere, ma non siamo soli, Dio è con noi, il premio ricompenserà ogni fatica sostenuta.
Dio ci benedica tutti e ci conservi per la via della salvezza eterna. Amen.
D. Francesco Cerruti, ordinato suddiacono il 20 settembre, saliva la prima volta all'altare il 22 dicembre 1866.
LA guerra imperversava. I battaglioni prussiani che avevano conquistato l'Annover si erano vòlti contro la Baviera e i confederati; il 3, il 4 e il 10 luglio sostennero battaglie micidiali e dopo una grossa zuffa a Grossdorf i Bavaresi finirono con ritirarsi a Würzburg. I Prussiani non li inseguirono, ma dirizzarono la loro marcia verso Francoforte sul Meno, sede della Dieta, e vi entrarono il 16 luglio dopo un fierissimo combattimento. Altri corpi prussiani occupavano il Ducato di Nassau e il 18 luglio entravano in Darmstadt, [428] capitale dell'Assia granducale. Così ad uno ad uno i federati furono disfatti e soggiogati.
Nello stesso tempo 300.000 Prussiani penetravano in Boemia, territorio dell'Impero Austriaco. Dal 26 al 30 giugno sostennero sanguinosi combattimenti, ma sempre avanzandosi; e il 3 luglio a Sadowa, presso la riva destra dell'Elba, ebbero di fronte l'esercito imperiale, forte di 250.000 combattenti. Si attaccò la battaglia essendo presente il Re Federico Guglielmo; dal mattino alla sera fu orribile la strage da una parte e dall'altra, ma la vittoria rimase ai Prussiani. Gli Austriaci andarono in piena rotta. L'8 luglio i vincitori entrarono in Praga e il 13 occuparono Brünn desertando la Boemia e la Moravia. Il 17 stabilirono a Londenbourg sulla Thaya il loro quartiere generale per tagliare il passo verso Vienna all'esercito austriaco, che si era rannodato ad Olmütz; cosicchè, scompigliatolo, soli 45.000 poterono giungere a Florisdorf nel campo trincerato sulla sinistra del Danubio. Vienna era in pericolo.
Fin dal 1° luglio l'Imperatore Francesco Giuseppe per rendere possibile l'unione delle sue truppe in Italia con quelle dell'esercito del nord, aveva offerto a Napoleone le provincie del Veneto; e Napoleone il giorno 4 accettava la cessione e di farsi mediatore di un armistizio e di un trattato di pace tra l'Austriaco e Vittorio Emanuele. Ciò fatto, furono messi in marcia alla volta di Vienna 40.000 soldati veterani che erano in Dalmazia e una parte dell'esercito che aveva combattuto a Custoza.
L'Imperatore de' Francesi il 5 luglio dava notizia per telegrafo al Re d'Italia della cessione a lui fatta del Veneto e proponeva un armistizio. Gli fu risposto che prima bisognava intendersela colla Prussia; e Bismarck inculcò l'osservanza dei patti stipulati, cioè di non fare pace, senza un reciproco consenso. L'Italia pertanto rifiutò l'armistizio e, non avendo fatto Napoleone alcun atto di prendere possesso del Veneto, si [429] affrettò di occupare quanto più le fosse possibile di territorio nelle provincie che venivano abbandonate dagli Austriaci. Perciò una parte dell'esercito imperiale dovette rimanere in difesa del quadrilatero, di Venezia, del Trentino e dell'Isonzo.
Il generale Nunziante, con una divisione, ricevuto ordine d'impadronirsi della testa di ponte sul Po, tenuta dagli imperiali a Borgo Forte sulla strada di Mantova, dopo 13 giorni di assedio e un cannoneggiamento furioso l'occupava il giorno 18.
L'8 luglio Cialdini, valicato il Po nelle circostanze di Sermide verso Massa con oltre 100.000 uomini, senza incontrare il nemico entrava il giorno 10 in Rovigo. Oltrepassato l'Adige, occupava Padova senza colpo ferire, poi Vicenza e Treviso. Il 16 giungeva al Tagliamento e il generale Cadorna s'inoltrava verso l'Isonzo, non raggiungendo gli Austriaci, che si ritiravano accumulando rovine e ostacoli d'ogni natura per impedirgli la marcia.
Intanto Garibaldi si era avanzato nel Tirolo passando ad occidente della valle del Chiese, e la divisione del generale Medici marciava su Trento per la Valsugana. Ma l'uno e l'altro incontravano ad ogni passo, pronti ad attraversare loro la via, numerosi nemici, che ributtavano con asprissimi combattimenti.
D. Bosco in questo tempo non si era allontanato da Torino. Pregava e faceva pregare per i suoi allievi soldati e per tanti altri che erano al campo e gli erano stati raccomandati; e parve che la Madonna stendesse realmente sopra di loro come scudo il suo manto materno.
La Contessa Virginia Cambray Digny l'II agosto 1866 scriveva al Cav. Oreglia:
“Sono persuasa di aver ricevute molte grazie mediante l'intercessione dell'ottimo Don Bosco, e serberà sempre memoria della carità grande ch'egli mi ha usata e mi fa tuttavia, pregando e facendo pregare per me e per la mia famiglia. [430] Il mio figlio ufficiale si trovò impegnato il 26 luglio in uno scontro agli avamposti col suo Reggimento contro forze nemiche assai maggiori; per divina misericordia e per l'intercessione di Maria SS. mossa in suo favore dalle loro preghiere, egli ne uscì sano e salvo, mentre due soldati che gli erano vicini ricevevano varie ferite; ed ebbe anche la sorte di meritarsi per la sua condotta l'approvazione dei suoi compagni.
Ella vede adunque, sig. Conte, ch'io debbo molto alle loro preghiere, della di cui efficacia ho già tante prove e nelle quali ripongo gran fiducia anche per l'avvenire.
Non so dirle quanto mi facesse piacere il sentire dalla sua lettera che la salute di Don Bosco era alquanto migliorata. Ho saputo in seguito dalla March. Nerli che il miglioramento continuava e mi lusingo che adesso sarà del tutto ristabilito”.
D. Bosco infatti non cessava di occuparsi dell'Oratorio e non dimenticava la fabbrica della chiesa.
Dovette rispondere alla circolare del R. Provveditore agli studi F. Selmi che in data del 12 luglio aveva chiesto per ordine del Ministro un'esatta statistica del suo convitto, da trasmettersi nei primi venticinque giorni del mese stante; e invitato, dava notizie anche al Teol. Baricco, Regio Ispettore per gli studi primarii della Provincia di Torino, inviando una statistica delle scuole elementari serali e festive dell'Oratorio di S. Francesco di Sales nell'anno 1865-1866.
La ringrazio infinitamente della premura che si prende per le nostre scuole e volentieri rispondo alle spiegazioni che Ella domanda.
Furono sei le classi in cui si insegnava dai primi rudimenti di lettura fino alla grammatica ed aritmetica inclusive. Gli insegnanti sono tutti chierici addetti al medesimo Oratorio, aiutati anche dai giovani più provetti, sotto la direzione dei professori G. B. Francesia e Celestino Durando, sacerdoti. Il numero massimo di ogni classe è in media di 35 alunni che raramente va fino a 40. Le classi si tengono aperte dal mese di novembre a tutto luglio inclusivo. Si ebbe l'anno [431] scorso il sussidio di 500 lire come aiuto, e per le scuole serali e diurne e per le ginnasiali ed elementari.
N.B. - Oltre alle scuole di lettura, scrittura, grammatica ed aritmetica, serali e festive pei giovanetti artigiani, v'ha pure ogni sera la scuola di musica vocale o strumentale per 500 e più giovanetti”.
Nè cessava di chiedere sussidii. Secondo il solito di ogni anno, aveva rivolto una supplica al Regio Economato generale dei benefizi ecclesiastici in Torino a favore degli Oratorii di Valdocco; Portanuova, Vanchiglia e S. Salvario; e l'Economo generale Fenoglio, con notificazione del 14 luglio, gli annunziava che il Governo di Sua Maestà erasi degnato di concedergli la somma di lire cinquecento.
Altra domanda presentava al Limosiniere di Casa Reale.
I poveri giovani ricoverati nella casa detta Oratorio di S. Francesco di Sales, in numero di circa ottocento, trovandosi ridotti a gravi strettezze, fanno umile ricorso alla provata carità di V. S. R. M., supplicandola a voler prendere in benigna considerazione la misera loro condizione e concedere quel caritatevole sussidio che al paterno di lei cuore sarà beneviso.
Memori del benefizio, non mancheranno di porgere a Dio ogni giorno speciali preghiere per la conservazione dell'Augusta di Lei persona e di tutta la Reale Famiglia.
Sac. Bosco GIOVANNI[19]. [432]
Al contino Callori inviava una risposta di ringraziamento, dalla quale traspare la tranquillità dell'animo suo, al pari della sua riconoscenza per quella nobile famiglia.
Ella è sempre un buon segretario perchè scrive sempre cose buone, utili, vantaggiose. Grazie adunque della limosina che Maman si dispone di fare e fa in mille franchi per la costruzione del pulpito. Spero che Maria Ausiliatrice non istarà indietro a Maman in generosità.
Prima che termini questo mese porterò i mille franchi a sua casa come mi scrive e farò in modo di portare altrettanti napoleoni, ma tutti col capo scoperto. Perchè se portassi insieme cinquanta napoleoni col cappello in testa, forse metterebbero in combustione fin Giove Saturno e Marte, ecc.
Appena saranno ritornati dai bagni, spero di poterli riverire personalmente a Casale o a Vignale. Li assicuro però che ogni dì li raccomando tutti in particolar modo nella Santa Messa.
La grazia del Signore l'assista e il santo timor di Dio sia ognora la sua ricchezza favorita ed ambita. Amen.
Con gratitudine e stima mi professo
I lavori della chiesa progredivano; perchè il Servo di Dio non cessava di raccomandarli a quanti ricorrevano a lui per consiglio. Ecco due altre sue lettere, indirizzate a Roma; la prima all'illustrissima signora Contessa Violante Runez, Nancy.
La grazia di Nostro Signore Gesù Cristo sia sempre con noi! Ringrazio V. S. B. della cristiana lettera che si compiacque indirizzarmi. Farò quanto Ella mi dice; preghino e farò anche pregare questi miei giovanetti per le due famiglie che mi raccomanda; ma bisogna aver pazienza e rassegnazione e riconoscere in ogni cosa la santa volontà del Signore. Se poi Ella vuoi fare qualche cosa per noi, aiuti la marchesa Vitelleschi a spacciar alcuni cartellini di Lotteria il cui provento [433] è destinato alla costruzione della chiesa in questa città, sotto il titolo di Maria Ausiliatrice.
Io le auguro ogni celeste benedizione: Ella poi si degni di pregar per me e per li miei poveri giovanetti, mentre ho l'alto onore di potermi professare,
Colla seconda lettera rispondeva all'Ecc.ma Presidente delle Oblate Benedettine Olivetane a Tor de' Spechi, Madre Maddalena Galeffi.
Ho ricevuta la sua lettera piena di cristiani sentimenti e la ringrazio delle sollecitudini che ella si dà pel bene di questi poveri giovanetti, che di nuovo raccomando alle divote di Lei preghiere.
Si faccia animo. Ella e le sue figliuole in Cristo preghino e sperino tutto da Gesù in Sacramento. A questo riguardo induca la novizia testè accolta a fare qualche preghiera a questo scopo e la vedrà cangiata, cioè deporrà ogni suo scrupolo.
L'assicuro che raccomanderò eziandio al Signore il bene spirituale di suo fratello. Ella poi faccia quanto può per aiutare la benemerita signora Contessa Calderari a spacciare biglietti di una Lotteria, che già forse conoscerà e di cui sentiamo il bisogno.
Dio benedica Lei e le sue fatiche, e la Santa Vergine difenda e protegga tutta la sua comunità e le faccia tutte sante. Amen.
Raccomando me alla carità delle sue preghiere e mi professo
Giungeva intanto la notizia d'una grande battaglia navale imminente. Il 16 luglio la flotta italiana era partita da Ancona comandata dall'Ammiraglio Persano. Il 18 e il 19 bombardava le fortificazioni dell'isola di Lissa, ma non riusciva ad operare uno sbarco di truppe; e la corazzata La Terribile rimaneva così malconcia dalle artiglierie nemiche da doversi [434] riparare in Ancona. Il 20 compariva la flotta austriaca del Tegethof e si spingeva impetuosa ad attaccar battaglia. La Capitana Re d'Italia investita furiosamente andava a picco con tutto l'equipaggio e un'altra corazzata, la Palestro, incendiata dalle granate, saltava in aria con quanti aveva sopra. La flotta italiana, per l'imperizia di Persano, nell'impossibilità di respingere i nemici, verso sera si ridusse tutta nel porto male abbandonato. Per colmo di disastro la corazzata l'Affondatore sommergevasi poi nel porto stesso per l'urto violento de' marosi.
Alle prime voci di una sconfitta, D. Bosco che aveva amici nell'armata navale, ansioso di saperne novelle, passò in vettura insieme con D. Durando al palazzo prefettizio. Il Servo di Dio non discese e D. Durando salì all'ufficio del Conte Radicati, il quale mentre gli diceva non esser ancor giunte notizie ufficiali, ecco giungere un telegramma dal Ministero. Lo aperse e lesse quella frase famosa: - Siamo rimasti padroni delle acque! - Il Conte alzò gli occhi al cielo, si mise le mani nei capelli ed esclamò: - Ciò vuol dire una sconfitta. È un sanguinoso eufemismo per annunziare un terribile disastro. - E a capo scoperto scese per far leggere a D. Bosco il telegramma; capitano della Palestro era Faà di Bruno, suo cognato; e il Servo di Dio si recò dalla Contessa Radicati a confortarla per la perdita del fratello.
Adempiuto quel dovere di carità e gratitudine cristiana, si portò a Lanzo per dimorare qualche giorno a S. Ignazio, presiedere nel Collegio alla distribuzione dei premi, e visitar un infermo, padre di un suo chierico Lanzese. Era questi Giovanni Battista Verlucca, che fu poi professore in Seminario e Canonico Penitenziere della Metropolitana di Torino, il quale gli aveva scritto anche domandando consiglio se dovesse compiere i suoi studii in collegio o in Seminario.
D.. Bosco gli aveva risposto. [435]
volentieri unirà le povere mie preghiere e quelle de' giovani di questa casa a prò di tuo padre, e voglio anche dire una parola speciale a Savio Domenico. Di qui alla festa di Maria Assunta in Cielo recita ogni giorno tre Pater, Ave e Gloria a Gesù Sacramentato in onore di Savio Domenico, di cui egli era molto divoto. Andando a Lanzo spero di potergli fare una visita.
In quanto alla scelta del luogo di fare i tuoi studi c'è tempo a pensarci e a deliberare. Tu abbi solamente di mira di scegliere quel sito che sarà di maggior gloria di Dio e di maggior vantaggio all'anima tua. Noto solo che i grandi sacrifizi fatti in gioventù sembrano pungenti spine, ma esse saranno poi cangiate in odorifere rose nella eternità. Spero che presto potremo vederci.
Dio benedica te e le tue fatiche, prega per me che di cuore sono tutto tuo
Il 26 luglio, giovedì, segnava gran festa pei giovanetti studenti dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, la solenne distribuzione dei premi. Si erano fatte lungo il mattino le funzioni di chiesa, e molti degli alunni, se non tutti, s'erano pure accostati ai SS. Sacramenti, avevano sentita la parola di addio dal loro amato D. Bosco, e presa la benedizione di Gesù Sacramentato. Raccolti quindi in luogo a ciò adattato si preparavano a sentire l'esito delle loro fatiche, e la proclamazione dei giudicati degni di premio. Il dire quale fosse il desiderio di tutti era facile; lo si vedeva chiaramente scritto a ciascuno in volto: quello di essere del bel numero uno.
Mons. Pietro Rota, Vescovo di Guastalla, onorava di sua presenza la solennità, ed una corona illustre di altri personaggi le accresceva maestà e decoro.
In questa occasione il Direttore degli studii D. Francesia indirizzò ai giovani un discorsino tutto cuore, che ben rivelava il molto affetto che nutriva per loro. [436] Nello stesso giorno D. Bosco scriveva agli alunni di Mirabello gli avvisi che aveva dato a voce ai giovani di Lanzo e a quelli dell'Oratorio.
Ai miei cari figliuoli di Mirabello.
Aveva deliberato di recarmi presso di voi nel giorno della domenica prossima, quando imperioso motivo mi fa cangiare divisamento. Mi rincresce assai; ed aveva già perfino stabilite le cose che desiderava di dirvi. Pazienza. Dio vuole riserbare questa nostra consolazione dopo le vacanze ed allora spero che passeremo insieme non un giorno, ma una settimana.
Intanto io giudico bene di augurarvi vacanze felici con alcuni paterni avvisi che mi sembrano necessarii alle anime vostre.
1° Io ringrazio il vostro Direttore, Prefetto, i Maestri, Assistenti e tutti gli allievi del piccolo Seminario, di tutte le cortesie, della pazienza usatami e delle preghiere fatte per la povera anima mia. Continuate, o cari figliuoli; io vi assicuro che ogni giorno vi raccomando tutti quanti nella Santa Messa.
2° Ognuno prima di partire pulisca la coscienza, con un fermo proponimento di volerla conservare tale fino al ritorno dalle vacanze, per quella settimana o per quel giorno che vi sarà stabilito per ritornare; ma non lasciatevi adescare da alcune frivolezze per rimanere a casa oltre il tempo stabilito, ad eccezione che lo stato della vostra sanità non ve lo permetta.
3° Giunti a casa, andate tosto da parte mia e degli altri vostri Superiori a salutare i vostri parenti, il vostro parroco, maestro ed altre persone verso cui abbiate qualche obbligazione. Questo è uno stretto dovere di gratitudine, che farà piacere agli altri e sarà eziandio vantaggioso a voi stessi.
4° Fate a casa la solita meditazione, messa, lettura quotidiana, come facevate in collegio. La medesima frequenza alla confessione e comunione.
5° Col vostro contegno in famiglia fate vedere che il vostro anno scolastico non fu perduto; perciò siate modelli agii altri vostri parenti ed amici nella virtù dell'obbedienza; sopportate con carità le molestie degli altri, siate senza pretese nel cibo, nel riposo, nel vestirvi e simili.
6° Non si possa mai dire di voi che facciate cattivi discorsi od anche solo ne ascoltiate. Ocorrendovi di sentire qualcheduno a farne, imitate il vostro protettore S. Luigi; o rimproverare chi li fa, o fuggire immediatamente dalla pericolosa compagnia.
7° Procurate di raccontare qualche fatto, qualche esempio, letto, udito, studiato a quelli che lo vogliono ascoltare; oppure leggete [437] qualche buon libro; ma guardatevi dalle cattive letture, come da un mortale veleno delle vostre anime.
Certamente, o miei cari figliuoli, io vi direi ancora molte altre cose se la brevità di una lettera lo comportasse. Vi dico per altro ancora che voi andando altrove troverete persone più dotte e di gran lunga più virtuose di me, ma difficilmente potrete trovarne di quelle che più di me cerchino il vostro bene. - Perciò voi ricordatevi di me ogni mattino nell'ascoltare la Santa Messa; io non mancherò dal canto mio di far ogni giorno una commemorazione per tutti voi nel celebrarla.
Quale grande consolazione per me, che grande fortuna per voi se andaste a casa e ritornaste senza perdere la grazia del Signore! Del resto riposate, state allegri, cantate, ridete, passeggiate, e fate quanto altro vi piace, purchè non commettiate peccati.
Buone vacanze, miei cari figliuoli, e buon ritorno dalle medesime. La benedizione del Signore vi accompagni in ogni passo.
Il Direttore delle scuole dia pure a leggere ed anche a copiare, a chi lo bramasse, questa lettera.
La grazia di N. S. Gesù Cristo, sia sempre con noi e la S. Vergine Maria ci assista e ci aiuti a perseverare per la via del Cielo. Amen.
Credetemi sempre con paterno affetto tutto vostro nel Signore,
P.S. - D. Bonetti riveda perchè non ho potuto leggere.
Coi finire di questo mese avevano pur termine tante ecatombi di vittime umane e potevasi esclamare col salmista: - Dissipa gentes quae bella volunt. Bismarck avendo in mano quanto bastava pel compimento de' suoi disegni, senza consultare punto l'Italia, offerì all'Austria una tregua di cinque giorni e il 22 luglio l'armistizio era conchiuso; il 26 i plenipotenziarii di ambe le parti firmavano l'accordo per i preliminari di pace.
L'Italia fu sdegnata a quella slealtà per un misto d'ira e di sgomento, perchè, se non affrettavasi subito a stipulare una tregua, era in pericolo di vedersi piombare addosso l'esercito già vittorioso a Custoza e gran parte del vinto a Sadowa, smanioso di pigliarsi una rivincita, cioè 320.000 soldati. Perciò le fu giuocoforza il 24 luglio, pel consiglio autorevole di Napoleone, [438] di firmare coll'Austria un armistizio per otto giorni. Quindi il 27 luglio vennero fermati il generale Medici giunto a Pergine, distante solo otto chilometri da Trento; Garibaldi, la cui avanguardia toccava già Riva sul Garda, scopo della spedizione; Cialdini, già sulle sponde dell'Isonzo in procinto di muoversi all'invasione di Trieste.
Le trattative per i preliminari della pace durarono fino al 10 agosto, poichè l'Austria rifiutava secco e reciso l'uti possidetis militare. Ella esigeva la ritirata delle truppe italiane fin sulla destra del Tagliamento e lo sgombro assoluto di tutto il Tirolo. E l'Italia dovette acconsentire per necessità.
Fra il tumultuare di tanti commovimenti ed interessi politici, D. Bosco nella quiete della sua cameretta continuava a scrivere lettere e a mandare programmi delle Letture Cattoliche. La diffusione di queste egli giudicava essere una delle prime opere ed una delle principali fra le sue obbligazioni. Si trattava di salvare migliaia di anime, o svelando le perfidie degli eretici, o strappando loro di mano i libri corrompitori dei costumi.
Riportiamo una sua lettera scritta a D. Raffaello Cianetti di Lucca, perchè certi consigli possono incoraggiare i sacerdoti timidi nell'esercizio del sacro ministero.
Ho a suo tempo ricevuta la roba della Caturegli e trasmessa ad uso del medesimo suo figlio. Riguardo al timore di confessare non ci badi. Difficilmente un penitente ne sa più di Lei. D'altronde noi dobbiamo giudicare della nostra idoneità dagli esami e dalla volontà dei Superiori. Di più nel lavorare per le anime vale tanto un'oncia di pietà quanto cento miriagrammi di scienza. Dunque coraggio e confessi alacremente per quanto la sua sanità lo comporta. Ho fatto e fatto fare in comune come ha dimandato; anzi continueremo a raccomandarlo al Signore nelle deboli nostre preghiere. Quando le corse della ferrovia saranno regolari, spero di fare una gita a Lucca e ci parleremo a questo proposito. Faccia umili ossequi a Monsignore, a D. Bertini, [439] alla Marchesa Burlamacchi e famiglia, procuri di aumentare di diecimila gli associati alle Letture Cattoliche. La grazia di G. C. sia sempre con noi. Amen. Preghi per noi e a nome di tutti le sono
Il Cav. Oreglia, ritornato nel luglio da Roma, come Direttore della Tipografia faceva continuare la stampa delle Letture Cattoliche, i cui fascicoli uscirono in quest'ordine.
Per agosto: Carlo, ossia cenni intorno alla vita di un condannato ai lavori forzati. Si convertì, visse e morì santamente a Cayenna. In appendice si narra di un giovane che, essendo di mente ottusa, acquistò grande ingegno colla recita del santo Rosario e mori assistito da Maria SS.
Per settembre: Daniele e i suoi tre compagni in Babilonia, dramma in due atti (in versi) dei P. Giulio Metti, prete dell'Oratorio di S. Filippo coll'Appendice della farsa: Lo spazzacamino. La farsa in prosa, semplice, affettuosa, riflette lo spirito di D. Bosco, che pare l'abbia scritta.
Per ottobre: Vita del Beato Benedetto Giuseppe Labre.
Per novembre: Vita di S. Bernardo di Menthon, il costruttore dei due Ospizi, detti del Grande e del Piccolo S. Bernardo. Si dimostra da queste istituzioni che la verginità ed il celibato dànno vita ad opere colossali e producono una gloria imperitura; e si esortano i fedeli a praticare quell'ospitalità (tanto amata da D. Bosco), della quale scrive S. Paolo agli Ebrei: “Si conservi tra di voi la fraterna carità. E non vi dimenticate dell'ospitalità, dappoichè per questa alcuni diedero, senza saperlo, ospizio agli angeli (Capo XIII).” - Il fascicolo termina colla narrazione di una guarigione istantanea, ottenuta da un'inferma col mettersi al collo la medaglia benedetta di Maria Ausiliatrice.
QUELLA guerra che, D. Bosco aveva preveduta sul principio del 1862 come apportatrice di grandi mali alla Chiesa, ritardata per sei anni e scoppiata con tanta violenza, era dunque finita.
Il 4 agosto il Re Guglielmo rientrava trionfante in Berlino e il 24 si firmavano a Praga le Condizioni del trattato di pace imposte dalla Prussia all'Austria: - Scioglimento dell'antica Confederazione Germanica, colla formazione di una nuova da cui l'Austria sarà esclusa. - La nuova Confederazione comprenderà gli Stati tedeschi al nord del Meno, il Meclemburgo, la Sassonia, il Brunswick, ecc. - La Prussia [441] riconoscerà l'integrità dell'Impero Austriaco, eccettuata la Venezia: e si terrà come preda di guerra i due ducati di Schleswig e di Holstein, il Lauemburgo, il regno di Annover, l'Assia Elettorale, il ducato di Nassau e la città libera di Francoforte. Con il Württemberg, il Baden, la Baviera, e l'Assia Darmstadt, la Prussia successivamente venne facendo convenzioni militari, in forza delle quali il comando supremo delle milizie di questi Stati appartenne a Re Guglielmo I.
La guerra del 1866 venne definita dal Kreuzzeitung: - Una cavalcata di Gustavo Adolfo attraverso l'Impero tedesco. Nel regno prussiano, causa le annessioni, i protestanti vennero a formare i due terzi dell'intera popolazione, sicchè Bismarck, approvando Re Guglielmo, potè poi proporre nella Dieta Prussiana una serie di leggi per staccare i sudditi cattolici da Roma e costringerli a formare una Chiesa nazionale dipendente dallo Stato. La setta dei Vecchi Cattolici sarebbe riconosciuta come l'unica religione cattolica. Così si preparava una tremenda persecuzione, la quale incominciata colle leggi di maggio nel 1873 doveva cessare, e solo in parte, nel 1886.
Le sette imperanti in ogni regione d'Europa si apparecchiavano a seguirne l'esempio. I cattolici si stringevano intorno al Sommo Pontefice prevedendo che sarebbe stata diuturna, benchè insana, la lotta contro il regno di Gesù Cristo sulla terra; e l'Episcopato di tutto il mondo vegliava concorde col suo clero pronto a dare sostanze e vita per sostenere la causa della Fede.
Anche D. Bosco si accinse ad agguerrire sempre meglio i Salesiani, i quali, se allora erano pochi, dovevano crescere in numero considerevole. Cogli esercizi spirituali, S. Ignazio di Loiola aveva formato in difesa della Chiesa campioni invincibili che non solo arrestarono le invasioni del Protestantesimo, strappandogli innumerevoli prede, ma convertirono molte nazioni pagane; e D. Bosco agguerrì i suoi colle stesse esercitazioni. [442] Dalla fondazione dell'Ospizio fino al 1866 i chierici e i preti dell'Oratorio avevano, ogni anno, preso parte con edificante raccoglimento agli esercizi spirituali degli alunni, ma per essi in particolare non eravi stato alcun ritiro, tranne quello che prescrivono i SS. Canoni avanti ogni sacra ordinazione. Don Bosco soleva condurne a S. Ignazio qualcuno di cui forse conosceva necessario rinnovare lo spirito; ma erano pochi. Perciò aveva deciso di radunare in luogo appartato i suoi figli ed insieme con essi meditare le verità eterne e l'importanza dei propri doveri come religiosi: con ciò voleva eziandio contentare chi desiderava che la Pia Società pigliasse esternamente qualche costumanza di vita più ascetica, secondo le Regole. E quest'anno eseguì il suo disegno.
Ma il Venerabile era solito a fare le cose con discretezza, in modo che non fossero di peso, si facessero volentieri, e a poco a poco divenissero coll'abitudine ben accette e volontarie. Si noti che la massima parte dei Salesiani era composta di chierici e giovani preti ai quali si dovevano togliere alcuni giorni di vacanza: ed avevano studiato e preso esami, assistito gli alunni e fatto scuola regolare tutto l'anno e dovevano farla ancora interrompendo le ferie autunnali, poichè a que' tempi gli alunni dalla metà di agosto alla metà di settembre ritornavano in buon numero nell'Oratorio e ne' collegi per le ripetizioni, e molti giovani non venivano ritirati dai parenti; perciò continua era l'assistenza anche per le passeggiate più frequenti e più lunghe, per render loro meno spiacevole la lontananza dalle proprie case. Nell'agosto era anche grave occupazione ultimare le faccende dell'anno scolastico spirato, e nel settembre e nell'ottobre preparare tutto l'occorrente pel nuovo anno.
Per questi e per altri motivi potevano sorgere ripugnanze e D. Bosco voleva evitarle.
Indisse adunque due corsi di esercizi spirituali, l'uno nella prima, l'altro nell'ultima settimana di agosto. Coll'introduzione [443] e la chiusura avrebbero durato solo cinque giorni, cioè tre intieri; si sarebbero udite quattro prediche al giorno. Oltre la visita al SS. Sacramento prima di mezzodì e le litanie dei Santi finita la ricreazione del dopo pranzo, vi sarebbero state letture spirituali, si sarebbe recitato il piccolo ufficio della Madonna e la giornata si sarebbe chiusa colla benedizione del SS. Sacramento preceduta dal Rosario. Però in tutto il tempo libero dalle funzioni di chiesa D. Bosco annunziava che vi sarebbe libertà di parlare, ridere, passeggiare: volere che mentre si sarebbe pensato di proposito alle cose dell'anima, quei giorni fossero destinati anche al riposo dalle fatiche ed all'allegria; quindi a pranzo antipasto ed una pietanza di più dell'ordinario. La proposta fu accolta con entusiasmo.
Con questa prudenza condusse i confratelli insensibilmente al termine voluto. Nel 1867 si incominciò a raccomandare il silenzio dalle 10 ½ alle 12 meridiane. L'anno seguente si aggiunse il silenzio dalle 4 ½ pomeridiane alle 5 ½, tollerando le infrazioni di qualche irrequieto. Nel 1869 si inculcò il parlare sotto voce dopo colazione e dopo cena, proibendo amorevolmente i giuochi rumorosi, che spontaneamente furono tralasciati anche dopo il pranzo. Erano però permessi i canti dopo pranzo e dopo cena. Verso il 1870 i tre giorni intieri di esercizi divennero sei ed otto, e furono accompagnati da quel silenzio e da quella serietà anche nelle ricreazioni, che col moltiplicarsi del numero degli esercitandi sono indispensabili per ricavare pienamente il frutto del quale l'anima ha di bisogno, per rivestirsi di quell'armatura di fede, che infonde coraggio e difende dalla punta delle armi del nemico.
Ma, a dir vero, questo frutto già non mancava di maturare e questa armatura era indossata, prima ancora che la pratica di questi esercizi avesse regolarmente principio. Secondo il sistema educativo di D. Bosco le verità eterne erano continuamente sott'occhi ai figli dell'Oratorio, che ogni mese praticavano [444] l'esercizio di buona morte. E le parlate serali del Servo di Dio non si potevano dimenticare. Predicava tutte le domeniche con tanta unzione e naturalezza, che le sue prediche quantunque lunghe, pure sembravano sempre brevi. Udimmo i confratelli e i giovani a dire che tutt'il giorno sarebbero stati volentieri in chiesa per ascoltarlo. Trattando della morte, del giudizio particolare, dell'ingratitudine degli uomini verso il Signore, o dei procrastinanti a darsi a Dio, piangeva lui e faceva piangere gli altri; e parecchie volte la sua commozione giungeva al punto da dover troncare il discorso perchè impedito dai singhiozzi. È perciò che tutti volevano confessarsi da lui.
La stessa santa unzione nel parlare D. Bosco l'aveva perfino ne' suoi discorsi familiari, specialmente negli avvisi che da mane a sera dava ai suoi figli, ricordando loro il Paradiso ad ogni pie' sospinto.
Testificava D. Rua: “D. Bosco udendo qualcuno a lamentarsi di qualche tribolazione, fatiche od ufficio, tosto lo incoraggiava: - Ricordati che soffri e lavori per un buon padrone quale è Dio. Lavora e soffri per amore di Gesù Cristo che tanto lavorò e soffrì per te. Un pezzo di Paradiso aggiusta tutto.
Se gli si annunziava una difficoltà da superare o qualche atto a lui ostile, egli: - Di questo nulla in Paradiso. - Se nominavansi le vacanze autunnali, diceva: - Le nostre vacanze le faremo in Paradiso. - Tornando stanco dalla città, ove era stato alla questua, il segretario invitavalo a riposare alquanto prima di mettersi al tavolino o nel confessionale; ed egli rispondeva: - Mi riposerò in Paradiso. - Dopo una lunga disputa egli concludeva: - In Paradiso non vi sarà più nessuna controversia. Saremo tutti dello stesso pensare.
Ci assicurava che aveva chiesto ed ottenuto dal Signore, ad intercessione di Maria SS., il Paradiso per tante centinaia di migliaia di suoi figli, e in ogni tempo innalzava la mente degli alunni al Cielo, dando loro la più sicura speranza di [445] trovarsi lassù con lui. Ma poi sempre esclamava: - Guai a chi mancherà all'appuntamento! E ciò potrebbe succedere se noi non saremo fedeli ai nostri doveri di buon cristiano. - E ispirando fiducia nella Madonna altra volta soggiungeva dopo aver dato un consiglio: - Fa' questo per onorare Maria SS. e te ne troverai contento”.
Spesso diceva a ciascuno di noi: - Se sarai buono, ti terrò preparato un bel posto in Paradiso! - Ciò indicava una fiducia tale da presupporre quasi una rivelazione avuta da Dio”.
Mons. Ghilardi, Vescovo di Mondovì, che conosceva perfettamente l'Oratorio, quando D. Celestino Durando andava nel suo seminario a fare gli esercizi per le sacre ordinazioni, (e fu ordinato sacerdote il 21 maggio 1864), invitavalo a far qualche passeggiata in sua compagnia, ora a piedi, ora in carrozza. Don Durando osservava umilmente al Prelato:
- Ma che esercizi! esclamava il santo e dotto Vescovo; voi all'Oratorio li fate tutto l'anno!
I Salesiani adunque chiamati pel primo corso di esercizi si radunarono nella casa di Trofarello il 2 agosto. Predicò le meditazioni il can. Lorenzo Gastaldi e le istruzioni D. Bosco. Egli, come fece poi sempre, incominciò col parlare della vocazione e dei mezzi per conservarla; dei vantaggi temporali e spirituali che offre la vita religiosa; e dei tre voti che come vincoli spirituali legano al Superiore, al Capo della Chiesa e a Dio medesimo. Il 6 agosto prima di chiudere gli esercizi dava alcuni ricordi, dei quali ecco un sunto quale ci fu trasmesso da D. Giuseppe Campi.
Mandavit illis (Deus) unicuique de proximo suo (Eccl. XVII, 12). Ecce ego mitto vos sicut oves in medio luporum. Estote ergo prudentes sicut serpentes et simplices sicut columbae.
Per dirigere bene tre cose sono necessarie:
1° Operare tutto per la gloria di Dio e per la salute delle anime.
2° Far vedere ai soggetti (principalmente in principio dell'anno) [446] che il bene dell'anima loro è l'unico nostro movente. Far questo nelle scuole, nel refettorio, nel correggere, nel premiare e sempre.
3° Studiare i naturali, e migliorarli; non urtar mai, secondarli sempre; edificare, non distruggere.
Il Superiore deve avere tre qualità speciali:
- Mancando di consiglio nelle cose difficili, raccomandarsi nell'elevazione della S. Messa alla potenza ed amore del Sacramento.
- Non far preferenze, non badare ad antipatie.
- Per comandare, bisogna saper ubbidire.
- Procurare sempre di diminuire la malevolenza ed aumentare la benevolenza.
I Salesiani avevano passato que' giorni con grande piacere e ritornarono soddisfatti alle loro mansioni.
Il Signore aveva concesso a D. Bosco una grande consolazione, e nello stesso tempo permetteva che anche questa iniziativa fosse, come tutte le opere di sua gloria, segnata colla croce. Il Venerabile aveva predicato sul voto di obbedienza e degli obblighi che induce sotto pena di peccato più o meno grave, anche in virtù del quarto comandamento della legge di Dio. Nell'ascoltarlo un confratello sacerdote volle persuadersi essere nulli i suoi voti triennali perchè quando li aveva emessi, credeva di obbligarsi solo nel caso che il Superiore gli comandasse colla formola in virtù di santa obbedienza. Dopo la predica, deliberando di uscire dalla Pia Società, cominciò a dire coi compagni che non si credeva tenuto ai voti fatti: e con questo suscitò un subbuglio in mezzo ad essi. Tutti prendevano a contraddirlo, poichè Don Bosco in tanti anni e in tante conferenze aveva chiaramente dichiarato la natura dei voti.
Avendo ciò saputo, con dolce zelo e prudentemente, senza nominarlo, Don Bosco correggevalo nella predica successiva come un pericoloso sovvertitore; ma quell'incauto, che pure era molto istruito in teologia ed era stato beneficato per dieci anni e in cento modi da D. Bosco, finiti gli esercizi, [447] ritornava all'Oratorio e poco dopo ne usciva per sempre con modi indelicati.
Anche due chierici, decisi di procurarsi uno stato più comodo, lo abbandonavano in quei giorni. Dotati di grande ingegno D. Bosco li aveva fatti ascrivere nella R. Università ai corsi di Filosofia e di Lettere, e pendenti questi studii aveva dovuto affrontare gravi spese per mantenerli, poichè nella sua generosità non faceva mai le cose a mezzo. Essi sarebbero riusciti due valenti professori pei suoi giovani, ma le due lauree non servirono per lui.
Di uno di questi, tra altre cose, scriveva alla Contessa Callori Sambuy, la quale era stata alle acque di Courmayeur.
Persuaso che mentre dimora in codeste fresche regioni le rimanga un po' più di tempo a leggere, le scriverò la lettera un po' più lunga.
A suo tempo ho portato la somma intesa al suo portinaio. Avvenne soltanto un po' di contrattempo, chè il Sig. Conte, come avevami scritto, venne all'Oratorio per ritirarla e non mi trovò a casa; la sua lettera venne a raggiungermi a Lanzo, ma il tenore di essa era già stato eseguito prima, sicchè egli andò a prendere il danaro dall'indicato portinaio.
Maria SS. Ausiliatrice, è cosa intesa, terrà ben conto dei f. mille che condonò pel pulpito della novella chiesa. Credo che la ricompensa l'avrà in Paradiso con un bel trono abbastanza spazioso, da capire comodamente Lei con tutta la sua famiglia e forse con qualche amico. Fiat, Fiat.
E il famoso libro? Il libro è incominciato, ma bisogna andare adagio. Io mi pensava che il lavoro fosse come perfetto, ma messo poi a rigoroso esame c'è ancora molto da fare. Tuttavia lo faremo andare avanti ed è l'unico lavoro che io abbia tra mano.
Altra notizia un po' più singolare, ma forse non inaspettata. Il ch. L... non è più all'Oratorio. Il poverino si lasciò dominare da alcune idee di fantasia; lusingato da ripetute promesse di abito e di sussidio se ne volle andare. Gli ho usato troppi riguardi. Spero però che continuerà nella carriera ecclesiastica. Mi rincresce un poco perchè egli mette in scena V. S. dicendo che la Contessa Callori gli aveva detto aver fatto male a mettersi nella Società di S. Francesco di Sales e che, appena fosse uscito dall'Oratorio, Ella avrebbegli tosto fatto il patrimonio [448] ecclesiastico, ecc. Credo che ciò sia una interpretazione immaginaria, ma credo bene che ne sia informata per sua norma.
Mentre poi raccomando me e questi miei giovanetti alla carità delle sante sue preghiere, auguro ogni celeste benedizione a Lei, al sig. Cesare e a tutta la famiglia e mi professo con sentita gratitudine
P.S. -Mentre sigillava la lettera ricevo la venerata sua per cui devo cangiare indirizzo (Casale Monferrato).
Il ch. L... andò via pel motivo, dissemi, che egli non poteva più uniformarsi al mio vitto. Attendo ulteriore avviso pel prete. A Vignale ci parleremo dei resto. - Ma coraggio, nè mai dimentichi che le pillole più amare sono le migliori per la sanità.
A proposito di detto chierico D. Giovanni Bonetti aveva aggiunte alcune righe alla sua cronaca: “Con mio dolore debbo qui notare che a questo amico carissimo mancò il più gran dono, quello della perseveranza. Se ne uscì dall'Oratorio con poca buona grazia e con immenso disgusto di Don Bosco. Gli mancò l'umiltà, e si esentava facilmente da ogni regola della casa negli ultimi anni”. D. Guassardo, direttore spirituale del Collegio Nazionale in Torino, che nel 1864 aveva ospitato D. Bosco e i suoi giovani a Capriata d'Orba, gli ottenne un posto di istitutore.
Poco dopo un terzo chierico usciva nei debiti modi dall'Oratorio per andare nel Seminario diocesano d'Ivrea.
Questi, essendosi recato a trovar D. Bosco per prendere da lui congedo, vide che il Servo di Dio ne era spiacente e sentì dirsi: - Tu vai in un luogo santo, ed io non posso dirti che faccia male, e meno ancora impedirtelo. Ma tu non sei fatto per vivere nel mondo.
E pur troppo ciò si avverava. Quegli stette in Seminario tre anni e ricevette anche gli ordini minori; ma poi non sentendosi, o non credendosi più chiamato alla carriera ecclesiastica, ne uscì con dispiacere dei Superiori, che lo esortavano a rimanervi. [449] Deposto l'abito clericale intraprese gli studii di medicina, riuscì ad ottenerne la laurea ed esercitò anche con buon successo l'arte salutare per diciasette o diciott'anni. Ma l'esercizio di questa professione non gli piaceva, e benchè godesse di uno stipendio assai buono, contrasse dei debiti, e negli ultimi due anni fu preso da tale melanconia e mania di persecuzione che fu ritirato in una casa di salute, dove morì di crepacuore in pochi mesi. E quello che è peggio, egli aveva pur deviato un poco dalla fede e dalla pietà cattolica. Tuttavia si mostrò sempre religioso, buono e retto, e negli ultimi giorni rientrò in se stesso, si ravvide e chiese da sè spontaneamente il confessore per aggiustare con Dio le cose dell'anima sua, e morì dopo aver ricevuto i conforti della Cattolica Religione che nell'Oratorio e nel Seminario avea tanto amata e di cui aveva osservato i precetti in modo esemplare.
Dopo gli esercizi D. Bosco guariva un infermo e dava altra prova di leggere nelle coscienze.
D. Giacomo Bertolotto scrive: “Sono entrato all'Oratorio di S. Francesco di Sales in Torino il giorno 8 di agosto del 1866. Al mattino seguente mi alzo con alcune vescicole sparse pel corpo che mi davano non poco dolore. Nei giorni seguenti, anzichè diminuire, crescevano di numero e di intensità. Non potendo io più resistere, i superiori mi mandarono ad una visita all'Ospedale Mauriziano. Presi con fiducia ogni medicina ordinata dai dottori, ma tutto era inutile. Un giorno stavo piangendo sotto i portici dell'Oratorio disperato dal male, quando mi imbattei nel rev. D. Rua, allora prefetto della Casa. Erano le 4 dopo mezzogiorno. Egli mi suggerì di farmi benedire da D. Bosco, che in quel giorno si trovava appunto in casa. Vi andai subito. D. Bosco mi fece inginocchiare, mi benedisse! Al mattino seguente io ero affatto libero da ogni vescicola e da ogni dolore. Il giorno prima ero deciso di far ritorno a casa; invece la grazia ottenuta per mezzo di D. Bosco mi permise di stare all'Oratorio per cinque anni continui”. [450]
Un altro nostro allievo ci confidava il seguente fatto: “Ogni qual volta mi recavo a Torino, mi facevo un dovere di recarmi all'Oratorio di S. Francesco di Sales e, se fosse stato possibile, di parlare col Venerabile D. Bosco. Egli mi accoglieva sempre colla più espansiva amabilità. Una volta mi presentai a lui, che non ero in grazia di Dio. Ed egli non mi fece nessuna carezza, non mi guardò nemmeno, non mi rivolse parola e mi lasciò mortificato dietro a tanti altri che poterono baciargli la mano”.
Sul finir di agosto il Venerabile si accingeva a ritornare a Trofarello per dar principio al secondo corso di esercizi spirituali, ai quali dovevano prender parte tutti coloro che non erano stati al primo corso. Prima di partire visitava una distinta signora per ringraziarla dei benefizi da lei fatti all'Oratorio e le rilasciava questo autografo: - “Dio faccia che la Damigella Giacosa diventi ognor più madre pietosa dei poveri nel tempo; e la coroni poi un giorno di gloria nella beata eternità. Amen. Agosto 1866”. - La buona signora scrisse sotto queste righe: - “Il veneratissimo Signor D. Bosco scriveva a mia istanza le poche linee qui sopra ed io accetto con gratitudine i suoi voti. Teresa Giacosa”.
Gli esercizi incominciarono il 29 agosto. D. Bosco nella predicazione ebbe per compagno D. Bonetti, e da Trofarello rispondeva ad alcune domande della chiarissima signora la Contessa Callori Sambuy - Casale Monferrato.
La sua lettera mi raggiungeva a Trofarello dove detto gli Spirituali esercizi ai nostri maestri preti ed assistenti. La dimanda che fa di un prete per la ripetizione del sig. Cesarino è molto complicata. Desidera scuola di letteratura latina, italiana e greca? Ci vuole un professore non di basso taglio. Vuole di fisica, aritmetica, geometria, trigonometria? Ce ne vuole un altro. Lo stesso chiamo di Storia antica, del Medio Evo e Moderna. Altro della storia naturale e geografia. Insomma questo esame liceale è così esteso per cui ci vogliono non meno [451] di quattro professori. Facciamo adunque così. Aspettiamo se l'esame sostenuto sarà convalidato ed allora ogni difficoltà è sciolta. Se poi fosse necessario un mese di ripetizione, allora è meglio che venga addirittura a Torino e potrà con qualche facilità avere gli insegnanti richiesti.
Debbo però notarle che ho sempre riserbato il prof. D. Durando per Lei, ma lunedì l'ho inviato a casa Fassati, nella persuasione che forse Ella non ne avrebbe avuto bisogno. Se però me lo dice, credo poterne avere uno di nostra conoscenza che potrà servire per sua casa.
Giunto a Torino parlerò al Can. Galletti; di poi le farò risposta. Ritenga però che il T. Abbondioli è un buon predicatore e buon cattolico. Mi capisce.
Credo che la sua dimora attuale sia stabile in Vignale, perciò fra breve le farò sapere il giorno in cui passerò a farle visita andando a Mirabello.
La prego di dire al suo sig. Marito che io non voglio che il suo mutuo rimanga senza interesse. Al giorno della Natività di Maria tutti i nostri giovanetti faranno la loro Comunione, io dirò la messa, tutti secondo la pia di lui intenzione.
Dio benedica Lei, tutta la sua famiglia. Preghi per me che le sono nel Signore
P.S. - Compatisca la fretta nello scrivere.
In quei giorni Mons. Riccardi di Netro, Vescovo di Savona, si recava a far visita a D. Bosco, del quale era amicissimo. Il Prelato soleva passare le sue vacanze autunnali a Trofarello presso la Contessa Casassa, sua sorella, insigne benefattrice dell'Oratorio; e in quel tempo non mancava di andar spesso ad intrattenersi con qualche Salesiano, mandato colà dai Superiori per ritemprarsi in salute, e di fare con quei confratelli lunghe passeggiate. Quando poi si recava a Torino, per vedere D. Bosco, talora scendeva senz'altro nel refettorio sotterraneo, ove dopo il pranzo questi fermavasi spesso in mezzo a una folla di giovani.
Il 2 settembre finivano gli esercizi e il chierico Giuseppe Daghero pronunziava la formula dei voti triennali. Fu il primo [452] ad emettere i voti negli esercizi stabiliti per i soli salesiani. D. Bosco, come aveva incominciato, continuò poi a dettare gli esercizi ai confratelli tutti gli anni fino agli ultimi tempi del viver suo.
Nell'Oratorio era passato in que' giorni a miglior vita un giovanetto del quale scrisse D. Rua:
Ropolo Michele di Villafranca Piemonte moriva in età di 12 anni il 31 agosto. Ottimo fanciullo: l'innocenza gli traspariva dal volto. L'amore allo studio e alla pietà, occupavano il suo cuore tenerello. Lasciò di sè gran desiderio. Ci mandi sovente il Signore anime così belle.
Anche un altro, poco tempo prima, era stato chiamato da Dio all'eternità e D. Rua notava nel necrologio:
Muore Nicolini Francesco in età di 14 anni. Povero giovane! Abbandonato da tutti venne accolto in quest'Oratorio mentre trovavasi in estrema miseria di anima e di corpo. Dotato di somma vivacità e non mancante di intelligenza, andava facendo profitto poco alla volta, quando, colto da malattia lenta, dovette pensare a prepararsi alla morte. Accolto all'Ospedale Cottolengo vi morì con buone disposizioni e munito dei SS. Sacramenti.
DON Bosco, congedati a Trofarello i suoi cari discepoli, mantenendo la parola data al prof. Carlo Bacchialoni, docente di Letteratura greca nella Regia Università di Torino, si recava a passare qualche giorno nella sua villeggiatura a Busca. Questo distinto letterato, fervente cattolico, padre di famiglia esemplarissimo, non è a dire come accogliesse D. Bosco, il quale, ovunque andasse, recava l'allegrezza e la benedizione di Dio. Se n'ebbe una prova anche in quella casa, come attesta D. Giovanni Garino.
“Era l'anno 1866 e nel mese di settembre D. Bosco trovavasi a Busca in casa del Cavaliere Prof. Bacchialoni. Un dopo [454] pranzo la bambina di Bacchialoni, in età allora di due anni, non so che avesse, faceva inquietare un po' la madre.
D. Bosco, che era presente, pose la mano sulla testa della bambina e disse:
- Questa la faremo una monaca; e che monaca! Piena di zelo e di amor di Dio!
La bambina che si chiamava Adelaide, cresciuta in età, si fece monaca tra le religiose del SS. Sacramento, tra cui morì a Vigevano nel 1889. Mons. De Gaudenzi, Vescovo di Vigevano, suo confessore, attestò alla madre, che Adelaide era veramente una santa e che morì consumata dall'amor di Dio, chè ardentemente desiderava di andare in Paradiso. La madre, che mi raccontò ieri, 3 marzo 1891, questo fatto, aggiunse che lo stesso le fu detto dal confessore dell'Adelaide quando stette per qualche tempo a Vicenza”.
Col professore Bacchialoni, degno di tutta la confidenza e che soleva prestarsi con grande cordialità a dare gli esami finali ai giovani dell'Oratorio e dei collegi di Mirabello e di Lanzo, Don Bosco dovette certo parlare di una innovazione ormai indispensabile all'Oratorio.
Il Servo di Dio, volendo rimediare a qualche inconveniente nell'educazione dei suoi chierici, aveva pensato di ordinarne le scuole nell'Ospizio di Valdocco. Difatti, sul finir di agosto, aveva fatto questa proposta al Vicario Capitolare, Can. Mons. Giuseppe Zappata.
Reverendissimo Mons. Vicario Generale,
I moniti al Clero che V. S. Rev.ma saviamente fece precedere al Calendario dell'anno corrente furono per me oggetto di molti riflessi e di serie considerazioni; specialmente le patetiche espressioni con cui lamenta la diminuzione di vocazioni allo stato ecclesiastico. Sebbene nella mia pochezza io debba limitarmi alla buona volontà, tuttavia desidero ardentemente di unire li miei deboli sforzi affinchè la voce del Superiore, per quanto è in me, sorta il suo effetto.
Ella pertanto raccomandò caldamente di adoperarci per educare [455] e coltivare nella pietà la studiosa gioventù per riempire i vuoti gravemente sentiti per la morte di quei sacerdoti che ogni anno Dio chiama agli eterni riposi.
Per corrispondere a questa esortazione abbiamo deliberato che, senza pubblicarlo, i giovani di questa Casa e del Collegio di Lanzo fossero con sollecitudine speciale coltivati nella pietà e nello spirito ecclesiastico. Anzi fu stabilito di regola ordinaria che per l'avvenire niun giovanetto sia accettato come studente nell'Oratorio di S. Francesco di Sales, se non ha intenzione di abbracciare lo stato ecclesiastico, lasciandosi poi a ciascuno piena libertà di scegliere la sua vocazione, terminato il corso ginnasiale. La media dei giovanetti che domandano di iniziarsi nella milizia clericale è da circa cinquanta a cinquantacinque all'anno; di cui da venticinque a trenta appartengono e chieggono di essere aggregati alla diocesi di Torino. Ho fondata speranza che negli anni successivi questo numero possa sensibilmente aumentare.
Riguardo a quelli che hanno già indossate le divise clericali si manifesta un male che ardentemente desidero per mia parte rimediare nel modo possibile. Questo male è il ritorno frequente di chierici allo stato laicale. Negli anni passati fu caso rarissimo che i giovanetti usciti da questa Casa abbandonassero l'abito ecclesiastico; ma purtroppo da qualche tempo tali casi vannosi verificando con dolorosa frequenza e in quelli che tornano dal Seminario e in quelli stessi che dimorano nell'Oratorio. Saranno i tempi, le circostanze politiche, le poche speranze di agiatezza del sacerdote, saranno i libri, i giornali che con facilità pervengono alle loro mani, ma il fatto sta che la deposizione dell'abito clericale è assai frequente, come Ella medesima ne è certamente informata.
Fra i chierici di questa Casa, sebbene da qualche tempo siano aumentati i mezzi di assistenza, di istruzione e predicazione, vediamo tuttavia codesti ritorni alla divisa del secolo.
A fine pertanto di rimediare a questo male, ed unicamente pel desiderio della maggior gloria di Dio, io farei a V. S. Rev.ma l'umile domanda che i chierici addetti all'Oratorio possano fare il corso scolastico in questa casa come segue:
1°. Gli studi si farebbero secondo l'ordine, le materie, i trattati del Seminario Arcivescovile e gli allievi andrebbero a subire gli esami cogli altri chierici della diocesi nel giorno dai Superiori stabilito.
2°. Dopo un anno di prova, se non si avranno risultati favorevoli per lo studio e per la pietà, ritorneranno alle scuole del Seminario, siccome sarà a Lei beneviso.
Con questi provvedimenti io credo di poter allontanare questi chierici da molti pericoli, specialmente dalla vista delle caricature e delle fotografie lubriche; dalle voci dei giornalai, dagli scherzi e [456] dagli insulti delle vie e delle piazze, di cui, specialmente i più piccoli di statura, furono più volte fatti segno nell'andata e nel ritorno dalla scuola.
Creda, signor Vicario, che queste cose hanno prodotto in alcuni sensibili raffreddamenti nella pietà, in altri la deliberazione di abbandonare uno stato che li mette a sì frequenti e dure prove.
Mentre questi chierici godrebbero in certo modo la medesima agevolezza che godono quelli del Collegio di Lanzo e credo anche quelli del Seminario di Giaveno, procurerebbero poi un sentito vantaggio ai nostri giovani, che così potrebbero essere regolarmente assistiti, mercè un orario in cui il tempo delle scuole degli uni coincida con quello degli altri.
Dal foglio ivi unito vedrà il personale che propongo, e chè modificherei a di Lei gradimento qualora l'umile domanda fosse accolta.
Ho semplicemente esposto il mio parere; ora rimetto tutto a quanto nell'illuminata di Lei saviezza Ella sarà per deliberare.
Noi preghiamo ogni giorno il Signore Iddio per la preziosa di Lei conservazione, perchè possa lungo tempo promuovere il maggior bene della Religione, e nel raccomandarci unanimi alla carità delle sante sue preghiere, ho l'onore di potermi a nome di tutti i Sacerdoti e chierici di questa Casa professare,
La lettera aveva questa postilla autografa.
P. S. Ho fatto scrivere la presente da un'altra mano, affinchè le torni meno incomoda la lettura.
Il foglio, che andava unito alla lettera, diceva:
Maestri proposti per insegnanti ai chierici che dimorano nell'Oratorio di S. Francesco di Sales.
Letteratura Latina: -- Sac. Francesia Prof. Giovanni.
Aritmetica, Geometria e fisica - Sac. Savio Angelo, patentato di scuole normali superiori: oppure il Ch. Bonetti Enrico, studente all'Università delle facoltà di matematica.
Logica, Metafisica, Etica: - Sac. Rua Michele, professore di belle lettere, che ha eziandio insegnate tali materie. [457]
Il Can. Lorenzo Gastaldi; il Teologo Costamagna; il Sac. Cagliero, se si volesse sostituire a qualcheduno dei sopra notati.
Questo progetto di D. Bosco, dettato dalla necessità, come risulta dalle ragioni addotte, e dalla sua missione che lo conduceva fin d'allora ad una certa libertà nell'educazione ed istruzione dei suoi dipendenti, aveva la seguente risposta:
Seminario Arcivescovile di Torino.
Il Sig. Vicario Generale ebbe la bontà di darmi comunicazione della dimanda fattagli da V. S. per mezzo del qui acchiuso memoriale e di manifestarmi nel tempo stesso il rispettabile suo parere col quale mi trovai perfettamente d'accordo. Abbiamo conchiuso d'invitare la S. V. a ritirare la domanda, ed è perciò che gliela rimando quivi compiegata.
Le sono intanto con distinta stima,
Can. AL. VOGLIOTTI, Provicario Gen. C.
D. Bosco rispettosamente replicava al Can. Vogliotti:
Ho ricevuta la memoria che d'accordo col Sig. Vicario Generale mi fu rinviata. Se mi avesse almeno fatto qualche osservazione sarei in qualche modo appagato: ma il rifiuto nudo e crudo mi ha non poco afflitto, tanto più che, come Ella sa, questo permesso mi era già stato dato e fu poi dal Vicario Fissore sospeso alla sola ragione delle conseguenze che sarebbero temute qualora il numero dei chierici dei Seminario fosse stato troppo ridotto e ciò per parte dell'Ab. Vacchetta. Adesso provo ancora a dimandare pei filosofi; se mi si vuole concedere, lo credo vantaggioso per me e per i giovani, altrimenti mi rimetto totalmente a quello che il Signore inspirerà a lei ed al Sig. Vicario. Sempre pronto ad ubbidirla ed a servirla in tutto quello che potrò, ho l'onore di potermi professare con pienezza di stima
Dopo qualche tempo venne risposta favorevole a questa seconda domanda, e i chierici studenti di filosofia ebbero la scuola nell'Oratorio.
Mentre era occupato in queste trattative, il Servo di Dio riceveva graziosa oblazione da un illustre prelato, che un giorno doveva appartenere al Sacro Collegio dei Cardinali.
Con foglio a stampa del 12 maggio p. p. mi giunse l'invito da V. S. Ill.ma indirizzatomi di prender parte alla lotteria che Ella divisò, per raccorre mezzi al compimento di una Chiesa in cotesta città sotto il titolo di Maria Ausiliatrice, al quale effetto mi trasmetteva numero dieci dozzine di biglietti. Desideroso anche in tale congiuntura di concorrere a sì religiosa intrapresa, Le faccio tenere col mezzo del sig. De Gaetano Tortone, cui vado oggi stesso a commettere l'incarico, il corrispondente prezzo nella somma complessiva di franchi 50. La ringrazio della relativa stampa in pari tempo speditami, e nella fiducia che il Signore benedica un'opera consacrata al particolar culto della Regina degli angioli, ho il piacere di confermarle i sensi della mia distinta stima.
La fiducia di una special protezione di Maria Ausiliatrice nell'infierire di un terribile morbo si andava diffondendo.
Il colera aveva riprese le sue geste micidiali nel mese di maggio, in Russia, nel Belgio e nell'Inghilterra. Nell'Austria vi erano stati 200,000 casi e 100.000 morti; nell'Ungheria 40,000 casi e 22,000 vittime; nella Moravia 68.000 colpiti e morti 28.000. Nel luglio e nell'agosto si sviluppava a Marsiglia, ad Amiéns e altrove, e nel solo dipartimento della Senna durava interrottamente quasi un anno mandando al sepolcro 5.700 persone. Nello stesso tempo compariva a Genova, si diffondeva a Napoli, toccava Ancona e si spargeva in varie regioni dell'Alta Italia. [459]
Fin dal principio dell'anno si era diffusa la voce che gli oblatori per la costruzione della chiesa di Maria Ausiliatrice sarebbero stati illesi dal colera. Da Firenze si scriveva a D. Bosco.
Perdoni l'ardire che mi prendo di scriverle, ma mi trovo assai, assai inquieta nel dubbio di avere male intese le sue parole.
Parlandosi del dare poco o molto per l'edificazione della sua nuova chiesa, udii alcune Signore asserire aver Ella detto e assicurato di poter dire con certezza che non morirà certo di colèra chiunque desse anche un solo centesimo per quest'opera.
Così pure a me era parso d'intendere. D'altra parte ascoltai diversi Sacerdoti e ben stimabili, da Lei pure molto conosciuti, negare che Ella abbia fatto o potuto fare simile discorso: anzi aggiungere aver Ella detto loro che questi non erano che discorsi interpretati da menti vive, ma non da Lei fatti. Quindi la pregherei caldamente a volersi degnare di scrivermi al più presto se Ella intende veramente di dare tal sicurezza, ovvero se questa è un nostro malinteso: tanto più che non vorrei far danno all'opera, continuando a sparger tale assicurazione .....
A questo proposito non crediamo che le riferite parole di D. Bosco, se pur le disse come sono esposte, dovettero essere state fraintese da que'sacerdoti. Per giudicarle bisognerebbe sapere in quali circostanze le abbia pronunziate, quale estensione dessero quelle buone signore alla sua promessa e di più se nel loro entusiasmo non attribuissero alle virtù del Servo di Dio quella preservazione così straordinaria dal morbo. Tanto più che D. Bosco, senza dare importanza a quanto diceva od operava di meraviglioso, cercava, come abbiamo altre volte rilevato, di nascondere sempre la sua persona, e anche le benedizioni che guarivano gli infermi, soleva accompagnarle con tale giovialità, imitando S. Filippo Neri, che ben pochi se ne accorgevano.
Quale risposta egli abbia fatto alla signora Covoni non ci [460] consta; ma che la sua speranza non fosse un'illusione si argomenta da queste linee di una lettera scritta da Firenze il 13 settembre 1866 dalla Marchesa Isabella Gerini al Venerabile.
“Mi consola non poco la conferma che V. S. mi fa che saremo liberati dal colera! Avremo certo gran confidenza nella protezione di Maria SS. Ausiliatrice, e ad Essa mi raccomando ben di cuore. Speriamo che ci liberi ancora da tutti i mali che ci sovrastano. Preghi, preghi, per tutti i bisogni del mondo intiero! Godo molto di rilevare le sue buone nuove di salute e gliele auguro buonissime per mille anni, e ne supplico caldamente il Signore, affinchè possa compiere tutte le sante opere che ha cominciato, e che col suo zelo saprà ideare e compiere in avvenire e perchè possa continuare ad essere utile a tutti, come fin quì è stato”.
Anche vari fatti attestavano la materna benevolenza di Maria Ausiliatrice per coloro che si adoperavano ad aiutare D. Bosco nella costruzione della chiesa di Valdocco.
Da Milano il 25 febbraio 1909 ci scrisse la signora Carolina Rivolta Guenzati:
“Nel 1866 il colera infieriva per l'Italia tutta. I miei genitori avevano ricevuto molti biglietti di una lotteria e D. Bosco prometteva che nessuno degli acquirenti sarebbe morto del terribile flagello. Infatti mia madre può asserire che neppur uno di quanti acquistarono i biglietti, che ella stessa aveva distribuiti, morì di colera; solamente una persona fu colpita dal contagio, ma questa stessa non morì”.
D. Bosco aveva assicurati anche i suoi giovani che se avessero tenuto lontano dal cuore il peccato e portata al collo la medaglia della Madonna, questa celeste Madre li avrebbe preservati dal flagello.
Con ciò non trascurava di mettere in pratica quelle precauzioni suggerite dalla prudenza, non volendo tentare Iddio.
“Era l'anno 1866, scrisse D. Giovanni Garino, ed il colera infieriva in Busca, mia patria.. Avendo dovuto recarmi al [461] paese poco prima che scoppiasse il morbo, al suo comparire decisi di affrettarmi ad aggiustare i miei interessi, e ritornare a Mirabello Monferrato, dove in quell'anno era occupato nell'insegnamento. D. Bosco, affinchè ritornando io da paese gravemente infetto dal morbo, non lo comunicassi ad altri, mi fe' scrivere di fermarmi in Busca ed intanto come chierico aiutassi il parroco nel suo ministero. Ma sapendo D. Bosco, come il mio stato finanziario fosse non troppo soddisfacente, mi provvide per due e più mesi che dovetti fermarmi a casa con larghi sussidii. Questo fo noto e attesto, perchè si conosca la grande carità di D. Bosco, la quale provvedeva a tutti, e non dimenticava nessuno.
Posso inoltre attestare - continua D. Garino, rendendo omaggio alla bontà del cuore di D. Bosco - che essendo io nei primi anni del mio chiericato all'Oratorio, D. Bosco mi cercò una ricca signora, la quale si prendesse cura di me, per quanto mi potesse occorrere. E veramente la pia signora si prese di me le più sollecite cure, mandando a D. Bosco, a tempi fissi, certa somma di danaro destinata per me. Ed a dati tempi era certo che D. Bosco mi chiamava, se avessi bisogno di questo o di quello: che esponessi liberamente, che nulla mai mi sarebbe per mancare. Io allora richiamava a mente, come ricordo ancora adesso, le parole che D. Bosco dissemi nel febbraio del 1858, quando ebbi la disgrazia di perdere mio padre: Ricordati, Garino, che in me avrai sempre un padre; e così fu mai sempre sinchè morì”.
Mentre nella penisola le popolazioni vivevano in timore e continuavano le trattative di pace tra l'Italia e l'Austria, la notte del 15 al 16 settembre la città di Palermo fu di repente invasa ed occupata da bande di briganti, spalleggiati da più migliaia di renitenti alla leva e da schiere di repubblicani con berretto e bandiera rossa, tutti ben forniti di armi e munizioni. Era effetto di una vasta congiura di Siciliani per togliersi dal collo un governo che odiavano, ripromettendosi, dopo Custoza [462] e Lissa, la dissoluzione dell'unità italiana e la propria autonomia. Per cinque giorni intieri la metropoli della Sicilia fu quasi del tutto alla mercè de' rivoltosi che gridavano Viva la repubblica. Molta plebe della città e dei sobborghi li sosteneva. I 1500 soldati di guarnigione mal potevano reggere agli incessanti assalti di quelle turbe furibonde, che si abbandonavano a saccheggi, incendii ed assassinii. Ma il giorno 20, la flotta sbarcava due intiere divisioni di ogni arma, comandate dal generale Raffaele Cadorna, al quale erano stati conferiti amplissimi poteri. Il 21 si dava un vigoroso assalto alla città; bombardata dalle corazzate, fu occupata dopo molte ore di accanito combattimento e grande strage. Molti de' sollevati riuscirono con la fuga a scampare nella campagna ed a gettarsi ai monti. Alla sera in segno di gioia la città era illuminata, ma fu bandito lo stato d'assedio anche per tutta la provincia. Per più giorni si procedette ad arresti numerosissimi ed a fucilazioni per processo militare sommario.
Ma pur troppo sopra il Clero e sopra gli Ordini Religiosi dovevano cadere le conseguenze della ribellione. I diarii del gabinetto di Firenze furono solleciti a bandire come i sommovitori della plebe fossero preti, frati e monache; e senz'altro il Ministero risolvette di cogliere un'occasione di confiscare i loro beni sui quali, attese le condizioni di que' popoli, non aveva ancora ardito metter la mano.
Il pretesto fu facile: “I ribelli erano trincerati nei conventi e nei monasteri!” Questi si trovavano in luoghi opportuni e i rivoltosi vi erano entrati con violenza. Epperò preti, frati e anche monache furono lasciate in balia della soldatesca, irritata per le fazioni sanguinose che aveva dovuto sostenere. Si accoglievano le denunzie di delitti inventati da infimi arnesi di polizia.
Fu insultato dal Cadorna, con una lettera piena di ingiuste accuse, l'ottuagenario Mons. Naselli, Arcivescovo di Palermo, che non era uscito dall'Episcopio, essendo questo occupato [463] dalle truppe; e il suo coetaneo Mons. d'Acquisto, Arcivescovo di Monreale, benchè infermo, fu tolto dal suo letto e gettato in prigione.
Eppure il Clero aveva fatto quello che aveva potuto per attenuare il male e il commendatore Torelli, Prefetto della città, dando relazione particolareggiata di que' fatti al Governo, parlò distesamente dei molti soldati che furono salvati dai Benedettini e da altri religiosi.
Tuttavia il Cadorna fu sollecito ad impossessarsi di tutti i conventi della Sicilia, a scacciarne gli abitatori e confiscarne i beni. Ai religiosi sbandati vietò di vestire l'abito dell'ordine e comandò che nel termine di dieci giorni tutti si riducessero nel comune d'origine o presso la propria famiglia. Più centinaia di religiosi, senza accuse legali, senza processo, vennero deportati a domicilio coatto, parte in Sardegna e parte in varie città della Liguria, del Piemonte e della Lombardia coll'assegnamento di pochi centesimi al giorno, senza riguardo nè ad età, nè ad infermità, nè a crudezza di clima micidiale pe' Siciliani. Le monache che non poterono o non vollero essere ricettate nelle loro famiglie, vennero espulse dai loro monasteri e stivate nei conventi più miseri, senza riguardo alla differenza degli Istituti e senza compassione alle loro angoscie. Bastava essere prete o religioso o monaca, per essere fuori della legge, anche quando un decreto reale aveva abolito i provvedimenti straordinari banditi per la Sicilia. E ciò, mentre la Gazzetta Ufficiale del 18 agosto aveva pubblicato un decreto reale di amnistia che rimetteva in piena grazia ed in pieno possesso dei diritti civili tutti coloro che, imputati o condannati, avevano preso parte alle cospirazioni mazziniane o garibaldine contro l'autorità regia o la Monarchia di Casa Savoia, fra cui era Giuseppe Mazzini!
Il colera intanto a metà settembre scoppiava dapprima a Palermo, facendo salire a centinaia i colpiti quotidianamente; estendendosi poi ad Adernò, Catania, Messina, Trapani e [464] dappertutto, ove giungevano fuggiaschi dalla metropoli. In Italia la strage fu maggiore di quella dell'anno scorso. Nel 1866 il colera visitava 49 provincie, senza contare le Venete, e 540 comuni: i casi denunziati salivano a 23.244 e i morti a 13.570. Così le statistiche ufficiali.
NEL mese di settembre, con decreto del Prefetto dì Torino Conte Carlo Torre, era stata concessa altra dilazione del termine della Lotteria, mentre la cupola della chiesa di Maria Ausiliatrice giungeva al suo culmine. Lenta era stata quell'erezione trovandosi D. Bosco in grande penuria di danaro; sicchè costrutti gli arconi che dovevano sostenerla esitò qualche giorno a farvi porre mano. Finalmente parve che si decidesse, per maggiore prestezza di lavoro e per risparmio di spesa, a sostituirla con una semplice volta a coppa rovesciata e ne diede ordine al capo mastro Buzzetti Carlo e all'economo D. Angelo Savio. Questi rimasero sorpresi e temporeggiarono quasi per un mese; quand'ecco presentarsi inaspettatamente a D. Bosco un suo grande benefattore, il [466] banchiere comm. Antonio Cotta, senatore del regno, il quale lo invitò ad eseguire intiero il disegno della chiesa, perchè i mezzi non sarebbero mancati.
La breve sospensione di quei lavori era stata notata. Il ch. Paolo Albera, andato in Curia, s'incontrava con persona costituita in autorità, la quale gli disse:
- Pare, rispose Albera, che il Comm. Cotta voglia sostenerne una parte delle spese.
- Farebbero meglio a darli ai poveri quei danari!
Ma ben diversamente giudicava Maria Ausiliatrice l'opera di D. Bosco e la carità del divoto banchiere.
Trovandosi questi spedito dai medici, quasi morente nel suo letto, in età di 83 anni, si presentava a lui D. Bosco. L'infermo, appena lo vide, con un sottilissimo filo di voce e tentennando il capo gli disse:
- Ancora pochi minuti, poi bisogna partire per l'eternità.
- Oh no, commendatore, rispose D. Bosco, la Madonna ha ancora bisogno di lei in questo mondo. Mi è necessario ch'ella viva per aiutarmi nella costruzione della sua chiesa.
- Ben volentieri lo farei, ma ormai sono agli ultimi: non c'è più speranza.
- E che cosa farebbe se Maria Ausiliatrice le ottenesse la grazia di guarire?
E il Comm. Cotta, colpito a quella interrogazione, fattagli con volto ilare e sereno: - Se guarisco, disse, prometto di pagare per sei mesi due mila franchi al mese per la chiesa di Valdocco.
- Ebbene io ritorno all'Oratorio e vi farà far tante preghiere a Maria Ausiliatrice, che spero ella otterrà la grazia di guarire. Abbia fiducia. Maria è Virgo potens. - E prima di partire fece sopra l'infermo una preghiera e gli diede la benedizione.
Tre giorni dopo, mentre D. Bosco trovavasi nella sua camera, [467] gli si annunzia la visita di un signore, che viene introdotto. Era il comm. Cotta, il quale gli disse:
- Sono qui: la Madonna mi ha guarito contro l'aspettazione di tutti e con sommo stupore della mia famiglia e dei conoscenti. Ecco i duemila franchi promessi per questo mese.
Poi soddisfece puntualmente alle altre rate della sua promessa, e visse ancora quasi tre anni sano e robusto quanto a quell'età si può essere; e conservò sempre profonda gratitudine alla gran Madre di Dio per quel segnalato favore ottenuto. Veniva sovente a portar elemosine a D. Bosco dicendo:
- Più le porto danaro per le sue opere e più i miei affari vanno bene. Io provo col fatto che il Signore mi dà anche nella vita presente il centuplo di quello che io dono per amor suo.
Notiamo che un simile linguaggio solevano pur tenere il Marchese Fassati e il Barone Bianco di Barbania; del che, insieme con D. Rua ed altri, faceva testimonianza Don Celestino Durando.
La cupola venne adunque innalzata, ed all'esterno circondata da tre ringhiere: la prima alla base, attorno i sedici finestroni che le dànno luce; la seconda sopra il cornicione dopo cui comincia la volta; la terza incoronava la piccola piattaforma in mezzo alla quale era aperto l'occhio circolare, alto dal primo pavimento più di 60 metri. Dal campanile di destra passavasi alla prima ringhiera, e da quello di sinistra alla seconda, la quale fu unita alla terza con una scala di ferro a ridosso della cupola. Sopra doveva ancora alzarsi il cupolino di legno che avrebbe servito di base alla statua della Madonna. Condotti i lavori a questo punto, D. Bosco diramava ai benefattori questa circolare:
Con grande piacere ho l'onore di partecipare a V. S. Benemerita che i lavori della chiesa già alla carità di Lei raccomandata sono giunti a buon termine e domenica si spera di poter collocare l'ultimo mattone [468] sulla cupola del sacro edifizio. La pregherei pertanto di volerci onorare di sua presenza in quel giorno, e per sua norma le noto che ciò avrà luogo domenica prossima, 23 corrente, alle 2 ½ pomeridiane. Dopo seguiranno tosto le funzioni religiose colla benedizione del Venerabile per implorare da Dio copia di celesti favori sopra tutti quelli che in qualche modo hanno concorso o vorranno concorrere alla costruzione di questa chiesa.
In questa medesima occasione mi fo dovere di significarle che i pubblici avvenimenti hanno persuaso la dilazione della lotteria posta sotto la sua protezione; ma fra breve sarà convocata la benemerita Commissione nello scopo di fissare il tempo utile allo spaccio dei biglietti di cui rimase ancora un buon numero e quindi venire alla pubblica estrazione dei numeri vincitori. Di ogni cosa per altro ne avrà comunicazione, appena sia deliberato.
I poveri giovani che frequentano gli Oratorii maschili di questa città si uniscono a me per augurarle copiose le benedizioni celesti, mentre a nome di tutti le protesto la più sentita gratitudine e mi professo
Solenne fu quella festa per la moltitudine dei giovani e del popolo nel cortile e nei dintorni, e per la banda musicale. Il Marchesino Emanuele Fassati, accompagnato da D. Bosco, saliva a quell'altezza e collocava la pietra che chiudeva l'ultimo anello dei mattoni.
I lavori di costruzione terminarono nel 1866. Il cupolino venne collocato a posto; e questo e la cupola furono ricoperti, di rame stagnato e spalmato di biacca, per guarentirlo da ossidazioni facili per le intemperie.
Nella stessa sera della domenica 23 settembre, D. Bosco compiva una promessa, mettendo la veste clericale ad un giovane nella chiesa di S. Francesco di Sales, presente tutta la Comunità.
Abbiamo narrato come nel 1864, profetando la morte dei giovani Aiacini e Vicini, D. Bosco avesse detto a Domenico Tomatis, loro compagno, che avrebbe mangiato molto pane [469] con D. Bosco, cioè che sarebbe vissuto lungo tempo e si sarebbe fatto Salesiano.
Una notte Tomatis ebbe un sogno, che ricordò sempre e gli fu di mirabile conforto in ogni penosa circostanza della vita. Gli apparve, luminoso e bellissimo, il già defunto Vicini, che presolo per mano lo condusse sul poggiuolo e gli additò la statua della Madonna sulla cupola della chiesa di Maria Ausiliatrice. Si noti che della chiesa non eravi allora altro che le fondamenta; eppure Tomatis la vedeva, come fu poi, in tutta la maestà della sua mole. E Vicini gli disse: - Vedi lassù? quella è la tua vita! Segui fedelmente i consigli di D. Bosco e poi verrai in Paradiso con me. - Mentre parlava, Tomatis lo fissava in volto e gli pareva di leggere chiaramente nella sua anima quanto gradisse il santo affetto che ancora gli portava.
Giorni dopo, essendosi andato a confessare da D. Bosco, questi gli parlò con frasi equivalenti a quelle dettegli in sogno da Vicini, sicchè ne rimase altamente meravigliato. Altra volta D. Bosco aveva narrato il sogno delle spade che pendevano sul letto di ciaschedun alunno e de' numeri scritti sulla fronte di questi, indicanti gli anni che loro rimanevano di vita. Tutti i giovani erano andati a chiedere a D. Bosco il mistero del presente e dell'avvenire che li riguardava. Anche Tomatis domandò spiegazione della parte sua, vista nel sogno, e quanto tempo dovesse ancor vivere. D. Bosco gli rispose: - Ti potrei dire il tempo preciso, ma non conviene: non affannarti di questo; è ancor lungo il tempo che ti rimane di vita, e ciò ti basti; pensa a farti buono, perchè tu sarai un sacerdote di D. Bosco e dovrai aiutarlo a salvare molte anime. -Questa risposta fu il primo germe della sua vocazione religiosa e sacerdotale, perchè mai per l'addietro egli aveva pensato di abbracciare questo stato.
Continuando alacremente gli studi, in terza ginnasiale ed in rettorica aveva riportato il primo premio; senonchè nel [470] l'avvicinarsi al termine de' suoi studi di latinità era divenuto dubbioso ed aveva messo da parte tutto il passato, e le parole di Vicini in sogno e quelle di D. Bosco. Andato in vacanza a Trinità di Mondovì, sua patria, deliberò di entrare nella Compagnia di Gesù, cui già appartenevano due suoi zii. Si consultò con uno di essi, che gli disse di riflettere bene sul passo che voleva fare; ed egli pensò, pregò, si provvide delle carte necessarie, fece la domanda di ammissione, fu accettato nella Compagnia, e attendeva che arrivasse il giorno già fissato per recarsi a Monaco Principato. Doveva andare con lui un giovane del Cottolengo.
Tomatis venne a Torino, e prima di partire, si recò a far visita a D. Bosco per confessarsi e prendere da lui congedo. Il Servo di Dio lo ascoltò e, dopo l'assoluzione, gli disse:
- Sei già andato a farti prendere la misura della veste clericale?
- Ma no, D. Bosco. Io ho pensato di farmi Gesuita: sono già compiuti per questo fine tutti gli incombenti.
- E tu, ripetè D. Bosco, andrai dal sarto a farti prendere la misura per la veste talare.
- Ma io debbo partire oggi per Monaco.
- Vedi! fa' così, continuò D. Bosco; a giorni si metterà l'ultimo mattone sulla cupola della chiesa e faremo una bella festicciuola. In quel giorno io ti benedirò e imporrò la veste da chierico. Fermati oggi a pranzo con noi, e stassera andrai dal sarto per la misura.
- Ma io debbo partire oggi alle due pomeridiane.
Il Servo di Dio allora, preso un aspetto maestoso, continuò:
- E ti sei dunque dimenticato di quanto abbiamo discorso e di quello che io ti ho detto nei tempi passati? e delle molte anime che, aiutandomi, tu devi salvare?
E gli ripetè di nuovo le parole simili affatto a quelle che gli aveva detto in sogno Vicini, sicchè viva gli si rappresentò [471] alla mente quella a lui carissima figura; e a un tratto la volontà del giovane fu interamente mutata. Si fermò a pranzo, e poco dopo ecco giungere il Padre Porcheddu con premura, essendo tempo di partire.
- Ma io non parto più, gli disse Tomatis.
- Perchè D. Bosco mi ha cambiata la testa.
- M rincresce, ma la cosa è così.
- E che cosa dirò a vostro zio, il P. Tomatis?
- Dica quel che vuole, ma io non mi muovo di qui.
- Se così è, fate come volete! finì con dire il P. Porcheddu e se ne andò.
La sera adunque del 23 settembre Tomatis aveva indossata la veste talare. Da quel punto cessò ogni dubbio sulla sua vocazione, non ostante certe contrarietà e disgusti incontrati. Egli è Salesiano, sacerdote, e missionario in America da trentasette anni. Ed è pur mirabile vedere in lui avverata l'assicurazione di una lunga vita. Egli scampò molte volte mortali pericoli. Nuotando nel golfo di Varazze ed essendo solo, fu strascinato in alto mare da una corrente. Molto lontano dalla spiaggia, stanco, sentendosi mancare le forze, vicino ad annegare, invocò Maria Ausiliatrice e prese una posizione verticale; e i suoi piedi s'incontrarono su l'unica punta di scoglio coperto dalle acque, che si trova in un larghissimo specchio di mare. Così potè riposarsi, riprender lena e ritornare alla spiaggia. Anche nel Chilì dovendo passare un fiume gonfio per abbondanti pioggie, tre gauchos lo avvisarono che non tentasse di guadarlo, perchè certamente sarebbe stato travolto con rischio di perire; ma egli, fidato nella parola di D. Bosco, lo passò, giungendo incolume sull'altra sponda.
Questa narrazione ci fu ripetuta dal caro confratello, ed [472] è una prova di più del dono che aveva D. Bosco di conoscere le vocazioni.
Cogli stessi lumi il Venerabile giudicava chi non era chiamato alla vita sacerdotale o religiosa.
Don Francesco Dalmazzo testificò:
“Una volta avendo io partecipato a D. Bosco di aver ricevuto una lettera da un mio scolare dell'Oratorio, allora chierico nel Seminario Maggiore di Milano, e come egli fosse partito pel noviziato dei Padri Gesuiti di Epan, il Servo di Dio fece le più alte meraviglie. Soggiungendo io che quella decisione mi pareva naturale, essendo stato il giovane sempre buono benchè vivace, D. Bosco riprese: - Scrivigli da parte di D. Bosco che ti partecipi il giorno del suo ritorno in Milano. - Lo feci, ma non ebbi risposta. Seppi tuttavia che dopo tre mesi aveva lasciato il noviziato per fare ritorno a Milano”.
Don Pietro Gallo, Salesiano, ci raccontò che nell'inverno del 1866, essendo ancora giovanetto, se ne stava insieme con un compagno mangiando in cortile la pagnotta della colazione. Ed ecco Don Bosco uscire dalla chiesa e attraversare il portico per ritornare in camera. Ambedue andarono a baciargli la mano. Don Bosco si fermò e mettendo la destra sul capo a Gallo, disse: “Unus assumetur”; e volgendosi all'altro concluse: “et alter relinquetur”. Del primo tutti conoscono lo zelo sacerdotale; il secondo vestì l'abito di clerico, ma lo depose e, ottenuta la laurea in Belle Lettere, fu insegnante in ginnasi governativi.
Dopo la festa del 23 settembre, D. Bosco si recava a Bergamo, ove lo aspettava con vivo desiderio Mons. Speranza. Il 9 settembre 1864 D. Momolo Berzi aveva scritto da Chiuduno al ch. Enrico Bonetti: “Non v'ha nessuno, io credo, nemmeno in nostra diocesi, che goda tanta stima e tanta autorità sopra il nostro Vescovo, come il piissimo e zelantissimo vostro Don Bosco”.
Il Servo di Dio prese stanza presso il Conte Medolago col [473] quale aveva stretta amicizia, e predicò gli esercizi spirituali al clero della città e ai giovani del Collegio di S. Alessandro.
“Don Bosco - scrisse D. Luigi Guanella, Fondatore della Pia Unione dei Servi della Carità, - predicando nel 1866 gli esercizi spirituali ai chierici di Bergamo se ne affezionò così gli animi, che taluno di essi venendo a Como, col racconto di ciò che aveva fatto e detto D. Bosco, entusiasmò i chierici di questo seminario. Io fra gli altri mi sentii accendere da un affetto così vivo verso D. Bosco, che andando poi sempre crescendo, fatto sacerdote, nel 1870 corsi a visitarlo in Torino.
Seppi anche con certezza che i Superiori dei Seminario di Bergamo ammirarono in D. Bosco la chiarezza e la vivacità con cui parlava su qualsiasi argomento di dottrina sacra e profana”.
A Bergamo dovea essere allora assai viva la memoria degli esercizii del 1861, se essa dura ancora. Il 5 aprile 1909 Mons. Angelo Cattaneo, Vicario Apostolico dell'Honan Meridionale, da Nau-jang-fou, a proposito di quegli esercizi scriveva a Don Rua:
.....Parlando di Don Bosco mi piace ricordarle, che io ebbi la fortuna e la consolazione (me ne ricordo come se fosse ieri) di fare la mia confessione generale al suddetto Ven. D. Bosco quando nel carnovale del 1861 venne in Seminario di Bergamo invitato dal Rettore, allora rev.mo Carminati, a darci i soliti annuali SS. Esercizii Spirituali. Presentatomi a lui per fargli la mia confessione generale (aveva allora 16 anni) incominciai a leggergli i miei peccatacci, scritti sopra una lunga carta.
Egli mi tirò tutto a sè abbracciandomi teneramente, mi tolse di mano la carta e la pose sul fuoco, abbruciandola. A questo suo improvviso atto, io ne restai mutolo, e confuso senza poter più oltre pronunciare una parola. Ma lui consolandomi mi disse subito: - Te li conterò io i tuoi peccati. - E difatti, con mia grande meraviglia me li narrò a uno per uno, proprio come li aveva scritti io stesso. Può immaginarsi quale fu la mia sorpresa e commozione. Scoppiai in pianto, di vero dolore e consolazione ..... [474]
Anche Mons. Abbondio Cavadini, Vescovo di Mangalore nelle Indie, essendo andato nel 1909 a visitare Don Giorgio Tomatis, Direttore dell'Orfanotrofio S. Tommaso di Meliapor (Madras), gli narrò che, essendo chierico nel Seminario di Bergamo, aveva assistito agli esercizi spirituali predicati da D. Bosco. Diceva come mirabile fosse l'efficacia persuasiva della sua parola: come fu costretto (e noi l'abbiamo accennato) a troncare una predica sui novissimi, perchè le lagrime e i singhiozzi lo soffocavano, e che nella predica seguente domandando scusa al suo uditorio per quella involontaria interruzione, espresse tali sentimenti da commuovere i cuori ancor più del giorno prima.
Mons. Speranza, che conosceva quanto valesse il Servo di Dio, volle servirsi di lui per investigare quali dottrine insegnasse un sacerdote bergamasco. Era questi D. Angelo Berzi, professore di Teologia nel Seminario di Brescia, dottissimo uomo, ma non umile, che esponeva ai giovani chierici magnifici pensieri sulla Madonna, sull'Eucarestia, e sulla Chiesa in un modo così attraente che quelli non si sarebbero mai stancati di udirlo. Consigliava loro l'offerta di tutti se stessi al Sacro Cuore di Gesù e li invitava ad andare nelle missioni straniere se fossero chiamati ed anche a farne voto. Ma cominciarono a spargersi anche certe sue proposizioni che non parevano ortodosse, e certe idee quantunque esposte in privato che puzzavano di eresia, e questa finalmente che l'umanità del Verbo fosse ab eterno. Il Vescovo Mons. Gerolamo Verzeri, esaminata la cosa, lo licenziò dal Seminario e insieme con lui scacciò cinque o sei chierici, che si mostravano i suoi più caldi ammiratori. D. Berzi andò a Roma per difendersi, ma riparava sovente a Bergamo.
Per questo Mons. Speranza, impensierito, aveva incaricato D. Bosco di esaminarne la condotta e gli insegnamenti. Non era questo un troppo facile incarico, perchè i novatori in cose di fede sogliono da principio nascondere con parole [475] ambigue le false dottrine; ma D. Bosco, interrogate con prudente perspicacia molte persone che avevano trattato confidenzialmente con lui, si persuase che la sua Teologia fosse infetta degli errori dei Gnostici o per lo meno affine alle loro eresie. Il Servo di Dio aveva colto nel segno, poichè più tardi il povero teologo affermava che per mezzo della S. Comunione si può giungere a tanta santità da divenire impeccabili anche in qualunque più pericolosa occasione e che in questo stato qualunque azione peccaminosa non è più colpa; egli stesso si diceva sicuro di aver raggiunto il culmine di una tale santità.
Il Servo di Dio riferì l'esito delle sue investigazioni a Mons. Speranza aggiungendo che, a suo giudizio, non si doveva più permettere a Don Berzi l'amministrazione del Sacramento della Penitenza. E nel 1881 raccontando egli in Marsiglia a Don Paolo Albera questo fatto della sua vita, attribuiva gli errori di D. Berzi a un principio di indebolimento di cervello; come aveva già detto in Bergamo al Vescovo e in Roma a varii prelati. Nel 1881 il povero sacerdote era ancora vivo e andava ogni anno a Sampierdarena per cercar sollievo alle sue infermità nei bagni di mare. Non poteva più celebrare la S. Messa e non reggeva più a leggere il breviario, che per ore intere teneva aperto in mano.
Sul finir del settembre D. Bosco scriveva ad una sua instancabile benefattrice, la rev. Madre Maddalena Galeffi, Presidente della casa delle Nobili Oblate di Tor de' Specchi. Il numero di quelle religiose era diminuito e la Presidente desiderosa di veder rifiorire la sua Comunità, celebre per molti titoli, aveva chiesto consigli a D. Bosco, il quale così le rispondeva:
Ho ricevuto la sua lettera e la limosina che manda (scudi 5) pei nostri poveri ragazzi. Noi tutti la ringraziamo e pregheremo Dio che la ricompensi largamente.Non sia inquieta pel numero delle sue figlie, perchè non è il numero [476] delle persone, ma la carità ed il fervore che fanno la gloria del Signore. Forse prima che termini quest'anno potrà riverirla di presenza e parlarci di quanto accenna nella sua lettera. Non mancherò di fare speciali preghiere per quella famiglia, che ella mi dice immersa nelle tribolazioni. Le ricordi che le spine della vita saranno fiori per l'eternità.
Dio benedica Lei e la sua famiglia e faccia di tutte una casa di sante. Amen.
Raccomando la povera anima mia e quella dei miei ragazzi alla carità delle sante loro preghiere e mi professo con gratitudine
NEL mese di settembre Don Bosco ebbe anche da sciogliere alcune difficoltà insorte colla benemerita Commissione di Ancona, per i soccorsi ai danneggiati dal colera. Questa il 16 maggio gli aveva espresso il desiderio di collocare nell'Oratorio, alle condizioni già stabilite, otto giovani orfani, pronti per la partenza; ma non erasi detto chi avrebbe dovuto pensare al loro corredo. Il Servo di Dio aveva già esposto il suo pensiero in proposito, e la Commissione gli aveva mandata questa risposta.
Il Comitato nella sua adunanza di ieri, sentite le due proposte fatte dalla S. V. Ill.ma pel fornimento del vestiario ai giovani ultimamente da Lei accettati, aderì alla prima, cioè che la S. V. debba incaricarsi del vestiario, a condizione che, uscendo qualcuno dei suddetti giovani, nulla più le venga richiesto in restituzione, sebbene non sia ancora compiuto il corso dei tre anni. [478] essendo con ciò compiute, parmi, le trattative per l'ammissione suddetta, avverto la S. V. Ill.ma che i giovani saranno inviati non appena sia liberamente percorribile la linea ferroviaria Ancona-Torino.
Accolga i più profondi ossequi.
Sul principio di Agosto sei di questi giovani arrivavano all'Oratorio, ove si trovavano già cinque loro compagni, giunti prima. D. Bosco era fuori di città e perciò furono consegnati al prefetto. Le fisionomie di alcuni palesavano insolenza, disprezzo, prepotenza; oltre d'essere rozzi e d'indole focosa e ghiotti, non potevano soffrire disciplina, perchè rimasti per mesi e mesi in balia di se stessi; avevano in saccoccia il coltello ed erano capaci di maneggiarlo in una rissa. I Superiori se ne avvidero, ma non era cosa prudente nei primi momenti il tentare di disarmarli; chè, sempre uniti in crocchio, avrebbero fatto resistenza. I giovani dell'Oratorio se ne stavano lontani da essi, poichè temevano di venire a contese. Infatti poco tempo dopo venne ferito da uno di loro il capo calzolaio Musso.
All'indomani dopo pranzo D. Bosco era sotto i portici, quando gli furono presentati questi giovani, i quali neppure si tolsero il cappello. Con amorevole sorriso il Venerabile tentò di accarezzarli e chiese loro:
- Avete fatto buon viaggio? Come state?
- Perchè qui in questo luogo ci stiamo mal volontieri. Vogliamo tornare a casa.
- E perchè ci state mal volontieri?
- Perchè qui non c'è da mangiare. Quello che ci dànno è roba da....
- Olà! È questa la maniera di rispondere? Quella minestra che voi mangiate è quella che mangiano i vostri compagni, [479] che mangiano volentieri quelli venuti da Ancona prima di voi, che mangiano i vostri superiori, che mangio anch'io.
- Se Lei vuoi mangiarne, padronissimo.
- Là, là: a questo modo non si può discorrere.
E Don Bosco, sempre sereno in volto, si volse altrove a intrattenersi con varii fra quei giovanetti che numerosissimi erano venuti a fargli corona ed erano stati testimonii di questo bel dialogo. Fremevano essi e qualcuno voleva avanzarsi e chieder ragione di quell'insulto, ma qualche prudente gli suggerì all'orecchio: - Hanno il coltello e sono faccie da adoperarlo! - Certo il reagire con fatti poteva avere disgustose conseguenze.
Que' poveretti, data l'ultima risposta, alzarono villanamente le spalle, guardarono attorno provocanti, e si ritirarono in crocchio in un angolo del cortile.
Ma non venne meno la magica influenza di D. Bosco sulla gioventù e il dono di ammansare i caratteri più difficili a domarsi. Più di una volta aveva visto nei primi giorni dell'entrata di qualche giovane nell'Oratorio, scene violenti di indisciplinatezza; ma sotto la pelle di una belva bestemmiatrice era riuscito a formare a poco a poco un docile agnello e a destare la retta e sempre grande sensibilità di cuore della gioventù. Egli non contrastava, calmava gli animi colla bontà, scopriva e faceva risplendere la parte buona di ogni individuo e lo traeva a Dio. Tali modi producevano effetti di singolare importanza, perchè non v'ha ordine nella società, al quale il suo spirito santamente espansivo non abbia preparato uomini di merito, formati anche fra giovani tolti dall'abbandono o dalle strade e dalle piazze.
Egli dunque prese separatamente ad uno ad uno que' nuovi venuti, e colla dolce parola ne guadagnò gli animi, perchè quasi tutti avevano buon cuore. Li trovò arrendevoli [480] al suo consiglio di fraternizzare cogli altri alunni della casa, e con occhio maestro investigati i varii talenti di ciascuno, chi mandò allo studio, chi ad un laboratorio: ed essi si assoggettarono e adattarono alle costumanze dell'Oratorio ed al lavoro. Anche quelli che in sulle prime erano stati così ritrosi nella loro condotta esteriore, non mostravano nulla di riprovevole: sebbene qualcuno conservasse in cuore un po' d'avversione alla disciplina dell'Oratorio.
Vi fu però chi scrisse ad Ancona, protestando contro i parenti che avevano voluto mandarli a Torino e lamentandosi dei commissarii del Comitato ai quali chiedevano il rimpatrio:
- Noi non vogliamo lavorare, dicevano; e siamo costretti al lavoro tutti i giorni.
La Commissione si impensierì per questi malumori, e scriveva a D. Bosco:
Contemporaneamente alla presente invio al Prefetto di cotesta provincia sig. Conte Carlo Torre, membro di questa Commissione, la somma di lire 2200 pregandolo di versarle in mano della S. V. Ill.ma a compimento della somma totale dovutale per pensione e corredo dei sei giovanetti testè condotti in cotesto stabilimento e di ritirarne la relativa quitanza ed obbligazione in tutto simile all'accluso modulo, che credo incontrerà l'approvazione della S. V. Ill.ma.
Accolga i miei profondi ossequi.
Ma il modulo di quitanza e di obbligazione variava, come vedremo, la convenzione approvata da ambe le parti il 9 luglio. Con questa erasi stabilito non essere tenuto l'Istituto a restituzione o a rimborso pel caso che per motivi da esso indipendenti, alcuno degli orfani sortisse dall'Oratorio prima di avere compiuto il triennio. D. Bosco, pronto a soccorrere generosamente i poveretti e a largheggiare in concessioni quando si trattava di contratti, era fermo nel sostenere le [481] ragioni della comunità, cioè dell'Oratorio, reputandosi di ogni sussidio che gli mandava la Provvidenza un semplice amministratore. Tali furono sempre al riguardo anche le idee di D. Rua, cui allora spettava d'ufficio l'estendere le risposte, riguardanti queste vertenze. Pertanto il 15 settembre veniva proposto alla Commissione un nuovo modulo di quitanza con una lettera, firmata da D. Bosco, diretta al Presidente.
Colla lettera del 9 corrente V. S. Ill.ma inviava eziandio un modulo di quitanza variato sostanzialmente da quanto erasi convenuto. Si accrebbe poi la meraviglia quando si andò dal Prefetto di questa città e si ebbe comunicazione di non procedere al versamento se non si approvava la clausola di sostituire altri giovanetti in caso che qualcheduno degli accettati uscisse dallo stabilimento.
Credo che siasi dimenticato quanto fu stabilito per lettera, confermato in mia camera, e col medesimo prefetto di questa casa.
Si stabiliva adunque che noi ci obbligavamo di tenerli anche al di là di tre (3) anni e di provvederli di vestiario a condizione che uscendo qualcheduno dallo stabilimento non si dovesse più nulla rimborsare. Il periodo aggiunto reca difficoltà e condurrebbe la cosa al principio delle trattative.
In queste cose noi siamo leali e sinceri; se il periodo aggiunto è condizione assoluta, allora ci sia significato, e noi disporremo dei giovani come loro tornerà di maggior gradimento. Se poi non si vuole violare quanto per iscritto e verbalmente erasi convenuto, allora si scriva altra lettera al prelodato sig. Prefetto con cui sia autorizzato a versare il compimento della somma convenuta, senza condizioni, fuori di quelle stabilite di comune accordo.
Colla dovuta stima ho l'onore di professarmi
Io sottoscritto Direttore dell'Oratorio di S. Francesco di Sales in Torino dichiaro di aver ricevuto nel detto stabilimento gli orfani:
Gentili Demostene, Lucchetti Roberto, Pieroni Giovanni, Crucciani [482] Vitaliano, Taffettani Eugenio, Sottiletti Ciriaco, di Ancona collocativi a nome della Commissione del Pubblico soccorso pei danneggiati dal colera di quella città, promettendo ed obbligandomi in corrispettivo alla somma oggi stesso pagatami dalla detta Commissione di L. 4.200, di tenere, vestire, alimentare, curare, istruire ed educare, avviandoli ancora a qualche arte o mestiere, secondo le regole e gli usi dell'Istituto, gli orfani medesimi per un tempo non minore di tre anni, senza essere tenuto ad alcuna restituzione o rimborso pel caso che alcuno dei detti orfani sortisse per motivi da me indipendenti dallo stabilimento, prima di avere compiuto il triennio,
- Tanto dichiaro e prometto, facendo quitanza della somma di L. 4.200, come sopra pagatami
Mi permetta che innanzi di rispondere ufficialmente alla pregiatissima di lei lettera del 15, io le scriva in via particolare, lo che forse potrà condurci a meglio venire alla finale composizione sull'affare degli orfani ultimamente inviati al di Lei Istituto dalla Commissione cui ho l'onore di presiedere.
L’intelligenza originariamente firmata tra Lei e la Commissione di non rimpiazzare i fanciulli che indipendentemente dal fatto della S. V. sortissero anzi tempo dal Pio Istituto, correva bene a cose normali; quando nulla faceva presentire che una qualche sortita intepestiva fosse probabile, prossima, imminente. Ma dopo la condotta di alcuni degli orfani testè spediti, i quali non appena entrati mostraronsi vogliosi di uscire, e vi furono lasciati non con una piena loro persuasione, ma per disposizione combinata fra i nostri Commissarii e la S. V., è facile comprendere come il pericolo di una molto anticipata partenza è assai verosimile; e che in tal caso la convenzione di non rimpiazzare sarebbe da parte della Commissione un abbandono poco ragionevole d'una somma, la cui destinazione è la carità per gli orfani del nostro paese. Ed Ella che è veramente un modello di cristiana Carità non potrebbe davvero nella delicatezza della sua coscienza volere, che il suo stabilimento lucrasse sulla intempestiva partenza, non straordinariamente eventuale, ma probabile e preveduta d'alcuni dei nostri fanciulli. Lo che tanto più giustamente parmi di poter dire, in quanto che dagli anteriori di Lei rapporti non si è potuta ritrarre l'assoluta fiducia della tranquilla e durevole permanenza di coloro che sulle prime si palesarono cotanto riottosi; ed il silenzio da Lei tenuto nella lettera, cui ho il piacere [483] di rispondere, non contribuisce a rendermi su ciò pienamente tranquillo.
Vegga Ella adunque che non è troppo propria quella frase di violare quanto erasi convenuto che nella celerità dello scrivere le cadde giù dalla penna e che la introdotta modificazione è in armonia colla mutazione delle circostanze.
Tuttavia si potrebbe a mio avviso, trovar modo di ravvicinarsi, collo stabilire un periodo non angusto di tempo, al di là del quale l'intempestiva partenza di alcuno degli allievi non lasciasse più alla Commissione il diritto di sorrogarli.
Sono convinto che la S. V. nella sua ragionevolezza e nel suo amore di prossimo sarà per accettare il temperamento da me proposto ed attendo ad ogni modo di Lei riscontro per promuovere dai miei colleghi le determinazioni definitive.
Pieno sempre di riconoscenza pel bene da Lei fatto ai nostri orfanelli, ho il piacere di raffermarmele
Pres. della Comm. di soccorso pei danneggiati dal colera.
Ho letto attentamente la sua lettera e pregio assai le ragioni che espone intorno a quanto fu convenuto per gli Orfani Anconitani. Sembrami per altro che le cose non debbano variare dalle primitive intelligenze. Le circostanze, che Ella mi dice essere cangiate, sarebbero soltanto una speranza di ricavare utilità in un contratto dopo che è stato concluso, e, se si può così chiamare, consegnata la merce medesima. È vero che non si versò il danaro siccome era stato inteso, ma ciò fu unicamente per nostra condiscendenza verso gli onorevoli personaggi che ne erano e ne sono pienamente garanti.
Ora le noto che, dopo gravi disturbi, i giovani affidatici manifestarono buona volontà, e sono tutti tranquilli, giudicando dal loro contegno. Non voglio per altro costringere la Commissione incaricata a far del bene, a stare ad un contratto che si reputasse rovinoso. Io non appongo difficoltà di ritornare alle loro madri i medesimi giovanetti col relativo danaro e così conservarci in Ancona amicizia ed armonia.
In caso diverso io la pregherei di sollecitare una lettera al Sig. Prefetto di Torino affinchè sia autorizzato a versare la somma che presso [484] di lui rimane depositata, che in questo tempo sarebbe da noi con vantaggio impiegata, essendo l'epoca della provviste che occorrono per lo Stabilimento.
La conclusione fu che si mantenne integro il primitivo contratto, mentre D. Bosco aderiva alla proposta di sostituzione, rifiutandone però obbligazione legale. Il Presidente e la Commissione, certi della sua lealtà, gli mandarono l'ultima determinazione.
In effettuazione dei concerti presi tra noi, ho scritto oggi stesso al Sig. Prefetto di Torino pregandolo di consegnare alla S. V. Ill.ma la somma di L. 2.200, oltre la già pagata a V. S. dal signor P. Passarini, ritirando della intera somma di L. 4.200 quietanza conforme al primo modulo presentatole dai nostri incaricati.
Mentre cediamo così ai desiderii della S. V. Ill.ma ci crediamo in dovere, per la nostra condizione di amministratori dei danari degli orfani, di porgerle preghiera di voler ricoprire con altri giovani i posti di quelli almeno che fra poco tempo uscissero dallo stabilimento, constandoci che alcuni hanno manifestata alle famiglie questa intenzione .....
E D. Bosco non mancò alla sua promessa. Il 18 dicembre tornava ad Ancona uno degli orfani, e il Presidente avvocato Marinelli scriveva: “Desidererei sapere se per favore volesse accettare al posto di Taffettani Eugenio un altro giovinetto che è in estremo bisogno di collocamento”. Il raccomandato era Pasquali Bagni e D. Bosco senz'altro lo accettò.
Finito ogni disparere, compresi i cinque ricevuti gratuitamente e qualche altro raccomandato dal Cardinale Vescovo di quella città, venti furono i giovani Anconitani collocati presso Don Bosco. [485] Dei secondi, tre vennero destinati agli studi, Lucchetti Roberto, Berlutti Gaetano, Gentili Demostene, ed agli studi furono avviati anche alcuni dei primi arrivati. Di tutti questi la maggior parte fece ottima riuscita, come più volte ci narrava D. Rua, per il quale gli Anconitani mostravano deferenza; anzi qualcuno di essi ebbe per lui rispettosa e grande amicizia. Dopo molti anni essendo D. Bosco andato in Ancona, ne incontrò uno che nell'Oratorio era stato insofferente di regola, il quale lo fece stupire con le sue dimostrazioni di affetto e per la buona memoria da lui conservata dell'Ospizio di Valdocco.
L'epistolario amichevole di D. Bosco e di D. Rua con la Commissione durò ancora, per dare relazione della condotta dei giovani: e l'ultima lettera, che il Servo di Dio ricevette, conteneva i più vivi e sentiti ringraziamenti.
CON la solita compagnia de' suoi giovani il Servo di Dio si recò ai Becchi per celebrarvi la festa della Madonna del Rosario, che quest'anno ricorreva il giorno 7 ottobre. Egli, che non lasciò sfuggire occasione per fare quel bene che reputava necessario, aveva deciso d'accordo col Prevosto di Castelnuovo, D. Cinzano, di stabilire in paese una società per la diffusione de' buoni libri. L'idea, che avealo ispirato nel 1859 a formare a questo scopo una società d'interesse generale nei grandi centri di popolazione, venne da lui meditata e maturata per renderla più semplice e più facile ad attuarsi, nell'interesse particolare dei borghi e dei villaggi.
Il programma presentato ed attuato era il seguente: [487]
SOCIETA' PER LA DIFFUSIONE DEI BUONI LIBRI
Stabilita in Castelnuovo d'Asti sotto il Patrocinio dei Santi Apostoli coll'approvazione dell'Ill.mo e Molto Rev.do Sig. Prevosto Vicario Foraneo.
1° Scopo della Società è promuovere fra il popolo la lettura di libri buoni.
2° Può essere ascritto alla Società chiunque ne faccia domanda.
3° I Soci debbono fare ogni mese un'elemosina a volontà.
4° Le limosine servono a comprar libri da distribuirsi ai Soci, ed anche ad estranei.
5° I libri donati da pie persone sono tenuti a disposizione dei Soci che bramino leggerli e farli leggere ad altri.
6° I Soci faranno opera grandemente commendevole e meritoria, se imiteranno gli antichi fedeli che raccoglievano libri cattivi e li abbruciavano.
1° Socio è ogni persona inscritta nelle tabelle della Società, che soddisfaccia regolarmente all'obbligo dell'elemosina mensile.
2° I Soci ricevono tutti i mesi un libretto, ed hanno diritto di servirsi dei libri della biblioteca.
3° Per ciascuna dozzina di Soci vi ha un Collettore che raccoglie le limosine e distribuisce i libretti.
4° Le cose della Società, nei paesi fuori della sede, sono affidate alle cure di Corrispondenti che vi rappresentano la Direzione.
5° La Direzione si compone del Presidente, della Direttrice (che fa le veci del Presidente nelle relazioni colle persone del proprio sesso) del Segretario, e di tre Consiglieri.
1° La Biblioteca della Società è formata con libri donati.
2° Presso ciascun corrispondente si tiene in deposito un certo numero di libri ch'egli avrà cura di rinviare alla Direzione appena siano stati letti, e che verranno surrogati con altri.
3° Le opere più ragguardevoli sono conservate presso la Direzione, ed ogni Corrispondente ne avrà un elenco, affinchè i Soci possano domandarli quando lo vogliono.
4° La cura di rifornire ed accrescere la Biblioteca si commette allo zelo dei Corrispondenti che potranno rivolgersi alle pie persone, offrendo loro un facile mezzo di esercitare un'opera nobilissima di carità cristiana. [488]
Da Castelnuovo D. Bosco scriveva una lettera al Teol. Appendino a Villastellone:
Le nostre intelligenze confidenziali non furono mai dimenticate; le pratiche erano già bene inoltrate quando si cangiò Ministero ed ogni cosa ritornò da capo.
Adesso ho di nuovo iniziata la pratica e non la perderò di vista. In tutti i casi, tra dicembre e gennaio prossimo spero di fare una gita a Roma e là credo poter ottenere quello che qui cagionasse qualche difficoltà.
Sia pure contento, come Ella dice, di quanto ha fatto, perchè tutto fu ad onore della Santa Madre di Dio, che a suo tempo sa e può pagare in modo degno di Lei.
Ella poi alla carità temporale aggiunga la carità spirituale, pregando Dio per me e per questi giovanetti, mentre le auguro ogni bene dal cielo: e mi professo con gratitudine e stima
Castelnuovo d'Asti, 8 ottobre 1866,
Da Castelnuovo D. Bosco non mancava di recarsi a Moncucco alla cascina di Luigi Moglia. Intrattenuto a Buttigliera da persone conoscenti e accompagnato per un buon tratto di via da quel parroco, il Teol. Vaccarino, rimase solo in sul tramonto a metà strada nella valle tra Moriondo e Moncucco, in mezzo ai boschi. La notte non tardò a sorprenderlo, oscura, nuvolosa, benchè senza pioggia. Doveva passare per luoghi che dicevansi infestati da ladri, e presso cascine e vigne guardate da terribili mastini. Per di più egli era uscito di via e non sapeva dove andasse. Era un camminare angoscioso perchè incontrando siepi ed intoppi doveva fare larghi giri. Tutto sudato giunse ai piedi di un alto declivio e lo saliva faticosamente. Fermatosi un istante per riavere il respiro: - Oh se avessi qui il mio Grigio, disse, quanto mi sarebbe opportuno! Ei mi caverebbe d'imbroglio! - Parve che quel cane misterioso fosse là ad udirlo. Il Servo di Dio [489] fu scosso da un tronco abbaiamento, poi da un secondo, ed ecco il Grigio comparire sull'alto della ripa, scendere incontro a lui con mille feste e accompagnarlo per tutto il tratto di via, che rimaneva a fare, di circa tre chilometri. Fortuna per Don Bosco che si ebbe quell'accompagnamento; poichè giunto presso ad una cascina sbucarono fuori rabbiosamente due cagnacci che incutevano terrore; ma il Grigio saltò loro addosso, e li costrinse a ritirarsi così malconci, che, riempiendo l'aria di guaiti, ne uscirono gli stessi padroni per vedere che cosa fosse accaduto alle povere bestie. Il Grigio guidò il suo protetto direttamente alla casa ove era aspettato. Qui tutti furono stupefatti nel vedere un sì bel cane, ed ognuno tempestava Don Bosco di domande: dove l'avesse preso, se veniva da Torino, se da casa sua, se da qualche cascina, e via dicendo. Messisi a cena, il Grigio fu lasciato in riposo in un angolo della sala. Finita la refezione:
- Bisogna dare da mangiare al Grigio! - disse il signor Moglia, e andò per recargliene. Ma cerca da una parte, cerca dall'altra, chiama di qua, chiama di là, non fu più possibile il rinvenirlo. Tutti rimasero meravigliati perchè non si era aperto nè uscio, nè finestra, nè i cani della famiglia avevano dato segno della sua uscita. Si rinnovarono le indagini nelle stanze superiori, ma inutilmente. Il cane era scomparso, e dopo d'allora nessuno di quelle parti ne seppe più nulla.
Don Bosco stesso raccontò questo fatto alcuni anni dopo, perchè essendo caduto il discorso sul famoso Grigio, gli era stato domandato se dal 1855 non lo avesse mai più visto: - Anzi, aggiunse, dopo i primi anni mi sono incontrato con lui più altre volte, quando a sera molto avanzata mi trovava senza compagno... - E noi con molti altri eravamo presenti al racconto.
In quei giorni Don Bosco annunziava ai genitori de' giovani studenti dell'Oratorio, di Mirabello e di Lanzo che le scuole avrebbero avuto principio il 19 ottobre. [490] Il Ch. Luigi Delù colla patente per le classi elementari inferiori, ottenuta in Alessandria, ritornò a Lanzo. Il Ch. Giuseppe Mignone colla patente di professore delle prime tre classi ginnasiali fu titolare della seconda classe del ginnasio nell'Oratorio; e i suoi colleghi erano i professori dell'anno passato. Il totale dei loro discepoli era di 315, senza contare gli studenti esterni; in quinta ginnasiale erano 40. Anche gli artigiani ebbero i loro maestri; e il coadiutore Giuseppe Rossi, con lettera commendatizia, ebbe l'incarico di andare a far compere e provviste per l'Oratorio.
A tutti i Superiori, insegnanti, assistenti e maestri d'arte, mentre ricordava l'obbligo di prevenire i disordini e mantenere ferma l'osservanza del regolamento, salvaguardia della moralità, D. Bosco non ommetteva di raccomandare continuamente la carità, i modi affabili, e in certi casi anche la tolleranza nell'esigere obbedienza. Alle volte diceva a chi era di un naturale aspro:
- Desidero che tu d'ora in poi guadagni i cuori senza parlare; e, se parli, il tuo parlare sia sempre condito colla dolcezza.
- Ricordati che le mosche non si pigliano coll'aceto.
Un giorno egli prese il Prefetto dell'Oratorio e con tutta serietà: -Mio caro, gli disse, dàmmi retta: mettiti a negoziare olio. - Negoziare olio! soggiunse tutto meravigliato il Prefetto. - Sì, negoziare olio. - Ma D. Bosco, un religioso! - Precisamente. O non sei tu il prefetto, e come tale incaricato delle riparazioni occorrenti nell'Oratorio? Ora mi pare di avere udito certi usci stridere, ed un po' d'olio ai cardini accomoderebbe tutto. - Oh! come mai! Ma, non vedo la ragione... - E poi, riprese Don Bosco con dolce sorriso spiccando le parole, e poi... i tuoi dipendenti stridono in una maniera!... Dunque ci siamo intesi? Quando tratti con loro, non dimenticare che fai o meglio che devi fare il mercante d'olio. [491] Don Rua capì ed ognuno, vedendo quant'egli sia stato buono, affabile, dolce, in una parola un altro D. Bosco, può persuadersi che il Servo di Dio non isprecava il tempo, dando colla maggiore affabilità lezioni tanto preziose.
A quelli che dovevano insegnare nelle scuole popolari degli Oratorii festivi - che presto dovevano riaprirsi - raccomandava eziandio una pazienza inalterabile. Egli desiderava ardentemente che fiorissero; e lo stesso Governo riconosceva la sua attività e le sue benemerenze.
UFFICIO DEL R. ISPETTORE PER GLI STUDII PRIMARII
Il sottoscritto è lieto di annunciare alla S. V. Illustrissima che il sig. Ministro d'Istruzione Pubblica, sulla proposta del Comitato per le Scuole, per incoraggiarla a continuare nell'Opera caritatevole a cui da molti anni attende d'istruire i figli del popolo nelle scuole festive e nelle scuole diurne gratuite, le ha assegnato un sussidio di L. 500. Questa somma sarà pagata tra pochi giorni.
Nell'Oratorio dell'Angelo Custode in Vanchiglia, che sotto l'alta sua direzione aveva continuato nel sito medesimo dove era stato aperto nel 1849, non v'erano scuole, ma soltanto il trattenimento domenicale, dove si impartiva ai giovanetti delle piazze e delle strade l'istruzione religiosa e morale. Or essendo stata eretta in quel borgo la chiesa di Santa Giulia, per opera della Marchesa Giulia di Barolo; e aprendosi per disposizione testamentaria della medesima un Oratorio accanto a quella nuova Parrocchia, D. Bosco vide che questo bastava al bisogno, e perciò chiuse il suo, applicandone i chierici ed i sacerdoti all'Oratorio di S. Giuseppe in Borgo S. Salvario dove maggiormente se ne sentiva il bisogno. [492] Ordinate le cose dell'Oratorio pel nuovo anno scolastico, riprese i viaggi e il primo fu a Neive, per invito di quel degno Arciprete, che ne tenne memoria.
Neive (Alba), 14 marzo 1891] Rev.mo Signore,
In seguito all'invito che ho letto nel Bollettino Salesiano mi fo pregio di rassegnare alla S. V. Rev.ma l'acchiusa lettera di D. Bosco di santa memoria. Nell'anno 1866, e precisamente nei giorni 21, 22, 23 di ottobre ebbi la ventura e l'inesprimibile consolazione di ospitare in questa Casa Parrocchiale il veneratissimo D. Bosco, venuto per far la predica della Purità di Maria Santissima. Furono tre giorni di sante emozioni e di grandissima edificazione per me e per li miei coadiutori. Giorni sì belli non li ho passati mai in mia vita, e non potrei chiamarli con altro nome che dicendoli giorni di Paradiso. La conversazione di D. Bosco nell'aurea sua semplicità istruiva, ammoniva, confortava, eccitava al bene. Una sera ci fece una dottissima dissertazione sul magnetismo, e tutti si pendeva dal suo labbro. Altra volta ci fece gustare alcuni aneddoti, ancor affatto inediti della sua vita miracolosa, e segnatamente ci parlò a lungo di quel famoso cane che aveva preso a difenderlo da' suoi arrabbiati avversarii.
Non si poteva a meno di ripetere: “Ove passa un Santo, ivi passa Iddio” come si disse nella casa dei genitori del Curato d'Ars nel passaggio di quel povero straordinario, che si seppe in seguito essere il Santo Benedetto Giuseppe Labre.
Col più profondo ossequio ho l'onore di professarmi
PIETRO BONINO, Arciprete Vic. For
Or ecco la lettera di D. Bosco:
Le mando le 20 decine di biglietti di lotteria che nella sua carità mi ha già pagato. Ne aggiungo altre venti con alcuni programmi pregandola a volerne tentar lo smercio. Forse la contessa Cocino e la contessa di Castelborgo, persone di molta carità, lo aiuteranno a spacciarli. D. Chiesa, D. Giacosa, il suo Curato credo che daranno la mano. Se però in fine della Lotteria ne avesse ancora un numero troppo [493] grande, li può senza difficoltà ritornare all'Oratorio di S. Francesco di Sales.
Tante grazie della carità e cortesia usatami da Lei e da tutta la sua famiglia. Dio li rimeriti tutti. La cosa per altro che mi rimase profondamente impressa fu l'esemplare attenzione con cui Domenica i suoi parrocchiani ascoltarono la parola di Dio. Avendone occasione li ringrazii e si rallegri con loro da parte mia.
E' poi inteso che Ella verrà a farci il discorso di Santa Cecilia.
Gradisca una copia della Storia d'Italia.
Dio ci benedica tutti e ci aiuti colla sua grazia a guadagnare molte anime pel cielo e fra le prime sia la nostra propria. Amen.
Con gratitudine mi professo nel Signore,
Tornato da Neive riceveva gran numero di domande, e parte erano da lui accolte con accettazioni gratuite di poveri giovanetti.
A piedi d'una supplica colla quale da Cassine il 19 ottobre 1866 Marcellino Lucia, vedova di Denicolai G. B. già maresciallo d'alloggio dei Reali Carabinieri, pregava D. Bosco a voler ricoverare il figlio Carlo di anni 13, così stava scritto:
Il sottoscritto si permette di raccomandare alla carità del M. R. Sig. Sacerdote D. Bosco la qui unita petizione di persona veramente povera e lo riverisce distintamente.
D. Bosco faceva rispondere da D. Rua al Senatore, come accettasse senz'altro il giovane Carlo: e il Cadorna di proprio pugno scriveva un biglietto di ringraziamento il 14 novembre 1866.
“Il sottoscritto ringrazia il M. R. Sig. Sacerdote D. Bosco e il sig. Sac. D. Rua del cortese accoglimento fatto alla domanda di Lucia Denicolai pel di lei figlio, e assecondando alla richiesta di schiarimenti contenuta nella lettera del M. R. Sig. Sacerdote [494] D. Rua Prefetto, del 6 corrente, si affretta di trasmettere la qui unita memoria, offerendo ai medesimi gli alti della sua più alta e riverente stima.”
Non va dimenticato il nome di quest'uomo politico, che fu più volte ministro e Presidente della Camera e del Consiglio di Stato, fratello del generale Raffaele.
In que' giorni Don Bosco aveva anche fatto una di quelle sue spontanee opere di carità che tutti ammiravano.
Una piena di acque spaventosa aveva portato la desolazione e la morte nel Comune di Villarfocchiardo, Circondario di Susa, ed egli aveva scritto al Prefetto Torre dichiarandosi pronto ad accettare un fanciullo rimasto orfano. Il Prefetto rispondevagli:
Non ha tralasciato lo scrivente di far nota alla Giunta Municipale di Villarfocchiardo la generosa offerta fatta dalla S. V. R. di assumersi la manutenzione e l'istruzione gratuita di un povero orfano di detto Comune in seguito alla catastrofe ivi succeduta nel giorno 25 settembre scorso.
Riconoscente quel Municipio ne espresse alla S. V. la sua gratitudine in deliberazione delli 24 Ottobre cadente, ed il sottoscritto mentre è lieto di trasmetterle copia autentica della deliberazione stessa, compie ad un grato dovere porgendole per lo stesso oggetto i proprii sentiti suoi ringraziamenti.
Dalla pure unita lettera di quel sig. Sindaco la S. V. vedrà come l'orfano scelto a godere simile vantaggio chiamasi Dematteis Giusto Antonio, e che egli non aspetta per presentarsi al suo benefattore, se non che di conoscere come e quando potrà ciò fare.
Nel pregarla pertanto di un riscontro in proposito, il sottoscritto si dichiara con distintissima considerazione
L'atto di ringraziamento era firmato dal sindaco Rosina Francesco e dagli Assessori Pugnante Angelo e Miletto Giuseppe, e controfirmato dal Segretario Comunale Notaio Amprimo. [495] Il povero Dematteis, di anni 12, era rimasto orfano di entrambi i genitori; e Don Bosco, sempre provvido pei suoi ricoverati, aveva scritto che venisse col corredo e un'offerta, qualora il Municipio avesse potuto disporre di qualche sussidio destinato a questo fine. E il 4 dicembre il Conte Radicati, per avviso avutone dal Sotto-Prefetto di Susa, annunziava a D. Bosco che il giovane, da lui generosamente accettato, sarebbe stato accompagnato all'Oratorio il dì seguente, munito del corredo.
PER gli alunni dell'Oratorio Maria SS. era sempre madre pietosa e D. Bosco un tenero padre.
“Io - narra il giovane Battagliotti - sono un giovanetto liberato da gravissima sciagura per intercessione dell'augusta Regina del Cielo.
Animato dal vivo desiderio di percorrere la carriera degli studii, mi era caldamente raccomandato al mio sig. Prevosto affinchè mi aiutasse e consigliasse colla sua solita carità. Egli si adoperò e mi ottenne un posto nell'Oratorio di S. Francesco di Sales. Era ebbro di gioia e non altro attendeva che il mese di agosto per recarmi al luogo destinato, per tentare le prime prove e per cominciare il ginnasio. Ma che? Una grave sciagura venne a colpirmi e deluse ogni mia speranza. Una sera [497] di maggio di quest'anno, mentre faceva la mia preghiera, caddi da un fienile sul duro selciato e rimasi come morto. Passai due giorni ignaro di quanto fosse avvenuto di me e tutti giudicavano ad ogni istante che io dovessi rendere l'ultimo respiro.
Avevo tutta la persona, direi quasi, scompaginata, con una grave rottura. Tuttavia mediante le cure del medico e le sollecitudini de' miei parenti, dopo due giorni riacquistai l'uso dei sensi e poco per volta rinacque la speranza di guarigione.
Ma quando sembravami di essere guarito, mi accorsi che il malore avevami lasciato un triste retaggio, vale a dire mi avvidi che aveva perduta la facoltà intellettiva e la memoria.
Non si può esprimere il dolore e il dispiacere che ho provato nel vedermi così troncato il filo delle mie speranze. Ho fatto ripetute prove, ma non era riuscito di farmi entrare in capo un periodo di un libro od un pensiero di cose scientifiche. Tuttavia travagliato dal desiderio dello studio, col consiglio del mio Prevosto, volli recarmi a fare almeno una prova nell'Oratorio di S. Francesco di Sales, dove altri miei compagni mi attendevano. Qui crebbe la mia desolazione. Passava più ore sui libri, stava colla massima attenzione nella scuola, ma nulla poteva nè comprendere, nè imparare.
Nel vedere i miei condiscepoli di giorno in giorno progredire nelle lezioni ed io invece rimanermene senza profitto, privo di speranze passava i miei giorni nella melanconia, nell'afflizione, nel pianto.
Un mattino andai in sagrestia, mi presentai a D. Bosco e dando in dirotto pianto:
- D. Bosco, gli dissi, mi faccia guarire dal mio mal di capo.
- Caro figlio, egli commosso mi rispose; vorrei saperti suggerire qualche rimedio efficace... ma... hai già fatto ricorso a Maria SS. Ausiliatrice dei Cristiani? Hai fiducia nella [498] bontà del Signore e nella potenza dell'augusta sua Madre Maria SS.?
- Sì che l'ho e faccio tutto quel che posso per accrescerla.
- Vieni, ascolta con divozione la S. Messa, e poi ci parleremo: e spera.
Dopo che ebbe celebrata la S. Messa, mi condusse davanti all'altare della B. V., e mi disse:
- Fa' una novena, recita tutti i giorni tre Pater, Ave, Gloria a Gesù Sacramentato, con tre Salve Regina alla Madre di Dio colla giaculatoria Maria, Auxilium Christianorum, ora pro nobis. Se guarisci dal tuo male riconoscilo dalla protezione di Maria Ausiliatrice e per la grazia ottenuta farai qualche oblazione per i lavori della Chiesa che in onore di Lei si va qui costruendo.
- Farò quanto mi dice riguardo alle preghiere, ma essendo io un povero giovane, non posso fare alcuna oblazione.
- Tu farai oblazione di preghiere, affinchè la SS. Vergine ispiri qualche suo divoto a fare oblazioni di altro genere; e per gratitudine verso la tua celeste benefattrice racconterai la grazia ricevuta.
Tutto promisi, ed io sentiva in quel momento una fede così viva in cuore che già sembravami di essere guarito. Ma era illusione. Il male di capo mi continuò maggiormente, la mia testa sempre più confusa, la mia memoria vieppiù alterata. Ogni giorno pregava, mi raccomandava alle preghiere de' miei Superiori e dei miei compagni, ma senza alcun risultato. Era l'ultimo giorno della novena ed io aveva peggiorato e mi sentiva crescere i miei malori e per soprappiù parevami che acuti chiodi mi fossero conficcati nel cervello. La sera di quel giorno, oppresso dal dolore, mi presentai a D. Bosco che appena mi vide, tosto mi disse: - Ebbene, come stai? Hai migliorato?
- Niente finora! Molto peggio di prima! Ho perduto ogni mia speranza! [499]
- Ragazzo che sei, perchè dubitare? Va' a fare la solita preghiera, riponi piena confidenza in Maria SS. Ausiliatrice e spera.
Feci quanto mi veniva proposto; dopo andai a riposo. Mentre addolcivo i miei dolori colla speranza, senza sapere se dormissi o fossi desto, mi parve che una mano mi spingesse sollevando tutta la mia persona.
- Io sono guarito, dissi tosto, sentendomi pieno di vigore: io sono guarito: lo stomaco, il capo non soffrono più alcun male.
Colmo di gioia, a stento potei chiudere occhio in quella notte. Ma questa gioia crebbe mille volte di più, quando fattosi giorno ed aperti i libri di scuola, potei studiare la mia lezione, compiere i doveri scolastici, capire tutta la spiegazione del mio maestro. Debbo eziandio notare che non solo rimasi totalmente guarito delle facoltà intellettuali, ma eziandio dei mali corporali, cosicchè ho potuto ripigliare le mie ordinarie occupazioni, con fondata speranza di continuare la carriera degli studii e giungere, se a Dio piacerà, allo stato ecclesiastico.
Ognuno può facilmente comprendere qual sia stata la mia contentezza. L'allegria mi inondava il cuore e mi muoveva alle lagrime. Andai al medesimo altare a ringraziare Maria Ausiliatrice e racconterò sempre la grazia che per la potente intercessione di Lei ho ricevuta.
Se mai qualche mio compagno leggerà questo fatto, non dimentichi di far prova della potenza di Maria Ausiliatrice, ricorrendo alla sua intercessione ne' suoi particolari bisogni[20].” [500]
La sospirata pace tra l'Italia e l'Austria era finalmente stata conchiusa a Vienna il 3 ottobre. Le truppe austriache si erano ritirate dal Veneto e il 19 dello stesso mese il generale Le Boeuf, a ciò delegato da Napoleone III, ne aveva fatta la consegna all'Italia. Dal 21 al 27 si compì la formalità del plebiscito. Dappertutto si vide il clero precedere i popolani alle urne per chiedere l'unione al regno d'Italia. I Vescovi con apposite circolari avevano invitati i popoli a rendimento di grazie col Te Deum, a pregare pel nuovo Re Vittorio Emanuele, a concorrere tutti al plebiscito. Il Re, il 4 novembre, riceveva in Torino la deputazione dei Veneti che gli presentavano il risultato quasi unanime del plebiscito, il 7 faceva solenne ingresso in Venezia, e agli indirizzi di congratulazione, devozione e fedeltà firmati dai Vescovi e dal Clero, faceva rispondere cortesemente, accettandone i voti e ricambiandoli con parole di fiducia e di venerazione.
Ma nulla bastò a mitigare l'odio delle sette contro il sacerdozio e si persistette nel gridare che non dovevasi credere al Clero, che bisognava tenerlo basso, che gli si dovevano far scontare le complicità col passato Governo, che bisognava levargli ogni mezzo di osteggiare la libertà. E con queste diffidenze ognora inculcate fra la bassa plebe, riuscirono i fautori di tumulti a provocare ingiurie e crudeli violenze.
L'Em.mo Cardinale Patriarca di Venezia, richiesto di benedire la bandiera della Guardia Nazionale e inaugurare con solenne rito l'attuazione de' nuovi ordinamenti civili, subito accettò e vi si dispose di buonissimo animo. Mentre però stava per uscir di palazzo, una moltitudine di ribaldaglia lo insultava strepitando. Impediva maggiori oltraggi un'arringa ai tumultuanti del Comandante della Guardia Nazionale e la funzione si potè fare senza disordini. Ma i Commissarii del Governo anche nel Veneto avevano cominciato la persecuzione contro il clero con l'applicazione del domicilio coatto, delle carcerazioni, delle visite domiciliari e de' sequestri. [501] Si videro tra i gendarmi, in forma di rei, condotti alle pubbliche carceri, accompagnati dagli urli, dai fischi, e dagli insulti dell'infima canaglia, onorandissimi canonici, parroci e semplici sacerdoti, strappati alle loro chiese, senza che si potesse allegare contro loro un indizio neppur tenuissimo di colpa: ed altri furono consigliati a mutar aria da chi, dovendo amministrar la giustizia, guarentire la sicurezza personale, tutelar gli innocenti, non trovava modo di condannarli, nè aveva coraggio di difenderli.
Agli ordini religiosi fu subito applicata la legge di assoluta abolizione e molte chiese furono destinate ad uso profano.
Ma questa persecuzione contro il Clero e l'arbitrio inconstituzionale con cui si tenevano lontani dalle loro diocesi tanti Vescovi, ormai commovevano l'opinione pubblica. Il 15 ottobre Napoleone III col suo autorevole consiglio, recato a Firenze dal generale Fleury, ordinava con insistenza al Governo Italiano di lasciare che i Vescovi espulsi ritornassero nelle loro diocesi, e che si riprendessero le trattative con Roma per la nomina dei nuovi Vescovi troncate nel 1865.
Il Governo di Firenze obbedì subito in quanto al richiamo dei prelati, ma gli stava a cuore che i fatti suoi restassero coperti da un'apparenza di legalità, di moderazione e di rispetto alla Religione. Quindi il 22 ottobre una circolare del Ministro Ricasoli avvertiva i Prefetti, che il Governo aveva deliberato di richiamare i Vescovi allontanati dalle loro sedi, meno quelli che eransi rifuggiti a Roma; e nello stesso tempo difendeva il Governo dalle odiose misure prese, dichiarando, che molti dei Vescovi erano personaggi pericolosissimi, capaci di mettere tutto il regno in grave e presentissimo rischio di andare in rovina; ed aggiungeva la minaccia di tradurli davanti ai tribunali se avessero osato, anche in segreto, farsi sobillatori di cittadine discordie.
Eppure non un solo di questi Vescovi, per quanto il Fisco [502] avesse aguzzato l'occhio, potè essere convinto di reato contro l'autorità del Governo.
Fra i primi fu lasciato in libertà di ritornare alla sua diocesi Mons. Pietro Rota, Vescovo di Guastalla, dopo sei mesi di domicilio coatto. Il 7 novembre i giovani dell'Oratorio, lieti del felice suo ritorno all'amato gregge e dolenti di doverlo perdere, gli improvvisarono una dimostrazione affettuosa; e Don G. B. Francesia leggevagli un inno col quale esprimeva i sentimenti di D. Bosco e di tutta la Comunità.
Monsignore partiva nella notte con un ottimo suo ecclesiastico, D. Antonio Lanza, il quale, condannato esso pure a domicilio coatto, non appena ottenuta un po' di libertà se n'era servito per recarsi all'Oratorio a rendere omaggio e far compagnia all'illustre Pastore.
D. Bosco si adoperò perchè questi ritornasse alla sua sede onorevolmente, poichè temevasi che avesse a soffrire nuovi insulti dalla plebaglia; e ottenne che il sotto-Prefetto Conte Radicati lo accompagnasse con una calda raccomandazione alle autorità di Guastalla..
Mons. Rota, rientrato nel suo Episcopio, rivolse il pensiero a Torino, ricordando le gentili accoglienze ricevute da tante persone, esimie per virtù, distinte per grado e per dignità. La sua lettera indirizzata al Direttore dell'Unità Cattolica, meriterebbe d'essere qui riferita per intiero, tanto è onorevole pel Piemonte e per Torino, ma noi ci limitiamo a riportarne ciò che fa al nostro scopo:
“Non posso - diceva - e non debbo tacere quell'uomo incomparabile, che mi accolse in sua casa, mi fu generoso di tante cure e di sì delicati riguardi, e che mi edificò colle sue' virtù, col suo zelo, e dirò coi prodigi di carità, che opera in quel suo Oratorio di S. Francesco di Sales. Quei sette od ottocento giovanetti, per lo più levati dalla miseria, che vengono educati alle lettere ed alle arti, e quel che più importa nel santo timor di Dio, que' sacerdoti e chierici, che dedicati [503] all'educazione di questi fanciulli, vivono una vita più dura di quella de' virtuosi claustrali, quella Casa che accoglie una sì sterminata famiglia, uscita alla luce per miracolo, e la magnifica chiesa che le sorge dappresso quasi per incanto, si possono chiamare, specialmente in questo secolo ed in questi anni, prodigi di D. Giovanni Bosco”.
E ripeteva ai suoi diocesani e al suo clero, ciò che più volte udimmo dalla sua bocca nell'Oratorio: che cioè i giorni più belli e tranquilli di sua vita li aveva passati a Torino con D. Bosco!
Anche a D. Giovanni Cagliero scriveva molte preziosissime lettere che si conservano negli archivi, dalle quali, secondo l'occasione, toglieremo alcune frasi che riguardano l'Oratorio. “Le rimembranze di Torino, così in una lettera del 4 dicembre, mi tornano sempre più gradite; quando ne parlo, restano tutti ammirati, e, se non avessi a conferma de' miei detti due testimoni di veduta, crederebbesi che io esagerassi. Memore delle tante gentilezze ricevute io ho scritto una lettera di ringraziamento al Direttore dell'Unità Cattolica perchè la pubblicasse.”
E pochi giorni dopo scriveva a D. Bosco:
Ossequiat.mo e Car.mo D. Bosco,
Approfitto dell'occasione d'una suora della Carità che viene a Torino e conduce seco una fanciulla accettata nella Piccola Casa della Provvidenza per inviarle quel fanciullo che ella ebbe la bontà di accettare. L'occasione essendo capitata all'improvviso, non si è potuto preparare tutto quello che si era trovato da inviargli seco per corredo, ma gli si manderà per ferrovia il più presto possibile. Intanto accludo nella presente un vaglia di sessanta franchi. Che cosa potrò mandare poi in seguito nol posso dire, poichè oggi, oggi precisamente in dì festivo e all'ora che scrivo, mi spogliano dei beni della Mensa Vescovile e del Seminario!!! E poi chi sa che avverrà di poi? Dio ci aiuti! [504]
Il fanciullo si chiama Folloni Eugenio, figlio dei viventi coniugi Angelo e Maria Davaglio, nato e battezzato il 18 marzo 1853 nella Parrocchia di S. Rocco di Guastalla, e munito pure del Sacramento della Cresima, ed ammesso a quelli della Confessione e della Comunione. Esso è miserabilissimo, ma di buon indole, svegliato d'ingegno e bramoso d'imparare. Una fortuita combinazione, che può indicare una particolare disposizione di Provvidenza, si è che il fanciullo dice e sostiene (è il parroco che scrive) che per più giorni prima che io ritornassi dal domicilio coatto, pregava per me e che Iddio lo ha ricompensato. Ora tra i ragazzi che accorsero al mio ritorno quando giunsi a S. Rocco, vi fu anche questo; ed io subito pensai a D. Bosco e dissi: - Se glielo potessi mandare! - E parlatone col parroco, le cose riuscirono come Ella vede. Che il fanciullo sia uno di quelli che la Provvidenza conduce per vie inaspettate a fine prima insperato? Speriamolo.
Intanto io, affidandoglielo, le porgo tanti e poi tanti ringraziamenti. Così crescono verso di Lei i miei debiti. Io mi trovo in Guastalla abbastanza quieto, perchè il Governo tien fermo. Ma che vale una tal protezione, mentre poi...? Le accoglienze e le gentilezze del clero e dei laici della città, finora si riassumono in una parola: il rovescio di quello che vien fatto al Cardinale De Angelis. Pazienza! Ieri andai a fare la funzione dell'Immacolata in una parrocchia della Diocesi di Reggio. Che differenza! Giunto ivi alla sera precedente, si confessò fino verso le dieci; alla mattina si cominciò alle quattro: fuvvi una numerosa Comunione generale: mi pareva di essere in una di quelle parrocchie così decantate del Piemonte. E tutto frutto delle fatiche di un prete!
Basta: bisogna che finisca, perchè preme di mettere in libertà il fanciullo e chi ha da condurlo fino a Reggio. Mi riverisca tanto e poi tanto tutti i preti, chierici, secolari, operai e fanciulli della Casa. Preghi e faccia pregare per me e per la mia diocesi, e mi creda sempre quale di tutto cuore e con somma stima mi dico
Di Lei, Stim.mo e Car.mo D. Bosco,
L'odiosa e calunniatrice persecuzione contro il clero e la depredazione di tutti i beni ecclesiastici dovevano fortemente rendere avversi molti genitori di poca fede alla generosa deliberazione del loro figli, che desideravano di consecrare la loro vita al servizio di Dio nello stato ecclesiastico o religioso. E il [505] fascicolo delle Letture Cattoliche pel mese di dicembre aveva il titolo: Valentino o la vocazione impedita: Episodio contemporaneo esposto dal Sacerdote Bosco Giovanni. Il libretto narra le conseguenze del pervertimento di un povero giovane procurato con perfide arti e la spaventosa punizione del padre sconsigliato. In appendice è stampata una divota preghiera da recitarsi nelle presenti calamità della Chiesa, ed è raccomandato il periodico: Museo delle Missioni Cattoliche, che ha per iscopo di mantener vivo in Italia lo zelo per la Propagazione della fede, e accrescere le elemosine a questo santo fine. L'opera è una gloria del clero, poichè i Missionari italiani erano oltre duemila, fra cui ben quaranta Vescovi.
Veniva in luce anche il Galantuomo pel 1867, almanacco dilettevole ed istruttivo per aneddoti, dialogi, uno in specie tra il ciabattino e lo stivale, due lettere sui libri proibiti, poesie e un avviso importante agli associati di stare all'erta perchè l'Amico di casa, almanacco valdese, non riuscisse a penetrare nelle loro famiglie. Ma la pagina più cara era quella della prefazione, che ricorda la festa colla quale furono accolti, tutti incolumi, i giovani dell'Oratorio che avevano militato contro l'Austria.
Il Galantuomo ai cari suoi lettori.
Vi mando un tenero saluto, o miei cari amici, e tanto più di cuore perchè so che siete assai moltiplicati. Deo Gratias! In mezzo alle molte mie tribolazioni, e sono quelle di un povero vecchio, mi trovo molto consolato sapendo di essere amato da tante rispettabili persone, come siete voi. In quest'anno ne ho viste anche delle più brutte, sapete, a motivo di quella gran guerra che si fece. Avrei desiderato di accompagnare l'esercito, come aveva fatto nel 59, ma per l'età troppo avanzata non ho potuto. E se allora perdetti solo il codino, ora avrei potuto benissimo perdere anche la testa; senza codino ci poteva e ci potrei stare, ma senza testa non so se avrei ancor potuto vivere. Stetti perciò a casa, ma accompagnai i miei fratelli e figliuoli col cuore e più colle mie orazioni. E grazie a Dio un bel giorno me li vidi ritornati tutti sani e salvi. Oh come mi saltarono attorno pieni di tripudio! Io li abbracciai con tenero affetto come se fossero ritornati a [506] nuova vita. Però vi devo confessare che per ottenere questo caro risultato mi sono servito di un mezzo semplicissimo ma sicuro.
Mi era provveduto un po' prima di molte medaglie di Maria SS. e le distribuiva a tutti quelli che stavano in sul partire per la guerra. La mia casa in quei giorni era divenuta un vero santuario, dove ognuno viene colla persuasione di portar via quello che si desidera e si domanda a Dio. E vi avrei a raccontare per molto tempo le vere grazie che si ottennero. E per questo e per molti altri motivi il nome di Galantuomo si è fatto famoso. Allora diventai notus in Judea, come diceva il mio antico maestro già morto. Ma mentre cerco di uscire a fare una visita a tutti voi, ci sta un cattivo muso alla vostra porta che mi vorrebbe prendere il passo; e guai a me e guai a voi se potesse avere il passaggio nelle nostre case. Lo conoscete già forse di nome, e tolga Iddio, che lo abbiate a conoscere anche di persona - Libera nos, Domine!
Egli è niente meno che il colera, che, non so come, se per vapore o per telegrafo, chè già si sono inventate al giorno d'oggi tante vie, entrò nei nostri paesi e cominciò a far man bassa. Ed anche qui il vostro Galantuomo ebbe ed ha da farla da medico, e che medico sapete, medico infallibile, ed a buon mercato. Fui chiamato in molti siti, ebbi a fare parecchi consulti, e suggerendo il mio rimedio ho sempre ottenuto la guarigione. E tu, lettor caro, se sei desideroso di saperlo, eccolo: piglia prima di tutto un po' di confessione per metterti in grazia di Dio, e se già ci sei fa' di continuare. In secondo luogo, risveglia nel tuo cuore la divozione a Maria SS. Immacolata, onorandola di quando in quando con orazioni e giaculatorie: p. es. Maria, aiuto dei cristiani, prega per me peccatore. In terzo ed ultimo luogo tienti al collo la sua medaglia; e allora se venisse questo cattivo ospite poco ne sarebbe il danno, e si rinnoverebbe quello che disse il mio amico Silvio Pellico di felice memoria, parlando del colera minacciato a Torino nel 1835:
Venne l'indica lue, tremenda apparve,Ma al cenno di Maria sedossi e sparve.
E la colonna magnifica posta sulla piazza della Chiesa della Consolata segna il miracolo operato e la gratitudine dei cittadini. Che se volesse Iddio castigare un po' il mondo con questo male, tu ne saresti difeso.
Con questo crede il Galantuomo di avere abbastanza fatto il suo dovere coi suoi amici. State allegri, ed il Signore vi benedirà come di tutta l'anima ve lo augura
ALTRI nuovi fascicoli aveva per le mani D. Bosco, altri ne stava scrivendo, altri correggendo: lavoro accelerato, insopportabile per qualunque altro, che doveva interrompere ad ogni istante per ripigliarlo il primo momento di libertà che gli concedevano il sacro ministero, la direzione dell'Oratorio e della Pia Società, i viaggi e le cure per cercare offerte per la chiesa in costruzione, le visite ai collegi e la corrispondenza necessaria per provvedere alle necessità dei suoi giovani.
Di molte lettere incaricava D. Rua dandogliene la traccia, ed a una di queste rispondeva il Can. Eugenio Galletti. È un santo che scrive.
Sperai sempre di poter trovare un momento per recarmi in persona da V. S. a farle riscontro a viva voce della sua pregiatissima [508] letterina; ma veggendo da un giorno all'altro protrarsi troppo oltre la cosa, eccomi a dirle in due parole come io compatii e gradii il suo buon cuore nel raccomandarmi che fa sì caldamente la santa causa del veneratissimo sig. D. Bosco e di tutta la sua famiglia, compresa la gran chiesa in atto di sì ammirabile fabbricazione.
Ma dovetti pure ad un tempo persuadermi ch'ella non conosce gran fatto nè il mio cuore, nè la mia posizione, altrimenti non mi avrebbe indirizzata una tale forma di scritto.
Dico il mio cuore riguardo al sig. D. Bosco, verso cui nutro tanta stima, tale rispettoso affetto e venerazione che forse non la cedo un grado a verun altro suo ammiratore; e quanto si passa in me riguardo al Padre, cammina in proporzione verso i suoi degni figli e verso tutte le opere della loro carità e del loro zelo.
Non occorre quindi che io riceva altronde la raccomandazione per portare mano soccorrevole a tanto uopo, ove fosse possibile: la porto con me, la sento già bella e fatta ogni maniera di raccomandazione, e mi è così cara, forte, pressante, che parmi sarebbe capace di qualunque atto generoso, tuttavolta che la Provvidenza me ne presenti l'occasione propizia.
Che vuole? contuttociò io potrei e posso di presente far poco o nulla, a pro' dell'uomo di Dio e della benedetta sua famiglia.
E' vero che per immeritata degnazione della S. Memoria di Mons. Arcivescovo Fransoni trovomi membro dell'amministrazione dei beni del Seminario; ma V. S. prende abbaglio nel credere che io possa avere ed abbia preponderante influenza sui consigli, sul voti dei Signori Amministratori che ho l'onore di avere per colleghi. Noti bene, glielo dico in tutta schiettezza confidenziale; sono l'ultimo per ogni titolo, di età, di possesso, di scienza, di virtù, di entratura, di pratica, di esperienza, di meriti. Essi mi furono già tutti Superiori ne' miei studii, nelle scuole e nelle varie cariche che dovetti sostenere. Sono essi che naturalmente e giustamente hanno il Magistrato della senile influenza sopra di me, poveretto; io è molto che abbia da loro tolleranza e sia sofferto in loro compagnia, ed in loro consesso. Ha capito? Del resto non dubiti punto, caro mio D. Rua, che non cesserò mai di porre il mio granello sulla bilancia in favore di D. Bosco e delle sue ammirabili imprese. Parlerò, appoggerò, perorerò, incalzerò, difenderò, mi adoprerò insomma di tutto il mio meglio nella mia ignoranza ed insufficienza ad ogni opera di bene. Sta al Signore di benedire i miei sforzi, di avvalorare le mie parole, di aprirmi anzi il labbro e darmi un linguaggio di carità e di possanza trionfatrice dei cuori! Ne lo preghi per me.
Gradisca V. S. le povere, ma sincere mie congratulazioni per le note continue fatiche che sostiene nel campo eletto del Signore alle sue cure singolarmente affidato; gradisca le benedizioni del cielo, le [509] dolcezze dei cuori sacratissimi di Gesù e di Maria che le auguro e prego, dichiarandomi senz'altro,
Le anime generose non si stancavano di accorrere in aiuto al Venerabile, e la stessa Vergine SS. sovente veniva in suo soccorso. Lasciarono scritto D. Chiala e il Cav. Oreglia:
Il 16 novembre D. Bosco doveva pagare quattro mila lire pei lavori della chiesa. Il Prefetto della casa D. Rua con qualche coadiutore uscì al mattino di detto giorno in cerca di danaro. Dopo aver percorse le vie di Torino, salite e scese moltissime scale e battuto all'uscio di varie pie persone, la comitiva rientrava nell'Oratorio alle II antimeridiane. Depositate nelle mani di D. Bosco lire mille, raggranellate con infiniti stenti, manifestava l'impossibilità di trovare le altre tremila lire che mancavano al compimento della somma. Fu quello un momento di sconforto; uno guardava l'altro senza pronunziar parola. Solo D. Bosco con volto ilare e il cuore pieno di fede e di confidenza disse loro: -Coraggio! A tutto v'è rimedio: dopo desinare andrò io a cercare il resto.
All'una dopo mezzo giorno egli usciva dall'Oratorio e dopo un lungo giro, senza sapere dove dirigersi, si trovò vicino a Porta Nuova. Da quelle parti non conosceva nessun ricco signore, sicchè fermatosi stava pensando come mai fosse arrivato colà, quand'ecco avvicinarglisi un domestico in livrea, sul cui volto traspariva un non so che di mestizia congiunta a grande ansietà, il quale gli dice: - Reverendo, è forse lei D. Bosco?
- Oh! Provvidenza! esclamò; è proprio il Signore che me l'ha fatto trovare così in punto! Il mio padrone infermo mi ha mandato a pregarla di aver la bontà di venirgli a fare una visita, perchè la desidera tanto. [510]
- Oh no; qui in capo alla strada. -E gli accennò un gran palazzo.
- È suo quel palazzo? chiese D. Bosco.
- Appunto; il mio padrone è ricchissimo... e molto caritatevole sa! Egli potrebbe aiutarla nei lavori della nuova chiesa.
Giunti al palazzo, D. Bosco entrò, ed ecco che gli viene incontro una signora mesta e piangente e gli dice:
- Oh! Don Bosco! se sapesse da quanto tempo lo aspettiamo: abbiamo più volte mandato a chiedere di lei e ci fu sempre detto che non era in città: avrei voluto che mi avesse fatto guarire mio marito da Maria SS. Ausiliatrice: io avrei fatto qualunque cosa per la sua chiesa, ma adesso è troppo tardi, è quasi alla fine. Avanti ieri i medici fecero consulto.
- Vi era anche la Madonna? rispose D. Bosco. Se non vi era la Madonna, il consulto era imperfetto, poichè ci mancava il medico curante. Che malattia ha?
- La malattia ha preso varie forme e da varî mesi degenerò in idropisia; lo operarono più volte ed ora è di nuovo gonfio, che fa pietà; ma i medici non osano più toccarlo, perchè dicono che non può più sopportare alcuna operazione.
- Ebbene, se loro si sentono di aiutare la Madonna in un affare, io farà la prova di far guarire dalla Madonna suo marito.
Pochi minuti dopo Don Bosco entrava in una stanza, ove trovò giacente un signore già alquanto avanzato negli anni, il quale al vederlo tutto contento esclamò:
- Oh! D. Bosco! se sapesse come io ho bisogno delle sue preghiere. Non c'è altro che lei che mi possa cavare da questo letto. [511]
- È molto tempo che ella si trova in questo stato?
- Da tre anni, tre lunghi anni. Soffro orribilmente; non posso fare da me il menomo movimento e i medici ormai non mi dànno più speranza di guarire.
- Oh! povero me! non ne farò più, ma me la faranno fare.
- Se ella è d'accordo colla sua signora, la farà oggi con le sue gambe e con la sua vettura.
- Oh! se io potessi ottenere almeno un po' di sollievo, farei volentieri qualche cosa per le opere sue.
- Eh! veda, signore, il momento sarebbe veramente propizio; avrei appunto bisogno di tre mila franchi.
- Ebbene, mi ottenga solo un po' di sollievo a' miei mali, e io verso il fine dell'anno guarderò di contentarla.
- Ma io ne avrei bisogno di questa sera stessa.
- Questa sera, questa sera!... e dove trovarli? Tremila lire non si hanno sempre lì. Bisognerebbe uscire, andare alla Banca Nazionale... cambiar cedole .....
- E perchè non andare alla Banca?
- Uscire io impossibile! Vossignoria scherza! io sono tre anni che non mi muovo.
- Impossibile? impossibile a noi, ma non a Dio onnipotente. Orsù dia gloria a Dio ed a Maria SS. Ausiliatrice. Mettiamoci alla prova.
E Don Bosco fatte radunare in quella camera tutte le persone della casa in numero di una trentina, comprese quelle di servizio, le invita a recitare speciali preghiere a Gesù Cristo Sacramentato ed a Maria Ausiliatrice.
Com'ebbero finito di pregare, il Venerabile diede all'infermo la benedizione e questi cominciò subito ad evacuare tanto che la moglie spaventata si mise a gridare: [512]
- Sia tranquilla che non muore; è tornato alla sua primiera corporatura - e fece portare al letto dell'ammalato quei vestiti che da tanto tempo giacevano abbandonati. Gli astanti, più commossi che meravigliati, stavano osservando come sarebbe finita la cosa. In quella entra il medico e visti que' preparativi grida all'imprudenza, e tenta ogni mezzo per dissuadere l'infermo. Ma questi, protestando di essere libero padrone di sè, vuole ad ogni costo seguire i suggerimenti di D. Bosco. I famigliari volevano aiutarlo, ma il Servo di Dio li tiene indietro, e in poco d'ora l'infermo è vestito e passeggia per la camera; e si manda a mettere in ordine la carrozza. Prima però di uscire quel signore chiede di rifocillarsi alquanto, e gli vengono presentati dei cibi, che mangia con un gusto quale non aveva provato da lungo tempo. Poscia scende le quattro scale da sè, giacchè D. Bosco proibiva assolutamente che lo si aiutasse, sale pure da sè in carrozza, va alla Banca e ritorna giubilante e consegna a D. Bosco le tre mila lire, facendogli mille ringraziamenti e ripetendo: - Sono completamente guarito. - Don Bosco, dopo avergli ricambiato i suoi .sensi di riconoscenza, lo esortò a ringraziare Gesù Cristo Sacramentato e la B. V. Ausiliatrice, da cui unicamente poteva riconoscere la straordinaria guarigione.
Rientrato appena nell'Oratorio, il Venerabile trovò la persona che l'aspettava per il pagamento della somma, che con maraviglia di D. Rua e degli altri superiori della casa, potè tosto essere pagata.
Un altro fatto era accaduto poco tempo prima, ma di genere ben diverso, a prova di ciò che si legge nell'Ecclesiaste al Capo V, cioè che spiace al Signore la stolta e infedele promessa. Pietro Enria attesta di averlo udito dallo stesso Venerabile.
Un giorno D. Bosco fu invitato a far visita ad una nobile [513] famiglia di Torino, colla quale non aveva mai avuta alcuna attinenza. Il Marchese e la Marchesa lo accolsero con grandi segni di rispetto e gli dissero:
- Noi l'abbiamo disturbato nel farlo venire fin qui, mentre sappiamo che ha tanto da fare.
- Quando si tratta di fare del bene e della gloria di Dio, non faccio che il mio dovere.
- Ebbene, soggiunsero quelli calorosamente, lo supplichiamo di un grande favore. Siamo qui due coniugi, ma non abbiamo alcun figliuolo. Ella che è tanto buono, preghi e faccia pregare per noi i suoi giovani, affinchè Dio abbia pietà e ci conceda un erede.
Don Bosco rispose che avrebbe pregato e fatto pregare Maria SS. Ausiliatrice.
- Allora favorisca di benedirci! - esclamarono i due coniugi gettandosi in ginocchio.
Don Bosco li benedisse, ed essi ripresero:
- Come vede la nostra casa è solitaria, e se la Madonna ci concedesse un figlio, sarebbe per noi la più grande consolazione. Se otterremo un tale grazia, facciamo promessa di presentare una vistosa offerta alla Chiesa di Maria Ausiliatrice.
- Ed io, conchiuse D. Bosco, prometto loro in nome del Signore che saranno esauditi; preghino ed abbiano fede e D. Bosco li raccomanderà tutti i giorni nella S. Messa!
Dopo un anno Iddio rallegrava quei signori con la nascita di un figlio; ma essi non pensarono a mantener la promessa. Ed era già passato più di un anno da quel lieto evento e il bambino era perfettamente sano, quando D. Bosco, trovandosi bisognoso di danaro per pagare i provveditori dei materiali per la costruzione della chiesa, ed essendo importunato con insistenza dall'impresario, si ricordò del Marchese. Recossi pertanto da lui, persuaso di essere ben accolto. Invece quel signore lo ricevette con queste parole: [514]
- Son venuto a pregarla, se volesse adempire alla promessa fatta due anni or sono...
- Che promessa? - rispose il Marchese. - E lei chi è?
D. Bosco, senza offendersi, annunziò il proprio nome ed espose le strettezze nelle quali si trovava.
- Non mi ricordo di aver fatto promesse! - soggiunse il signore.
- Signor Marchese! replicò il Venerabile; rammenti che la promessa non l'ha fatta a D. Bosco ma l'ha fatta al Signore, e con Dio non si scherza! Colla sua Madre SS. non si burla! Pensi a quel che ora fa.
E salutandolo cortesemente, afflitto per quella ingratitudine che prevedeva severamente punita, si ritiro.
Erano trascorse poche ore da quel colloquio, quando la Marchesa si presenta ansante al marito per dirgli che il bimbo era stato colto improvvisamente da grave malore. Si corse a chiamare il medico, e tutta la casa era sossopra. Il Marchese capì che gli pendeva sopra il castigo di Dio; e tosto fa' attaccare i cavalli, in un istante è all'Oratorio, si presenta a D. Bosco, e gli dice:
- Ah signor D. Bosco, venga subito in casa mia, mi faccia la carità di venire a benedire il nostro bambino che muore... Ah, mi perdoni: io ero cieco quando fui così scortese con lei... Ma venga, venga subito.
- Vengo subito, rispose addolorato D. Bosco, ma glielo aveva pur detto che col Signore non si scherza! Vedrà che dovremo dire: Dio ce lo ha dato e Dio... ce lo toglie!
E subito salì in vettura col Marchese; ma questa entrava appena nel portone del palazzo, che i domestici sì presentano con segni di grave mestizia in volto.
Il Venerabile entrò nella stanza ove giaceva la piccola [515] salma e dov'era la madre che si struggeva in lagrime. Il Marchese scoppiò egli pure in pianto dirotto ed esclamava:
- Noi insensati!... Per un po' di danaro abbiamo ucciso nostro figlio. È Dio che ha punita la nostra avarizia... Noi sventurati! abbiamo perduto la consolazione di tutta la nostra vita e specialmente della nostra vecchiaia ... Siamo di nuovo soli su questa terra! Ah D. Bosco, ci perdoni ... preghi per noi il Signore che ci perdoni il nostro fallo...
Il Servo di Dio li consolò dicendo:
- Il Signore è misericordioso, vuol loro un gran bene, e li perdonerà. Ma per rendersi degni del suo perdono è necessario che d'ora innanzi si dedichino con maggior diligenza e con maggior fede alle pratiche di nostra santa Religione... e che soccorrano i poverelli bisognosi con generose elemosine. Così facendo si renderanno degni di andare un giorno a far compagnia per sempre al loro caro figliuolo in Paradiso. Siano certi che dal Cielo egli prega per i suoi amati genitori! - E conchiudeva: - Viviamo tutti da buoni cristiani e ci troveremo insieme a godere del premio eterno. - Dette queste parole, li benedisse e si congedò.
Intanto la statua della Madonna, che doveva essere collocata sulla cupola, era pressochè ultimata. Leggiamo nell'Unità Cattolica del 17 novembre.
Abbiamo veduto la bella statua rappresentante la Madonna, la quale sarà posta sopra la cupola della chiesa che sta fabbricando in Torino l'egregio D. Bosco, intitolata a Maria SS. Auxilium Christianorum. La statua è alta quasi quattro metri e fatta di rame, cui venne data una vernice color bronzo, finchè si possa far indorare. Venne modellata dall'Argenti di Novara ed eseguita dal cav. Ignazio Boggio in Torino, parte colla galvanoplastica, parte col martello e cesello. Il condurre tali lavori colossali, dice Benvenuto Cellini, è impresa difficilissima per le proporzioni straordinarie. Ed è opera difficile il giudicare da vicino tali opere che devono essere vedute in lontananza. Il nostro parere quindi intorno a questo lavoro è sottomesso all'appello, cioè all'effetto che farà la statua posta all'altezza di 46 metri dal suolo; mentre abbiamo dovuto giudicarla alla distanza di [516] due o tre metri, essendo molto infelice il luogo in cui è esposta. Delle otto principali vedute d'una statua, come direbbe il Cellini, se ne possono qui avere appena cinque e da vicino. E però alcuni difetti che ora si possono notare spariranno quando la statua sarà veduta in alto; e viceversa alcuni difetti ora non osservati potranno essere visibili. Ciò posto, diciamo che nell'insieme la statua ci è sembrata assai bella, e specialmente la testa ci parve bene modellata e meglio eseguita. Il volto è assai maestoso ed insieme pieno di dolcezza, massime riguardato dal profilo di destra. Il difetto principale che ci diede all'occhio sono le spalle e le anche troppo piccole e non proporzionate alle altre parti colossali. E il difetto delle spalle rende difettosa l'attaccatura del braccio destro alzato in alto per benedire, il quale sembra appiccicato al dorso e non alla spalla. Torniamo a ripetere: È un bel lavoro, che è forse il primo di questo genere eseguito in Torino, e fa onore al cavaliere Boggio dalla cui officina è uscito. Ognuno può recarsi a vedere la statua in via Bertola, n.° 39, poco prima di giungere alla chiesa che si sta costruendo.
Il 18 novembre D. Bosco recavasi a Murello, presso Racconigi. Per iniziativa della Rettrice delle Umiliate, o Pia Unione delle Madri cristiane sotto il patrocinio di Santa Elisabetta, la signora Francesca Cogno, vedova Audero, col consenso e d'accordo col Teologo Cav. Carlo Ghersi parroco e amministratore, lo avevano invitato perchè vi andasse a fare il panegirico di Santa Elisabetta nel giorno della festa che celebravasi in quell'anno il 25 novembre. Ma D. Bosco per un malinteso vi andava una domenica prima e mettendosi in quel mattino a disposizione del parroco fu pregato di visitare una donna gravemente inferma, che desiderava di essere da lui benedetta prima di morire. D. Bosco aderì di buon grado all'invito e venne accompagnato nella stanza della moribonda. Avvicinatosi al letto, chiese licenza al parroco di darle la benedizione papale e inginocchiatosi recitò alcune preghiere, fermandosi qualche tempo per assisterla. Il figlio Gio. Battista Olivero fece collocare in quella stanza un ritratto di D. Bosco con un'epigrafe che dice: - Nel giorno 18 novembre 1866 - il ven.mo D. Giovanni Bosco -onorò questo luogo - di una sua visita. [517] Da Murello il Servo di Dio si recava a Lanzo. Salito sull'omnibus a Torino si trovò insieme, fra le altre persone, con un tale che parlava malamente dei preti in diversi modi.
Più volte venne corretto da D. Bosco con belle maniere, ma sempre inutilmente; anzi quello screanzato burlavasi degli avvisi e delle ragioni del Servo di Dio.
Giunta la vettura a Lanzo, mentre tutti smontavano vi fu chi salutò D. Bosco chiamandolo per nome. Quell'individuo nell'udire che quel sacerdote col quale aveva viaggiato e che aveva trattato villanamente era D. Bosco, rimase di sasso e come fuori di sè per la vergogna. Egli era partito apposta da Torino per andare al Collegio S. Filippo e raccomandarvi un suo figlio. Tuttavia si fece coraggio, gli si avvicinò, gli domandò scusa, gli si proferse pronto a qualunque servigio, lo invitò ad entrare nel caffè per rinfrescarsi, cercò insomma di rimediare come meglio potè al suo sproposito. Il Venerabile, avvezzo a simili incontri, non accettò l'invito, ma sorridendo alla confusione di quel poveretto finì per contentarlo nella sua domanda.
Quella sera apparve nel cielo sereno un magnifico spettacolo: una quantità di stelle cadenti o bolidi di diversi colori, che non poteansi numerare, tanto erano frequenti, comparivano, scomparivano, s'intrecciavano nelle loro parabole. L'astronomo Padre Secchi le computò sino a 30.000; e il Padre Denza a Moncalieri in sei ore ne contò 33.000. Si volle che ne fosse cagione una cometa la cui coda passò nell'orbita della terra. I giovani del Collegio, usciti dalla scuola di canto verso le 9 pomeridiane, estatici a tanta bellezza di luci, tenevano gli occhi fissi in alto. Uno, pronto d'ingegno, si mise ad esclamare:
- Sono gli angioli che dànno fuoco alle fusette per l'arrivo di D. Bosco.
A quella voce tutti i compagni mandarono replicatamente il grido: - Viva D. Bosco! - E certamente l'arrivo di Don [518] Bosco in uno de' suoi collegi recava gran festa agli angioli. Tutti i Salesiani e tutti i giovani volevano confessarsi da lui ed egli contentava tutti. Mirabili erano le mutazioni di condotta in quei giorni: si rinnovavano i prodigi dell'Oratorio.
Il giorno dopo D. Bosco scriveva al Direttore di Mirabello.
Ti scrivo da Lanzo. Sono assai contento di questi giovanetti, ma ancora più dell'unione dei Superiori, degli assistenti. Dicono, predicano e praticano in modo da generare gelosia a quei di Torino e quasi quasi perfino a quelli di Mirabello, dove sta raccolto il fiore del nostro personale. Amen.
Andrò al 28 costà con Pelazza e D. Lazzero che porteranno seco quel che dimandi. D. Rua è impegnato a fare per la tua schiettezza e non ti sbagli quando dici: Ci mangiate tutto. Questo serve a farlo cooperare con maggior fervore, secondando quanto accenni. Io poi mi metterò tra l'uno e l'altro, dicendo: tertius gaudet.
Mandami una noterella di quelli che tu sai e così potrò mettermi più presto in relazione coi medesimi. Desidero che nel giorno di San Carlo vi sia vera indulgenza plenaria per tutti. Si cancelli il passato, si pulisca ogni macchia presente, si faccia una ferrea risoluzione di farsi tutti santi, ben inteso compreso anch'io.
Pax et benedictio domui tua et omnibus habitantibus in ea. I saluti a tutti e a tutte.
La Santa Vergine ci aiuti a camminare per la via del cielo. Amen.
Il 21 novembre D. Bosco lasciava Lanzo, e a Mondonio compivasi un desiderio del suo cuore, vagheggiato da più anni. La memoria di Savio Domenico era sempre in benedizione. Per mille ragioni D. Bosco non poteva dimenticare un giovanetto così meritevole d'amore; e cercava di rendergli tributo di venerazione con quelle onoranze che poteva maggiori[21]. [519]
Fin dal 1859 si pensò di far pratiche presso il Ministero per aver la licenza di trasportare da Mondonio a Castelnuovo le ceneri di quel santo figliuolo. Questa si sarebbe chiesta in nome di suo padre Carlo Savio. D. Bosco aveva incaricato il suo amicissimo D. Alessandro Allora perchè si informasse dalle persone di legge; e il buon sacerdote, da Castelnuovo d'Asti, in data II novembre 1859, riferivagli la risposta avuta, scrivendogli:
“Interrogato ancora il giudice, se la legge avrebbe vietato dimostrazioni, per es. accompagnamento conveniente della salma, oppure se avesse ad eseguirsi di notte, dissemi non potersi più ripetere la sepoltura ecclesiastica, ma tosto tumularla e in quanto alle dimostrazioni sia civili che religiose per istrada o in chiesa, al cimitero nulla ostare: però la pubblica igiene consigliare che il trasporto dei cadaveri abbia luogo di notte.
Io sono pure d'avviso che quando questo onore si fosse reso e più degna stanza si fosse procurata alle spoglie mortali appartenenti allo spirito di sì caro ed ammirato giovanetto, ognuno altresì applaudirà a sì fatta opera pia ed educativa. Difatti come sarà altrimenti la cosa, se già molti si credono in debito di attestargliene riconoscenza ed amore per favori conseguiti, alla sola e pura rimembranza delle strepitose di lui virtù? Vaglia il seguente fatto recentissimo a provare quanto operi sugli spiriti pii e fedeli la convinzione che il savio e pio giovanetto, come colui che molto fece e patì per Gesù Cristo, alcunchè pure possa fare ed ottenere a pro' dei mortali.
Una donna trovandosi alle strette per difficilissimo parto piamente ricordandosi delle grazie ottenute da qualche ammiratore delle virtù del Savio, esclamò ad un tratto: - Deh! Domenico mio! -senz'altro dire. E il fatto fu ed è che la donna all'improvviso e in quel momento stesso fu libera da quei dolori…”. [520]
Il progetto però di trasportare il corpo di Savio da Mondonio a Castelnuovo non fu messo in esecuzione. Nel 1864, cambiatasi idea, si pensò a diseppellire la cassa contenente la salma di Savio Domenico per sottoporvi il fondamento di un tombino e riporre la medesima di nuovo nello stesso luogo contro il muro della cappella di S. Sebastiano annessa al cimitero di Mondonio. Nei mesi di novembre e di dicembre si chiesero le debite licenze alle competenti autorità, ma anche questo secondo progetto non venne per allora eseguito.
Però in questa circostanza D. Bosco scriveva un'epigrafe che non fu scolpita, ma conservata fra le sue carte, e dice eloquentemente quale fosse la sua stima per il santo suo discepolo.
LA SALMA DELL'ANGELICO GIOVANE
NATO IN RIVA DI CHIERI IL 2 APRILE 1842.
PASSATA NELLA VIRTÙ LA PUERIZIA
SERVIVA IDDIO PIÙ ANNI CON FEDELTÀ E CANDORE
NELL'ORATORIO DI S FRANCESCO DI SALES
E MORIVA SANTAMENTE IN MONDONIO
CHE EGLI È PREDILETTO DAL SIGNORE
E DI QUELLI CHE AVENDO PROVATI GLI EFFETTI
LA PAROLA DELL'ORACOLO INFALLIBILE
Solo nel 1866 compievasi il pio disegno, deliberato nel 1864, come consta dal seguente documento. [521] Parrocchia di Mondonio. -Testimoniale di disumazione e di nuova Sepoltura della salma di Domenico Savio.
L'anno del Signore 1866, alli 21 novembre, alle ore nove ant. nel cimitero di questa Parrocchia, io parroco sottoscritto alla presenza e colla cooperazione dei qui sotto segnati testimoni, feci disumare la salma ivi sepolta di Domenico Savio e constatatene l'indentità per mezzo delle persone ivi presenti che ne avevano eseguito la primiera inumazione e che ne avevano posteriormente ristorato la cassa, ponendovi segni certi della medesima, ne feci estrarre diligentemente lo scheletro, che fu trovato tutto intero ed intatto, ad onta che i rosarii e le medaglie postegli nella cassa, si trovassero tutte corrose ed a pezzi; fattomelo porgere pezzo per pezzo, lo ricollocai colle mie proprie mani in una cassa nuova appositamente preparata, assestando secondo le regole d'osteologia tutti i pezzi al rispettivo luogo ed ordine, in modo che lo scheletro ritrovossi di nuovo tutto compito nella nuova cassa. Da un lato del teschio misi in mucchio tutti i corrosi pezzi di rosarii e di medaglie e dall'altro lato misi una moneta di rame da centesimi dieci coniata in quest'anno. Invitati quindi gli astanti a riconoscere il tutto, feci chiudere la cassa ed assicurarla con viti di ferro. Fattala quindi alzare diligentemente, la feci collocare nel tombino già preparato entro il muro posteriore della chiesa dei SS. Fabiano e Sebastiano adiacente a detto cimitero, in modo che si trovi sotto l'altare di detta Chiesa. Feci quindi chiudere in muratura il muro suddetto, la cui apertura era stata appositamente costrutta ad arco. Passando poscia nella Chiesa suddetta feci fare pure in muratura la volta al suddetto tombino, in modo che trovossi chiuso ed assicurato in ogni parte e sul quale si lavora attualmente a costrurre l'altare ed a ristorar la Chiesa in modo che corrisponda decentemente al caso.
In fede del che mi sottoscrivo, unitamente alle precitate persone presenti all'atto,
Rissone Giovanni, Capomastro costruttore dell'altare.
Peila Evasio, Sacrista, costruttore della cassa.
Serra Giuseppe, Assessore supplente Comunale, testimonio.
Segno di + croce di Robino Luigi, proprietario, testimonio illetterato.
La lapide coll'iscrizione che fu collocata su questa tomba fu recata da Genova come scioglimento di voto da una persona riconoscente per grazia ricevuta.
IL, 16 novembre il Ministro Ricasoli toglieva l'eccezione da lui fatta nelle circolari del 22 ottobre, colla quale erano stati esclusi dal beneficio dell'indulto i Prelati rifugiatisi in Roma o altrove fuori di Stato; e tutti i Vescovi, senza fare dichiarazioni nè domandare permessi; rientravano tranquillamente nelle loro diocesi. Solo rimaneva in Torino il Cardinale Filippo de Angelis, Arcivescovo di Fermo. Relegato dal 1861 nella Casa de' Lazzaristi non aveva mai voluto uscirne, neppure per visitare la città: sentiva di essere prigioniero. Personaggio di grande scienza, virtù e pietà, era quegli che nell'ultimo Conclave aveva ricevuto maggior numero di voti, dopo Pio IX. I settari lo temevano perchè d'animo costante e forte contro tutto ciò che sapeva di dannoso al popolo cristiano o di men retto ne' suoi [523] doveri. Il suo esilio era stato così lungo per essersi rifiutato di troncare ogni attinenza col Teol. Margotti.
Durante i sei anni Don Bosco a quando a quando era andato a visitarlo e aveva stretta con lui intima relazione; e il Cardinale si interessava vivamente delle cose dell'Oratorio a segno che, con chiunque gliene parlasse, si mostrava premuroso di sapere tutto ciò che riguardava il suo buon andamento. Il Servo di Dio lo aveva lungamente intrattenuto sulle grazie che Maria SS. concedeva ai suoi giovanetti, e come talvolta loro svelasse il futuro. E l'Eminentissimo lo ascoltava con infantile semplicità e più volte lo pregò a dirgli qualche cosa sopra il suo avvenire.
Un giorno, prima che fossero pubblicate le accennate Circolari Ministeriali, Don Bosco era andato secondo il solito a visitarlo. L'odio contro il clero, invece di placarsi dopo tante sevizie, pareva si accentuasse con rabbia speciale in un certo partito del Parlamento, e qualche deputato voleva proporre una legge con cui s'obbligassero i Preti a deporre la veste talare e ad andar vestiti come i laici. Tutto accennava a nuove persecuzioni, quindi appariva sempre più lontana ogni speranza di liberazione pel Cardinale.
- Ebbene, Don Bosco, gli disse l'Eminentissimo appena lo vide; sapete qualche cosa del mio avvenire?
- Prepari i bauli, Eminenza, perchè presto potrà ritornare a Fermo.
- Ritornare a Fermo? Ora? Con questa guerra che si muove al Clero?
- Eppure è così, la Madonna l'ha detto ad un nostro giovane.
- Ebbene, quando sarò libero, voglio recarmi subito dove mi chiama il dovere, ma prima passerò all'Oratorio per restituirle le visite e testificare la mia gratitudine alla Madonna.
- Ed io l'assicuro che Le faremo una bella festa. [524]
- E mi farà conoscere il giovane profeta?
- Senza dubbio! Lo sorveglio perchè non si creda di essere un gran che; tuttavia glielo farò venire davanti.
Don Bosco di quella stessa sera raccontava questo dialogo nel refettorio che era sotto al portico, presenti fra gli altri D. Francesia e D. Berto. Tutti stupirono e credettero quasi impossibile l'avveramento della profezia, tanto più che certi giovani, che si dicevano dotati di grazie speciali, non erano tra quelli che spiccassero per ingegno e altre doti, nè che avessero grande stima presso i compagni. È vero però che l'umiltà sa nascondere le più belle virtù, e giova anche notare che Don Bosco, se scopriva alcun che di straordinario in un alunno, soleva cambiar modi con lui e trattarlo in modo asciutto per tenerlo umile. Quindi non si potè sapere di chi intendesse parlare, allorchè disse che si era raccomandato ad un giovane che pregasse e ne aveva avuto la comunicazione manifestata al venerando Esiliato.
Ma la predizione si avverò in modo inaspettato. Dopo qualche settimana giungeva al Cardinale l'avviso di ritornare alla sua sede. L'Eminentissimo si fermò ancora a Torino un sol giorno, il 23 novembre, che fu solenne e giocondo per i giovani dell'Oratorio. Celebrata la messa alla Consolata, egli scese a Valdocco e saliva allo studio, ove D. Francesia lesse una bella poesia all'Apostolo che per amor di Dio e per fedeltà al Vicario di Gesù Cristo aveva sofferto così lunga detenzione.
L'Em.mo Porporato parlò a tutti con grande spirito di bontà, dicendo che quel mattino aveva pregato anche per loro, avendo essi pregato per lui perchè potesse tornar presto alla sua diocesi: e li assicurò che andando a Roma non avrebbe mancato di far parola di loro al S. Padre, mentre dal canto suo li avrebbe sempre aiutati secondo le sue forze.
In fine, a due a due, i giovani si appressarono a baciargli l'anello. Don Bosco stava al suo fianco. Il Cardinale era desideroso [525] di conoscere l'alunno che gli aveva predetta la liberazione, ma questi non comparve.
Dall'Oratorio passò a visitare il Cottolengo, e il giorno dopo partì da Torino. In una lettera ai suoi diocesani, così si esprimeva: - “Ci piace ricordare quel provvidenziale Oratorio di giovani affidato alla speciale protezione di S. Francesco di Sales e della Gran Vergine Ausiliatrice, creato e sostenuto dallo zelo di un povero sacerdote”. - A Fermo venne ricevuto dal clero e dal popolo con grandi dimostrazioni di gioia e rispetto.
Partito il Cardinale, D. Bosco pensava di dare un segno di rispettosa cortesia ai Signori dell'Amministrazione delle Strade Ferrate, coi quali, come col Ministero dei Lavori Pubblici, era stato sempre in ottime relazioni.
Molti figli di ferrovieri erano ricoverati nell'Ospizio di Valdocco ed anche nell'ottobre di quell'anno egli aveva aderito ad accettarne altri, raccomandati dal Capo servizio del movimento e traffico e dal suddetto Ministero.
FERROVIE DELL'ALTA ITALIA. Torino 1° ottobre 1866.
Mi vien riferito dal Capo Conduttore di queste ferrovie, Zanino Maggiorino, che desso potrebbe con maggiore facilità ottenere che due suoi figli venissero ricoverati in codesto stabilimento, così saviamente retto dalla S. R. Rev.ma, se fosse munito di una lettera commendatizia di questo Ufficio.
Stante i buoni precedenti dell'agente suddetto che non diede mai occasione di lagnanze contro se stesso, e delle eccellenti qualità di cui è dotato, ed in considerazione massime della disgrazia toccatagli colla morte di sua moglie, che lasciò superstiti 7 figli nella più squallida miseria, io non esito a raccomandarlo alla S. V. Rev.ma, perchè voglia caritatevolmente annuire alla domanda che le verrà sporta al suddetto riguardo.
Fidente che la infinita bontà di V. S. Rev.ma sarà per fare il maggior bene possibile al soprannominato, è mio gratissimo ufficio di ringraziarmela, e frattanto colgo con vero piacere quest'occasione per esternarle i sensi della mia predistinta stima.
Anche Ernesto Canonica di Giulio, nato in Voghera nel 1856, entrava in quell'anno all'Oratorio, per raccomandazione della Direzione delle Ferrovie.
Ma questa, non ostante le grandi benemerenze di Don Bosco, era in procinto di togliergli il favore dei biglietti a tariffa ridotta pei viaggi degli alunni. Di tale determinazione fu avvisato in tutta confidenza il Servo di Dio da impiegati suoi amici. Tuttavia non desistette dalla sua geniale idea, che forse gli fu anche suggerita dal bisogno di scongiurare quella minaccia.
Adunque da Mirabello scriveva al Cavaliere Oreglia.
Lunedì sono passato per parlare al Cavaliere Du Houx, Direttore Generale delle ferrovie, ma quella sera anticipò la sua uscita di uffizio. Pertanto ho solo parlato col suo segretario, che ascoltò senza però voler conchiudere nulla, giudicando conveniente parlarne col padrone medesimo.
Faccia adunque il piacere; veda di fargli leggere l'unito invito e poi se ha nulla in contrario si diramerà o si modificherà secondo il parere che darà.
Noi ci prepariamo a celebrare allegramente S. Carlo dimani. I giovani sono assai bene disposti. Verrà a passare con noi la giornata il Vescovo di Casale.
Dio benedica Lei e le sue fatiche e mi creda nel Signore
D. Rua scriva al sig. Du Houx se crede si possa fare questo invito ai Signori dell'Amministrazione delle Vie Ferrate dell'Alta Italia e se potrebbero dal loro Ufficio fare la distribuzione degli inviti, non conoscendo noi i singoli indirizzi.
L'incarico che dava al Cavaliere era di prendere i debiti concerti per un'accademia in onore degli Amministratori della ferrovia. Don Bosco desiderava principalmente, che [527] questi signori vedessero il numero dei giovani ricoverati e intendessero l'importanza e il vantaggio della sua Opera. L'invito era il seguente:
I giovani dell'Oratorio di S. Francesco di Sales nel desiderio di porgere un tenue segno della loro gratitudine verso la benemerita Amministrazione delle Ferrovie dell'Alta Italia, hanno divisato di dare un trattenimento serale in detto stabilimento domenica prossima 2 dicembre, ore 61/2 di sera, in cui i musici celebrano la festa di S. Cecilia. Fanno pertanto rispettoso invito a V. S. perchè li voglia onorare di sua presenza con quelle persone che giudicherà bene di seco condurre,
Intanto a Mirabello accadde un fatto degno di nota. Vincenzo Provera, sempre tutto zelo e tutto fuoco pel caro Collegio, scendendo frettoloso un tratto di scala, che dalla stanza ove si stava preparando la tavola per gli invitati metteva in cucina, sdrucciolò e prese una storta ad un piede. Dovette per questo recarsi in famiglia, mettersi in letto e chiamare il medico, che gli prescrisse quanto erasi a fare. Verso sera, subito che fu libero dagli invitati, e come il Vescovo di Casale ebbe preso congedo, Don Bosco si recò a trovarlo. Il piede di Vincenzo non solo era livido ma nero per la furia di sangue, portatasi nella parte offesa. Quanto egli soffrisse non si può dire, perchè la sua virtù sapeva dissimulare il dolore. Don Bosco, dopo avergli data la benedizione, gli disse:
- Caro mio, fa' quanto il medico ti ha prescritto; abbi fede, e domani verrai a condurmi colla vettura alla stazione di Giarole, o di Borgo S. Martino.
E gli indicò una breve preghiera da recitare. Il domani mattina il buon Vincenzo lasciò il letto e con gioia condusse D. Bosco alla stazione, come se nulla gli fosse accaduto. [528] Confermò più volte questo racconto la sorella Carolina Provera, religiosa tra le Fedeli Compagne.
Ritornato a Torino Don Bosco ebbe subito dal Cavaliere l'assicurazione che i suoi ordini mandati da Mirabello erano stati eseguiti; ma nello stesso tempo gli fu consegnata una lettera dell'Amministrazione delle ferrovie, colla quale gli si facevano severe rimostranze per abusi commessi da alcuni, che non appartenendo all'Oratorio, pure avevano viaggiato con biglietti di riduzione rilasciati all'istituto.
Prima di rispondere alla lettera che V. S. Ill.ma compiacevasi di scrivere intorno alcuni abusi de' biglietti di favore che la Benemerita Amministrazione delle ferrovie dell'A.. I. concede a questo Stabilimento, ho voluto prendere esatte informazioni su questo riguardo. Imperciocchè fin da principio ho sempre dato ordini rigorosi sull'uso della concessione, studiandoci di prevenire qualsiasi abuso.
Non mi è potuto risultare altro se non, in casi particolari, invece di un assistente di questa casa si poneva il nome dell'individuo giovanetto con una persona che lo accompagnava. Questo uffizio talvolta fu compiuto da qualche parente o protettore del ricoverato che doveva andare alla patria oppure ritornare dalla medesima. Di ciò furono più volte interpellati i capi d'uffizio delle stazioni e non opposero difficoltà, adducendo che quei giovanetti non potendo ancora per età o sanità viaggiare da soli, era indispensabile che qualcuno li accompagnasse.
Avvenne inoltre che qualche volta spedimmo qualche biglietto in bianco per giovani di questa casa che trovandosi in patria dovevano recarsi in questo Oratorio. Li spedimmo in bianco perchè non sapevamo nè il giorno della partenza, nè il nome della persona che dovevasi mandare ad accompagnarlo. Che se questo fosse sconveniente, per l'avvenire prenderemo le opportune misure, affinchè non ne avvengano abusi.
Tuttavia, potendo essere avvenuti altri abusi per parte di persona sconosciuta, raddoppieremo la vigilanza per impedirli, raccomandandomi di due cose:
1° Di non far gravitare sopra questo Stabilimento qualunque mancanza di questo genere, essendo cosa estranea alla medesima e contraria alla volontà e comando dei Direttori.
2° Verificandosi qualche caso, punire con tutto il rigore il colpevole [529] secondo i regolamenti della Società per mettere efficace rimedio all'abuso che fosse per avventura succeduto.
Mi voglia credere con pienezza di stima e gratitudine
Il giorno 2 dicembre si tenne nell'Oratorio l'annunziato trattenimento, ma non comparve nessuno degli invitati; evidentemente le lettere d'invito erano state trattenute nell'Ufficio dell'Amministrazione. Ciò faceva temere che venissero tolti all'Oratorio i biglietti di favore. Sarebbe stato un gran danno per i giovani, perchè pagavasi appena il quarto del prezzo di tariffa.
Ma era possibile a D. Bosco il prevenire o l'impedire tutti gli abusi, quando quelle tessere erano bensì consegnate direttamente o mandate in busta chiusa a centinaia di giovanetti, ma poi passavano per tante mani di persone sovente inesperti, sbadate e talvolta di poca coscienza? La sua vigilanza poteva estendersi in tante regioni lontane dall'Oratorio? Certe indelicatezze non erano prevedibili e anche prevedute da coloro che concedevano il favore? Senza dubbio noi non diamo carico a nessuno di tale severità, poichè è troppo giusto che le Amministrazioni debbano tutelare gli interessi loro affidati, ma non si pensi che Don Bosco non ponesse la massima diligenza nel mantenere gli obblighi che si assumeva.
Infatti nel maggio di quest'anno, con regio decreto venivano posti in circolazione nuovi biglietti di Banca, e la Regia Tesoreria, avendo un lavoro enorme, inviava a D. Bosco un bel numero di quaderni di biglietti da 5 lire perchè facesse marcare sovra ciascuno di essi il numero progressivo; tanta era la fiducia che si riponeva nell'onestà dei giovani dell'Oratorio. Don Bosco ne affidava a Giuseppe Buzzetti l'incarico, e scelse i giovani che lo aiutassero nel lavoro. Quando si restituirono quei quaderni, non fu trovato mancare un biglietto!
RESTITUITI alle loro Sedi i Prelati espulsi, sarebbe stato intendimento del Governo di lasciare nella massima parte senza Vescovi le diocesi vacanti, per potere facilmente sopprimere quelle che non reputasse necessario conservare. Ma l'urgente consiglio di Napoleone vinse le ritrosie. Egli voleva che per mezzo dei trattati per la nomina dei Vescovi si trovasse modo di venire a rapporti commerciali collo stato pontificio; e si cercasse trarre la Santa Sede a vere concessioni politiche verso il regno d'Italia, in modo di riconoscerlo almeno indirettamente. Perciò il Comm. Saverio Vegezzi fu chiamato a Firenze e sollecitato ad accettare una nuova missione a Roma: ne fu pregato dallo [531] stesso Vittorio Emanuele, ma egli oppose al Re e ai Ministri un deciso rifiuto, allegando motivi di sanità. Allora si commise questo affare al Comm. Michelangelo Tonello, professore di Diritto Canonico e Romano nell'Università Torinese, della quale era stato due volte Rettore. Nato presso Pinerolo sul finire del secolo XVIII ed ottenuta la laurea in leggi, era divenuto in giovane età dottore del Collegio giuridico, e dal 1853 per quattro anni faceva parte del Consiglio di Stato. Per qualche tempo deputato, fu poi eletto senatore. Dalla cattedra, e nei trattati dati a stampa intorno al Diritto Canonico, egli aveva propugnato, ma con grande moderazione di forme, i principii regalisti, tradizionalmente insegnati in Piemonte. Era di animo buono.
Il Tonello il 6 dicembre accettò l'incarico di andare a Roma e di riprendere i trattati. Le istruzioni, ricevute da Ricasoli, Presidente del Consiglio dei Ministri, e da Borgatti, Ministro di Grazia e Giustizia, dicevano: Non dover fare proposte, ma accettare o rifiutare quelle che venissero fatte: per le mense vescovili doversi stare alle leggi promulgate: lo stesso in quanto all'esecuzione di queste, riguardo ai beni degli Ordini religiosi e degli istituti ecclesiastici; il Governo volere il diritto di presentare alla Santa Sede i candidati all'episcopato per tutte le diocesi del regno.
La grand'anima di Pio IX studiava il modo di provvedere di Vescovi le sedi vacanti in Italia, ma non aveva mostrato desiderio di queste trattative, poichè potevano nascondere un tranello e finire come quelle iniziate per mezzo dei Comm. Vegezzi. Non continuavasi infatti ad offendere atrocemente la chiesa, ne' suoi Vescovi, nei suoi religiosi, nei suoi beni temporali, nei suoi diritti e nelle sue leggi? D'altra parte non era stato ufficialmente avvertito e non si voleva che lo fosse.
Bisognava perciò che il Governo trovasse un intermediario ufficioso tra Sua Santità e l'incaricato dal Ministero, e [532] Don Bosco fu giudicato acconcio a tale ufficio. Non si era perduta la memoria delle indicazioni e degli avvisi da lui dati al Ministro Lanza nell'anno antecedente, e si conosceva quanto fosse stimato in Roma e amato dal Pontefice.
Sapevasi che Don Bosco era sempre pel Papa e tutto pel Papa, ed anche si era persuasi non essere egli uomo di opposizione sistematica o di partito, ma un uomo che se condannava i principi che informavano certe leggi, di altre ne lodava lo scopo se questo era lodevole, sebbene non ne omettesse all'uopo, sempre senza acrimonia, le debite riserve.
In vero con le persone, chiunque fossero, amiche o avversarie, D. Bosco dimostravasi a parole e a fatti rispettoso, servizievole, deferente nei giusti limiti, con tattica efficace ed illuminata. Anche allorquando doveva infliggere un biasimo a chi lo meritava, sapeva temperarlo con qualche lode, praticando la regola dei santi: Entrare colla loro per uscire colla nostra. Entrare colla loro, cioè riconoscendo i pregi che li adornano, perchè ciò apre il varco per uscire colla nostra, rivendicando i diritti della Fede e della giustizia. I suoi modi leali e affabili ispiravano adunque fiducia.
Di queste intenzioni egli dovette essere avvisato confidenzialmente, ed a sua volta non potè mancare d'informarne il Santo Padre. Quindi, senza fretta, aspettando un invito di Ricasoli, si decise ad andare a Firenze, dove aveva da sbrigare anche molti affari.
Nell'atto della partenza si trovò in tanta povertà di abiti che (eravamo noi presenti) uno dei Salesiani dovette prestargli il cappello, un altro il corpetto ed un terzo la sottana. Partì solo.
Il 7 dicembre Padre Giulio Metti scriveva all'Oratorio che Don Bosco non era ancor giunto a Firenze, e il 12 il Padre Giustino Campolmi gl'inviava da Firenze l'ultimo residuo di lire 4580,68, raccolte in quella città per contribuire all'edificazione della Chiesa di Maria SS. Ausiliatrice. Sulla nota [533] degli oblatori figuravano i nomi più illustri dell'aristocrazia fiorentina.
Nel frattempo Don Bosco aveva protratto la sua dimora in Genova, come consta da una lettera del dottore in medicina Luigi Lemoyne, il quale ci scrisse che Don Bosco per ben due volte si recò in sua casa e vi si fermò qualche tempo, per fortuna e consolazione della famiglia.
Ma il 12 dicembre D. Bosco era a Firenze e recavasi a dare la sua benedizione ad un figlio sordo della signora Luisa Casaglia Fedi, amica delle Marchese Uguccioni e Nerli, che abitava in Piazza Pitti, N. 15. Ciò ricavasi da una lettera della signora a Don Bosco.
Sono queste le notizie che abbiamo del suo viaggio da Torino e del suo arrivo a Firenze, ove fu ospitato nuovamente nell'Episcopio dall'Arcivescovo Mons. Gioachino Limberti, suo ammiratore. Questo Prelato amava intrattenersi col Servo di Dio sulle calamità che affligevano la Chiesa. Una sera gli domandò se gli Italiani entrerebbero in Roma.
- Si, ci andranno; - rispose risoluto Don Bosco.
L'Arcivescovo non poteva rassegnarsi a credere una tal cosa e cercava molte ragioni in contrario, ma Don Bosco ripetè la sua affermazione. Il Padre Metti era presente.
Intanto il Ministro Ricasoli avendo saputo del suo arrivo, mandò a invitare il Venerabile a recarsi presso di lui.
Di quel che trattarono i due personaggi e di quanto accadde in seguito ne ascoltammo noi stessi il racconto da Don Bosco medesimo, quando ritornato a Torino ne dava relazione confidenziale al Canonico Stanislao Gazzelli di Rossana, del Capitolo Metropolitano.
Don Bosco andò dunque al palazzo Pitti, ove il Ministro aspettavalo. Appena annunziato, Ricasoli gli mosse incontro premurosamente, ma il Venerabile, fermatosi in mezzo alla sala, prima di sedersi, dichiarò: [534]
- Eccellenza! Sappia che Don Bosco è prete all'altare, prete in confessionale, prete in mezzo ai suoi giovani, e come è prete in Torino, così è prete a Firenze, prete nella casa del povero, prete nel palazzo del Re e dei Ministri!
Ricasoli cortesemente gli rispose, che stesse tranquillo, poichè nessuno pensava di fargli proposte che fossero contrarie alle sue convinzioni. Ciò detto, ambidue sedettero e si entrò in argomento.
Don Bosco non ricusò, per fare del bene, di cooperare alla buona riuscita della Missione Tonello, in quel modo che a persona privata si conveniva, scrivendo o parlando a personaggi eminenti che avevano per lui deferenza. Ma prese anche a dimostrare come il Governo, in ossequio alla Convenzione Italo-Franca, avesse interesse a non opporsi in modo alcuno alle nomine che farebbe il Papa, perchè altrimenti era lo stesso che dichiarare la Convenzione un trattato illusorio, e l'opposizione un atto di ostilità.
Il Ministro ne convenne e mentre si mostrava premuroso di entrare nelle viste di Don Bosco, fu chiamato ove il Re stesso in persona presiedeva per questo affare il Consiglio dei Ministri. Don Bosco rimase solo in quella sala per lunga ora.
Finalmente Ricasoli tornò e, con quelle gentilezze di modi delle quali sa bene usare un diplomatico, fece intendere a Don Bosco come il Consiglio de' Ministri nulla avesse in contrario all'elezione dei Vescovi, ma che era però conveniente trattar prima colla S. Sede della circoscrizione delle Diocesi, incorporando a poco a poco e in forme da prestabilirsi alcune più piccole alle più grandi; come a dire abolendo i Vescovadi di poca importanza.
Don Bosco rispose che neppure indirettamente non avrebbe mai preso impegno di trattare con una simile condizione; perchè egli non poteva in nessun modo essere incaricato di fare proposte al Capo della Chiesa; e che non toccava [535] a lui dar consigli al Santo Padre; e li consigliava a desistere da tale deliberazione. Nell'interesse spirituale delle popolazioni esser egli pronto a presentarsi al Papa, ma non era cosa onorevole pel Governo intromettersi in questioni che farebbero vedere a tutto il mondo come non si tenessero in nessun conto ne lo Statuto, nè i trattati, nè le leggi, nè la giurisdizione dei Pontefici. Se i Ministri la intendessero diversamente, essere egli costretto a non accettare quel fiducioso ed onorevole incarico, e invece di andare a Roma sarebbe tornato e rimasto a Torino.
Ricasoli lo pregò di attendere per qualche istante; ritornò in Consiglio, e si deliberò di non pensare per allora all'abolizione di nessun Vescovato: ma di limitarsi ad aprire le pratiche per le diocesi vacanti. Infine il Ministro raccomandò a Don Bosco che andando a Roma si mettesse in relazione con Tonello, e lo appoggiasse per quanto poteva. Il Venerabile, udita la risposta, ne fu soddisfatto e si dispose ad occuparsene per eliminare qualche difficoltà che potesse insorgere.
Non era facile l'incarico che Don Bosco aveva accettato, ma si ebbe tosto una prova che una tale missione venivagli affidata da Dio, o se non altro tornava di suo pieno gradimento. Scrivo di un fatto meraviglioso accaduto in que' giorni a Firenze e del quale v'ha testimonianza giurata nel Processo Ordinario per la Causa dì Beatificazione del Venerabile.
La Marchesa Gerolama Uguccioni Gherardi portava uno sviscerato affetto ad un suo figlioccio, che fu preso d'improvviso da malore così grave da essere ridotto in fin di vita. Si corse subito a cercar Don Bosco per la città. Egli s'era recato a visitare il collegio de' Somaschi e, mentre passava da una sala all'altra circondato dai Superiori, ecco giungere la Marchesa in persona, in vesti semplici, scarmigliata, senza nulla in testa, piangendo e gridando che il suo figlioccio era morto [536] e che Don Bosco accorresse a farlo rivivere. Quei reverendi Padri stupirono nel vederla in quello stato e pensarono che fosse divenuta pazza; ma la buona signora continuava a pregare D. Bosco, perchè andasse con lei. Don Bosco acconsentì: e avvicinatosi al letto vide quel bimbo di ancor tenera età, immobile, pallidissimo, cogli occhi vitrei, col viso contratto, che non dava più segni di vita. A detta di tutti era spirato. Tosto, dietro invito del Venerabile, da quanti erano nella stanza s'innalzò una preghiera a Maria Ausiliatrice, e il Servo di Dio diede la benedizione a quel corpicciuolo. Non aveva ancor terminata la formola che il mortino die' come in un sbadiglio, incominciò a respirare, si scosse, riacquistò l'uso dei sensi, e si volse alla madre sorridendo; e in breve si riebbe.
Fu questa la cagione per cui la piissima Marchesa divenne così insigne benefattrice delle opere di Don Bosco da essere chiamata dai Salesiani la nostra buona mamma di Firenze; e, quando il Servo di Dio passava per questa città, lo voleva sempre ospite in casa sua, dandogli mille segni di stima e di rispetto. Per questo fatto ella e il Marchese suo marito conservarono fino alla morte una vivissima riconoscenza a Don Bosco, quale appare da centinaia di lettere scritte dalla Marchesa al Venerabile.
Don Gioachino Berto, che più volte accompagnò Don Bosco a Firenze, fa la seguente testimonianza: “Nel 1873 domandai al Servo di Dio la ragione per cui la sullodata Marchesa e sua famiglia usassero tanta deferenza verso la sua persona, prendessero tanto a cuore l'incremento delle Opere Salesiane, e si adoperassero costantemente a vantaggio dell'Oratorio, ed egli mi raccontò confidenzialmente il fatto del figlioccio della Marchesa. Essa stessa più volte dissemi: - Don Bosco io lo credo proprio un santo”.
La Marchesa non potè mai dimenticare il fatto del figlioccio da Don Bosco risuscitato, e lo narrava più volte [537] con asseveranza assoluta, anche a Don Faustino Confortola dopo il 1881, col quale fu in grande confidenza.
Nel 1887, quando Don Bosco fu per l'ultima volta a Firenze, mentre era a pranzo in Casa Uguccioni, la Marchesa prese di nuovo a ricordare minutamente ai commensali il fatto del suo figlioccio risuscitato. Don Bosco aveva abbassata la fronte e arrossendo taceva. D. Carlo Viglietti, presente, ci diede questa memoria.
Noi stessi, a meglio comprovare questo fatto prodigioso, ne interrogammo Don Bosco negli ultimi suoi anni, e ne avemmo da lui piena conferma con tutte le particolarità sopra descritte; però conchiudendo il suo racconto, dopo una breve pausa, con una espressione di profonda umiltà aggiunse: “Forse non era morto!” Non potevamo pretendere una conferma più esplicita.
In que' giorni accaddero altri fatti che tornarono a gloria di Maria Ausiliatrice e de' quali fu testimonio un collaboratore del periodico la Vera Buona Novella di Firenze.
“Il primo riguarda ad una signora di Milano che da cinque mesi si andava consumando da una polmonite congiunta ad una totale prostrazione dell'economia vitale.
Passando da queste parti il sacerdote Bosco venne da esso consigliata a fare ricorso a Maria Ausiliatrice, mercè una novena di preghiere ad onore di lei, con promessa di qualche oblazione per continuare i lavori della chiesa, che appunto sotto il titolo di Maria Aiuto dei Cristiani si va innalzando in Torino. Questa oblazione per altro era soltanto da farsi a grazia ottenuta.
Maraviglia a dirsi! In quel giorno stesso l'inferma potè ripigliare le sue ordinarie e gravi occupazioni, accomodarsi a qualsiasi genere di cibi, andare a passeggio, entrare e uscire da casa liberamente, come se non fosse mai stata ammalata. Quando poi si terminava la novena, ella trovavasi nello stato di florida sanità, quale non si ricordava mai aver in addietro goduta.
Un'altra signora da tre anni pativa un male di palpitazione, con molti incommodi che a questo male vanno congiunti. Ma la venuta di qualche febbre e di una specie di idropisía l'aveva resa immobile in letto. Il suo male era giunto a tal segno, che quando il [538] mentovato sacerdote le dava la benedizione, il marito di lei dovette alzarle la mano, affinchè potesse fare il segno della santa croce. Fu parimenti raccomandata una novena ad onore di Gesù Sacramentato e di Maria Ausiliatrice, con promessa di qualche oblazione per il sopra citato sacro edifizio, ma a grazia compiuta. Nel giorno stesso, in cui terminavasi la novena, la inferma era libera da ogni male, e potè ella medesima compilare la narrazione del suo male, in cui leggo quanto segue:
Maria Ausiliatrice mi ha fatto guarire da una malattia, per cui”reputavasi inutile ogni ritrovato dell'arte. Oggi, ultimo giorno della”novena, io sono libera da ogni male, e vado a mensa colla mia”famiglia, cosa che da tre anni non aveva più potuto fare. Finchè”vivrò, non cesserò di magnificare la potenza e la bontà dell'Augusta”Regina del Cielo, e mi adopererò per promuovere il culto di lei,”specialmente nella chiesa che si sta costruendo in Torino”.
Mentre Don Bosco nel nome di Maria benediceva e risanava questi ed altri infermi, il Comm. Tonello, al quale era stato aggiunto come collega l'Avv. Calegaris, arrivava a Roma il 10 dicembre. Protetto e raccomandato dal Cardinale Pietro de Silvestri, aveva preso alloggio in piazza di Spagna, e il giorno 15 era ricevuto in udienza da Pio IX. Il benigno Pontefice gli fece intendere paternamente che non poteva mutare principii, ma che accoglierebbe quei modi che rendessero possibile una tolleranza di fatti nelle reciproche relazioni: e l'incaricato usciva dall'udienza con un grande amore alla Santa Sede. Il 21 si presentava al Cardinale Antonelli.
Don Bosco intanto affrettavasi a sbrigare gli affari suoi particolari. Tutte le volte che andava in qualche città egli pensava a ciò che avrebbe potuto giovare ai suoi giovanetti; e procuravasi l'indirizzo di coloro coi quali voleva trattare e di ogni cosa facevasi una memoria o minuta per iscritto, che poi rileggeva e seguiva fedelmente. A questo modo nulla lasciava al caso, di nulla dimenticavasi ed è così che conduceva a termine i suoi progetti. Abbiamo ancora il promemoria autografo che tracciò per quest'andata a Firenze. La prima parte riguarda domande al Governo [539] di sussidii, favori e decorazioni; nella seconda vi sono appunti di visita a qualche istituto o convento, l'indirizzo di famiglie dalle quali accettò inviti, e il giorno fissato per queste visite. Noi ricopiamo le sue note fedelmente, rilevando la bontà del suo cuore per la visita fatta alla madre del defunto Ernesto Saccardi, che aveva condotto con sè a Torino nel primo viaggio fatto a Firenze.
Al ministero interni per ragazzi ricoverati Sott. March. del Carretto.
Al ministero dello finanze. Si parli col cav. Cuttica per le imposte di Mirabello.
Id. dei lavori pubblici, al sig. Chiala, al cav. Gautier, al comm. Bertina.
Id. grazia e giustizia per gli Oratori, Conte Cravosio, ecc.
Decorazioni al sig. Barucchi, al sig. D. Vincenzo Minella.
Colla Società del patrocinio dei discoli.
Visita alla marchesa Gerini e famiglia, ecc.
Giovedì o venerdì prossimo dalle 11 alle 12 Saccardi.
Mercoledì e Giovedì dalle 7 alle 9 sera Genta.
Martedì pranzo dal conto Bardi: 6 ore casa sua via Benci, N. 3.
Mercoledì messa alla Crocetta (Domenicani) alle 7 ½
Presso la signora Bonamici, via Ginori 15-1 Venerdì. Alle 4 pom.
Alle 6 casa Conte Gondi. S. Firenze casa propria.
Sabato alle 12½ pranzo dai Fate Bene Fratelli all'Ospedale Borgo Ognissanti.
Ridolfa Ficciati Ved. Nencini abita Borgo Pinti N. 21.
Emma Maria Brocchi, Borgo Pinti, N. 17
Avv. Landuni Vincenzo, Via Ricasoli N. 55 di faccia alle Belle Arti, casa propria.
Il Venerabile adunque, passando da un Ministero all'altro, si presentò al Ministero dell'Interno per sussidi ai giovani ricoverati ed a quello dei Lavori pubblici per questioni di ferrovie e di tariffe; al Ministero di Grazia e Giustizia e Culti per le spese degli Oratori festivi e a quello delle Finanze per l'esonero di certe tasse. In tutti gli uffizi governativi ebbe gentile accoglienza, con promesse che si sarebbe [540] procurato di appagare i suoi desiderii; mentre gli veniva suggerito di procurarsi que' documenti che fossero necessarii, per unirli alle domande che avrebbe fatte per iscritto. Così fece e qualche settimana dopo ricevette i chiesti sussidi, benchè non troppo rilevanti.
REGIO ECONOMATO GENERALE DEI BENEFIZII
L'Economo Generale sottoscritto annunzia con premura a V. S. che il Governo di S. M. si è degnato concederle su la Tesoreria di questo Economato Generale la somma di lire 300 per aiutarla a provvedere le cose attinenti al culto negli Oratorii da lei fondati .....
MINISTERO DEI LAVORI PUBBLICI.
COMMISSARIATO GENERALE PEL SINDACATO E SORVEGLIANZA DELLE STRADE FERRATE.
In risposta alla dimanda della S. V. in data 2 corrente, il sottoscritto le partecipa che con decreto ministeriale del 9 corrente fu accordata una straordinaria elargizione di L. 600 all'Oratorio di cui Ella è Direttore.
Il mandato di pagamento fu emesso in di Lei capo sul Capitolo 23 del 1867 col N. 3 e la data del 14 corrente.
Di modo che V. S. recandosi alla Tesoreria di codesta Provincia potrà esigerne l'ammontare.
Il sig. Segretario generale di questo Ministero ha, sopra mia proposta, preso in considerazione la domanda di V. S. M. R. concedendole una sovvenzione di L. 600 per agevolarle il modo di soddisfare l'imposta [541] sulla ricchezza mobile, di cui venne indebitamente colpita la casa di Mirabello.
Mi duole di non averle potuto ottenere maggior somma essendo molto scarso il fondo destinato a queste sovvenzioni, nè potendosi per le regole di contabilità che governano l'amministrazione dello Stato, disporre di somme incassate a titolo d'imposta.
In questi termini appunto fu scritto alla Prefettura di Torino perchè ne informasse la S. V. M. R. Intanto la ringrazio della buona memoria che mi conserva ed augurandomi più propizia occasione per fare cosa a Lei grata, ho il pregio di ripetermi con sentimenti di vera stima e di particolare considerazione
PREFETTURA DELLA PROVINCIA DI TORINO.
Con dispaccio del 21 corrente il Ministero delle finanze partecipa che con decreto dello stesso giorno ha concesso lo straordinario sussidio di L. 600 al Sac. Giovanni Bosco Direttore dell'Oratorio di S. Francesco di Sales in questa città.
Dalla copia del suddetto dispaccio, che alla presente si unisce, vedrà il prefato sig. Direttore i motivi per cui, malgrado il desiderio che avrebbe avuto il prelodato Ministero di accordare una maggior somma ha dovuto limitarsi alla suddetta di L. 600.
Copia d'un dispaccio del Ministro di Finanze: Segretariato generale, Divisione I, N. 2900; diretto al sig. Prefetto di Torino, in data del 21 gennaio 1867, relativamente a sussidio concesso all'Oratorio di S. Francesco di Sales.
“Volendo, per quanto il consentono le attuali condizioni del pubblico erario, venire in soccorso della Pia Istituzione sotto il titolo di Oratorio di S. Francesco di Sales in codesta città, e tenuto conto delle speciali circostanze poste in rilievo colla istanza accompagnata dalla Nota segnata in margine, questo Ministero con odierna risoluzione ha concesso al Sacerdote Sig. Giovanni Bosco, nella sua qualità di Direttore del suddetto Oratorio, un sussidio straordinario di L. 600.
Il sottoscritto avrebbe desiderato di aver modo di sovvenire più largamente una così benemerita Istituzione. Senonchè per le vigenti [542] regole di contabilità essendo vietato di distrarre alcuna somma dai fondi che figurano nel bilancio attivo come introiti dello Stato, ed essendo quindi necessario di prelevare il sussidio dal fondo unico stanziato nel Bilancio Passivo per le Spese casuali, quasi tutto oramai esaurito non si potè concedere una somma equivalente a quella pagata dall'Istituto a titolo d'imposta sulla Ricchezza Mobile per non aver fatto valere in tempo utile le ragioni di esenzione che gli poteano competere.
Nel partecipare quanto sopra al predetto Sacerdote, il sig. Prefetto è pregato di soggiungergli che tra breve si provvederà per la spedizione del Mandato di pagamento del mentovato sussidio sulla Tesoreria Provinciale di Torino.
Per copia conforme ad uso amministrativo.
A Firenze il Servo di Dio fu grandemente consolato al constatare come le Letture Cattoliche fossero stimate e diffuse. Il Padre Domenico Verda, dell'Ordine dei Predicatori, formava centro di distribuzione ed aveva cento settanta associati. Questo buon religioso temeva di essere espulso dal convento e costretto a deporre l'abito religioso. Don Bosco lo consolò dicendogli che forse anche questa volta l'inferno non l'avrebbe vinta, e lo incoraggiava a proseguire nella diffusione dei buoni libri. [544]
Di altre sante opere da lui promosse procurava di assicurare il buon esito. Alla Marchesa Isabella Gerini era affidato principalmente lo spaccio degli ultimi biglietti di Lotteria. La Marchesa Enrichetta Nerli, nata Michelagnoli, con altre pie dame che tenevano Don Bosco in concetto di santo, apriva una sottoscrizione per offrire a Maria SS. Ausiliatrice sei grossi e magnifici candelieri da collocarsi sull'altare maggiore. La Contessa Virginia de Cambray Digny andava formando un'associazione fra le madri cristiane per erigere una cappella nella nuova chiesa di Valdocco in onore di S. Anna. Le oblazioni da lei raccolte per questo fine non tardarono a giungere alla somma di settecento lire, sicchè la Contessa scriveva a Don Bosco il 12 aprile del 1867: “La pregherei di considerare la cosa come già iniziata e destinare a Sant'Anna il titolo di uno degli altari della sua Chiesa”.
Ella aveva anche scritto e distribuito un programma.
di Madri cristiane per erigere una cappella dedicata a S. Anna nella chiesa di Maria SS. Ausiliatrice, fabbricata in Torino presso l'Orfanotrofio di S. Francesco di Sales per cura del Direttore Sac. Don Giovanni Bosco, mediante offerte di pii benefattori.
L'associazione si farà per azioni di lire italiane cento da pagarsi a rate mensili a piacere di ogni associata; purchè l'intera somma venga pagata dentro il corrente anno 1867.
La somma pietà e le insigni virtù di quest'egregio Sacerdote, il modo sorprendente con cui Egli mantiene a forza di elemosine più di ottocento giovanetti nell'Orfanotrofio da lui fondato senz'altro assegnamento che la carità dei fedeli, la fabbrica della chiesa condotta ormai quasi a termine e per la quale sono già state spese oltre trecento mila lire, assicurano le Madri cristiane che quest'opera è molto accetta alla Divina Provvidenza, e che le preghiere che si faranno in quella cappella saranno sorgente di molte grazie e favori ad esse ed alle loro famiglie.
Le promotrici di quest'opera, desiderando che possa concorrervi il maggior numero possibile di madri, accetteranno tutte le offerte anche minime che saranno fatte, e che di mano in mano impiegheranno all'acquisto di azioni per formare la somma di lire sei mila necessaria a compiere la cappella e l'altare. [545]
La prima a comprare un azione fu la Marchesa Paolina Guicciardini, e poi di altre l'ottima Contessa promotrice ne mandava a Don Bosco il valsente nel mese di settembre.
Il 18 dicembre Don Bosco scriveva alla nobile Presidente delle Oblate a Tor de' Specchi:
Non tema niente, preghi e speri. La Comunità di cui parla si acquieti e speri molto nella bontà del Signore. Io raccomanderò di tutto cuore al Signore le persone che mi raccomanda.
Preghi anch'ella per me e per questi miei giovanetti. Spero di poterla presto riverire personalmente.
Vedremo poi le predizioni di Don Bosco per Tor de' Specchi avverarsi in modo splendido e duraturo.
Il mattino del 19 il Venerabile giungeva a Bologna ed entrava nel ristorante della stazione per prendere un po' di refezione. Essendo il mercoledì delle tempora domandò qualche cibo di vigilia, e, sentendo che non se ne aveva, con belle maniere ne fece rimostranze al padrone. Il suo avviso fu preso in buona parte, poichè, tornato D. Bosco un'altra volta a Bologna e in giorno di venerdì, fu riconosciuto dal padrone del ristorante che gli andò incontro e gli disse: “Venga, venga, signor Abate; ora del magro ne teniamo”. E Don Bosco vi si fermò a far pranzo. Di ciò rese testimonianza D. Giovanni Turchi.
Il giorno del suo primo arrivo a Bologna, D. Bosco andò presso il Curato di S. Martino e visitò i marchesi Bevilacqua e Malvezzi e più altri signori. In casa del Curato scriveva al Direttore del piccolo Seminario Vescovile di Mirabello e al Prefetto dell'Oratorio. [546]
Ti scrivo da Bologna, dove mi fermo alcune ore: stassera sarò a Guastalla, domani a sera a Torino.
Mandami, senza trovar pretesti, quanto fu pagato per la ricchezza mobile l'anno scorso e quest'anno, e, se le hai ancora, mandami le ricevute. Spero che ne saremo rimborsati. Di' ai fratelli Bartoloni che ho veduto la loro madre, che sta bene e desidera di vederli santi; il resto lo dirà poi io.
Buone feste a te, a tutti quelli che compongono la schiera dei santi, che vivono nel piccolo Seminario di Mirabello. Amen.
A D. Bonetti Giovanni, Direttore del piccolo Seminario Vescovile di Mirabello (Monferrato).
Sono a Bologna, stassera a Guastalla, domani a sera a Torino, si Dominus dederit.
Se hai bisogno di danaro, serviti della cedola di D. Minella. Se lo vedi, digli che il suo affare è riuscito.
Ogni benedizione celeste a te e a tutta la nostra famiglia ed abbimi nel Signore.
Don Bosco giunse desideratissimo a Guastalla, ove attendevalo il Vice-Prefetto di Torino Conte Radicati, per fare insieme onore a Mons. Rota. Erano due visite concertate, perchè il Clero sarebbe andato a chiedere udienza a Don Bosco e le autorità civili si sarebbero presentate ad ossequiare il Conte. Non era cessata la guerra contro quel santo Prelato per la sua fermezza veramente apostolica; e in quell'occasione si sperava che qualche parola di pace avrebbe calmati gli animi.
In Seminario si fece gran festa per l'arrivo del Venerabile e gli furono letti i seguenti distici. [547]
Asceterii S. Franc. Sal. ad Urb. Taurinam Moderatore Optimo et Coin. C. Radicati Urbi Regendae Altero Praefecto convenientibus Episcopum Guastall.
Rhetoricae Studentes ex Sem. Alumnis gaudii sensa dabant versibus adspectus eorum laeti alacres legebant.
ELEGIA. |
Fortunata dies! Nostris succede, Joannes, |
Sedibus: et grati gaudia cordis habe. |
O tu, cui pueros neglectos Itala tellus |
Mittit ab Alpinis montibus ad Siculos; |
Quique animos teneros cunctis virtutibus ornas, |
Et vere mater diceris atque pater; |
Exiguae turbae juvenum modo percipe sensa, |
Quae tibi demisso carmine significat. |
O mihi si faveat, dexterque inspiret Apollo! |
O mihi si liceat vincere Virgilium! |
Quae musae poterunt meritas tibi solvere laudes? |
Virtutes valeat quis celebrare tuas? |
Exul erat Pastor: dulcesque reliquerat aedes; |
Hei mihi quot lacrymis lumina fessa madent! |
Ast fletus cohibe, Petre: te manet hospita sedes, |
Quae tantis poenis dulce levamen erit., |
Hic te de pueris sepient pulchro ordine mille; |
Hic pietas, amor hic, denique Boscus adest. |
Quidque Taurini tibi fundent undique gentes |
Obsequia? Omnis te dives egensque colet: |
Quique Gubernator populi legumque recepit |
Fraena, vel ipse tuus splendidus hospes erit. |
O bene perfugii sua Pastor vincla vocavit |
Aurea! Bosche, tibi debitor ille fuit. |
Usque tibi faveant Superi, coeptisque secundent |
Magnis, freta Deo quae fuit ausa manus. |
Irrita nec voveo: Deus haud sua verba retractat; |
Hospes divini pignus amoris habet. |
Atque ubi quos terme debes, impleveris annos, |
Inter splendesces agmina Coelicolum. |
Donec amicitiae firmissima jura manebunt, |
Nostro, Bosche, tui corde vigebit amor. [548] |
Il 20 dicembre Don Bosco era a Torino per terminare co' suoi giovani la novena del santo Natale; e D. Cagliero riceveva una lettera di Mons. Rota, che diceva:
“27 dicembre 1866. - Io sono gratissimo a Don Bosco della visita fattami e bramerei che egli fosse stato contento come io ho gradito la cara sua sorpresa. Angelo e Giacomo hanno fatto quello che hanno potuto in mezzo alle nostre miserie e gli ospiti benevoli avranno detto come spero: Si desunt vires, tamen est laudanda voluntas. Ella rinnovi all'ottimo Don Bosco ed anche al sig. Conte Radicati, se mai lo vede, i miei più sinceri ringraziamenti... Nell'Oratorio poi dal primo all'ultimo, da Don Bosco al portinaio, i miei ossequi e saluti”.
Di quei giorni si era avverata una delle solite predizioni di Don Bosco. Egli aveva pubblicamente detto ai giovani nei primi giorni dell'anno scolastico che si preparassero a mettersi in pace con Dio, poichè uno dell'Oratorio sarebbe passato all'eternità prima di Natale. Questa volta fra gli alunni da poco tempo entrati nella Casa e non avvezzi a tali annunzi, si destò un gran panico e un certo numero di essi voleva ritornare alle proprie famiglie. Alcuni parenti avendo conosciuto dai figli questa funebre predizione, dopo essersi lagnati con Don Bosco, andarono alla Questura e fecero le più vive lagnanze ricevendo la promessa che l'autorità avrebbe preso la cosa in considerazione.
Infatti giunse all'Oratorio in tempo di ricreazione lo stesso Procuratore del Re, senza farsi conoscere. Non si presentò a Don Bosco, ma passeggiò in cortile interrogando varii giovani sulle regole della casa, sulle scuole, sul discorsino che tenevasi alla sera dopo le orazioni, e sulle cose che D. Bosco loro narrava. Così, senza che gli interrogati sospettassero, venne ad accertarsi sulla verità della deposizione.
Ed ecco dopo qualche giorno entrare in camera di Don Bosco un signore ben vestito e di modi graziosi. Era un Delegato [549] di polizia, incaricato di far rimostranze. Ai primi complimenti, detti con isquisita urbanità, frammischiava alcune frasi, che Don Bosco sulle prime non potè capire:
- Ella ha tanti giovani, sig. Don Bosco, ma bisogna guardare di non spaventarli. Poveri giovanetti! Quando son presi dalla paura, son anche disturbati nell'adempimento dei loro doveri... ed è cosa così facile spaventarli... E poi perdono quel carattere di gaiezza che deve avere una casa di educazione. Di più c'è pericolo di far loro del male; se lo spavento è grande, può dar causa a serie malattie a pazzia... ed anche condurre alla tomba....
- Scusi, signore, lo interruppe D. Bosco; si spieghi più chiaro: non capisco che voglia dire con questo preambolo.
- La S. V. è uomo da intendere le cose senza tante spiegazioni; - continuò quel signore, come se fosse imbarazzato a dire tutt'intera la sua proposizione; - ai giovani fa male fissare la niente sull'idea della morte… c'è pericolo…
- Pare anzi, riprese Don Bosco, che faccia loro del bene questo pensiero, ed è lo Spirito Santo che lo dice: Memorare novissima tua et in aeternum non peccabis.
- Sì; ciò va ottimamente, ma annunziare ai giovani che uno di essi ha da morire, fissare l'epoca.... e questa indicarla dopo breve tempo.... perdoni, sa.... ma mi sembra....
- Ora capisco. Lei ha udito raccontare aver io annunziato che un giovane sarebbe morto prima di Natale?
- Per lo appunto, e sono mandato a Lei dal Procuratore del Re, dall'Avvocato Fiscale, a raccomandarle di non usar questi mezzi troppo violenti e pericolosi, perchè altrimenti in certe circostanze l'Autorità sarebbe costretta ad intervenire, essendole stata sporta qualche lagnanza, alla quale però non si diede peso. Non sembra modo conveniente, per educare la mente ed il cuore dei giovani, il ricorrere al terrore degli spauracchi, ma consta non essere la prima volta che Don Bosco sia uscito in simili profezie. [550] Il Venerabile rispose:
- Mi scusi, signore. Mi dice che do sovente questi aunnunzii. Orbene se D. Bosco dà sovente questi avvisi, osservi se la previsione non si avvera, oppure si avvera. Se non si avvera, è indizio che D. Bosco conta favole e una comunità di circa 700 persone se ne dovrebbe accorgere e ridere alle sue spalle; o si avvera ed allora capisce che non è cosa da giudicarsi su due piedi, come se si trattasse d'una imprudenza.
- Ma a lei, rispose il delegato, non sembra imprudenza il pubblicare simili novelle che spargono terrore, turbano le coscienze, e possono cagionare anche altri gravi disturbi?
- Ella mi risponda: gli avvenimenti dànno ragione alle mie previsioni?
- Ebbene ammettiamo che gli avvenimenti diano ragione a queste previsioni; e con ciò?
- Con ciò? crede lei che importi, sì o no, salvarsi l'anima?
- Non nego questa importanza, ma....
- Supponga che io sia persuaso di dovere in coscienza avvertire chi non è forse preparato, supponga che io sappia chi sia quel tale: è carità o crudeltà, avvertire nel miglior modo che posso un mio figliuolo a prepararsi al giudizio di Dio? E se io tacessi e l'altro morisse non preparato, crede lei che non mi resterebbe un rimorso incancellabile?
- Ebbene, se lei è così persuasa, avverta ma senza tanta pubblicità.
- E come vuol fare ad avvertire diversamente? Vuole che io avverta l'individuo e gli dica: “Tu hai da morire!”
- Senta, D. Bosco! se la cosa è così, vorrebbe farmi un piacere?
- Avrebbe difficoltà a dirmi il nome di colui che la S. V. prevede che morrà tra breve? [551]
- Io non ho nessuna difficoltà, purchè lei mantenga il segreto: se lei parlasse, la sua imprudenza sarebbe molto più grave di quella della quale io sono accusato... ma scusi! da lei, persona côlta ed assennata, son certo che il mio segreto sarà gelosamente custodito e quindi le confiderò volentieri questo nome.
Il delegato tirò fuori il suo taccuino e prese la matita fissando D. Bosco in volto, che in quell'istante si era fatto pensoso.
- Boggero Giovanni! - pronunciò lentamente il Venerabile. Il delegato scrisse il nome e, fatto un inchino, partì.
Il Sac. Giovanni Boggero, di Cambiano, contava 26 anni. Di bellissima presenza, di molto ingegno, ed eziandio di grande bontà, era amato da tutta la casa. Aveva passato gli anni della sua fanciullezza ai fianchi di Don Bosco, dando le più belle speranze. Erasi ascritto alla Pia Società di San Francesco di Sales fin dal 23 gennaio 1861. Però a metà del 1866, svogliato della regola, allettato dai parenti, consigliato da persone poco sensate, erasi deciso d'uscire dall'Oratorio. Presentatosi a Don Bosco chiese licenza di ritornare a casa sua, adducendo per motivo il bisogno che le due sue sorelle avevano della propria assistenza; e quindi il dovere di provvedersi a questo fine di un impiego. Don Bosco ne rimase ferito in mezzo al cuore, cercò di persuaderlo a rimanere, perchè la sua vocazione era senza dubbio di perseverare nella Pia Società e alle sorelle avrebbe provvisto Iddio. Ma, vedendolo ostinato, finì con dirgli:
- Te ne vuoi andare? Va' pure! Ma tu credi di andare ad assistere le tue sorelle, che so non avere alcun bisogno della tua assistenza, ed io ti dico che non le potrai assistere!
D. Boggero ritornò adunque presso i suoi parenti e non tardava ad ottenere il posto di Vice Curato nella parrocchia di Villafranca Piemonte. Riputavasi al colmo della felicità, e lo manifestava in una lettera indirizzata al Cav. Oreglia. [552]
Villafranca Piemonte, 10 dicembre 1866.
Eccomi giunto: mi son fatto alquanto aspettare, ma lo feci per poterle dare più precise notizie, avendo già fatto a mio turno una settimana in cui fui io di guardia. La popolazione è rispettosa e buona e, pochissimi eccettuati, adempiono i loro doveri religiosi con assiduità e frequenza da far invidia a qualunque altro paese. Il lavoro poi è molto, ma non tale come lo dipingevano, perchè si riduce a un 5000 anime tutte radunate, eccetto tre cascine lontanissime. E poi ho incontrato quanto mai, sia presso il paese, come nel clero, Prevosto e compagno. Noi tre siamo così d'accordo, che direi formiamo un solo. Le prime parole che il Prevosto mi diresse quando giunsi furono: -Ecco due amici, due operai della stessa vigna; tutti e tre al servizio dello stesso padrone, e ognuno fa quel che può in nomine Domini. - Assistito da lui o dall'altro curato, col quale siamo perfettamente d'accordo, mi toccò già di fare un po' di tutto nel sacro ministero. Si esce talvolta insieme al passeggio, quindi ci dividiamo gli ammalati che tutti sempre sono visitati ogni giorno. Noi non facciamo mai visite private, ma solo la sera delle feste insieme col prevosto passiamo un'oretta in casa del Teol. Morelli, dove si trovano pur sempre due altre famiglie parenti di questo Teologo. Il prevosto affabile con tutti non può immaginarsi quanto sia amato, e qual rispetto gli portino ed a noi eziandio e a tutto il clero che è poi esemplare. Il prevosto fra le altre cose mi disse e raccomandò di dispensarmi di lui e de' suoi libri, ogni qualvolta e in tutto ciò che mi occorresse aver bisogno. In quanto al corpo vi è nulla da desiderare. Il pranzo a mezzogiorno e la cena alle 8. Colazione per chi la vuole e il caffè anche dopo pranzo; e se occorresse anche lungo il giorno. Poi vi è una buona tavola, buon letto e buona camera col fuoco a nostra disposizione; e per tutto ciò che ci occorre vi è il domestico ai nostri cenni. Questo lo dico solo per farle conoscere come si sta, senza perdermi in queste cose, poichè fui sempre assuefatto ad una vita molto meno comoda. Se la sanità mi accompagna spero di poter fare anch'io qualche po' di bene; del resto io prego sempre il Signore che, se questa non è la mia vocazione, oppure se ho fatto contro la sua volontà, a lui non mancano i mezzi; mi faccia ritornare indietro. Lo prego ora de' miei rispetti a D. Bosco che mi rincrebbe assai non averlo potuto vedere prima di partire. La prego pure de' miei saluti ai principali amici.
Intanto gradisca i miei saluti e mi voglia sempre tenere presente nelle sue preghiere, che io le conservo sempre un posto nel Memento [553] del sacrificio della messa. E se qualche volta le rimarrà un po’ di tempo, mi farà sempre gran piacere se potrò avere qualche sua lettera.
Povero Don Boggero! Erano scorsi appena quattro giorni che aveva scritto questa lettera, ed era chiamato al tribunale di Dio! Il mattino del 14 dicembre scende a celebrare la Santa Messa; si sentiva benissimo in forze secondo il consueto ed era molto allegro. Rientrato in canonica siede a mensa aspettando il caffè, e, chi glielo portava, lo vede col capo sulla tavola come in atto di chi ha sonno. Era morto di apoplessia fulminante!
Il 21 dicembre, un avvocato, conosciuto il ritorno di Don Bosco da Firenze, dovendo trattare con lui di qualche affare, venne all'Oratorio. Egli aveva udito parlare della predizione, e, come ebbe dato un suo parere, interrogò Don Bosco:
- Ed ora mi dica un po', se non trova ardita la mia domanda, quel giovane di cui si parla come sta? Ormai siamo a Natale .....
- Morto! Per accertarsene non ha che da interrogare il primo della casa che incontri.
Quel signore, stette alquanto in silenzio e sopra pensiero.
Don Bosco allora, amando scherzare, con volto serio disse
- Desidera forse che io dica, a lei, le cose che le dovranno capitare in futuro?
L'avvocato si alzò: - No, no! per carità.... Io amo starmene tranquillo - e, preso il cappello, se ne uscì.
Nemmeno il Delegato di Questura aveva dimenticato la parola di Don Bosco, e, passate le feste natalizie, comparve [554] nel cortile dell'Oratorio come persona che venisse a visitare la casa. Avvicinossi ad un crocchio di giovani e:
- Bravi, siete allegri? disse loro.
- Certo, signore! In ricreazione si è sempre allegri.
- E ammalati in casa ce ne sono?
- È morto nessuno qui nella casa in questi giorni?
- Ma mi pare di aver udito dire che sia morto uno qui della casa..
- Non siete tutti giovanetti; qualcheduno anche di quelli che non sono studenti…
- No! - Lo sapremmo se fosse morto qualcheduno.
- Ah! è morto un sacerdote; ma è già più d'una settimana.
Il delegato cambiò fisonomia, prese il suo taccuino e confrontò il nome.
- E ha fatto una lunga malattia?
- Oh nossignore, è morto all'improvviso di apoplessia!
- A casa sua; era andato a casa, ed un mattino dopo messa, rientra, siede a tavola per far colazione e ivi resta nell'atto di aspettare che glie la portassero.
- E prima era forse malaticcio?
- Mai più! anzi godeva salute ottima e robusta.
Il delegato stette un poco sopra pensiero, quindi chiese:
Senz'altro vi salì, ed entrato da Don Bosco:
- Signore, esclamò, dica un po' quel che vuole ai suoi giovani [555] da questo momento le do tutte le licenze immaginabili e saprò che cosa rispondere a chi si lamentasse delle sue previsioni.
E gli baciò la mano commosso, ripetendo nell'uscire:
- È cosa singolare, è cosa singolare!
A questo tenne dietro un fatto ridicolo. Un buon prete venne a visitare Don Bosco per consigliarlo a non voler continuare nelle profezie delle morti future, poichè diceva non essere quello un mezzo adatto a fare il bene: - Capisco, conchiudeva, che bisogna poi essere ciechi per non vedere, per non intendere! Supporre che lei abbia rivelazioni è un po' grossa. Noi intendiamo il suo scopo, ma si persuada che ciò non può recare del bene!
- Dunque lei non crede alle mie previsioni.
- E sia pure! Ma lei come sta?
- Ma si sente bene davvero? - e così dicendo lo fissava con uno sguardo scrutatore leggermente burlesco.
- Ma perchè mi fa questa interrogazione?
- Oh nulla! solamente per sapere come si sente adesso.
- Mi sembra bene, per verità… ma non so comprendere il suo dubbio.
- Ecco: mi pareva che il suo volto non fosse colorito come il solito... ma se lei mi assicura d'essere in salute, vuol dire che sarà cosa da nulla. Basta! vedremo.
- Lei dunque sa qualche cosa? interrogò quel reverendo con affanno crescente.
- Che cosa vuole ch'io sappia? sono solite ragazzate! Si sa però che la morte viene quando meno si aspetta......
- Ma dica! mi spieghi l'arcano delle sue parole.
- Non c'è nessun arcano. Lei dunque si conservi e il Signore la benedica!
L'altro voleva insistere, ma Don Bosco lo congedò, asserendo [556] che aveva molto da fare. Quel poveretto, messo così in tumulto e non potendo cavar nulla colle replicate istanze, uscì pallido e così impacciato da non sapere da qual parte fosse la porta. Voleva fare lo spregiudicato; e il Servo di Dio gli fece toccar con mano come egli fosse più facile a credere che non gli altri.
E noi vedremo Don Bosco, benchè sempre in forma prudente, continuare questi avvisi in modo anche più meraviglioso. Solo negli ultimi anni cessò a poco a poco da simili predizioni. Tuttavia da certi indizii si potè argomentare come egli conoscesse il tempo delle morti de' suoi giovani, anche se non l'aveva annunziate; il che talvolta appariva dal modo col quale accoglieva la notizia del loro trapasso.
DAI numerosi fasci di lettere che si conservano nei nostri archivii si vede come D. Bosco fosse in corrispondenza colla primaria nobiltà del Veneto, della Lombardia, della Liguria, di Parma, di Modena, della Toscana, e di tutta l'Italia Centrale e anche di qualche regione del Napoletano. Si ricorreva a lui per consigli, preghiere, benedizioni, con una confidenza filiale; gli si domandavano medaglie, e lo si invitava a volersi recare nelle varie città.
Specialmente i Romani pensavano a lui in questi giorni. A Roma, dopochè era stata privata delle sue provincie, non bastavano i tributi dei pochi territorii rimastile per gli stipendii de' suoi impiegati, per gli interessi da soddisfare del debito pubblico, e pel mantenimento del suo piccolo esercito. L'obolo di S. Pietro e il prestito cattolico erano [558] stati fin qui il mezzo prodigioso per far fronte a tante obbligazioni; sebbene talvolta inadeguato, e sempre incerto e precario.
Intanto continuava il graduale ritiro delle truppe francesi (che sommavano a 14,000 soldati), incominciato nel dicembre del 1865; gli ultimi battaglioni avevano lasciato Roma il 10 dicembre 1866. Napoleone però per convenzione fatta col Cardinale Antonelli, aveva formato in Antibo un presidio di 1200 uomini cattolici francesi e stranieri, arruolati per quattro anni a tutte spese del Papa per provvedere alla deficienza delle sue milizie. Questa legione era entrata in Roma il 22 settembre colla sola missione, stampò il Moniteur de l'Armée - di difendere la persona del Papa e di mantenere l'ordine nella città di Roma contro i perturbatori. - E il Governo Francese fin dal principio dell'anno aveva categoricamente dichiarato che quella milizia non aveva alcuna attinenza con esso lui e sarebbe in tutto ed in ogni circostanza pareggiata alle altre truppe papali. Il Governo Italiano scaglionava intanto le sue truppe sulla frontiera pontificia, concentrandole a Perugia, Orvieto, Rieti e Temi, mentre il Ministero mandava da Firenze danari e consigli al Comitato Nazionale di Roma che preparava la rivoluzione. Agenti stipendiati per vie clandestine e per segrete congiure preparavano aperte violenze. Un proclama di Mazzini in cento mila esemplari eccitava furiosamente i sudditi del Papa a ribellarsi. Casse di fucili, di bombe e pugnali, viaggiavano dall'Inghilterra verso la città papale per i settarii, e 1200 carabine erano state già introdotte. Questi indizii facevano temere un'imminente perturbazione gravissima.
Anche il Conte Conestabile della Staffa il 12 novembre 1866 scriveva al Cav. Oreglia: “Lo sviluppo degli avvenimenti che si presentano nella loro gravità, deve essere atteso con calma, corroborata colla fede, coadiuvata colla preghiera. Così inculca ai Cattolici il S. Padre e questi sono i sentimenti di Don Bosco espressi recentemente a persone rispettabili”. [559]
I signori Romani temevano assai l'invasione dei Garibaldini e molti consultarono Don Bosco se non fosse meglio per essi allontanarsi da Roma. Don Bosco scrisse alla Marchesa di Villarios: “Gli italiani non entreranno. È più facile che le pietre dei selciati di Roma sorgano per battersi l'una contro dell'altra, di quello che ora entri la rivoluzione in Roma. E ciò è tanto vero, che io stesso nei primi giorni dell'anno venturo 1867, mi recherò immancabilmente ai piedi del Santo Padre, e mi fermerò lungo tempo nell'eterna città”.
Scrisse anche che prima del centenario di S. Pietro nulla sarebbe accaduto.
La notizia di queste assicurazioni si diffuse ben presto per Roma e contribuì grandemente a mettere gli animi in calma. Però furono causa eziandio di un famoso equivoco, pel quale anche nel 1870 molti si confortavano con questo non entreranno! Ma Don Bosco, come vedremo, aveva parlato del 1867 e non degli anni di poi.
L'effetto delle parole del Venerabile appare da altre lettere romane. Scriveva di nuovo al Cav. Oreglia, il Conte Scipione Conestabile della Staffa, il 2 dicembre 1866: “Per le assicurazioni ricevute da Don Bosco si sta tranquilli e quietamente si dispone il prolungamento del soggiorno in Roma. Questa calma, questa quiete in oggi è completamente, grazie a Dio, compenetrata in noi; ed è risuscitata generalmente in tutti. Si attende con fiducia in questi giorni il trionfo della Chiesa; e un miracoloso avvenimento che glorificherà il Pontefice dell'Immacolata.... Siamo tutti contenti di poter ossequiare Don Bosco, stimarlo d'appresso e baciargli la mano, avere le sue parole, le sue esortazioni e l'associazione delle sue preghiere.... Ho ritirato il prezzo dei biglietti esitati della Lotteria”.
Il Conte Annibale Bentivoglio, il 3 dicembre 1866, dopo aver parlato di un altare e di una cappella da erigersi a sue spese per la Chiesa di Maria Ausiliatrice, continuava: “Ho [560] inteso ieri che Don Bosco pensa venire in Roma pel 12: sarebbe assai buona e confortante la sua presenza in un momento di grande ansietà per molti e molte; e per ciò che mi interessa, sarebbe per me una gran fortuna accelerata, quella di poter parlare con questo buono e santo Sacerdote e Padre, che non desidero al certo di annoiare, nè opprimere, ma non le nascondo che vorrei assai godere della sua compagnia, presenza, discorsi, opere e che so io… Lessi prima e quindi feci recapitare l'acclusa per la Duchessa di Sora, come anche spedii all'Ufficio della Civiltà Cattolica l'altra lettera.
Il fatto da Lei narrato circa la guarigione operata per preghiere di D. Bosco di quell'idropico, mi era già noto per parte della Marchesa Villarios: è un fatto assai importante per iscuotere, incoraggire, e per formarne un processo: mi dispiace che la persona gratificata non voglia essere nominata: ciò che impedisce, almeno credo, qualunque passo di pubblicità. Dio sa quel che fa, e son certo che qui in Roma opererà qualche portentoso tratto di sua bontà e potenza con l'intermezzo del suo fedelissimo servo Don Bosco. Tanto io che mia moglie e le nostre vicine siamo sempre in smania per il piacere di vederlo; noi poi per ringraziarlo con tutta effusione di animo per tanti benefizi ottenuti da Dio per suo mezzo e per le sue preghiere, e per quelle della sua Casa.
Resta sempre fisso che, qualora credesse approfittarsene, le spese dei viaggio di Don Bosco sono per mio conto, come le dissi in Roma; arriveremo fin dove potremo nelle attenzioni per uno che io riguardo come padre, il quale ci ha insegnato il modo di onorare e fare qualche piccola cosa per la SS. Vergine Ausiliatrice”.
E D. Aicardi il 28 dicembre: “Mi si assicura che Don Bosco sarà a Roma nella prima quindicina del prossimo gennaio. L'uomo provvidenziale dove lo condurrà ad alloggiare la Provvidenza? Sento che molte distinte persone e famiglie si contendono l'onore di poterlo avere nelle loro [561] case. Io e la famiglia ci terremo contentissimi di avere la sorte di avvicinarlo”.
Fra gli abitanti dell'alma città il Conte Giovanni Vimercati, ricco signore, dato alle opere di beneficenza e stimatissimo in Roma, avendo stretta amicizia col Cav. Federico Oreglia di Santo Stefano, teneva corrispondenza epistolare con lui e con Don Bosco. Più volte si era raccomandato al Servo di Dio perchè gli ottenesse la guarigione della SS. Vergine da una seria malattia nervosa: il 23 agosto rispondeva a Don Bosco: “La buona Cornelia Millingen mi comunicò una lettera a lei diretta dal Cav. Oreglia, assai misteriosa sul conto mio, ed io sto tranquillamente aspettando i risultamenti. Io so di essere nelle mani di Dio e di Maria Ausiliatrice, e mi basta. Ella però, mio rev. Don Bosco, mi dica se debbo fare qualche cosa. Ella mi fa ringraziamenti, ma io non li merito affatto; però lo assicuro che tornerò a fare quel meglio che potrò in soccorso di cotesta fabbrica, tosto che mi verrà di poterlo fare”. La parola misteriosa alludeva al dubbio, cioè se la Madonna avrebbe giudicato essere pel suo meglio la guarigione.
E continuava a scrivere a Don Bosco in data 17 ottobre: “Tutti dicono che Don Bosco vien presto a Roma! Ma perchè non consola anche me con sì bell'annunzio? Si ricordi che nel mio stato di salute ho bisogno di conforti… Gli assalti nervosi non fanno tregua… Mi dica se veramente viene presto. Oh io lo credo e lo spero”.
E il 15 novembre: “La signora Sofia Timoni sorella della contessa Malvasia di Bologna mi fece molta premura di far avere a lei l'inclusa carta che fedelmente le rimetto con preghiera di esaudirla.
Io fui sabato ora scorso da Sua Santità che mi trattenne a lungo colla solita sua bontà seduto al suo fianco. La sua salute è ottima, e tranquillo il suo spirito. Gli parlai anche molto di lei e dell'ultima sua lettera. Esso è meco desideroso [562] di vederlo a Roma. Del resto ha la stessa fiducia che Ella ha ed io ho fermissima.
La mia salute poi è sempre e forse anche più bersagliata da disturbi nervosi che si fanno assai frequenti; ne benedico però e ne ringrazio il Signore: questi mi sono un continuo argomento di tenermi alla sua presenza ed abbandonato nelle paterne sue braccia. Egli sia sempre benedetto. Mille cose di paradiso all'angelico Cav. Oreglia, che Iddio benedica con Lei e li faccia sempre più santi ......
Anche l'aureo nostro Podestà e Senatore Marchese Cavalletti la ricorda con affetto ed ossequio”.
E il 28 novembre: “Io ho una grande fiducia che Maria Ausiliatrice mi vorrà mandare col di Lei mezzo qualche suo rimedio anche per la povera mia salute, se sarà nell'adorabile volontà di Dio che io abbia ad esserne ristorato”.
Finalmente il 1° dicembre la signora Cornelia Von Millingen notificava al Cav. Oreglia: “Oggi sono stata dal Signor Conte Vimercati per dirgli quanto Ella mi scriveva nella sua del 26. Il Conte ringrazia tanto Lei e Don Bosco delle orazioni, Messe, e comunioni; e prega quanto sa e può Don Bosco di voler venire ad abitare in casa sua quando verrà in Roma; gli offre due camere, una per lui, una per un compagno; poi la cappella e tutta la casa a sua disposizione; e perchè abbia comodo di uscir quando vuole, senza aver riguardo per il conte, vi sarà sempre alla porta una carrozza per Don Bosco; potrà uscire e ricevere chi vorrà, senza incomodo veruno del Conte. Dice che il caffè è sempre pronto, il pranzo sempre lo troverà senza lusso, ma di tutto cuore: insomma l'aspetta.... E piangeva dalla consolazione al solo pensarvi. Io la pregherei, dopo aver ottenuto il sì da Don Bosco, di telegrafare dicendo: Accetta l'invito. Così il povero Conte sarà tutto contento.
Quando poi sarà il momento che Don Bosco verrà, allora me ne prevenga e tutto sarà messo in ordine. [563]
Il buon Conte sta sempre in casa; è alzato, fa qualche passo per la camera, ma non può uscire; dice che lo raccomandino a Dio molto, molto. Egli desidera tanto di vedere Don Bosco e l'aspetta con ansietà. Sarò ancor io ben contenta di conoscere Don Bosco.
Domani a Dio piacendo farò le sue parti e quelle di Don Bosco coll'Em.mo Cardinale Patrizi; le ritorno i saluti del conte Conestabile, di Mons. Serlupi e Canonico Munetti. Questi vorrebbe che Don Bosco, venendo, portasse quattro copie della sua Storia d'Italia ......
N.B. - Dica a Don Bosco che abitando col Conte Vimercati avrà sempre il SS. Sacramento in casa, che dalla sua camera potrà andare al coretto quando vuole, senza dare il minimo incomodo al Conte. Aspettiamo il telegramma che dica che accetta”.
Verso il fine del mese di dicembre giunse al Conte Vimercati la desiderata notizia, che Don Bosco accettava con riconoscenza un'ospitalità offerta con tanto affetto.
Mentre il Servo di Dio si disponeva a partire per Roma, avveravasi la terza dolorosa sua previsione, quella della fame in Italia.
La miseria si era andata aumentando nella penisola e la questione della fame faceva spaventevoli progressi, causa le strettezze dell'erario, la sospensione dei lavori pubblici per parte del Governo e de' Municipii, i mancati raccolti, le devastazioni della guerra; 150.000 uomini congedati dall'esercito con 40,000 soldati restituiti dall'Austria, i quali non potevano trovar subito pane e lavoro; la distruzione dei conventi, alle porte dei quali il povero poteva una volta trovare la sua minestra.
A Venezia il 1° dicembre la plebe affamata, chiamando pane e lavoro, irruppe schiamazzando nel Palazzo Municipale, di cui a stento, chiudendo i cancelli, venne impedito il sacco. Il 3 dicembre nuovi tumulti: la folla è dispersa dalla [564] forza armata; i più riottosi gettati in carcere. Erano operai della Darsena che pel caro delle derrate non potendo campare colla misera paga, chiedevano che venisse loro accresciuta. In più luoghi si dovette far marciare la truppa per domare le sommosse della plebe, dove ammutinata per fame, dove ribellatasi all'autorità civile, dove pronta al saccheggio.
A Verona il municipio cercava calmare il popolo promettendo lavoro e soccorsi, mentre a frotte le donne e i fanciulli correvano a strappare le palafitte dei forti abbandonati dagli Austriaci per farne legna da ardere, con pericolo di scoppio delle mine non ancora rimosse; e il malandrinaggio infestava la città. A Padova il popolo rispondeva alle esortazioni delle autorità cantando per le vie canzoni che invocavano il ritorno dei Tedeschi.
A Napoli il caro dei viveri aveva raggiunto il doppio degli anni precedenti, e nel Napoletano la miseria uccideva o faceva uccidere. Tristissime le notizie delle altre provincie, da potersi affermare (stampavano i giornali) essere incerto come vivranno nei prossimi mesi alcuni milioni di Italiani. Da ogni parte del Friuli, come dalle Calabrie, si sollevava un grido d'angoscia. Nel Cadore andarono in tumulto i luoghi d'Auronzo, di Lozzo, di Vigo e di Candide, nella quale ultima terra ebbero a deplorarsi più ferimenti e risse sanguinose. Gravi disordini avvennero anche a Dogliani e in Santa Margherita di Rapallo.
In Sardegna a Nuoro scoppiò una sommossa. Era fallito nell'isola il raccolto del grano. Il popolo soleva cibarsi esclusivamente di pane e sui mercati il grano costava 32 lire all'ettolitro, sicchè riusciva impossibile all'operaio il provvedere alla giornaliera sussistenza della sua famiglia. La disperazione spinge al delitto. Bande in armi aggredivano intiere borgate, e le depredavano; e per depredare ferivano ed uccidevano. Molti morivano solo per inedia. Moltissimi si nutrivano di sole erbe, di mirto, e di corbezzoli. Perfino le [565] fave appena seminate furono in alcuni luoghi notte tempo raccolte e mangiate.
A Modena, dal 24 al 27 gennaio, per tenere a freno gli affamati contadini radunatisi per aver pane, si dovettero mandare attorno squadre di lancieri a cavallo e di guardie e appostare i soldati a difesa delle botteghe.
A Torino il 28 gennaio operai affamati e frammisti a facinorosi, si sparsero per la città, assalirono e misero a sacco e ruba per 4 ore un grandissimo numero di botteghe di panattieri e di salsamentari, sfondando porte e fracassando ogni cosa.
Nel Genovesato fallì il raccolto degli olii.
In Sicilia la desolazione era divenuta quasi universale per la stemperata arsura della stagione, che tutte disseccò le seminagioni senza speranza di raccolto, per cui si erano moltiplicate le bande de' malfattori e de' briganti, che infestavano non solo le campagne e le borgate, ma le città più popolose.
In mezzo a tante miserie sordidi speculatori provocavano il furore dei popolo, che nelle Romagne assai volte a viva forza s'oppose alla esportazione de' cereali, comprati in buona moneta e che si conducevano in Francia con speciali convogli sulle ferrovie.
Ogni settimana partivano dalla Lombardia e dall'Emilia più centinaia di capi di bestiame e di sacca di frumento e i popolani invasi dalla paura della carestia irruppero sulla via ferrata e saccheggiarono il convoglio, minacciando di peggio se non si desisteva da quel mercato.
L’ULTIMA sera del 1866 il Venerabile aveva dato per strenna ai suoi alunni di portare al collo continuamente la medaglia di Maria SS. e d'invocare più volte al giorno con qualche fervorosa giaculatoria questa Madre di misericordie. Pronti al lavoro, Don Bosco contava in Congregazione circa ottanta socii; diciannove professi perpetui, ventiquattro triennali; gli altri ascritti o aspiranti; i sacerdoti erano quattordici, compreso il Venerabile.
Il fascicolo delle Letture Cattoliche pei mesi di Gennaio e Febbraio, (anno XV), portava il titolo: Il Centenario di S. Pietro Apostolo, colla vita del medesimo Principe degli apostoli ed un triduo in preparazione della festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, pel Sacerdote Bosco Giovanni. Sul frontispizio si leggeva: “Ubi Petrus, ibi Ecclesia (S. Ambr.) - Sancte Petre, ora pro nobis.” [567]
L'autore disponeva in questo modo l'ordine della materia: - Circolare Pontificia sul centenario di S. Pietro in data 8 dicembre 1866. - Anno del martirio di S. Pietro Apostolo. - Vita di S. Pietro, in trenta capitoli. - Appendice sulla venuta di S. Pietro in Roma. - Quattro considerazioni: sulla chiesa di Gesù Cristo; sul Capo della Chiesa; sui Pastori della Chiesa; sulla Fede. - Nella prefazione spiegava la natura e lo scopo di questa pubblicazione:
Il supremo Gerarca della Chiesa, il glorioso regnante Pio IX ha fatto annunziare che nel 29 giugno dell'anno corrente 1867 sarà con solennità speciale celebrata la festa di S. Pietro, perchè appunto in quest'anno corre il centenario del glorioso suo martirio; vale a dire si compiono diciotto secoli da che questo primo Vicario di Gesù Cristo terminava la sua carriera mortale e sigillava col suo sangue la dottrina da lui predicata colla palma del martirio. Tutti i figli di S. Pietro e de' Pontefici suoi Successori, tutti i cristiani devono prendere parte a questa grande solennità coi mezzi compatibili colla propria condizione; e noi non sappiamo fare meglio che pubblicare una vita popolare del santo Apostolo: non troppo breve affinchè le gloriose sue azioni non restino sconosciute, non troppo lunga affinchè possa eziandio soddisfare a quelle persone cui per avventura mancasse tempo o comodità di fare altri studi a quest'uopo.
Metteremo la circolare pontificia con cui i Vescovi del mondo cattolico sono invitati di recarsi a Roma;
Daremo un cenno sull'anno del martirio di S. Pietro;
Quindi seguirà la vita del medesimo santo apostolo.
Cattolici, noi viviamo in giorni molto calamitosi per la Chiesa di Gesù Cristo. Stringiamoci tutti intorno al Vicario di Gesù Cristo che è il Romano Pontefice. Noi cominciando dal regnante Pio IX andiamo da uno ad un altro Pontefice fino a S. Pietro, fino a Gesù Cristo. Perciò chi è unito al Papa è unito con Gesù Cristo, e chi rompe questo legame fa naufragio nel mare burrascoso dell'errore e si perde miseramente. Faccia questo grande Apostolo che in quest'anno ritornino i bei giorni di pace e di trionfo e ci ottenga dal suo divino Maestro che popoli e sovrani si uniscano nel vincolo della carità e dell'amore per fare un solo ovile ed un solo pastore sopra la terra ed essere poi un giorno tutti raccolti insieme nel regno della gloria in Cielo. Così sia.
Mentre si spediva agli associati questo primo fascicolo era in corso di stampa quello di marzo: Vita di S. Giuseppe, [568] Sposo di Maria SS. e Padre putativo di Gesù Cristo, raccolta dai più accreditati autori, colla novena in Preparazione della festa del Santo.
Si legga attentamente la bella prefazione.
In un'epoca in cui pare spiegarsi così universale la divozione verso il glorioso padre putativo di Gesù, S. Giuseppe, crediamo non tornare discaro ai nostri lettori che venga oggi alla luce un fascicolo intorno alla vita di questo santo.
Nè le difficoltà che s'incontrano di trovare negli antichi scritti i fatti particolari della vita di questo santo deve minimamente diminuire verso di lui la nostra stima e venerazione: anzi nello stesso sacro silenzio di cui è circondata la sua vita noi troviamo qualche cosa di misterioso e di grande.
S. Giuseppe aveva ricevuto da Dio una missione tutta opposta a quella degli apostoli[22]. Questi avevano per incarico di far conoscere Gesù; Giuseppe doveva tenerlo celato; quelli dovevano essere fiaccole che lo mostrassero al mondo, questi un velo che lo coprisse. Quindi Giuseppe non era per sè, ma per Gesù Cristo.
Era adunque nell'economia della Divina Provvidenza che S. Giuseppe si mantenesse oscuro, mostrandosi solamente quanto era necessario per autenticare la legittimità del matrimonio con Maria e sgombrare ogni sospetto sopra quella di Gesù. Ma quantunque non possiamo penetrare nel santuario del Cuor di Giuseppe ed ammirare le maraviglie che Iddio ha in esso operato, tuttavia noi argomentiamo che per la gloria del suo Divin Pupillo, per la gloria della sua Sposa celeste, doveva Giuseppe riunire in se stesso un cumulo di grazie e di doni celesti.
Siccome la vera perfezione cristiana consiste nel comparire tanto grandi davanti a Dio quanto più piccoli avanti agli uomini, S. Giuseppe, che passò la sua vita nella più umile oscurità, si trova in grado di fornire il modello di quelle virtù che sono come il fiore della santità, la santità interiore, cosicchè si può dire benissimo di S. Giuseppe ciò che Davidde scriveva della sacra sposa: Omnis gloria eius filiae Regis ab intus (Ps. 44).
S. Giuseppe è riconosciuto universalmente ed invocato come protettore dei moribondi, e ciò per tre ragioni:
1° per l'impero amoroso che egli ha acquistato sopra il Cuor di Gesù, giudice dei vivi e dei morti e suo figliuolo putativo;
2° per la potenza straordinaria di cui Gesù Cristo lo ha insignito [569] di vincere i demoni che assalgono i moribondi, e ciò in ricompensa d'averlo il Santo salvato un tempo dalle insidie di Erode;
3° Pel sublime onore di cui godette Giuseppe d'essere stato assistito in punto di morte da Gesù e da Maria.
Qual nuovo importante motivo per infervorarci nella sua divozione!
Bramosi pertanto di porgere ai nostri lettori i principali tratti della vita di S. Giuseppe abbiamo cercato fra le opere già pubblicate qualcheduna che servisse allo scopo. Molte difatto da alcuni anni videro la luce, ma o per essere troppo voluminose o troppo aliene per la loro sublimità dallo stile popolare, oppure scarse di dati storici perchè scritte collo scopo di servir di meditazione più che d'istruzione, non tornano a nostro proposito. Noi qui adunque abbiamo raccolto dal Vangelo e da alcuni dei più accreditati autori le principali notizie intorno alla vita di questo santo, con qualche opportuno riflesso dei santi Padri.
La veracità del racconto, la semplicità dello stile, l'autenticità delle notizie renderanno, speriamo, gradita questa tenue fatica. Se la lettura di questo libretto servirà a procurare al casto sposo di Maria anche un solo divoto di più, noi ci terremo già abbondantemente appagati.
Di quest'opuscolo aveva dato ordini ai tipografi che gli fossero spedite le bozze di stampa a Roma, ove si recava spinto da gravissimi motivi.
Il primo era quello di ottenere la definitiva approvazione della Pia Società di S. Francesco di Sales, e, ove questa non fosse stato possibile, di ottenere almeno la facoltà di rilasciare le dimissorie ai suoi chierici per le sacre ordinazioni, e di poterli ammettere agli ordini titulo mensae communis.
Per questo recava a Roma le Regole tradotte in lingua latina, e da lui corrette e ricorrette per adattarle all'esigenza delle Animadversiones, senza recare nocumento alle sue previdenze per l'avvenire ed ai bisogni della Pia Società, e non discostarsi da un esemplare che gli era stato mostrato in sogno[23]. [570]
Una sua memoria ci dà a ragione dell'insistenza sua per avere la facoltà delle dimissorie.
“Fino al 1864 - egli scrive - le sacre ordinazioni si davano ai nostri socii da ciascun Vescovo, secondo le regole generali dei Sacri Canoni; e ciascun Vescovo, richiesto, rimetteva volentieri alle nostre case il prete ordinato, perciocchè lo regalavano a quella casa, che inviava ogni anno parecchi chierici nel proprio Seminario. Ma dopo il decreto del 1864 non fu più così. Nella nomina del Superiore e nelle norme pel suo successore i Vescovi ravvisavano la costituzione di un corpo morale. Laonde ognuno domandava se dovevasi dare l'ordinazione a nome della Congregazione o dell'Ordinario. Non a nome della Congregazione che non poteva dare le dimissorie; non dell'Ordinario, perchè, si diceva, l'ordinando pareva appartenere ad una famiglia religiosa. - In que' casi io faceva una dichiarazione, che spedita all'Ordinario de' miei chierici, per lo più li ammetteva agli ordini sacri.
Allora i Vescovi, come di comune accordo, mi consigliarono di umiliare alla Santa Sede la domanda per la definitiva approvazione. Anzi un 'alto e benemerito personaggio ne diede formale consiglio”.
Stando così le cose, Don Bosco credette necessario di adoperarsi per ottenere almeno la facoltà di rilasciar le lettere dimissoriali ai suoi chierici per le sacre ordinazioni; e ne faceva espressa domanda in una supplica preparata pel Sommo Pontefice.
Iam quatuor anni elapsi sunt, quum Costitutiones Societatis a S. Francisco Salesio dictae, tibi, Beatissime Pater, submittens, judicium et approbationem Sanctae Romanae Ecclesiae efflagitabam.
Uti Pater, magis voluntatem filii quam meritum prospiciens, die prima Julii anno 1864 amplissimis verbis hanc Societatem ad instar Sacrarum Congregationum, patema prorsus bonitate, laudare et commendare dignabaris; dilata tamen ad opportunius tempus Constitutionum adprobatione. [571] Attentis vero peculiaribus circumstantiis, die 23 eiusdem mensis et anni, speciali decreto ipse Orator, licet indignus, eiusdem Societatis Superior generalis ad vitam constituebatur, etiamsi eius successor duodecim tantum annis in suo munere permanere deberet.
Eidem decreto adnectebantur tredecim animadvertiones, quas attente lectas ad praxim traduxi, atque quoad eius fieri posse visum est in Constitutionibus accomodavi. Nunc denuo, Beatissime Pater, ad te revertor humiliter deprecans ut tempus opportunius pro nobis sit tempus praesens, quo tu regis Ecclesiam Dei. Hujus operis tu fuisti suasor et impulsor; ego vero quae potui feci; nunc perfice opus quod tu ipse coepisti. Hoc tu reapse facies, si hanc Societatem Apostolica adprobatione confirmabis, atque consolidabis illis verbis, modis, correctionibus, quos tu, Pater Beatissime, ad majorem Dei gloriam, atque ad animarum salutem melius in Domino judicaveris.
Veruntamen si res adversae vel temporum ratio ad integram Constitutionum adprobationem dilationem suaderent, humiliter effiagito ut saltem illi articuli adprobentur, qui ad iuvenes in sortem Domini vocatos spectant. Hoc est:
r° Ut Superior Generalis literas dimissoriales dare possit iis sociis qui vota in hac societate praescripta emiserint. Hoc adprime necessarium est ut societatis spiritus conservetur et ob seculares blanditias aliasque occasiones, ingressum et regressum, propter publicarum scholarum frequentationem, non amittatur.
2 ° Ut titulo mensae comunis ad minores et maiores ordines socii admitti possint.
Plurima jam a Te beneficia ego caeterique hujus Societatis sodales accepimus, pluriesque animum addidisti: nunc ergo ut nos compotes voti facies rogamus. Utique servi inutiles sumus, nullamque pro tanto munere compensationem dare valemus. At gratos animi sensus estendere satagemus quotidie ad Deum preces fundendo, ut Te, Beatissime Pater, pro Ecclesiae utilitate diutissime sospitem servet, atque omnibus adversantibus malis superatis ad supremae felicitatis gaudium inter coelites valeas pervenire.
Dum auteur ego coeterique sodales huiusce Societatis adprobationem supplices expectamus, humiliter Ap. Benedictionem flexis genibus imploramus.
Ego vero, omnium felicissimus, audeo me subscribere
Augustae Taurinorum, die 7 ann. 1867,
Amantissimus et dedit.mus Filius
Alla supplica univa il seguente foglio, nel quale esponeva con qualche aggiunta quanto a proposito della facoltà delle dimissorie aveva scritto in un suo memoriale da noi pubblicato nel settimo volume (a pag. 711).
Animadversiones pro facultate literarum dimissorialium obtinenda. Si dandi literas dimissoriales Superior Generalis Societatis S. Francisci Salesii facultatem non haberet, maximae exinde difficultates pro praxi exsurgerent, quae huiusmodi Societatis modum existendi turbarent, atque fere impossibilem redderent.
1 ° Regiminis et administrationis unitas conservari difficillime posset, cum Episcopus ius habeat socios a societate et ab officiis revocandi et ad alia ecclesiastica munera obeunda constituendi. Quo in casu contingeret ut administrator alicuius domus ab Episcopo alio evocetur, dum ipse per obedientiae votum Superiori suo obedire teneatur. Quae quidem vota sunt S. Sedi reservata. Nec Generali Superiori jus competeret suos subditos ad particulares domos regendas mittendi, praesertim si domus in diversa dioecesi essent constitutae.
Quid vero esset agendum si Ordinarius volens uti sua jurisdictione, ut pluries contigit, mitteret unum aut pluries socios aut eumdem Superiorem Generalem ad aliqua Sacri Ministerii munera obeunda, vel ad paroecias regendas deputaret?
2* Neque spiritus unitas servari potest; nam ut quisque perdifficile ministerium sacrum pro adolescentulis pauperibus et derelictis exerceat, debet apposite rebus, libris, monitis studere. Haec autem obtineri nequeunt nisi longa experientia edoceatur, quid et quomodo agendum, evitandum, mutandum; haec omnia difficillime disci poterunt, si incertum esset tempus quo Socius manere possit in Congregatione, antequam a proprio Episcopo alio evocetur.
3 ° Nec servare quidem potest doctrinae et disciplinae unitas. Nam quisque Socius dum studiis vacat, debet scholas, caeremonis, collationes in Seminario statutas frequentare. Episcopus vero id exigere debet, ut de vita et moribus illius informetur quem suo tempore ad sacros ordines admittere debet. At hora, tempus, locus Seminarii poterunt congruere cum muneribus et rebus quae in Societate quotidie exercentur?
Anno elapso decem ex nostris praeceptoribus Seminarium dioecesanum adire jussi sunt, ex quibus ne unus quidem transacto anno scholastico ad societatem rediit. Hoc vero vertente anno gravibus rationibus non potuerunt in Seminario aliqui regulariter Scholas frequentare. Ast nulla ratione ad praestitutum periculum admitti potuerunt licet iisdem tractationibus operam dederint. Ideoque hujus [573] modi socii, vel societatem derelinquere debent, vel sine Episcopi licentia permanere quin suo tempore ad ordines socios admittat.
Praeterea unusquique praeceptor et antecessor tractatus ad libitum conficit, atque mutare et substituere potest, imo novo praeceptore succedente alii et novi tractatus introducuntur, quae mutationes unitatem doctrinae et disciplinae difficillime et pene dicam ímpossibilem redderent. Idem dicatur de caeremoniis, collationibus, de sermonibus, quae in seminariis fiunt ad erudiendos clericos in saeculo viventes, non eos qui vitam religiosam ducunt.
4° Generatim quomodo conciliari potest obedientia proprio Episcopo cum obedientia Superiori debita, cui vi votorum S. Sede reservatorum devincitur?
5° Alia difficultas ratione locorum exurgit, nain nostris regionibus, Sede vacante, etiamsi annus vacationis transegerit, non potest Vicarius Capitularis tradere litteras dimissoriales, et hoc ob civiles constitutiones, quo fit ut quisque ordinandus recurrere debeat ad S. Sedem pro singulis ordinationibus quod magnum gignit incommodum et dispendium, sicut in praesentiarum quotidiana experientia docet.
6° Tandem apud nos lex usque dum viget ut Episcopi juvenes in sortem Domini vocatos a saeculi militia revocare possint, ratione numeri in propria Dioecesi habitantium. At non raro contigit ut numerus revocandorum j jam numerum a lege concessum excedat, dum alter Episcopus abundanter hujusmodi favorem praestare potest. Haec difficultas de medio tolleretur per litteras dimissoriales quibus Superior socios transmittere potest ad alios Episcopos penes quos peculiares domus possidentur, vel administrantur.
7° Specialis vero difficultas exurgit ex natura Salesianae Societatis quae ex omnibus terrae partibus socios excipit. Quo fit ut saepe saepius litterae dimissoriales requirendae essent per loca dissitissima, ' cuius Ordinarius vel ignoratur vel non facile reperiri possit.
8° Hoc privilegio generatim gaudent, Ordines Religiosi et Regularium Congregationis. Huiusmodi sunt Oblati B. M. Virginis iuxta Brevem: Fisi Dei Filius, datum a S. Memoria Leonis Papae XII. mense septembris 1828.
Hoc idem dicatur de Instituto Charitatis, adprobato a felice recordatione Gregorii XVI.
Congregatio etiam Praesbyterorum Missionis adprobata a S. P. Urbano VIII per Bullam: Salvatoris Nostri die duodecima januarii 1632. Tandem ipse S. P. Pius Papa IX (Quem diutissime Deus sospitem servet) per Brevem; Relieiosas Familias, die decima tertia Maji 1859, praeter facultatem j jam primitus concessam litteras dimissoriales generatim concedendi, addit ut sequitur:
« Clerici Congregationis Missionis, dummodo necessariis praediti sint requisitis suorumque Superiorum litteris dimissorialibus, extra [574] tempora a Canonibus instituta a quocumque catholico Episcopo gratiam et Communionem Apostolicae Sedis habente, suscipere libere et licite, servatis servandis, possunt et valent. »
Itaque supra memoratis rationibus perpensis quae ad tempora, loca, constitutionem peculiarem huiusce societatis specfant, humillime exposcitur ut pro litteris dimissoriis ipso communi privilegio fruatur, quo domus, Congregationes atque Ordines regulares, habentes domorum communionem, gaudent.
Il secondo motivo pel quale Don Bosco intraprendeva questo viaggio era il bisogno di por mano ai lavori interni della Chiesa di Maria Ausiliatrice. Tutte le persone che venivano a visitarla stupivano nel contemplarne la mole, non sapendo donde fosse scaturito il danaro necessario, essendosi già spese 600,000 lire. Era un miracolo evidente e continuo della Madonna, la quale concedeva grazie straordinarie a coloro che concorrevano con qualche somma all'erezione del sacro edifizio. Il Servo di Dio andava in Torino a visitare gli infermi gravi o incurabili, li invitava ad aiutarlo con quel tanto che la loro pietà, sapeva suggerire; li benediceva e guarivano. Ciò era successo anche nelle principali città dell'Italia settentrionale e prova delle meraviglie operate dalla Madonna erano le somme grandi e piccole che riceveva continuamente.
Ora aveva rivolto gli occhi ai Romani che erano ansiosi di riceverlo, parte per rivederlo, parte per conoscerlo, colla speranza che sarebbero pur essi venuti in suo aiuto per compiere il Santuario in costruzione.
Altro movente, urgentissimo, che lo conduceva a Roma era quello, già accennato, di cooperare alla buona riuscita della missione Tonello. La sua andata era voluta dalla Divina Provvidenza per ridare i pastori a non poche diocesi, che da molti anni ne erano prive.
Ma non volle allontanarsi da Torino, senza aver preso le misure necessarie, perchè la lotteria potesse venire estratta nel mese di aprile. Disposte le cose colla Commissione e col [575] vice-Prefetto Conte Radicati, ne lasciò ogni pensiero al Cav. Oreglia e nel mese di gennaio furono compiute tutte le modalità di legge.
La Commissione per la Lotteria a favore degli Oratori maschili a fianco segnati, approvata con Decreto di questa Prefettura del 19 maggio 1865, in seduta del 25 decorso mese riunitasi, deliberava di fissare un tempo per la estrazione dei premi vincitori: a questo scopo incaricava lo scrivente, Segretario della medesima, di porgere a V. S. Ill.ma rispettosa preghiera perchè si degnasse con apposito decreto di stabilire il giorno per la medesima che, nulla ostando, si desidererebbe non fosse anteriore al primo lunedì del prossimo aprile, giorno primo del mese stesso.
La Commissione tutta riconoscente e grata a quanto V. S. Ill.ma degnavasi già di fare a favore di quest'opera di pubblica beneficenza, rinnovandole i suoi vivissimi ringraziamenti, confida verrà benignamente accolta questa nuova sua preghiera.
FEDERIGO OREGLIA di S. STEFANO,
Segretario per la Commissione.
Divis. II. Sez. II. Opere Pie.
IL PREFETTO DELLA PROVINCIA Di TORINO.
Visto l'avanti esteso ricorso presentato per parte della Commissione per la Lotteria a favore dell'Oratorio di S. Francesco di Sales ed altri da esso dipendenti stabiliti in questa città, coi quale si chiede che venga per decreto determinato il giorno, in cui dovrà aver luogo l'estrazione;
Visti li precedenti Decreti di questo Ufficio delli 10 maggio 1865 e 14 aprile 1866;
1° L'estrazione per detta Lotteria è fissata al giorno di lunedì 1° aprile prossimo venturo, ed avrà luogo in una sala dei Palazzo di questa città alle ore 10 antimeridiane. [576]
2° In tutto il resto stanno ferme le disposizioni, di cui ne' citati precedenti due decreti in data 19 maggio 1865 e 14 aprile 1866.
3° Per cura della Commissione verrà il presente Decreto reso noto al pubblico.
PREFETTURA DELLA PROVINCIA DI TORINO
Oggetto: Torino, addì 15 genn. 1867.
Con decreto d'oggi il sottoscritto ha fissato il luogo e l'epoca della estrazione per la Lotteria concessa a favore dell'Oratorio di San Francesco di Sales in questa città, giusta la domanda stata presentata a questo uffizio a nome della Commissione.
Il sottoscritto nel far pervenire il detto Decreto al signor Segretario della Commissione medesima per l'ulteriore suo corso, lo prega ad un tempo di far desumere copia in carta libera:
i° Del primitivo ricorso del 15 maggio 1865, e piano della Lotteria.
2° Del posteriore ricorso dell'11 aprile 1866.
Quali copie, tosto ultimate, sottoscritte dal prefato sig. Segretario, verranno inoltrate a quest'ufficio per essere trasmesse al sig. Direttore Compartimentale del Lotto, in esecuzione del disposto dell'art. del Regolamento annesso al R. Decreto 29 giugno 1865, N. 2400.
Al sig. Segretario della Commissione promotrice della Lotteria a favore dell'Oratorio di S. Francesco di Sales.
L'Unità Cattolica del 23 gennaio 1867, dava pubblicità al decreto:
AVVISO PER ESTRAZIONE DI LOTTERIA.
Riceviamo la lettera seguente: “L'estrazione dei biglietti vincitori della lotteria a favore degli Oratori di S. Francesco di Sales di Valdocco, di S. Luigi a Porta Nuova ed del S. Angelo Custode in Vanchiglia, [577] con decreto di questa Prefettura in data 15 gennaio 1867, venne irrevocabilmente fissata pel 10 aprile prossimo, alle ore 10 antemeridiane nel Palazzo Municipale di questa città. Essendo necessario che questa notizia venga nel maggior modo e minor tempo possibile divulgata onde venga a cognizione di tutti i ritentori di biglietti della medesima, la Commissione dirigente prega V. S. Ill.ma e M. Rev. a volersi degnare a concederle un posto nell'ottimo suo giornale, come pure fa preghiera a tutti gli altri giornali italiani di voler accordare nelle loro colonne la ripetizione di questo avviso a beneficio di tutti gli interessati.
SUL principiar del gennaio il libro di Don Bosco sul Centenario del martirio di S. Pietro era già stato diffuso per tutta l'Italia, affine di preparare i fedeli alla grandiosa solennità del 29 giugno e promuovere nei medesimi ossequio vie maggiore verso il Capo visibile della [579] Chiesa. A Roma specialmente n'era stata inviata in deposito una gran quantità di copie.
Prima che partisse egli pure per l'eterna città, Don Bosco visitava benefattori ed Istituti.
Alle Adoratrici perpetue di Gesù Sacramentato, raccomandava che nei casi disperati ricorressero alla Madonna, Auxilium Christianorum! e le suore se ne ricordarono, poichè alcuni giorni dopo cadeva gravemente inferma la loro Superiora.
Gli amici si succedevano nell'Oratorio per augurargli il buon esito de' suoi affari, e il Conte Gio. Melzi recavagli da Milano 50 lire, da parte del Canonico Ambrogio Jacopone. Aprendo la lettera colla quale il Canonico raccomandavasi alle sue preghiere e a quelle degli alunni per ottenere qualche grazia, Don Bosco esclamava: - Ecco la Madonna che provvede pel viaggio! - E secondo che soleva, non trascurava neppure in quei giorni ogni occasione di mostrare alle famiglie che maggiormente lo beneficavano la sua riconoscenza. Scriveva alla figliuola del Marchese Fassati:
Le mando un piccolo fagiano testè regalato. Chi sa che non la aiuti ad acquistare forza onde passare tutto l'anno felice. Dio lo faccia. Ella gradisca.
Ogni bene venga sopra di lei e sopra tutta la famiglia e mi creda
P. S. - Umili ossequi ai sigg. Padre e Madre.
Il giorno 4 otteneva dalla Curia di Torino la licenza di uscire con un compagno dalla diocesi, e presentava al Rettore del Seminario i suoi ringraziamenti per la seguente lettera: [580]
SEMINARIO METROPOLITANO Di TORINO.
Avendo inteso che V. S. deve partire per Roma, credo opportuno di invitarla ad assestare il suo conto con questo Seminario. Come ben sa deve pagare lire 400 per due annate degli interessi scaduti con tutto dicembre 1866; per altra parte poi l'Amministrazione del Seminario nella sua seduta del 29 ottobre p. p. ha determinato di accordarle per i Chierici dell'Oratorio un sussidio di lire 250. Resta perciò necessario che V. S. mi faccia tenere le lire 150 e mi spedisca ricevuta delle 250. Per questo sussidio troverà preparato un apposito mandato nella segreteria di questo Seminario.
Se non avrò la fortuna di vederla prima della sua partenza, le auguro un felice viaggio, accompagnato da ogni sorta di benedizioni, e mi professo,
Il 6 gennaio nell'Oratorio vi fu una bella funzione, narrata dall'Unità Cattolica del giorno 8.
La mattina del giorno dell'Epifania nell'Oratorio di S. Francesco di Sales venivano battezzati tre giovanetti fratelli americani, di religione anglicana. Essi provengono da Nuova York; il loro genitore occupò un posto eminente in quella setta, motivo per cui ne tacciamo il nome. Moriva ostinato nell'errore lasciando in tetra miseria tre figliuoletti. D. Bosco, mosso a compassione del loro stato, li accolse nel suo Oratorio, e dopo averli convenientemente istruiti, ben volentieri acconsentì al loro desiderio di essere battezzati, sotto condizione, ed ammessi in seno della Chiesa Cattolica. Il rev.mo Mons. Vescovo Balma ne fece la funzione e diresse loro in quella circostanza un breve, ma eloquente discorso. Il conte Luigi Giriodi poi si degnava di far loro da padrino. Si diede loro il nome: al primo di Luigi, all'altro di Giuseppe e di Giovanni al terzo; ma per l'affetto particolare che già portavano a Maria SS. tutti e tre vollero anche avere il nome di Maria.
Ecco il motivo per cui li abbiamo chiamati figli di Maria.
Se tutti i giovanetti, che numerosi sono ricoverati in quell'Oratorio, si possono chiamare col nome di figli di Maria per la speciale divozione che essi hanno a questa loro amorosissima madre, ben più a [581] ragione si dovrà dare un tal nome a questi fortunati neofiti, che in modo tanto straordinario furono da Essa chiamati a far parte dei tesori della Chiesa Cattolica. Faccia Iddio che essi si conservino sempre degni figli di tanta Madre.
In questi giorni Don Bosco dava al giovanetto Agostino Parigi, di undici anni, una risposta che ha l'aria di profezia. La madre dell'alunno avealo incaricato di chiedere al Servo di Dio se il Can. Cottolengo, fondatore della Piccola Casa della Divina Provvidenza, sarebbe stato beatificato. Il figlio non intendeva allora quello che domandava, ma D. Bosco gli rispose con tutta semplicità: - Di' a tua madre che sì: il Cottolengo lo beatificheranno, ma nè lei nè io lo vedremo sugli altari: tu lo vedrai! - Quella buona mamma morì nel 1870.
Agostino, divenuto prete e vice-curato a Giaveno, nel 1892 cadde ammalato di risipola e dopo due settimane di letto era così sformato per la gonfiezza della faccia e della testa che il medico lo diede per spedito, lo visitò per ben sei volte nell'ultimo mattino, e in fretta gli fe' portare il Santo viatico alle 11 e 45. Ricevuto il viatico Agostino si addormentò e svegliatosi si trovò fuori di pericolo. - In tutto il tempo che durò il male, ci diceva egli stesso “io era tranquillo, pensando: - Il Cottolengo non è ancora beatificato ...”
Mentre Don Bosco, prima di allontanarsi dai suoi figliuoli, dava le ultime disposizioni pel buon andamento dell'Oratorio e premuniva tutti con santi consigli, da Firenze, ove il Servo di Dio era desiderato, il Cavaliere Oreglia riceveva questa lettera in data 2 gennaio.
“Non vorrei tormentare D. Bosco in questi brevi giorni della sua permanenza a Torino, ma vorrei augurare a tutti un buon anno, molto operoso per la gloria di Dio; glielo dica per me, come lo dico a V. S. cioè con tutto il cuore. Vorrei sapere ancora se D. Bosco passa di qui, e se mi sarà dato vederlo un momento, chè lo desidero molto; se viene al mattino, o la sera… D. Bosco mi annunzia l'arrivo di un pacco di libri, ma non ho anche veduto nulla. I miei nipotini stanno [582] meglio, grazie al Signore, e la bambina pure fuori di pericolo; glielo scrivo perchè hanno avuto tanta carità di pregare per me, e per quella pur mia famiglia. Iddio gli rimeriti la loro gran carità; dica a Don Bosco che con molto amor di Dio mi impetri anche un po' di scienza per sapere essere utile alla loro Casa, che riguardo come la mia. Vorrei sapere come i ragazzi della casa portano le calze, se di colore, se bianche, se lunghe, se corte. Desidererei l'indirizzo di D. Bosco a Roma. Preghi D. Bosco di non dimenticarmi mai, ed Ella, sig. Cavaliere, ricordi sempre pure innanzi a Dio la mia famiglia e la povera anima mia.
Il giorno 7, alle ore 9 del mattino, D. Bosco partiva per Roma portando con sè, oltre i documenti per l'approvazione della Pia Società, molte centinaia di biglietti di Lotteria da offrire alla generosità dei Romani. Il Marchese Angelo Vitelleschi con vive istanze lo aveva pregato a prender dimora nel suo palazzo, ma aveva già accettata l'ospitalità nell'abitazione del Conte Vimercati. Accompagnava Don Bosco Don Giovanni Francesia, il quale, con amabile ingenuità e calore, scrisse molte lettere a Torino narrando ciò che accadde al Servo di Dio nei due mesi che stette in Roma.
Queste lettere formeranno la parte principale dei nostri capitoli; noi vi aggiungeremo quanto abbiamo notato e raccolto nel 1867 dalla bocca stessa di D. Bosco e di molti testimonii, dalle lettere dei signori Romani che possediamo in gran numero, e dalle spiegazioni orali dello stesso Don Francesia.
Ecco la prima lettera indirizzata al Prefetto dell'Oratorio.
Dopo d'aver riposato per qualche giorno, finalmente compio al mio dovere di far sapere qualche notizia di D. Bosco. Come siamo partiti di Torino, Buzzetti vi avrà detto qualche cosa; a lui il merito se abbiamo potuto penetrare dentro alla stazione, essendo già ogni [583] porta chiusa, e prendere il convoglio mentre stava già per partire. Tirammo un lungo respiro e: - Deo gratias: ci siamo! - Di particolare durante il viaggio nulla ci avvenne. Sentimmo, ed in qual modo, il freddo fino a Bologna, sebbene fossimo nelle seconde classi e assai riparati. Da un buon signore che montò a Cambiano, D. Bosco sentì lodare l'Oratorio e il suo fondatore con parole non suggerite da freddo calcolo, ma da vero amore della patria e religione. Salutammo per via parecchi paesi che ci destavano soavi rimembranze. A Reggio, dove il convoglio si fermò qualche istante, cercammo cogli occhi, ma più ancora col cuore se mai si trovasse il buon Vescovo di Guastalla, o qualcuno da lui mandato. Finalmente con un appetito da vero musico arrivammo alle 2 a Bologna. Trovai per me il biglietto di favore, identico a quello di D. Bosco, con molti onori e complimenti da parte di quei signori.
Quello che più mi consolò fu il vedere Don Bosco a mangiare di buona voglia e tale, che da lungo pezzo non mi ricordo di avergli veduto l'eguale. Da Bologna, in vagone di prima classe, senza la molestia di avere qualche compagno di via, potrai facilmente immaginarti quale consolazione io sentissi di poter dopo tanto tempo intrattenermi da solo col nostro amatissimo D. Bosco. L'Oratorio però era sempre il nostro tema favorito e si parlava di lui per alleggerire la pena della lontananza. Passando a Rimini si ricordò la pia anima di Silvio Pellico. Non andammo secondo si era stabilito fino ad Ancona, ma per guadagnar tempo ci fermammo ad un paesello, Falconara, dove cenammo. Più d'uno vedendoci prima di mangiare a fare il segno della croce, meravigliossi; ma nessun disprezzo o biasimo, anzi rispetto e benevolenza. Pagando quivi una bella somma, partimmo alle 10 di sera per Foligno, dove avremmo incontrato il convoglio, che, partito da Firenze, s'indirizzava a Roma. Avemmo la compagnia di una buona e cristiana famiglia napoletana. Pregammo nel vagone dicendo le preghiere dell'Oratorio, che facemmo anche dire da questi napoletani, che a noi si unirono con molto piacere. Ma il tempo ci invitava a dormire. D. Bosco ne sentiva un grande bisogno e non c'era mezzo di poterlo soddisfare. I nostri compagni tutta notte non fecero che ridere e parlare. Quanto soffriva pensando agli incommodi di D. Bosco! Più notti antecedenti passate quasi insonni, qui neppure poter dormire. Io però riposai.
Spuntava finalmente il mattino tanto sospirato. Senza passaporti, non incontrammo alcuna difficoltà. Ci lasciarono entrare. L'aspetto di D. Bosco non metteva alcun timore e per sua protezione fui salvo da ogni molestia. Ancora due stazioni e poi Roma. Il mio cuore, il mio occhio la cercava; ma l'uno e l'altro erano tristamente preoccupati dall'aspetto uniforme e veramente desolante della campagna romana. Guardava lontano lontano per pascere il mio occhio di [584] oggetti più ameni, e ora incontrava una misera capanna di pastori, ora una palude, ed abitanti tristi di più tristi luoghi.
A pochissima distanza da Roma incontrammo Mons. Manacorda ed il Cav. Marietti, che con mille feste entrarono con noi nel vagone e ci condussero a Roma. Quivi aspettavano D. Bosco tante persone fra le quali la Marchesa Villarios e la Vitelleschi, che dolente si vedeva fuggire di casa sua quella persona che con tanta ansia aveva desiderata. Con loro vi era anche tutta la famiglia. Qui però accadde cosa che disturbò alquanto la nostra contentezza. Non trovammo più i nostri biglietti, si doveva pagare l'intiera corsa. Per interposizione però dei signori Manacorda e Marietti fummo liberi pro tempore, sperando di trovarli alla stazione dei passaporti, dove io temeva averli dimenticati.
Io montai in una delle stupende carrozze per noi preparate. Al mio fianco sedeva il Conte Calderari. Don Bosco disse la messa nella cappella privata del Conte Vimercati ed io in S. Pietro in Vinculis. Finalmente si trovarono i biglietti della ferrovia. A casa molte persone aspettavano D. Bosco, ma chi fossero non lo so e non ebbi tempo a domandarlo.
Arrivato appena D. Bosco in Roma, come fosse venuto un principe, tutta la città si mosse; e le prime famiglie romane vennero a fargli visita. Ma la voce di taumaturgo l'aveva preceduto e molti infelici lo aspettavano come l'angelo salutare. Che fede, che confidenza nel nostro D. Bosco io non vidi e non sperava vedere mai!
Finita messa, ecco venire la carrozza del Cardinale Cagiano, che gravemente infermo desiderava di avere subito una visita di Don Bosco. Altra volta questo esimio porporato, raccomandandosi infermo alle preghiere di D. Bosco, n'era stato guarito ed ora, ricaduto, in lui dopo Dio solamente sperava. D. Bosco lo visita, lo benedice, e lo anima a confidare in Maria SS. Ed ora con giubilo di tutta Roma, da cui quel Cardinale è veramente adorato, ha preso a migliorare e si spera che fra poco non ci sarà più nessun pericolo. Don Bosco si prepara ad andare dal Papa. In tutti gli angoli della città, questa mattina non si vedeva che manifesti: la Storia d'Italia del Sac. Bosco Giovanni. Ci andava ancora questa improvvisata per commuovere gli animi.....
P. S. - Si preghi pel nostro benefattore Conte Vimercati, infermo piuttosto grave.
Appena messo piede in casa dell'ospite, Don Bosco erasi recato nella stanza del Conte, santa persona, da lungo tempo [585] travagliato da acerbi dolori e da vertigini. Lo trovò a letto in uno stato compassionevole, senza umana speranza di guarigione e poca di potersi levare. Si rianimò tutto al comparire di Don Bosco, il quale lo benedisse e gli annunziò che presto si sarebbe alzato. Il Conte a tale annunzio gli rispose: - Ebbene! solo quando mi alzerò da letto, lascierò che Don, Bosco ritorni a Torino. - Egli così diceva credendo impossibile ogni sollievo. Ma dopo due o tre giorni ecco si calmano i dolori ed egli senza stento può levarsi e andare a pranzo colla famiglia. Don Bosco al vederlo entrare in sala gli disse: - Signor Conte, ella Vuol dunque che io vada a Torino? - Il Conte ricordò le sue parole e protestò che era pentito di averle pronunziate. Il buon Padre volse la cosa in facezia, difatti quel miglioramento non era tale da potersi affermare che il Conte fosse perfettamente ristabilito. Sembrava che il Signore non volesse togliergli la croce che aveagli data pel suo meglio, ma solo renderla meno pesante. Sta il fatto però che aveva guadagnato molto di forze e la grazia concessa dalla Madonna non poteva mettersi in dubbio.
Fedele alla costante sua pratica di confessarsi tutte le settimane, Don Bosco aveva scelto per confessore il Padre Vasco Gesuita, direttore spirituale del Conte Vimercati, cui si recava a visitare ogni otto giorni.
Ma ciò che giova rilevare si è che egli, fin dal primo giorno che si trovò in Roma, aveva incominciato, e lo continuò per tutto il tempo che vi rimase, un vero apostolato, predicando ogni giorno, confessando sovente, visitando ammalati, istituti, collegi, monasteri e conventi, dando udienze fino ad ora tardissima della notte: consigliando ogni sorta di persone; lasciando, colle medaglie della Madonna Ausiliatrice e colla benedizione nel nome di lei, speranza di sanità a non pochi infermi. Moltissimi si raccomandavano a lui come ad un santo, con grande soddisfazione del Sommo Pontefice, pel gran bene che si andava operando. [586]
Un giovane prete, l'abate Macchi, che aveva relazione colla famiglia del Conte Callori quando si recava in Roma, era stato preso da viva simpatia per Don Bosco, fin dalla prima volta che lo vide. Quindi si mise ad accompagnarlo in ogni luogo e a fargli da guida, sempre pronto ad eseguire qualunque sua commissione, e si offerse tutto al servizio di Don Bosco per quel tempo che si sarebbe fermato a Roma. Questo sacerdote desiderava percorrere la carriera prelatizia e forse non ci sarebbe riuscito, perchè il Pontefice si era formata di lui un'opinione non troppo favorevole. Ma Don Bosco seppe così bene dissipare dal cuore del Papa Pio IX ogni prevenzione, che questi lo ammise in Vaticano, gli die' il titolo di Monsignore e l'ufficio di Maestro di camera addetto alla persona del Papa. Però l'amicizia del Macchi verso Don Bosco più tardi si raffreddò, come vedremo nel corso di queste Memorie.
Il 15 gennaio D. Francesia scriveva al Cav. Oreglia.
Don Bosco è sempre occupatissimo e per concomitanza anche il povero D. Francesia. Siamo stati dal Santo Padre. Quante belle accoglienze ricevette D. Bosco e per riflesso anche lo scrivente. Mentre D. Bosco era all'udienza, che durò tre buoni quarti d'ora, io mi intratteneva con tutti quei Monsignori che non si saziavano di sentire a parlare di D. Bosco e del suo Oratorio. Facevano tante ammirazioni quante non avrei aspettato mai. Per D. Bosco non c'era stata anticamera. Finita l'udienza del Ministro dell'armi e di quello di Polizia che erano già dal S. Padre, egli era stato introdotto. C'era l'Ambasciata, o legazione degli Stati Uniti con tutto il seguito, ma dovette aspettare: e D. Bosco prima. Appena il Papa lo vide, fatti i primi saluti, prese a dire:
- Dunque, continuando il discorso che abbiamo interrotto l'ultima volta che ci siamo visti (nel 1858), quando ci disturbò il Cardinal tale che veniva per la segnatura… - e prese subito a parlare della nostra Pia Società, della quale allora aveva discorso, come se si trattasse di un ragionamento tenuto solamente ieri. Segno che gli stava a cuore.
Dopo qualche tempo il Maggiordomo Mons. Pacca mi introdusse [587] dal Pontefice. Quale istante fu quello per me. Quando fui ai piedi del S. Padre, mi porse Egli la sacra sua mano, posi sul suo anello un caldissimo bacio ricordandomi di rappresentare tanti giovani, chierici, sacerdoti, secolari dell'Oratorio. Che bello sguardo ha Pio IX! Che dolce parola gli piove dal labbro! Sapendo che io ero stato un povero artigiano, non mancò di ricordare il Collegio apostolico formato da pescatori, nè ha dimenticato il pubblicano che era forse l'unico di qualche condizione. Il Pontefice sta benissimo, occupato continuamente negli affari dello Stato e della Chiesa. Roma lo ammira, lo ama, e starei per dire, lo adora.
Pio IX ha promesso a D. Bosco di riceverlo altre volte per discorrere con maggior libertà.
Il Servo di Dio era stato ammesso a questa udienza il 12 giorno di sabato. Al mattino aveva celebrato la S. Messa nella cappella della Duchessa di Sora, come appare da una lettera della stessa.
La prima parola che il Papa gli disse fu realmente:
- Dunque.... avete, signor Abate, tenuto conto del mio consiglio? Avete voi scritto quelle cose che riguardavano l'ispirazione di fondare la vostra Società?
- Ma, Santo Padre, rispose Don Bosco, per verità non ebbi tempo. In mezzo a tante occupazioni ......
- Ebbene: quando è così non solamente ve lo consiglio, ma ve lo comando. A questo lavoro debbono cedere tutte le altre occupazioni di qualunque genere siano od importanza. Lasciate da parte tutto, quando non possiate fare altrimenti, ma scrivete. Il bene grandissimo che faranno certe cose quando si verranno a sapere dai vostri figli, voi non potete intenderlo pienamente. - E D. Bosco promise che avrebbe scritto e scrisse.
Il Papa parlò ancora della Chiesa di Maria Ausiliatrice, volle sapere a qual punto fossero i lavori e concesse a tutti quelli che avevano concorso all'erezione del sacro edifizio speciali favori spirituali in questi termini:
1° L'apostolica Benedizione con Indulgenza Plenaria, in articolo di morte; [588]
2° Indulgenza plenaria tutte le volte che eglino si fossero accostati degnamente alla santa Comunione;
3° Queste Indulgenze applicabili per modo di suffragio alle anime del purgatorio.
Continua la lettera di D. Francesia:
Ovunque va D. Bosco, là accorrono le principali famiglie romane. Ora è il Duca Salviati, ora il Principe Borghese, il Duca di Sora, il Principe Odescalchi, e in grazia loro tante e tante altre persone prendono relazione con D. Bosco. Egli intanto non fa che dare udienze dalla mattina alla sera e con quanto scapito della sua salute lo immagini Ella.
Domenica (13) fummo al Collegio Romano, dove D. Bosco fece un devoto e caro sermoncino. Che frutti ne ricavò! I giovanetti non sapevano più distaccarsi da lui, ne conobbero il segreto e volevano assolutamente che D. Bosco li conducesse con sè a Torino. Che bella messe! Ma non ci mancano i lavoratori: quei padri sono veramente esemplari! Io credetti più volte di essere all'Oratorio.
Di straordinario propriamente D. Bosco ancora non fece nulla; pare che il Signore non voglia davantaggio qui in Roma renderlo grande. Comunque però sia, la memoria che lascia D. Bosco ovunque va, è sempre bella. Si ammira la sua pacatezza, l'ilarità del suo volto, e l'imperturbabilità dell'animo suo.
Il Cardinale Cagiano che morì nella notte sopra la domenica p. p. aveva posta tanta confidenza in D. Bosco che il voleva ad ogni modo lasciare erede de' suoi averi e non ci volle poco a farlo pensare altrimenti. Eppure non l'aveva mai veduto prima. Fece una morte da santo e fu pianto da tutta Roma. D. Bosco aveva qualche speranza di guarigione e pregò assai, ma il Signore dispose altrimenti. Sarebbe stata cosa troppo forte.
Il sig. Conte Vimercati migliora del suo incommodo, ma molto adagio: D. Bosco vuol farlo guarire prima di lasciarlo e mi raccomanda di dirle che in questi giorni si preghi nell'Oratorio con maggior fervore per questa preziosa e benefica persona. Promise una bella offerta per la chiesa; nientemeno che la spesa della cupola, ma a salute ottenuta.
L'altare affidato al Conte Bentivoglio si farà e dobbiamo sperare che riuscirà bene. Fummo a pranzo con loro e ne furono lietissimi.
La Contessa Calderari era incomodata un po' seriamente: va però meglio. D. Bosco andò a dir messa in sua cappella.
Dell'Oratorio non c'è nulla di nuovo? Aspettiamo notizie, che saranno forse per via. Speriamo che siano buone. Dica a colui che parla alla sera agli studenti ed agli artigiani, che D. Bosco raccomanda alle loro preghiere la sua missione. La preghiera in questi giorni non solo gli è opportuna, ma necessariissima. [589]
Un saluto speciale a D. Enrico Bonetti da rimettere ai miei cari filosofi. Sebbene che sia certo che si faccia e bene, ricordo tuttavia, la meditazione e la lettura spirituale. Creda pure, carissimo Cavaliere, che noi abbiamo bisogno della benedizione del Signore, perchè Don Bosco abbia qualche grande soccorso. Il terreno è pronto, è seminato, ed ella non ne fu inerte agricoltore. Se sarà di maggior gloria di Dio e di vantaggio alle anime, non saremo delusi .....
E non restarono delusi, sia per quello che Don Bosco faceva sia per quello che Don Bosco prediceva e andava avverandosi.
Per mezzo della Marchesa Villarios aveva fatto conoscenza colla Contessa Calderari, le cui bambine erano mute e non articolavano parola. La contessa sfogò il suo dolore con Don Bosco, il quale assicurolla che, se avesse contribuito alla fabbrica della Chiesa di Maria Ausiliatrice, la Madonna l'avrebbe immancabilmente consolata.
- Ma vede, che non parlano! - diceva con accento straziante la Contessa accennando le figlie.
- Parleranno! - rispose Don Bosco. E così fu. Nel 1870 parlavano speditamente. D. Rua e D. Francesia ne fanno testimonianza.
Intanto il rev.mo P Delfino Gastaldi da Scarnafigi, dell'Ordine dei Minori Osservanti di S. Francesco, Ministro Provinciale, dal Convento della Consolata in Torino il 31 gennaio notificava anche a que' suoi Religiosi laici, espulsi dai loro conventi e ricoverati nell'Oratorio, la morte dell'Eminentissimo Antonio Maria Cagiano de Azevedo, Protettore dell'Ordine, avvenuta in Roma il 14 gennaio, e dell'elezione del nuovo Protettore il Cardinale Luigi Amat; li esortava a suffragare l'anima dell'illustre defunto conforme le Costituzioni, e comunicava loro alcune facoltà concesse dal Sommo Pontefice, finchè durasse il tempo della soppressione.
PER la terza volta Don Francesia pigliava la penna, mandando notizie a Torino.
Pare che il Signore non permetta che D. Bosco accresca i fatti veramente prodigiosi che avvennero altrove. E poi qualora avvenissero, [591] D. Bosco è abbastanza umile per non dirmi tutto quello che gli avviene. Sto con cento occhi e più di orecchie per raccogliere.
La Duchessa di Sora se la vide brutta l'altro giorno. Un cane arrabbiato erasi cacciato nel palazzo e minacciava di fare strage; ma invocato l'aiuto di Maria SS. Ausiliatrice, non si sa come, ne fu salva. Portò oblazione e promette più. Sabato scorso D. Bosco disse messa nella cappella della Duchessa ed ebbe 1000 franchi e più da una persona per grazia ricevuta.
Fu a visitare un piccolo bambino di casa De Maistre che, gravemente infermo, minacciava di morire. Si doveva fare operazione di ferri e non sapevasi come e dove. Che desolazione!
D. Bosco lo benedisse e toccò colla medaglia il piccolo infante. Là dove D. Bosco pose la medaglia il tumore venne subito a maturità e i dottori poterono operare. Ma caso singolare avvenne ancora. Dove operarono i dottori, la cosa riuscì prosperamente e nei due posti tocchi dalla medaglia, da sè venne uno spurgo. Il bambino migliora e si spera di vederlo guarito…
Paolo De Maistre, di 18 mesi, figlio del Conte Eugenio, aveva faccia e collo sformatamente gonfi. Don Bosco il 16 gennaio dopo averlo benedetto andò a celebrare la S. Messa nella vicina chiesa di S. Carlo. Eravi “molta gente, scrive al Cavaliere la Duchessa di Sora, e mi raccontarono che essendosi egli seduto in confessionale vi fu in poco tempo circondato”. Finita che ebbe la messa l'infermo sembrò migliorare, sicchè venuto il medico, constatò potersi fare un taglio senza pericolo, ciò che prima non aveva osato fare. Da quel momento la gonfiezza incominciò a svanire e la guarigione fu assicurata.
Non basta. Il Servo di Dio, data la benedizione al bambino, aveva detto ai suoi parenti: - Oh! non morrà: egli ha da essere prete! -Nessuno palesò a Paolino ciò che Don Bosco aveva predetto di lui, e glielo dissero solo quando, fattosi gesuita, era già in sacris.
Il Conte ci narrò tutto il fatto, e aggiunse, che abitando egli alle Quattro Fontane ed avendo in casa Don Bosco, era tale la folla nelle scale, che gli inquilini a stento potevano uscire dai loro appartamenti, ed egli doveva [592] fare entrare i visitatori da una porta e farli uscire da un'altra.
Altre notizie aggiunge la lettera di D. Francesia:
L'altra sera (15 gennaio) si visitò un altro fanciullo parimenti infermo: poca, anzi nessuna era la speranza di guarirlo, ma dopo la benedizione di D. Bosco incominciò a migliorare. I dottori fanno le più grandi meraviglie del risultato felice delle cure di questo nuovo loro collega. Non c'è infermo di Roma che non brami la visita di D. Bosco. Ora è in Piazza del Popolo, ora al Borgo Nuovo, ora in altre parti lontane e opposte.
Non vi è chiesa, non casa privata con cappella, ove non si desideri la sua messa .....
D. Bosco ringrazia di quello che si fa all'Oratorio ed anima a continuare con maggior fervore. Oh se si potesse ottenere la guarigione dell'ottimo conte Vimercati, nostro ospite! Migliora bensì, ma non gli cessano i disturbi; non può reggersi in piedi, non dorme la notte; insomma senza un miracolo non si tirerà fuori! Preghiamo!
A motivo del molto parlare, D. Bosco peggiora di salute: ha le gambe enormemente gonfie e non può riposare di notte...
In quei giorni la sua occupazione più grave era quella della nomina dei Vescovi.
Il 21 dicembre il Comm. Tonello aveva incominciato a trattarne col Card. Antonelli, Segretario di Stato. Essendo tornati in diocesi i Prelati espulsi, non v'erano più questioni di dichiarazioni e di licenze. La cosa era più spiccia. Il Tonello aveva ordine di assentire alle giuste esigenze della S. Sede in varii punti, circa i quali il Vegezzi aveva dovuto manifestare che il Governo sarebbe stato inflessibile; quindi furono facilmente abbandonate molte pretenzioni e fra le altre quelle dell'exequatur e del giuramento dei Vescovi.
Ma fin dalla prima udienza il Cardinale Antonelli aveva dichiarato che la Santa Sede non avrebbe mosso ostacoli alle presentazioni dei Vescovi delle antiche provincie del Piemonte e del Lombardo Veneto: ma che non accetterebbe mai dal Governo quelle per gli altri stati italiani e meno ancora quelle dei Territorii Pontificii tolti al Papa; la quale esclusione [593] metteva in pericolo tutta l'Italia centrale e meridionale di rimanere senza Vescovi e poteva dar ansa a certe velleità scismatiche di qualche membro del Gabinetto Italiano.
In vero il Ministro dei Culti, Borgatti, aveva scritto a Tonello che si facesse ogni pratica solamente a modo verbale, anzichè con atti scritti, non volendo vincolarsi per l'avvenire. Era fisso nella ragione di stato e nel diritto, secondo lui, della nomina dei Vescovi, attribuita al laicato dell'Associazione Cattolica. Il Tonello, secondo le istruzioni ricevute, doveva cercare che in avvenire il popolo avesse parte all'elezione dei Vescovi.
Il Governo voleva eziandio che tutti coloro, i quali venissero eletti, presentassero le Bolle; e il Cardinale Antonelli non acconsentiva.
Le cose stavano a questo punto, quando Don Bosco arrivò a Roma. Fu dolentissimo allorchè seppe della cattiva piega che prendevano le trattative e vide vicine a svanire le concepite speranze. In Piemonte da più di quindici anni non era stato nominato alcun Vescovo.
In buon punto Pio IX lo mandò a chiamare per udire quali proposte egli farebbe per conciliare le divergenze.
Contro queste trattative sorgevano obbiezioni ed ostacoli da tutte parti. I Cardinali volevano che le Autorità Italiane si rimettessero interamente alle disposizioni del Santo Padre prima che si venisse ad una decisione. Il Card. Antonelli era inflessibile nel mantenere le condizioni poste al Delegato del Governo del Re. Il Ministero di Firenze pretendeva le Bolle. Il Papa era incerto, perchè temeva che si proponessero alla dignità episcopale persone auliche.
Appena Don Bosco fu alla presenza di Pio IX, questi gli disse sorridendo: - Con quale politica vi cavereste voi da tante difficoltà?
- La mia politica, rispose Don Bosco, è quella di Vostra Santità. È la politica del Pater noster. Nel Pater Noster noi [594] supplichiamo ogni giorno che venga il regno del Padre Celeste sulla terra, che si estenda, cioè, sempre più, che si faccia sempre più sentito, sempre più vivo, sempre più potente e glorioso: Adveniat regnum tuum! ed è ciò che più importa.
Ed insistette che si anteponesse sopra tutto il bene delle diocesi e che si studiasse qualche modo da poterlo assicurare.
- Sarà difficile trovarlo, sicchè possiamo riuscire a far qualche cosa - osservò il Papa.
- La Massoneria non cede; ma se ci lasciano fare, spero che verremo ad una conclusione.
E spiegò il suo pensiero. Non far distinzione nelle trattative tra le provincie Piemontesi, Lombarde, Venete e quelle degli Stati tolti ai principi italiani ed al Papa: il Governo d'Italia proponesse pure per i Vescovati tutte quelle persone che più gradisse, e lo stesso facesse la Santa Sede, rappresentata dal Cardinale Antonelli, riguardo al Governo: nè Santa Sede nè Governo arbitrassero: il Pontefice confrontata la nota della Santa Sede con quella del Governo, eleggesse coloro sui quali le due note andassero d'accordo: si incominciasse colla nomina di solo un certo numero di Vescovi., per dare principio alle provviste più urgenti delle Diocesi vacanti; questi Vescovi fossero destinati a quelle Sedi, per le quali non ci fosse difficoltà per parte del Cardinale Antonelli: in quanto alle Bolle sarebbe affar suo; si raccomandava però che non si compromettesse con inconsulte rivelazioni l'esito della pratica.
Pio IX aderì al consiglio di Don Bosco e gli diede pieni poteri di trattarne col Comm. Tonello, riservandosi ogni libertà nel decidere e stabilire.
Don Bosco pertanto fece i primi passi col Card. Antonelli, e con qualche stento lo indusse a considerare le cose dal suo punto di vista, cioè non tanto politico, quanto religioso nello stretto senso della parola. [595] Quindi recossi da Tonello al quale Ricasoli aveva telegrafato: “Vedete di intendervi con Don Bosco”. Il Commendatore, che non era uomo nemico alla Chiesa, s'intese facilmente con lui e non solo si prestò a non porre ostacoli alla nomina dei Vescovi, quantunque le istruzioni di Ricasoli fossero assai difficili, ma si disse pronto a cooperare agli atti del Papa. Intendeva benissimo come Pio IX non potesse acconsentire che i nuovi eletti, e principalmente quelli destinati alle diocesi degli antichi Stati pontificii, presentassero le Bolle al Governo: quindi non si ostinò a volere tale presentazione e si contentò di un semplice avviso di nomina.
Il Papa, udita l'arrendevolezza del Tonello, ne fu contento ed approvò. Il Governo Italiano era interessato a dare una soddisfazione alla Francia, e accondiscese.
Da questo momento la discussione tra il Delegato Pontificio Antonelli ed il Commendatore si ridusse al modo di fare e di riconoscere le nomine vescovili: e convennero verbalmente di procedere in questa forma: - Si stabilissero d'accordo le sedi e le persone da nominarvi: il Delegato Pontificio ne desse comunicazione al Governo designando le diocesi e gli eletti: la Santa Sede spedisse bolle conformi a quelle dell'ultimo Arcivescovo di Genova, ommesso ciò che tocca la presentazione sovrana: se ne consegnasse nota all'Inviato: e questi scriverebbe al Ministero, affinchè si dessero le disposizioni opportune, perchè i nominati avessero il possesso delle loro mense.
Più volte Don Bosco dovette andare dal Card. Antonelli al Papa, dal Papa a Tonello, e da Tonello al Vaticano. Entrò siffattamente in confidenza con Pio IX che gli bastava presentarsi per aver subito udienza.
Mons. Pacifici, che aveva stretta cordiale amicizia col Venerabile, dovendo andare due volte la settimana in Vaticano pel proprio uffizio, passava infallibilmente colla sua carrozza a casa Vimercati, per vedere se Don Bosco abbisognasse [596] di recarsi presso il Papa o presso il Cardinale Antonelli.
Chiuse ed approvate da ambe le parti le trattative, si venne alle nomine. Pio IX si fe' presentare un elenco dei migliori sacerdoti che si conoscevano nelle varie diocesi d'Italia, e incaricò Don Bosco di mettergli in nota i nomi di quelli che egli riteneva i più degni per dottrina e specchiata virtù da proporre al Governo italiano per le diocesi del Piemonte. Anche Tonello, chieste istruzioni e i nomi degli ecclesiastici che il Ministero intendeva proporre, stendeva la lista da presentare al Papa. Il Re Vittorio Emanuele espresse il desiderio che per Torino fosse eletto Arcivescovo Mons. Alessandro dei Conti Riccardi di Netro, Vescovo di Savona, e il Papa acconsentì.
Di queste pratiche fa cenno D. Francesia sul fine della sua lettera, che reca in fronte la data del 17 gennaio:
Sono 3 ore dopo mezzodì del giorno 18. La camera è ancora piena di persone che vogliono parlare a D. Bosco. Furono qui le dame d'onore della Regina di Napoli col Cappellano di Francesco II, la Principessa Orsini, il Cav. Schroctez dei cavalieri di Malta e tante Contesse e Monsignori che non so come D. Bosco possa finire...
Una povera donna, inferma da lungo tempo e viaticata, si raccomandò a D. Bosco che la benedicesse, se non poteva venirla a vedere. È madre di cinque piccole creaturine. D. Bosco le raccomandò la solita ricetta, ed ora so che migliora e che fra breve sarà fuori di pericolo.
Grande è la confidenza che ogni uomo, anche della più alta condizione, mette in D. Bosco. Egli ebbe già due lunghissime udienze col Card. Antonelli e aggiustò parecchi affari e appianò difficoltà e raddrizzò molte pratiche politiche, e intelligenze di moltissimo rilievo.
Ebbe colloqui con Tonello, che lo trattò con tutta bontà, pronto a riceverlo ogni volta che lo credesse di qualche vantaggio.
Parlò col futuro Arcivescovo di Torino, che prima era venuto a fargli visita a casa Vimercati. Sarà senza dubbio a noi favorevole, e, direi quasi, riconoscente a D. Bosco.
Si desidera che D. Bosco apra una casa a Roma.
Ha pratiche con altissimi personaggi, che riusciranno utilissime per la chiesa. Dicono che vede fatte molte cose come un dì vedeva fatto l'Oratorio, che dalle regioni ideali discese poi alle reali. [597] Colle sante sue maniere innamora di Dio tante persone, tutt'altro che divote, che sospirano il momento di confessarsi da lui. Ha stretta amicizia con dragoni pontificii che pure vogliono, malgrado ogni difficoltà, conferire con lui di cose spirituali. In breve D. Bosco è divenuto il vero apostolo di Roma. A qualcuno senza averlo mai conosciuto ha svelati i suoi peccati: quindi pensi qual desiderio, massime tra i giovanetti, di parlare con D. Bosco. In questi luoghi, già notabili per la pia e nobile persona che li abita, c'è tanto concorso da destare in tutti meraviglia.
D. Bosco aspetta molte copie della Storia d'Italia, vivamente desiderata da gran numero di persone, dopo l'annunzio appiccato su quasi tutte le porte delle chiese di Roma.
L'altro dì ci fu pranzo a casa del Senatore di Roma, quindi congresso col primo banchiere per provvedere al numerario che si sente mancare. D. Bosco era ascoltato come un oracolo.
Qualche zelante superlativo, pel troppo desiderio di far bene a D. Bosco, ha spacciato cose non vere sul suo conto, che gli potrebbero far del male.
Quando il suo sig. fratello (Padre Oreglia) disse che Don Bosco avrebbe avuto a Roma una dimostrazione cattolica, non diceva che la pura verità. Ho qui davanti un fascio di biglietti di visita di persone che venute alla nostra abitazione non poterono vedere o parlare con D. Bosco. Oh se i nostri giovani vedessero le belle feste che fanno a D. Bosco persone non mai conosciute prima, avrebbero molta consolazione e per l'avvenire vorrei sperare che farebbero miglior frutto quando Esso è all'Oratorio. Pensai più volte a questo, quando vedevo Conti, Marchesi e Principi andare a gara per toccargli la mano, baciargli la veste, aver la benedizione. Fu con graziosa lettera invitato a pranzo dal Duca Salviati, a dir messa dal Principe Borghese e dal Principe Torlonia. E questo entusiasmo, senza che nulla di veramente grande sia in questi giorni avvenuto. È però vero miracolo il vedere come tutti, partendo da Don Bosco, sono consolati anche solo dopo averlo veduto.
Le Storie d'Italia vanno a ruba. Domenica saremo a pranzo alla Civiltà Cattolica. A quelli che scrissero a D. Bosco dica che egli lesse i loro scritti con piacere, e prepara fra poco una risposta. Desideriamo notizie dell'Oratorio colla stessa impazienza, con cui ella ne desidera di quelle di Roma. Tante belle cose a casa Occelletti e ai giovani dell'Oratorio di S. Giuseppe per parte mia....
La lettera ci ha detto che il 16 gennaio Don Bosco era stato invitato a pranzo dal Marchese Francesco Cavalletti. [598] Questi era stato nominato Senatore di Roma, cioè governatore, il 10 luglio 1865, e doveva durare in carica sei anni. Responsabile dell'ordine in città, e perciò odiato da nemici interni ed esterni, viveva in mezzo a congiure e a pericoli di tradimenti. Ma del suo animo invitto fanno fede le lettere da lui scritte a Don Bosco1.
Ma non ostante la sua generosità nella difesa del trono pontificio, egli era stato messo in mala vista presso il Papa. Mentre era assente da Roma, i liberali avevano trovato modo di far pervenire a Pio IX una petizione con 25,000 firme colla quale si esortava il Pontefice a rinunziare al potere temporale. Il non aver impedita quell'offesa tornava a discredito della fedeltà e dell'oculatezza del Senatore.
Don Bosco, prevedendo ciò che ora accadeva, il 21 maggio 1866 aveva scritto al Cavaliere Oreglia che si trovava in Roma: “A. S. E. il Marchese Cavalletti Senatore di Roma, dica: La Divina Provvidenza gli prepara un bel mazzetto di rose scelte, ma per prenderle bisogna che stringa le molte spine sottostanti. In breve saprà tutto: non posso scrivere di più”.
In questo momento il Marchese doveva stringere tra le mani le spine. Dimettersi dal suo ufficio non voleva, sapendo che subito sarebbe stato messo al suo posto, per intrighi partigiani, un tristo ipocrita, nemico del Papato. Egli era un uomo risoluto a soffrire qualsivoglia danno ed offesa [599] per il Pontefice; ma restare al potere, avendo contrario il Papa, non voleva. Don Bosco lo tranquillò, dicendo che sarebbe egli stesso andato a parlarne con Pio IX. Infatti verso sera andò al Vaticano promettendo che sarebbe ritornato a pranzare col marchese, recandogli una risposta. L'ora del pranzo era alle 7. Don Bosco, andato all'udienza verso le 5, alle 7 non era ancor di ritorno. Alle 7 ½ il Marchese era per mettersi a tavola, ed ecco comparire Don Bosco con viso sorridente. Il Marchese ordina ai servitori che si ritirino e, rimasto solo colla famiglia, domanda subito:
- Ebbene, che cosa ha detto il Papa?
- Il Papa, rispose Don Bosco, mostrò per lei una grande affezione e mi disse: “Dite pure al mio caro Marchese....”
- Ha detto caro? Ha detto caro? - e ansava.
- E per ben due volte ha ripetuta questa frase.
- Basta! Basta! non voglio sentir altro! Ha detto il mio caro Marchese! Non desidero di più! Mi stillettino pure i framassoni, chè nulla m'importa, ora che il Papa mi ha chiamato caro!
D. Francesia era presente al dialogo; e il Senatore dimostrò il suo amore sviscerato al Sommo Pontefice tutelando Roma fino al 1870, specialmente nelle sommosse dell'autunno di quest'anno 1867.
I Signori che avevano la cappella nei loro palazzi, andavano a gara nell'invitare Don Bosco a celebrarvi la S. Messa e nobili giovanetti ambivano di servirgliela. Il principe Paolo Borghese gliela volle servire in Roma e quando si recò a chiese fuori di città. E ricordavano [601] con piacere quei momenti fortunati! Il Marchese Giacomo Antinori scriveva a Don Bosco nel marzo del 1868 dal Collegio dei Nobili, studente del primo anno di Filosofia: “Spero che Ella non si sarà scordato di me, come io non mi sono mai scordato di lei col quale ho avuta la fortuna di parlare spesse volte in casa del Conte Vimercati ed al quale ebbi l'onore di servire la Santa Messa il giorno della Cattedra di S. Pietro, l'anno scorso, in casa della Contessa Mellingen, 18 gennaio”.
Il giorno 19, sabato, dopo essere andato a celebrare presso la famiglia della Duchessa di Sora, il Servo di Dio tornava in udienza dal Papa.
D. Francesia ne dava notizia all'Oratorio con molta vivezza di espressioni, perchè quantunque fossero molti i giovani che scrivevano a Don Bosco, pure non eguagliavano in numero le lettere del 1858. Così affermava D. Durando che aveva l'incarico di trasmetterle. La causa della freddezza di alcuni proveniva dal fatto che D. Bosco non potevasi trovar più continuamente in mezzo agli alunni come nei primi anni, e i novellini entrati in ottobre non avevano avuto ancor tempo di conoscerlo.
Questa mia sia tutta destinata per voi. Da tanto tempo che non vi vedo e non vi parlo più, sento un vero bisogno di dirvi qualche parola, massimamente che ho grandi cose a comunicarvi.
Sabato ultimo scorso, otto giorni dopo la prima udienza dal Santo Padre, Don Bosco fu nuovamente invitato. E per poter a bell'agio parlare con Sua Santità andò alle 4 dopo mezzodì, ora in cui non si ricevono che le persone più ragguardevoli. Che se potessi mai dirvi quanto interesse desta in tutti i Romani la cara persona del caro nostro D. Bosco, non vi stupireste sicuramente se il Pontefice stesso lo manda ad invitare in Vaticano. Ci fui anch'io; e con quanta consolazione a voi stessi il lascio pensare. Quante belle sale; se fossero nostre per la ricreazione! quanti magnifici corridoi, quanti dipinti, quante altre cose, che voi meglio potete immaginare che io descrivervi. [602] Alle 4 dunque Don Bosco, tranquillo ed allegro sempre, fu davanti al Pontefice. Appena questi lo vide:
- Oh il carissimo mio D. Bosco, disse, venite, chè desiderava assai di rivedervi.
Sebbene io sia in voce di avere buon orecchio, e voi vel sapete, non potei altro sentire. E dentro all'udienza stette più d'un ora. Nè poteva sicuramente dimenticarsi di tutti voi, e godendo così da vicino il Vicario di G. C. domandò parecchi spirituali favori per voi e per gli altri Oratorii di Torino, Lanzo e Mirabello.
Che volete? vi ama tanto nel Signore il nostro D. Bosco che ovunque vada si ricorda di voi. Tenetelo adunque in mente, anzi scrivetelo per maggior sicurezza nel luogo più caro e più bello, che Sua Santità Pio IX vi concede l'Indulgenza plenaria in articolo mortis, l'Indulgenza plenaria ogni mese se sarete confessati e comunicati, e questa per tutta la vita. Che bei favori, o miei cari, favori che non tanto facilmente si concedono, e che altri per ottenere chi sa che cosa farebbero.
Il Santo Padre domandò con molta sollecitudine di voi, parlò pure di Savio Domenico, e se altri ancora si avvicinano a lui in virtù; e nel suo cuore paterno giubilò assai nel sentire che molti all'Oratorio si erano proposti di copiare per modello quel giovane angelico. I doni che nella sua bontà volle a noi concedere il S. Padre teniamoli preziosi, e non permettiamo che sieno senza profitto. Altre cose pure domandò e ottenne e che riserva D. Bosco a dirvi egli stesso.
E voi, o carissimi miei amici, pregate per lui? Con quanta soddisfazione egli legge le vostre letterine che gli mandate! Non credete che le metta nel dimenticatoio, o che le faccia leggere dal suo segretario.
Mai no, anzi prepara a tutti una risposta, come di memoria della sua
venuta a Roma. Ma vi conosco troppo bene, e so quello che desiderate.
Alcuni che mi scrissero, anche un po' severamente amichevoli, dimandano che io vi mandi notizie di cose straordinarie avvenute per D. Bosco. Oh cari, ben volentieri vi soddisferei in questa giusta brama, ma se D. Bosco mi si oppone coi fatti che ci posso io? Chè dovete sapere che D. Bosco prega ed ha pregato che a Roma non dovesse succedergli cosa alcuna grande, da attirare maggiormente gli occhi del pubblico devoto. Ma ad ogni modo il Signore non volle ascoltarlo in tutto, e qualche cosa qua e colà a suo dispetto gli avviene. Un principe napolitano, che soffriva le vertigini quotidiane, ebbe una sola benedizione da D. Bosco e ne fu subitamente libero. Sabato ultimo scorso fu a ringraziarlo ed io lo vidi e portava un'oblazione per la chiesa.
Un fanciullo gravemente infermo, solamente benedetto da lui, è già venuto a ringraziarlo col padre, chè egli è pienamente guarito. Pare che le malattie sentano paura della sua mano, che a lui davanti fuggano. Questa è l'intima persuasione di Roma, e qui numerosissimi accorrono i poveri pazienti, direi, sicuri di risanare. [603] Anche sabato fui spettatore e testimonio di un tenerissimo spettacolo. D. Bosco instava di partire verso il Vaticano, perchè come il solito era in ritardo. Ma la porteria del palazzo era gremita di gente, che tutta voleva vedere, parlare, farsi benedire e confessarsi. Una popolana colle lagrime agli occhi, vedendo che D. Bosco voleva partire, si getta per terra davanti a lui, e alzando al Cielo una bambinella coi segni di morte sulla faccia, grida:
- La mi muore, o Signore, la mi muore, deh! la benedica che muore. Veda! la mi muore!
E non poteva più dire, chè il dolore la impediva. Tutti piangevano d'attorno e i soldati presenti, insoliti forse alla tenerezza, asciugarono anch'essi le lagrime per compassione di quell'infelice. Era un quadro commoventissimo. D. Bosco la benedisse e la mandò in pace. Oh che il Signore le conceda in premio della sua fede, la guarigione di quella sua creaturina, che forma la sua consolazione. E anche a voi io la raccomando.
Non so se vi ricorderete di avere veduta mai rappresentata la benedizione dei fanciulli pel Salvatore. Ebbene è quello che mi succede di vedere tante volte per la città di Roma a motivo di D. Bosco. Nè solo la povera gente vogliono essere benedetti da D. Bosco, ma Monsignori, Vescovi ed Arcivescovi ancora. E dovunque va, lascia di sè tal vivo desiderio che mi è impossibile esprimervi. Che fortuna, mi vanno più volte dicendo, hanno quei giovanetti di Torino di poter godersi questo santo sacerdote. Ed è allora che io doloroso penso a quei tali, che così trascurano questa benedizione: pochi sono, ma ci sono.
D. Bosco vi ringrazia di tutto quello che fate e specialmente delle Comunioni, perchè ogni cosa gli riesca propizia. So che desiderereste di aver una sua lettera, ma per ora gli è veramente impossibile e mi lascia di salutarvi con tutto il suo cuore.
Il Conte Vimercati, grazie alle vostre preghiere, migliora assai e fra breve lo vedremo passeggiare. Ho un sacco pieno di altre cose che a voi piacerebbero e lo vuoterò fra breve. Pregai nelle camerette di S. Luigi, del Beato Giovanni Berckmans, del B. Stanislao Kostka e con molto fervore per voi, perchè possiate imitarli in tutte le loro virtù e specialmente nella purità dei costumi.
Addio; il cielo vi benedica, come con tutto il cuore vi desidera il
vostro aff.mo amico in G. e M.
Don Francesia narra nella sua lettera di un'altra udienza data da Pio IX a Don Bosco. Nessuno potrà mai immaginarsi la famigliarità colla quale trattavalo il S. Padre. Caduto [604] il discorso sulle tristi condizioni nelle quali i settarii avevano ridotta la Chiesa, dei peggiori tempi che le preparavano, e delle cause che avevano facilitato tanti luttuosi avvenimenti, il Papa richiese a Don Bosco il suo giudizio, sopra un punto assai delicato, con queste parole:
- E riguardo all'amnistia che al principio del nostro Pontificato abbiamo concesso a tutti i condannati politici dello Stato Pontificio, sappiamo che altri lodano, ed altri biasimano questo atto. Voi che cosa ne dite?
Il Venerabile a questa interrogazione esitava a pronunciarsi, osservando che nessuno poteva prevedere quali avvenimenti peggiori si sarebbero svolti se si fossero mantenuti gli atti di giusto rigore dei tribunali; ma il Papa soggiunse insistendo:
- Dite, dite pure liberamente il vostro pensiero.
- Vostra Santità, rispose Don Bosco, con quel tratto di sovrana clemenza secondò certamente la grande bontà del suo magnanimo cuore, sperando di commuovere ed affezionarsi que' felloni; ma pare abbia fatto come Sansone, il quale catturò e chiuse insieme 300 volpi e poi le lasciò andare in libertà; ed esse corsero subito ovunque a portare l'incendio e la distruzione nelle messi.
- Il paragone non regge! osservò il S. Padre.
- Similitudines non sunt undequaque urgendae.
- Eppure, concluse il Sommo Pontefice, abbiam creduto di far bene nell'agire in quel modo!.... Ci piace però la vostra schiettezza. - E soggiunse: - Sì, Noi ci siamo ingannati! Ma crediamo che questo errore affatto innocente da parte nostra, entrava nei disegni della Provvidenza. Se noi avessimo opposto un'assoluta resistenza ad aspirazioni divenute generali anche presso i cattolici, si sarebbe accusato il Papato d'avere, con la sua inflessibilità, alienato da sè volontariamente la società moderna. Pel contrario, abbondando [605] nella clemenza, concedendo le libertà civili compatibili coi diritti essenziali della Chiesa, Noi abbiamo smascherato la ipocrisia di coloro che non domandavano le anzidette libertà, che per opprimere la Chiesa stessa.
Dopo altre riflessioni D. Bosco ebbe il piacere di sentirsi dire dalla bocca stessa del Vicario di Gesù Cristo queste parole:
- Tre Papi sono a voi debitori! Ne avete difesa la fama oltraggiata, colla Storia d'Italia, l'Ecclesiastica e le Letture
- Non solo i passati, ma anche i presenti! - Volendo indicare di aver bisogno di favori da Sua Santità.
Pio IX intese benissimo e soggiunse:
- Ho capito! avete qualche cosa da sottoscrivere?
Il Venerabile presentò una supplica e il Papa la esaminò e gli concesse i favori domandati. Noi la riportiamo, distinguendo con carattere corsivo quanto vi scrisse di proprio pugno il S. Padre.
Il sacerdote Giovanni Bosco, Superiore Generale della Congregazione di S. Francesco di Sales eretta in Torino, a fine di promuovere per quanto gli è possibile la maggior gloria di Dio ed il bene delle anime:
Supplica umilmente la Santità Vostra a voler degnarsi concedergli la facoltà di potere, all'opportunità, autorizzare li Sacerdoti della sua Congregazione, a benedire croci, medaglie, corone, ecc. colle Indulgenze annesse.
(20 gennaio 1867, agli attuali e ora esistenti per sette anni.)
Inoltre supplica di potere, semprechè ne riconosca il bisogno, autorizzare li Sacerdoti, o professi o giovani, a lui soggetti, a leggere o ritenere quei libri proibiti, che crede utili al rispettivo ufficio.
E finalmente supplica la stessa Santità Vostra, a volersi degnare a conferire al medesimo Sac. Giovanni Bosco la facoltà di far celebrare la Santa Messa prima dell'aurora, quando occorre il bisogno.
D. Bosco non mancò di comunicare al Santo Padre l'esibizione che eragli fatta di locali e danaro, perchè aprisse una Casa in Roma. Era questo un suo desiderio. Pio IX gli indicò Vigna Pia, bella istituzione da lui stesso fondata, della quale aveagli già parlato nel 1858, una specie di colonia agricola e di casa di correzione per cento giovanetti abbandonati, vagabondi, oziosi. Alla direzione dello stabilimento vi erano alcuni religiosi francesi, i quali volentieri avrebbero ceduto ad altri quella missione. Pio IX desiderava che i figli dell'Oratorio di S. Francesco di Sales succedessero ad essi. Il Duca Salviati era tutto caldo per effettuare un tal progetto e andò con Don Bosco a visitare Vigna Pia. Il progetto però, dopo pratiche durate più mesi, non fu attuato. Le Commissioni Direttive delle Opere Pie di Roma non vollero mai cedere alcunchè della loro autonomia, anche in minima parte. Noi abbiamo in un manoscritto la base di quelle trattative, e crediamo di non doverla ommettere.
PROPOSTA INTORNO ALL'AMMINISTRAZIONE DELLO
STABILIMENTO DETTO DI VIGNA PIA.
Il Sac. Giovanni Bosco si assume l'amministrazione dello stabilimento di Vigna Pia proponendo quanto segue:
1° Provvederà un numero di persone sufficienti per la educazione religiosa, morale, artistica e scientifica, in proporzione dell'età, bisogno e condizione dei giovanetti ricoverati.
2° I giovanetti saranno occupati nell'agricoltura, ne' mestieri più vitali della società come sono calzolai, falegnami, sarti, ferrai ed anche nello studio, qualora se ne vedesse la convenienza. Tutti per altro avranno la scuola serale in cui fra le altre cose vi sarà l'insegnamento musicale.
3° Il Direttore locale è arbitro della disciplina, ma non può nè ricevere nè mandare via alcun allievo dallo stabilimento senza il consenso dell'Amministrazione.
4° Il Direttore provvederà vitto, vestito, medico, medicine, capi d'arte, parrucchieri, bucato, rappezzatura e quanto altro possa occorrere pei giovani. [607]
5° Per la coltivazione della terra si tratterà a parte se debbasi operare a conto dell'Amministrazione oppure a conto del Direttore: ma è fatta facoltà di seminare legumi ed erbaggi per uso dello stabilimento.
6° L'Amministrazione dà facoltà al Direttore di accettare giovani a di lui conto proprio e destinarli al lavoro od allo studio come egli meglio crederà, purchè lo comporti la capacità del locale.
7° L'Amministrazione pagherà al Direttore per ciascun individuo in ragione di un franco al giorno se non eccedono il numero di cento; per quelli che oltrepassassero questo numero saranno pagati per ciascuno 90 centesimi.
Il Direttore, maestri, assistenti, persone di servizio, sono considerati come allievi nel pagamento per parte dell'Amministrazione, cioè avranno tutti un franco caduno.
8° Con questa somma l'Amministrazione intende di essere esonerata da ogni spesa, fuori di quanto sarà giudicato necessario per la conservazione od ampliazione dell'edificio dello stabilimento.
9° L'Amministrazione farà un mutuo di tre mila scudi al Direttore per le spese di primo impianto e per l'anticipazione delle provviste più necessarie.
10° Questa somma comincerà ad estinguersi dopo un anno, mercè la ritenuta di tre franchi al mese su quanto si corrisponde per ciascun allievo.
11° Questo mutuo sarà garantito con mezzi da convenirsi.
12° Il contratto durerà un quinquennio e in caso che alcuna delle parti per ragionevoli motivi volesse ritirarsene, dovrà prevenire l'altra parte due anni prima.
13° Qualora succedessero tempi in cui i commestibili aumentassero di prezzo in modo eccezionale, l'Amministrazione si obbliga di inviare due de' suoi membri per verificare il bisogno e venire in soccorso, per quanto sarà possibile secondo le gravità del caso.
14° Nella entrata di possesso si farà un inventario degli oggetti mobili, esistenti nello stabilimento, e se ne darà conto in caso di scioglimento di contratto. Si eccettuano però le cose che si consumano coll'uso, di cui si dirà soltanto in qual modo siansi consumate.
15° Il contratto incomincierà ad essere in vigore nell'anno....
Ma un altro fine importantissimo che aveva condotto Don Bosco a Roma era il conseguimento dell'approvazione della sua Pia Società, o almeno di poter dare le dimissorie ai Chierici ad instar Ordinarii. A lungo ne aveva parlato col Sommo Pontefice. Il Papa, che gli era deferente, approvava, [608] ma, come era naturale, desiderava che le cose procedessero secondo il corso ordinario, e diceva a Don Bosco:
- Bene! rivolgetevi alle Congregazioni; quando esse avranno deliberato, io interverrò.
Ma qui stavano le difficoltà. Don Bosco non aveva trovati troppo propensi i membri della Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari. Sul punto specialmente del voto di povertà, come esso lo esponeva, dovette impiegare e tempo e parole con poca riuscita. E poi allora studiavasi il modo di estendere quanto più si poteva la giurisdizione vescovile sugli ordini religiosi.
Sovra tutti contrario ai progetti di Don Bosco era Mons. Svegliati, Segretario della Congregazione, persona influentissima, dalla quale dipendeva assai la decisione. E il Papa indirizzò Don Bosco a Mons. Svegliati, facendogli capire che se riusciva a trarlo dalla sua l'affare era concluso. Alle parole del Papa era presente Mons. Ricci, il quale accondiscese alle preghiere di Don Bosco di accompagnarlo al palazzo della Cancelleria, ove teneva uffizio lo Svegliati. Andarono con D. Francesia, ma dovettero aspettare per più di un'ora, poichè il Segretario era uscito. Stanchi di attendere si mossero per ritornare a casa, ma nell'atto che sotto i portici D. Bosco indicava a D. Francesia il luogo dove era stato ferito il Conte Pellegrino Rossi, ecco comparire Mons. Svegliati. Mons. Ricci gli presentò Don Bosco dicendo:
- Questi è Don Bosco di Torino. Il Santo Padre desidera che si aggiustino le cose con lui e che V. S. veda il modo di contentarlo.
Il Segretario salutò cortesemente Don Bosco, e questi prese a dirgli:
- Credo che Monsignore avrà ricevuto ed avrà letto quel memoriale che indirizzava alla S. Congregazione, e le regole della Pia Società di S. Francesco di Sales.
- Io l'ho letto ed ho lette eziandio le regole; ma, mi perdoni, [609] sa, mi ha sorpreso la maniera colla quale sono concepite: come vuole, per esempio, che si accordi il voto di povertà col possesso dei proprii beni?
- Eppure se Monsignore mi permette di parlare, vedrà che la cosa non è contraria a questo voto come Ella dice.
- Sarà ben difficile! e poi questa approvazione va maturata bene: e ciò che dimanda in quanto alle dimissorie, non è cosa ammissibile.
- Ma pure il Santo Padre mi ha detto che desiderava....
- Il Santo Padre!? Il Santo Padre non si ricorda più i decreti che esso stesso ha fatti?... Si persuada, D. Bosco: non si può!
- Mi ascolti, Monsignore... - e si mise ad esporre le sue ragioni, a rispondere alle obbiezioni che gli si potevano fare, a dimostrare la ragionevolezza, anzi la necessità delle sue domande. Tuttavia Monsignor Svegliati ad ogni tratto ripeteva: Non si può! e non ci fu verso di trargli altra risposta.
Fu una scena ben singolare. Mons. Svegliati, essendo fermo a nulla concedere e seccato da quell'insistenza, procurava che i suoi sguardi non si incontrassero con quelli di D. Bosco e per conseguenza volgeva alquanto il viso altrove; e D. Bosco calmo e tranquillo, ma deciso di avere una risposta favorevole, si muoveva sempre in modo da trovarsi innanzi al Segretario, il quale senza avvedersene fece molte volte il giro intero sulla sua persona. A lungo durò questo dialogo, e nella maniera più lepida per chi ne era spettatore. Finalmente Don Bosco lo pregò:
- Se Monsignore volesse accordarmi una breve udienza questa sera in casa sua, forse riuscirei a persuaderlo della bontà delle mie ragioni
Monsignor Svegliati, che era un gentiluomo compitissimo, gli rispose:
- Venga pure: ben volontieri: ma sarà cosa inutile: [610] non si può! non si può! e a me rincresce farle perdere un tempo così prezioso.
- Son venuto a Roma principalmente per questo affare e se non disturbo Monsignore col venire a sua casa, per me sarà un abboccamento desideratissimo.
D. Bosco vi andò, lunghissima fu la conferenza e quando uscì egli era abbastanza appagato. Mons. Svegliati non parve più così ostinato nel suo “non si può!”, che cessò di ripetere due anni dopo quando una benedizione di Maria Ausiliatrice gli ridonava la sanità.
Il 20 gennaio Don Bosco recavasi a pranzo dagli scrittori della Civiltà Cattolica. Si parlò dell'elezione de' nuovi Vescovi e quei Padri vollero udire da Don Bosco l'abboccamento che aveva avuto col Ministro Ricasoli a Firenze, e i dialoghi avvenuti tra lui e il Comm. Tonello. Don Bosco, che parlava talora di cose per lui gloriose senza darsi alcun'aria di importanza e con una bonarietà ammirabile, li accontentò, esponendo i fatti in modo che que' venerandi religiosi ammiravano la sua umiltà, dicendola propria di un santo. Don Francesia li udiva esclamare:
- Si puon dire cose di maggiore importanza con più semplicità?
E il Padre Oreglia gliele fece ripetere in varie circostanze quattro o cinque volte.
E forse a questo pranzo che si parlò anche della propaganda de' protestanti e si convenne che Padre Perrone avrebbe scritto un libro popolare contro i loro errori, che sarebbe stato stampato nell'Oratorio di Torino.
Un po' di lavoro anche pel Bibliotecario. Fammi il piacere di cercarmi i seguenti libri proibiti: Catechismo dei Valdesi di Ostervald; Liturgia dei Valdesi, stampata in Losanna; Inni cattolici ovvero Cristiani primitivi di Arturo Bert; Amico di famiglia, libretto di preghiere [611] ed anche altri libretti protestanti. Sopra ognuno metti il bollo dell'Oratorio; metti tutti in un fascio per la posta corrente, con Buzzetti, raccomandato, poi li manderai all'indirizzo:
il Sig. P. Perrone della C. di G.
Amami nel Signore, prega per me che ti sono di cuore
A Roma adunque Don Bosco era oggetto della più attenta osservazione da parte delle persone ecclesiastiche. Diceva Padre Giuseppe Oreglia:
- È un santo: fu studiato bene e nulla si trovò in lui di meno retto. Va ai pranzi e mai nulla domanda o rifiuta, desidera o abborrisce, loda o biasima; del bicchiere di vino, sempre adacquato, non vede mai il fondo.
Egli era così anche a Torino. Tornando talvolta dai grandi pranzi, la sera mangiava con appetito la minestra di riso, cotta e stracotta, senza lasciarla mai.
Don Francesia insisteva presso Padre Oreglia solo per stuzzicarlo a parlare:
- Ma in quanto a penitenza non saprei che cosa vi abbia in lui d'eroico.
- In quanto a penitenza basta per dirlo santo la sola pazienza che ha nelle udienze!
Ed era vero. Scriveva di lui il rev. Padre Felice Giordano degli Oblati di Maria Vergine: “L'assioma di S. Teresa: Niente ti turbi, niente ti sgomenti! pareva la tessera che guidava praticamente il servo di Dio Don Bosco, a tale, che questo bel detto sembravagli passato in seconda natura. Vi fu mai uomo distento in maggiori sollecitudini, in maggiori affari, in maggiori impegni, in maggiori e più disparate corrispondenze? Figurarci! Un giorno che nell'intimità dell'amicizia contavami le distrazioni onde gli era sorgente il timone della sua [612] barca: - Guardi, mi disse, fra tante lettere che continuamente mi piovono da tutte parti, a fare una media, almeno sei al giorno sono tali, che mi fanno mettere la testa fra le mani per trovare un filo di luce, un po' di barlume a rispondere. - E senza questo tante ore di udienza ogni giorno, tante visite interminabili, bene spesso di noiosi, di rozzi, di poveri, di angustiati, di afflitti, e massime di indiscreti. Ed Egli tutti accogliere, con sorriso, tutti ascoltare con attenzione, non mai veruna premura di congedarli. Avvien che egli debba uscire di casa, per qualche obbiettivo da finire, da sistemare? Non vi arriverà così presto! Già nel sottostante cortile vi è qualcuno che lo aspetta; poi nelle contrade e giù per le piazze vi è qualche altro ser cotale che l'arresta; ed Egli tosto fermarsi sereno, udire con interesse, come non avesse altro al mondo che fare, fuorchè ascoltarlo. Una simile calma e pazienza, una tale equanimità portentosa potrà sembrare ai futuri nepoti ipotetica, non punto ai contemporanei innumerevoli, i quali a forza d'esserne spettatori ne avevano perduto, come dell'aurora, il prestigio”
Il 21 di gennaio Don Bosco era in mezzo ai Canonici Regolari Lateranensi, detti volgarmente Rocchettini. Questi religiosi uffiziavano la chiesa di S. Pietro in Vincoli, presso cui era l'abitazione del Conte Vimercati, dove D Bosco si recava talvolta a celebrare ed erasi fatto intimo amico col giovane religioso Edgardo Mortara, il cui battesimo aveva messo sossopra la Sinagoga degli Ebrei, tutte le sette nemiche della Chiesa, e la diplomazia di qualche Stato.- Il Papa non cedette, il giovane coraggioso perseverò, e si preparava al Sacerdozio. Or bene Padre Pio Mortara nel 1898 ci faceva da Marsiglia questa relazione:
“Lascio correre la mia penna dietro ai sentimenti di profonda venerazione che mi uniscono alla memoria del servo di Dio Don Bosco ed alla sua opera, il cui svolgimento riempie di stupore e di ammirazione tutti coloro che la conoscono. [613] Fin dal 1867, essendo ancora giovane professo e scolastico in S. Pietro in Vincoli a Roma presso i Canonici RR. LL., sentii parlare di Don Bosco ed ebbi l'onore e la gioia di vederlo e di assisterlo al santo altare, dove rimasi più volte edificato dalla sua profonda pietà e devozione, che però non presentava nulla di affettato, nè di straordinario.
Al ritornare alla sacrestia, mentre pie persone imploravano in ginocchio la benedizione del Venerabile Sacerdote, io non mi saziava di ammirare la sua modestia e umiltà, facile, disinvolta, senza violenza, riflesso genuino di una virtù profondamente impressa nel suo animo.
Nel prendere un frugale rinfresco, Egli si porgeva a tutti amabile, gioviale, conversando con tutti di cose edificanti e istruttive, perfino di filologia e del greco moderno, che egli pareva conoscesse benissimo. Insomma al mirarlo superficialmente nulla di notevole si scorgeva in lui, se non una modestia e una compostezza esteriore che incantava e profumava l'ambiente; ma all'osservarlo attentamente s'indovinava l'uomo di Dio.
Ricordo che essendo stato invitato alla nostra frugale mensa in S. Agnese fuori le mura, il dì della festa di quella gloriosa Vergine e Martire, noi ci dicevamo l'un l'altro: - Avete veduto? Egli ha desinato come gli altri! -Ma che parsimonia, che riserbo, che modestia nelle sue parole e ne' suoi sguardi!
Don Bosco mi trattò sempre con speciale benevolenza, del che io non saprei indicarle altro motivo, senonchè perchè egli sapeva benissimo quello che aveva fatto e sofferto per me l'angelico Pontefice Pio IX, che egli venerava ed amava sì teneramente, come speciale protettore della cara sua Opera.
Dopo la S. Messa, egli mi dirigeva sempre qualche parola affettuosa, mi regalò la medaglia di Maria Ausiliatrice, invitandomi più volte a visitarlo in Torino ed onorandomi anche di speciali confidenze. [614]
Una volta mi chiamò a parte e mi pregò di scrivergli a Torino, giacchè egli voleva manifestarmi un segreto.
Nella sua risposta alla mia lettera, che io non tardai a scrivergli, egli si esprimeva presso a poco così: - Caro mio D. Pio! (era ed è il mio nome di religione in luogo del nome semitico Edgardo). Io debbo manifestarvi una cosa, che vi prego per ora di tener segreta. Nel ritornare alla sagrestia dopo la messa, io vidi sulla vostra fronte ondeggiare una nube oscura. Quando voi abbassavate la fronte, voi sembravate tutto sereno e ridente. Nell'alzarla però quella tetra nube ricopriva il vostro volto, che io non vedeva più. Al disopra di quella nube due angioli sostenevano una bella corona di fiammanti rose. Figlio mio, siate umile e tutto andrà bene per voi. L'orgoglio figurato da quella oscura nube sarebbe la vostra rovina. Quella bella corona il Signore ve la darà, se voi persevererete. Siate sempre fedele.
Debbo dire, per amore della verità, che questa comunicazione segreta corrisponde perfettamente al mio stato interiore ed all'insieme del mio carattere e del mio temperamento, ed anche allo svolgimento della mia modesta esistenza. Quante volte in mezzo alle più terribili lotte interne ed esterne, nelle più acerbe ed amare prove, ho compreso e sentito che l'umile soggezione all'adorabile volontà di Dio, era per me un conforto e un sostegno che spandeva lo splendore di una celeste pace nell'animo, mentre che l'impazienza non avrebbe fatto che riempirlo di tenebre. Tante volte, oppresso da amarezza, privo di ogni umana consolazione, rivolsi lo sguardo a colui che ci animò dicendo: Merces vestra magna est in coelo e scorsi quella bella corona di rose che il Signore mi darà, spero, se, adjuvante ejus gratia, sarò fedele usque ad mortem.
Per mia parte credo che questa rivelazione di D. Bosco potrebbe trovare il suo posto nel capo della sua vita Discernimento degli Spiriti...”
A ROMA era tutta una gara per far piacere a Don Bosco in più modi, ma specialmente con onorare Maria SS. Ausiliatrice accettando biglietti di lotteria e facendo offerte. Due signori vollero a loro spese comandare a valenti scultori due altari di marmo da collocarsi [616] nelle cappelle della nuova chiesa di Valdocco. Era già bello il disegno di uno di questi, ma il donatore, esaminatolo, non lo giudicò abbastanza ricco e volle che vi si aggiungessero tanti ornati per circa due mila lire. Era un atto di riconoscenza perchè, essendo egli malato cronico, D. Bosco lo aveva sollevato dai suoi dolori:
- Veda, D. Bosco, gli diceva; io non sono molto ricco, ma i miei redditi sono ben divisi e assicurati. Quanto io risparmierò di medici e di medicine, tanto spenderà per la sua Chiesa. Si ricordi che per Don Bosco farò tutto ciò che potrò.
E nella Chiesa di Maria Ausiliatrice continuavano i lavori colle offerte di Roma.
Il sig. Conte Vimercati mi lascia di dirle che egli domani con lettera assicurata le manderà una cambiale di quattro mila franchi da pagarsi a vista dai fratelli Nigra. Venne egli stesso oggi per la prima volta a dirmelo. È un vero miracolo il suo miglioramento. Perchè sappia poi, 3000 franchi sono dati da lui stesso. Oltre alle altre gravi spese e questo, per noi farà forse anche altro.
Spero che D. Durando siasi ristabilito dal suo incommodo e ne ringrazio il Cielo.
D. Bosco è andato a S. Pietro e a momenti andrò a trovarlo. È contento che lo saluti per parte sua?...
Anche il Conte scriveva al Cavaliere:
Ecco la cambiale di franchi 4039 da pagarsi a vista da codesti signori fratelli Nigra al di lei ordine. Questa somma è composta di varie offerte fatte qui per la fabbrica di codesta chiesa. Spero che prima che parta D. Bosco ne verranno delle altre. Io poi non le so dire come sia stato festosamente accolto e sia sempre meglio gradito questo sant'uomo in Roma da tutte le classi delle persone, cominciando dal Sommo Pontefice! Dio sia benedetto. Quanto a me le dirò [617] che continuo a soffrire assai di notte ed i miei nervi non mi lasciano in pace, come vedrà dal tremolar della mano che scrive. Così piace a Dio e così sia. Io per fermo me ne sto tranquillo e contento. D. Bosco mi dice parole di conforto e di fiducia. Di fretta intanto, ma ben di cuore, me le offro nei sacri Cuori di Gesù e Maria
Sull'efficacia della parola di Don Bosco troviamo questa dichiarazione nei nostri documenti:
“È un incanto udire la parola di D. Bosco così dolce, così viva, così penetrante. Se corregge, la sua correzione non irrita, ma fa piangere e fa promettere di cambiar vita. Se consola, l'afflitto sente sciugarsi le sue lagrime e mutarsi il dolore in gioia tranquilla. Se loda, il suo elogio inebbria ed entusiasma. Se compatisce un infermo, il suo affetto lo riempie di pace e di speranza. Si videro madri desolate presentargli de' figli quasi morenti ed ei li benedisse, non promise guarigione, ma le tranquillò esortando le buone donne a portare quella croce che il Signore loro aveva data. Una di queste si congedò da lui baciandogli la mano ed esclamando: - Parto, ma tanto consolata, come se avessi visto mio figlio risanato. - Ed è certo più gran miracolo indurre una madre a perfetta rassegnazione, che quello di guarirle il figliuolo”.
La sua parola non si alterava mai, non dava segno d'impazienze, ma usciva franca, quando occorreva, anche davanti a persone altolocate.
Una Dama della più alta aristocrazia romana, raccomandava a D. Bosco due suoi figliuoli infermi. Il Venerabile le fece osservare che bisognava rimettersi a quello che il Signore disponeva.
Quella allora con vivacità ed una certa alterigia:
- Non faceva bisogno che Ella venisse da Torino per insegnarmi queste cose!
E D. Bosco tranquillamente: [618]
La Dama, che in fondo era veramente virtuosa, intese che ci voleva umiltà per ottenere grazia e dopo d'allora appariva umilissima ogni volta che si trovava con lui: e lo fu sempre.
La Contessa Anna Bentivoglio il 27 gennaio scriveva al Cavaliere Oreglia:
Alcune espressioni dettemi da D. Bosco, e da me male interpretate, mi avevano talmente stravolto il cervello, che per una settimana ho creduto d'impazzire. Ieri sera finalmente una visita di Don Bosco, che tremava di rivedere, mi ha tranquillizzata. Ho potuto riprendere le mie preghiere che non era più capace di recitare, ed occuparmi nuovamente della mia casa e di tutti i miei doveri. Don Bosco dice che il demonio, il quale fa di tutto per impedire il bene, mi aveva messi tutti quei spaventi per la testa. Basta, speriamo che di quei giorni non ne tornino mai più. Certo che tutt'altra persona che non fosse della virtù di D. Bosco avrebbe con me perduta la pazienza, ma egli invece mi usa carità e non fa caso delle mie stravaganze .....
Abbiamo molto parlato con D. Bosco dell'altare da farsi e pare che siasi stabilito di incominciare subito i lavori: con Annibale s'intendono molto bene a parlare di marmi, di costruzioni e di ornamenti...
Don Bosco è sempre in giro dagli ammalati e da tutte le persone più distinte di Roma, cominciando dal S. Padre, dal quale mi diceva ieri sera, avere l'accesso libero a qualunque ora, senza fare anticamera. Questi sono favori che non si compartono con facilità e D. Bosco deve esserne molto contento .....
Di queste visite continuava a scrivere D. Francesia. Ecco la lettera, alla quale noi aggiungiamo fra parentesi le date, per maggior chiarezza.
D. Bosco, malgrado ogni sua buona volontà, non ha potuto ancora rispondere come desiderava a tutti quelli che di costà gli scrissero aprendogli le loro pene ed i loro voti perchè ogni cosa gli riuscisse favorevole. Se io dicessi che non ha tempo neppur a mangiare, non sarei creduto, e tuttavia direi la verità. Ed appunto per questa continua ed oppressiva occupazione, da qualche giorno in qua non istà più tanto bene. Ognuno a lui ricorre e per le malattie del corpo e per quelle dell'anima . Fortuna che D. Bosco prega e mi dice di pregare [619] perchè nulla di straordinario avvenga, del resto io temo di non condurlo più intiero a Torino.
Qui a Roma, dacchè siamo venuti, non ha fatto altro che piovere ed in che modo!
Benchè poco, venne eziandio la neve. Le strade sono fangose: è un brutto andare attorno.
Di questi giorni D. Bosco ha stretta relazione col principe Torlonia. Povero ricco! come fa pietà! Con tante ricchezze è tanto infelice! Dio voglia che D. Bosco possa far conoscere a questo signore le sue necessità e averne soccorso. A lui 100.000 scudi è come per noi 100.000 centesimi (regalati però). Saprai meglio di me che questo principe, favolosamente ricco, ha una famiglia disgraziata. Se coll'entrata di D. Bosco ci entrasse qualche benedizione che cara fortuna! Ma sarebbe necessario che il medesimo D. Bosco derogasse dall'antico proponimento di non voler domandare a Dio nulla di temporale con istanza.
Si sparse la voce che D. Bosco avrebbe condotti a Torino quanti più giovani l'avessero desiderato. Che furia di richieste! Anche i Padri Gesuiti sono incantati della santità di D. Bosco. Ed io credo il miracolo più grosso operato da lui sia il non aver fatto nulla di grande e l'essere tanto onorato.
Il suo sguardo è interpretato come a Torino. Quanti pensieri dopo una sua occhiata, se non troppo benigna, se seria, se solo indifferente. Anche lagrime in una buona signora ho veduto dopo una girata di occhio un po' misteriosa: -Povera me, esclamò; egli mi vede che ho bisogno di aggiustare le partite dell'anima mia! - Ed era forse così, perchè subito dopo andò ad aggiustare le partite dell'anima sua.
L'altro dì (22) fummo al Seminario di S. Pietro ed una povera fanciullina che si reggeva sulle grucce, venne gridando: - Mi dissero che qui c'è un santo, che mi può guarire. Oh mi guarisca per amor di Dio! - E ciò senza che sia avvenuto un fatto pubblico e grave per far conoscere D. Bosco come taumaturgo!
Dalla mattina alla sera è un andirivieni alla nostra abitazione: e venerdì (25) tre cardinali vennero ad un tempo. Che magnificenza, che splendore. Stavano davanti la porta parecchie carrozze e come addobbate! Il passeggiero transitando domandava:
- E chi sta qui dentro? C'è venuto il S. Padre?
- E che S. Padre! È un prete di Torino, si udiva rispondere, che si dice ed è veramente santo!
D. Bosco, già in molta voce per la sua pietà e pel suo Istituto, ora il diviene per la sua Storia d'Italia. Ognuno la dice un capo lavoro. I PP. Gesuiti l'adotteranno forse nei loro collegi che hanno qui in Roma.
Di questi giorni passati (24) siamo andati a Mondragone con un [620] tempo, veramente orribile. Eravamo cinque nella medesima vettura: il D. Bosco di Torino, il D. Bosco di Roma, il Duca Scotti e la Duchessa e il Marchese Cappelletti. L'unica soddisfazione in quell'orrore era l'avere in nostra compagnia D. Bosco. Anche la Duchessa, bagnata e piena di freddo, invece di lagnarsi se ne mostrava lietissima, ma per la cara compagnia avuta. Giunti là fummo ricevuti come principi, e per D. Bosco furono tutti gli onori. Vollero quei buoni Padri che D. Bosco indirizzasse a tutti i giovani, divisi in tre classi, qualche parola. Come l'ascoltarono con religione, e cogli occhi mostravano la loro gratitudine e compiacenza. La piccola medaglia miracolosa fu il ricordo che lasciò a ciascheduno e che ognuno riceveva con piacere. Gli alunni diedero saggi di ginnastica. Pensammo allora al nostro Anfossi che è così bravo in questi esercizi ed al contento che avrebbe avuto nel vederli così sciolti e spigliati su per quelle corde. Il locale di Mondragone era ed è dei Principi Borghese: era una volta un paradiso di passatempo e forse non innocente, ed ora di studio e di pietà. Quei giovani si appassionarono subito di D. Bosco e non sapevano più distaccarsene. Trovammo Piemontesi e proprio di Torino. Vedemmo il marchesino Cantono. Che buon giovane è mai, che fisionomia candida. Occupa i primi posti di scuola e nell'affezione universale. I maestri lo amano e lo stimano assai. Che bel momento fu per lui quando vide D. Bosco! Cinque o sei volte gli baciò la mano e non era ancora soddisfatto. Fra questi giovanetti molti sono i buoni, parecchi i buonissimi; tutti fior di nobiltà; amantissimi della virtù e della penitenza. Loro modello S. Luigi. Conoscono anche il nostro Savio Domenico e cercano di imitarlo. L'avrebbe mai sognato Savio, l'avremmo mai pensato noi che un giorno egli sarebbe stato l'ammirazione di tanti? Se i giovani là sono buoni, il merito è tutto dei Padri. Non li perdono mai di vista, in ricreazione, in iscuola, studio, camerata. È in mezzo a loro che provano soddisfazione, fra essi trovano il loro contento.
D. Bosco mi disse sabato a sera che oggi (26) e domani (27 domenica) vi avrebbe fatto qualche visita e che mi direbbe dopo anche i nomi di quelli che si regolano male. Ricevendo questa mia ogni cosa sarà fatta, ma ve lo dico perchè sappiate che D. Bosco si occupa dell'Oratorio e perde nessuno di vista. Scriverò martedì (29) quanto la Pitonessa sarà per suggerirmi. Perdona se così chiamo l'amatissimo D. Bosco. E questo, notate, disse come se avesse a bere un bicchier d'acqua. Già per lui ogni cosa riesce facile.
Ho nominato più sopra D. Bosco di Roma e ciò merita una spiegazione. Un buon Padre Gesuita, P. Delorenzi, si occupa specialmente della gioventù romana; era ed è in relazione stretta e confidenziale con D. Bosco. A Lui già aprì ogni segreto del suo cuore. Quando volle il Signore, gli capitarono tra le mani le vite dei nostri tre santini, come qui li chiamano. Non ci voleva altro a diffonderle tra i suoi, a innamorarli [621] ad imitare quelle virtù giovanili, che essi avevano praticate in modo eroico. E bisogna confessarlo vi è riuscito. Egli è diventato padrone assoluto di quei giovanetti. Tutto però s'inspira dal nostro D. Bosco. E se i nostri sapessero quante virtù cotesti Romani praticano Di tale età visitano le carceri, gli ospedali; fanno il catechismo ai carcerati; aiutano gli infermi, li lavano, e prestano tanti altri servigi. Furono questi giovanetti che guidati dal P. Delorenzi, a forza di penitenza, preghiere e confessioni e comunioni, ottennero la beatificazione del B. Giovanni Berckmans.
Il S. Padre ha fatto avvisare D. Bosco che ogni volta che desidera abboccarsi con lui non ha che a farsi portare, come dicono qui, o da Mons. Arcivescovo Berardi o da Mons. Pacifici. Quanta bontà! A Roma D. Bosco aveva a trattare di cose gravissime con un certo tale che si dice ed è difficilissimo. E che vuoi? D. Bosco gli parla, lo persuade, lo converte al suo partito e lo fa suo patrocinatore. Che Dio continui l'opera così ben avviata e fortiter e suaviter, prima questo, poi quello, e le cose nostre andranno prosperamente.
D. Bosco andando per via è salutato come, anzi, più che a Torino. Tutte le mattine quando esce di casa trova lo scalone del palazzo ed il portico gremito di persone che lo aspettano. Se vuole che la folla lo lasci passare, bisogna che dall'alto della scala dia la benedizione. Quello che a tutti piace è di vederlo sempre queto e con aria ilare. La sua giovialità poi ha conquistato più cuori.
Or ora m'interruppe la lettera Mons. Arcivescovo di Colossi, Rossi Vaccari, venuto per ossequiare D. Bosco e D. Bosco è in giro per Roma a visitare gli infermi. Abbiamo qui vicino una moribonda da quindici giorni: dice non poter morire se prima non vede D. Bosco; quando poi l'abbia veduto assicura che morirà. E D. Bosco non l'ha potuta ancora consolare.
Seppi che tu ti strapazzi nel troppo lavoro. D. Bosco ne ebbe dispiacere e ti raccomanda di averti riguardi.....
P. S. - Per la festa di S. Francesco si era inteso che si aspettasse. Il Ciambellano dell'Imperatore d'Austria ha in questo momento udienza da D. Bosco. La principessa Orsini lo aspetta per condurlo dal Principe Torlonia. La principessa Odescalchi ha promesso a Don Bosco 1000 scudi per la chiesa. La madre di una sua fantesca è ortodossa russa, ed è in punto di morte, nè pensa a convertirsi. Don Bosco prega e pregate anche voi. D. Bosco però giorni prima che ammalasse ha detto ed assicurato che sarebbe ella morta cattolica.
Ci venga chiunque a Roma, vegga pur qualunque più bella cosa, ma se non ha visto il religioso trionfo di D. Bosco non ha visto nulla. A te posso scrivere questo, ma non vorrei che diventasse cosa pubblica. [622]
L'amo D. Bosco e, appunto perchè l'amo, certe sue cose è meglio che s'ignorino.
Quest'oggi bacerà le catene di S. Pietro esposte nella chiesa a noi vicina. Di' alla Contessa Collegno che la sua Emilia sarà ascritta alla pia associazione del S. Cuore sabato, giorno sacro alla Purificazione di Maria SS.
La persona moribonda da quindici giorni, alla quale accenna D. Francesia sul finire della sua lettera, era una monaca.
Costei desiderava, prima di morire, vedere D. Bosco, abitando in quella stessa casa ove esso era alloggiato. Faceva fare istanze tutti i giorni, ma D. Bosco non era mai in libertà. Un bel mattino finalmente il portinaio chiuse la porta e gli disse:
- Non andrà fuori, se prima non vede l'ammalata.
D. Bosco sorrise e andò. La monaca fu contentissima di veder appagati i suoi desiderii e D. Bosco le disse:
- Si metta pure in viaggio, che io vengo a darle il passaporto.
Un'altra lettera, piena d'importanti notizie e di filiale entusiasmo, giungeva al Cavaliere Oreglia:
…Pare che a D. Bosco, malgrado ogni tentativo di non far cose belle, oltre quelle che fa colle sue parole, tuttavia gliene scappino a suo dispetto. Senta questa che incomincia ad alzar la voce qui in Roma e che forse vedrà stampata coi dovuti documenti. Ma per adesso io lo prego e lo scongiuro, non faccia pubblicar la cosa.
L'altra settimana D. Bosco fu invitato da un bravo giovanetto dei Collegio Romano a visitare un suo fratello o sorella (ora non mi ricordo bene) che da un anno circa pativa terribili dolori ad un braccio, che i medici per ultimo tentativo consigliavano di amputare per salvare il resto. Pensi come il suo povero padre sentì tale sentenza. A D. Bosco, invitato con premurosa tenerezza dal fratello, doleva di non potervi andare per le moltissime cose che aveva da fare. Gli consegna però la medaglina, che adesso possiamo chiamare meritatamente [623] miracolosa, raccomandando a lui e a tutta la famiglia di pregare Maria Ausiliatrice e di applicare il religioso oggetto sul braccio ammalato. Alla sera la famiglia eseguisce ogni cosa con fede. Alla mattina l'infermo, non più infermo, grida a tutta gola che egli è guarito e che la Madonna gli ha fatta la grazia. Così dicendo alzava liberamente il braccio. Nessuno voleva credere a quello che vedeva, ma la cosa era fuor di dubbio. Allora vollero cercare la medaglia, dalla quale riconoscevano un effetto così felice, per baciarla e ringraziare Maria; e la medaglia non si potè più trovare. Ove sarà ita? Non si seppe. Ne sono tuttora dolenti, chè l'avrebbero conservata come preziosissima reliquia. Intanto al braccio del fanciullino non rimase che una crosta o macchia, segno del male passato che conferma il fatto.
Domenica (27) abbiamo avuto gran festa qui vicino e P. Franco tenne discorso sul denaro di S. Pietro. Che concorso di gente e che bella musica! Ma dopo la festa in chiesa si minacciò di farne una seconda fuori. Mentre la gente usciva e si diffondeva per l'ampio piazzale davanti alla chiesa ed alla casa del sig. Conte, D. Bosco arrivava da fare qualche visita per Roma. La gente incominciò a fermarsi, a mormorare un nome: poi a correre e gettarsi tutti sopra a D. Bosco. Egli, tranquillo, era in mezzo al Conte De Maistre, alla Marchesa Villarios, la principessa Orsini e varii altri. Non si aspettava un tale incontro. Tutti lo volevano vedere, tutti baciargli la mano ed il nome di Don Bosco era ripetuto da mille e più bocche, narrandosi a vicenda le sue virtù ed opere miracolose. Ce ne volle per strapparlo di là. Molti piangevano a quella dimostrazione pietosa. La madre dei due Spazzacampagna, presente al fatto, al vedere l'affetto universale per le virtù di D. Bosco, sentì meno il dolore di aver i figli lontani e ringraziò la Provvidenza che gli abbia raccolti sotto sì brava e santa persona. Io non le dico un millesimo, di questa dimostrazione. Fu simile a quelle che il popolo romano è solito a fare al S. Padre...
D. Bosco era aspettato, come si aspetta un angelo, in casa Torlonia. Quella casa che forse non si sarebbe mossa alla venuta di un re, discese tutta, la parte sana cioè, perchè alcuni sono infermi, ad aspettare D. Bosco sulla porta. Stupivano i servi e più stupivano i signori che gli facevano corona. Ma D. Bosco fa in tutto e dappertutto eccezione. Egli al solito si fece attendere. Finalmente arrivò e fu accolto colle più cordialissime feste. Benedisse gli infermi, parlò a tutti i membri di quella nobilissima famiglia, e stette qualche ora in quella casa, dove l'oro è a sacchi negli scrigni e gettato a piene mani sulle pareti. Il Principe non si voleva nè sapeva più allontanare da D. Bosco e voleva mostrargli ogni cosa colla più tenera ed affettuosa semplicità. D. Bosco osservando tante e così spaziose sale, sospirava, dicendo: - Ah! signor Principe, se io avessi questi locali, quanti letti ci metterei per i miei poveri giovani i - Alla fine il Principe lo invitò [624] a tornare a dirgli una messa, e gli promise che anch'esso avrebbe preso parte alle sue opere di beneficenza. Lo accompagnò alla vettura, gli chiuse lo sportello, e più volte lo ringraziò d'essersi degnato di visitarlo.
Ora le avrò a dire di una visita ad un povero infermo cieco da più di sei mesi? Pare che Don Bosco sia creduto da tutti come guaritore di ogni male al solo toccare colle sue mani l'infermo. Quest'infelice baciando la medaglina a lui raccomandata:
- Ah mi tocchi l'occhio colle sue mani, diceva piangendo; che io veda, o Signore!
D. Bosco non ha a far poco per tranquillar tanta gente, la quale spera, anzi è sicura di ottenere grazia. Ma ad ogni modo è provato da tutti che o all'anima o al corpo le sue visite servono sempre. Un'inferma mortalmente per sbocchi di sangue in gran copia, benedetta da D. Bosco, prodigiosamente migliorò, anzi si dice guarita. Mandò, secondo il suo potere, una piccola ma cordiale oblazione.
Fu al Caravita lunedì (28), dove si raccoglieva una volta il fiore delle Dame Romane in pia Congregazione. Un tempo era florida, ora deperiva con grave danno.
Nei giorni di conferenza appena quattro o sei signore e al massimo otto intervenivano alle riunioni. I Gesuiti, che a Roma sono onnipotenti, ne erano desolati e non riuscivano a ravvivare quella Società. Invitarono perciò D. Bosco a dir quivi la messa e a fare un discorsino. D. Bosco accettò. Si sparse la notizia e lunedì la chiesa era gremita di gente ad ora molto anticipata. Alle otto, ora stabilita, tale era la calca che nessuno potea più entrare. D. Bosco al solito tardò. Suonano le 9 e poi le 9 ½ ed esso non compare. La gente non dava segni d'impazienza, ma sempre sopravvenendo nuove carrozze ne erano piene le porte e le strade. L'unico affetto che provavano i radunati era la paura che D. Bosco non venisse.
Finalmente arrivava. Erano quasi le 10. Ma non poteva entrare in chiesa, stante la folla; e ce ne volle del tempo per giungere alla sacrestia. Quivi, vestiti gli abiti sacri, andò a celebrare la S. Messa, fece molte comunioni e poi parlò. Incominciò dicendo: “Fede! Fede ci vuole, o miei cari, per operare!” E ciò diceva con tale entusiasmo che sembrava una corrente elettrica investisse e scuotesse il suo uditorio. Pareva ispirato. Rimproverò, ma fu ascoltato con riverenza. Raccomandò e faranno. Quando scese dal palco che serviva di pulpito, nessuna persona voleva uscire. Tutti gli si stringevano attorno, tutti volevano parlargli e solo alla promessa che presa una tazza di caffè sarebbe ritornato, lo lasciarono passare.
All'altare, nei corridoi, in sacrestia c'era gente che lo aspettava. Parevano i nostri giovani quando dopo le orazioni si affollano per [625] baciargli la mano. Tutti avevano le loro necessità da manifestargli, infermi da fargli benedire. Come si potè, fu strappato di là mezzo rotto e condotto in salvo al Collegio Romano. E noti che il maggior numero di quelle dame erasi portato in chiesa alle 7.
Alle 12 moltissime aspettavano ancora D. Bosco in chiesa pel vivo desiderio di salutarlo.
In mezzo la via fu uno spettacolo commovente. Da tutte le bande appena lo videro accorsero madri coi loro bimbi in braccio, accorsero signore, signori, preti, gesuiti ed altri e altri, tutti per ricevere la benedizione. Io non seppi far altro che nascondere la faccia entro il mio cappello e piangere, pregando per quelle anime pie e così piene di fede. Vidi più altri che avevano gli occhi lagrimosi, fra cui una guardia nobile palatina, il Marchese Narmerini, che stava attendendo D. Bosco per condurlo a casa, anche per benedire la sua povera consorte ammalata.
A stento salì sulla sua carrozzella. Tutta la via era gremita di persone e da una parte e dall'altra fiancheggiata da due lunghissime file di carrozze di nobili. Ed ecco tutti gettarsi in ginocchio gridando:
- D. Bosco, la sua benedizione!
I carrozzieri si tolsero il cappello e D. Bosco nella Roma dei Papi dovette benedire il popolo.
Crescit proprio eundo l'entusiasmo per l'amatissimo D. Bosco e dove lo possono avere, dicono, per un momento e poi per ore ed ore, non lo lasciano più uscire. Ed egli non ha mai fretta. Per potergli parlare ce ne sono di quelli che lo aspettano e direi stanno in agguato delle mezze giornate, e quando loro accade di potersi abboccare con D. Bosco un dieci minuti, sono contentissimi.
Forse D. Bosco occupatissimo come è, non potrà, come era suo vivo desiderio, scrivere in risposta e ringraziamento a tutti quelli che gli scrissero tante belle lettere. Parecchie mi furono date anche a leggere a me. Come erano bene scritte! Per occupare qualche momento le persone che aspettavano udienza, e per dar loro saggio della bontà di cuore e d'espressione dei nostri giovani, ne diedi alcune a leggere a diverse persone e tutti ebbero a lodare la virtù che traspariva da quelle candide parole. Che ne siano tutti ringraziati, e se Don Bosco non potrà soddisfarli individualmente, scriverà a tutti insieme un letterone che si possa avvicinare al fascio di lettere che gli mandarono.
Terminando, sento che ho un dovere da compiere verso tutti i giovani della Casa che cercarono in questo tempo di assenza di Don Bosco di fare in modo colla loro buona condotta che egli non avesse a dolersi. Domenica però e lunedì fu a trovarli, e non ne fu troppo contento. Vide tante cose che si riserba egli stesso di scrivere nel primo ritaglio di tempo che gli rimarrà. Già io non so come abbia fatto, perchè [626] non ci fu giorno in cui sia stato più occupato quanto in questi giorni. I misteri di Dio e de' suoi servi fedeli sono sempre investigabili. A molti però batterà già il cuore! Deh, sia a salute!.....
Di questa visita fatta invisibilmente dal Venerabile all'Oratorio si ebbero prove sicure nell'indicare che fece con esattezza coloro che vide uscir dalle file mentre andavano alla passeggiata, mandare a far compre in città con danaro non consegnato al Prefetto, leggere di nascosto libri non convenienti alla loro età, allontanarsi di sera non osservati dalle scuole di canto, e via dicendo.
Un Salesiano, tuttora in vita, asserisce:, “La notte precedente al giorno nel quale D. Bosco fece scrivere la lettera ai giovani, avea sognato che D. Bosco era venuto nell'Oratorio. Lamentandomi con lui delle inquietudini di coscienza che provava: - Sai perchè? mi disse D. Bosco: perchè non sei ancora tutto di D. Bosco. - E mi parve di essere vicino a un ponte stretto ed altissimo sotto il quale scorreva un'acqua profonda e nera. Io non osava passare, ma Don Bosco mi prese per mano e incoraggiandomi colle sue parole, e camminando egli pel primo, coll'aiuto di Dio mi trovai dall'altra parte del ponte sano e salvo. Appena venuto D. Bosco da Roma, gli raccontai il mio sogno ed egli mi rispose che stessi tranquillo”.
PIU' d'uno di quelli che leggono queste pagine sarà tentato a giudicare esagerate le affermazioni e le descrizioni delle lettere di D. Francesia: ma farebbe un giudizio contrario al vero. In conferma di quanto [628] narriamo abbiamo troppe testimonianze di personaggi che videro e udirono D. Bosco in Roma; e, vedremo quanto maggiori siano state le accoglienze che egli ebbe in tutto il tempo della sua vita in Italia, in Francia, in Ispagna, e con un intreccio di fatti portentosi e innegabili. D. Bosco fu l'uomo del suo secolo, l'uomo mandato da Dio, il sacerdote santo, che santificava gli altri e che doveva cooperare efficacemente alla salvezza della società.
Sebbene io debba quasi sempre dire lo stesso, tuttavia non posso tacere. Tutti quelli che mi scrivono, fanno saper che le mie lettere piene di quel nome che tanto vi è caro, riescono graditissime. Deo gratias! Il mio desiderio è soddisfatto. Se alcune volte qualche reminiscenza un po' stantia veniva ad offuscarne apparentemente il candore, non era però che vera e pura espressione dell'animo mio manifestato con parole altrui.
Fui alle catacombe, e pensando alle anime di quei tali che là dormivano ancora in pace, domandai a Dio ed a quei santi fortezza per me e per tutti i giovani nostri dell'Oratorio. D. Bosco vorrebbe che dimenticassi lui per occuparmi delle cose che fuggendo posso qua e là vedere, ma so che a voi non piacerebbe che io così facessi. Obbedisco in parte ed in parte secondo il vostro affetto, legittimo però, trattandosi di D. Bosco.
Fummo il giorno di S. Agnese alla chiesa che la santa ha fuori delle mura di Roma, ove accadde il prodigio al S. Padre; perchè cadendo la volta su cui stavano, nessuno si fece gran male, ed il Santo Padre fu salvo intieramente. Là si mise una lapide a memoria dei fatto, ed io la lessi e ringraziai il Signore d'avere così miracolosamente scampato il suo Vicario. La festa è speciale per la benedizione degli agnelli. Poveri animali! vestiti a festa, inghirlandati di fiori, riposti sopra soffice cuscino, vengono portati dopo Messa all'altare e quivi benedetti. Alla sacra funzione belavano i mansueti animaletti e lambivano le mani del Sacerdote. Quante idee in quel punto! Dopo la funzione furono portati subito al Vaticano dal Papa, che li manda a qualche monastero, ove si nutriscono per fornire poi la lana per il Sacro Pallio dei Pastori.
Ma so che non è questo che voi desiderate, cose voi volete che riguardino D. Bosco. Sempre lui, e niun altro che lui, desiderate che [629] sia il tema delle mie lettere, ed io son lieto, perchè non ho altro a fare che interpretare il mio cuore. Già parecchie volte D. Bosco ha destato tale entusiasmo che sarà difficile non che descrivere, immaginare. A tutte ore v'è gente per parlargli, e di tutti i ceti. Appena lo vedono si gettano a terra e domandano la sua santa benedizione.
Pare idolatria, eppure non è che la riverenza sincera e profonda per un buon servo di Dio. Se aveste a vedere qual confusione di persone quando D. Bosco è in corso a dar udienza; ne stupireste anche voi. Quest'oggi per esempio doveva incominciare alle 3 e non potè fino alle 6, perchè venuto a casa tardi, e invece di pranzare alle 12 pranzò alle 2.45. Dopo (anime nere!) che parapiglia! Alcuni che eransi portati alle 11½ dovettero aspettare fino alle 7 e più di sera. E Don Bosco? Sempre calmo, sereno e paziente, a dare ascolto a tutti, consolare tutti ed accogliere tutti con quella bontà che gli è naturale. Se non fosse altro che lo manifestasse grande, tutti lo confessano tale per la dolcezza del suo tratto. Fra le altre persone ci fu la Principessa Odescalchi, che dopo esser venuta altre volte invano, potè avere accesso a lui. Gli narrò che quella povera inferma ortodossa russa, cui D. Bosco aveva benedetta, non parlava che di lui, che lo ringraziava della sua carità d'averla visitata; e che quando riceveva la sua benedizione si era sentita a scorrere un freddo misterioso per le ossa; che la medaglia lasciatele da D. Bosco è la più fida sua compagnia; che piange e prega pensando a D. Bosco. Che bel trionfo per la Chiesa se questa si convertisse! Più altre sue correligionarie si convertirebbero. Si preghi anche costà per questa disgraziata e le doni Iddio la salute del corpo, se è utile per l'eternità, e sicuramente la salute dell'anima.
D. Bosco quando esce per Roma si trova in tante case e famiglie che mai prima conosceva, e che là il condussero a sua insaputa per avere la sua benedizione o per mostrargli un infermo. Quello che io vedo sembra favola ed è verità. Una persona stette senza mangiare un giorno intiero per desiderio di parlargli, e partì senza questa consolazione. Partiva piangendo coll'animo di ritornarvi. I Parroci lo invitano alle loro chiese, i Rettori ai loro Istituti, i Padri ai loro conventi. Questa è cosa di tutti i giorni: so che ve lo dissi già tante volte, ma so, pure che vi piace sentirvelo a ripetere.
D. Bosco sente a lodarsi della condotta della Casa, ma egli non ne pare troppo soddisfatto. In due giorni che vi pose attenzione particolare, vide cose che lo afflissero profondamente. Nel primo momento che possa mi darà nome e cognome ed io ve lo manderò per norma. Ne siete contenti? forse no; ebbene si farà quello che è meglio per voi e per le vostre.
D. Bosco ammira e ringrazia la Provvidenza di quanto fece e fa per la nostra Casa. Quante pie persone che prima non ci conoscevano punto ed ora ci sono fervorose benefattrici! Dio è mirabile ne' suoi Servi! Ad [630] una persona cui premeva parlare a D. Bosco per affari di coscienza, prima di ascoltarla disse già sapere quello che voleva e le rispose a tenore de' suoi desiderii.
Un altro infuria per aver troppo aspettato, si presenta a lui indispettito e quasi faceva l'insolente. D. Bosco avrebbe potuto rispondergli per le rime, nol fece e tacque. Quel tale, mortificato, gli si gettò ai piedi e ne dimandò perdono. Di questi fatterelli potrei empirvi più fogli, ma mi sembra superfluo il già detto.
A *... Don Bosco dice che lavori di buon animo, e che non vuol mescolare la terra con l'oro.
D. Bosco del piccolo incommodo si è quasi interamente rimesso, e lavora già per quindici. Rossore a chi tocca di godersela e far niente! Grazie e molte a D. Durando delle buone nuove de' miei cari studenti, in mezzo a cui io mi trovo tutto il giorno, per trovarmi alla sera in mezzo ai miei artigiani. Chi conta loro l'esempio alla festa? Chi assiste alle scuole serali? Di ciò non ebbi notizie e ne aspetto come anche Don Bosco, non solo di queste, ma di tutta la casa. Come egli giubila quando riceve delle vostre lettere, e vi posso assicurare che non le trascura. Ma tutte quasi gli ricordano di ritornare, e forse più di tutto anche tacendo fa ciò sentire il sig. Prefetto. O carissimo, per questo mese non c'è speranza e per l'altro ci parleremo. A fatti compiuti discuteremo. Sarà impossibile che ritorni presto, dopo tanti impegni presi. Il sig. Conte Vimercati ringrazia tutti i giovani e piange pensando a loro. Se potesse guarire e portarsi tra noi una volta a Torino, che festa si farebbe mai! e la meriterebbe!
I biglietti di lotteria sfumano, tutti ne vogliono, tutti ne chiedono, il Cavaliere ne mandi un buon pacco.
Giacchè mi cadde questo buon nome dalla penna, fa' di dirgli che D. Bosco mi incarica di incombensarlo di comunicare al sig. March. Fassati, Cavaliere Collegno Zaverio, Cavaliere Villanova Clemente che egli parlò a lungo di essi coi S. Padre, e che ottenne per loro cose che faranno loro molto piacere e soddisfazione. D. Bosco mi lascia di scrivere al Padre Gallina che non può fare il mese di S. Giuseppe. Di sanità è cagionevole assai, non sicuro di essere a Torino per allora. Accetti il buon volere e lo perdoni; altra volta sarà contento di poter soddisfarlo.
Sono le dodici di sera e faccio punto.
D. Bosco è già incamerato e, se non si mette davvero, stamattina non dirà messa non solo alle 8, ma neppur alle 10. Una buona Marchesa sono più settimane che tutte le mattine alle 7 si trova a nostra casa per potersi confessare a D. Bosco e non può. Dura però costante fino a che sia appagata. Le vetture in questo punto arrivano e non sono [631] che le 7 mattutine e tutta questa gente viene per confessarsi. Potrà D. Bosco? Ne dubito.
Il S. Padre, qualora non l'abbia detto ancora in altre mie, si è degnato di dare qualche bella somma per gli Oratori. Quando Don Bosco fu ad ossequiarlo, il S. Padre nella sua carità volea dargli qualche cosa, andò alla sua cassetta e la trovò vuota. Sorrise il buon Pio, e alzando gli occhi al Cielo:
- Olà che il mondo non sappia che il Pontefice non ha più un soldo per sè! Eccomi veramente ridotto alla condizione finanziaria di S. Pietro.
- Carissimo, vedete, disse, poca differenza tra me ed i vostri orfani; voi vivete di provvidenza ed io di carità. I miei figli provvederanno!
Mi vien voglia di piangere scrivendo queste parole, ma il Santo Padre era religiosamente allegro e fidente in Dio. Il giorno dopo consegnava a Mons. Ricci, suo cameriere segreto, novanta scudi romani che formano la bella somma di 400 e più lire dicendo:
- Un povero padre ai suoi poveri figli! - La provvidenza era benignamente intervenuta.
Noterò ancora un grazioso aneddoto del quale fui testimonio. D. Bosco aspettava nelle anticamere di Pio IX per essere all'udienza. Esce intanto Mons. Ricci:
- Oh! D. Bosco - esclama vedendolo. - Sono quattro ore che Sua Santità vi attende e chiama di voi: venite, venite, perchè adesso il Santo Padre di Roma, come disse Sua Santità, siete voi!
Abbi cura della tua salute: saluta per D. Bosco e per me i carissimi nostri giovani e il Signore ti e mi e vi benedica.
P. S. - D. Bosco approva che Bisio si metta dai legatori e si raccomanda di provvedere di assistente anche i falegnami. È occupatissimo da mattina a sera e non può scrivere come vorrebbe. D. Bosco ebbe dal Papa molti altri favori che a suo tempo si sapranno. Ora acqua in bocca. Del ritorno non si parla; tutti congiurano a tener più lungamente D. Bosco. Anche quei dell'alto clero domandano la sua benedizione e l'onorano come santo. A Roma si conosce chi è D. Bosco, a Torino non da tutti. Il più presto possibile manderò le bozze di San Giuseppe; temo che finirò di correggerle io.
Di salute stiamo bene. Onoroni dappertutto. Anche il Re di Napoli vuole vedere D. Bosco e fargli una elemosina.
Ammirazione, viva curiosità, l'esempio di altri membri di famiglia reale movevano Francesco II. [632] Roma ospitava i principi d'Italia spodestati, e questi non avevano trascurato di avvicinarsi a D. Bosco per conoscere l'uomo del quale tutti parlavano. Il Gran Duca di Toscana Leopoldo II era entrato in così intima relazione con lui che lo volle poi vicino al letto nelle ultime ore di sua vita. Francesco V, Duca di Modena, andava più volte a trovarlo e rimase così ammirato della sua bontà che incominciò a soccorrere le sue opere e continuò a farlo generosamente finchè visse.
I due principi erano cristianamente rassegnati alla loro sorte, ma non lo erano i nobili napoletani, che, dopo la caduta di Gaeta, avevano seguito il Re di Napoli a Roma. D. Bosco, appena giunto, era stato l'oggetto delle attenzioni di costoro, i quali spesse volte venendo a visitarlo, o andando egli in qualche palazzo da essi frequentato, lo interrogavano sull'avvenire dei loro destini, manifestando sempre una ferma convinzione della non lontana ricostituzione del regno delle due Sicilie.
- Signori! farebbero bene a non più lusingarsi a questo modo. Sta bene usar carità coi principi esuli, seguendoli e confortandoli, ma cessino di sperare che possano ritornare a Napoli come regnanti.
- Ascoltino! Secondo le regole ordinarie dei casi, sembra che Sua Maestà potrebbe tornare in trono in uno dei due modi seguenti: o per un accomodamento pacifico delle cose d'Italia, il che io credo un'utopia e quasi un assurdo: o per un intervento straniero armato, il che io non credo prevedibile in nessun modo.
- Tornino a Napoli! Qui non possono far nulla per la causa del loro Re. Là invece, caso mai avvenisse la ristorazione aspettata, essendo sul luogo possono lusingarsi d'aiutarlo. [633] Il Servo di Dio studiavasi di mandar que' signori fuori di Roma, probabilmente per fare un buon servizio al Papa.
Anche la Regina Madre Maria Teresa, seconda moglie di Re Ferdinando II, desiderava di vedere D. Bosco e mandò il suo cavalier d'onore Duca della Regina a dirgli:
- Sua Maestà la Regina Madre desidera intrattenersi un istante con lei: a che ora potrà D. Bosco recarsi al suo palazzo?
D. Bosco fissò l'ora e vennero a prenderlo colla carrozza. Lungo fu il colloquio. La Regina desiderava che il Venerabile le rivelasse un avvenire più glorioso e il ritorno alla sua reggia; ma non ebbe che questa precisa risposta:
- Maestà, mi rincresce doverlo dire, ma ella non vedrà più Napoli!
Ritornando a casa D. Bosco narrava a D. Francesia siffatto colloquio. Questi gli osservò:
- E lei ebbe il coraggio di dir tali cose a quella povera donna?
- È naturale, gli disse D. Bosco; mi chiamano la verità e debbo dire la verità.
Questa risposta giungeva anche all'orecchio del Re di Napoli, il quale provò viva smania di abboccarsi col Servo di Dio e si rivolse alla Duchessa di Sora, nata Borghese, che abitava a Villa Ludovisi, ove D. Bosco era già stato a celebrare la S. Messa e a fare un breve sermone.
Di quei giorni il signor Pietro Angelini mandava all'amico Cav. Oreglia altre notizie.
…La vita del povero D. Bosco non è certo più tranquilla che in Torino in mezzo ai suoi protetti ed alle occupazioni che gli procura il suo zelo nell'esercizio del suo ministero. Da mattina a sera è assediato da una quantità immensa di persone di ogni grado, sesso e condizione, che desidera di vederlo e parlargli, per cui non ha mai ora fissa [634] per pranzare, per dormire, per riposarsi: ormai la sua salute incomincia a soffrirne, per cui se non gli riesce di partir presto, come avrebbe stabilito, credo che gli sarà necessario di adottare un qualche serio provvedimento per non cadere malato. Quanto a me, dopo averlo varie volte veduto quasi alla sfuggita, domenica scorsa ebbi la consolazione di averlo alla mia mensa, in mezzo a tutta la mia famiglia, che rammenterà sempre con piacere sommo e con vera riconoscenza l'aver goduto per varie ore della sua presenza e della desideratissima sua compagnia. Spero che mentre egli ha potuto rendere tanti contenti in Roma coll'ascoltarli, benedirli, consigliarli, e pregare per essi, egli pure ne partirà soddisfatto, lasciandoci la speranza, se non la certezza di presto rivederlo. Il Santo Padre dal quale si recò ieri per la terza volta, gli parlò delle feste che avranno qui luogo nel prossimo giugno, e la presenza di D. Bosco, ove la maggior parte dei Vescovi dell'Orbe Cattolico si troverà riunita, potrebbe essere opportunissima.
La buona marchesa di Villarios mi disse ieri di aver ricevuta una vostra lettera alla quale si proponeva di rispondere oggi stesso: dubito però assai che abbia potuto farlo, mentre D. Bosco colle sue opere in questo momento occupa intieramente il suo tempo ed anche ogni suo pensiero.
Qui si continua a godere una tranquillità perfettissima, e Roma sembra più gaia e più serena dopo la partenza dei francesi. Il Santo Padre conserva, grazie al Signore, una calma ed una salute invidiabile, e passeggia continuamente per le strade le più frequentate, in mezzo ad una folla di gente che lo circonda e lo applaudisce. Aveva stabilito di nominare tutti i Vescovi delle diocesi vacanti in un solo Concistoro verso la Pasqua, ma ora dicesi che fra qualche giorno ne preconizzerà una buona porzione, e credo che D. Bosco, incaricato da Ricasoli, abbia avuto parte ad una tale determinazione. Speriamo che questo sia il principio di quel bene, che da tutti e da tanto tempo desideriamo, e che presto possa verificarsi il trionfo della verità e della giustizia.
In Roma adunque si aspettava che presto venissero preconizzati i nuovi Vescovi, ma la scelta non doveva essere senza gravissime difficoltà. Il Governo aveva mandato al Comm. Tonello sessanta nomi di ecclesiastici a lui benevisi da presentarsi alla Santa Sede. Il Papa conobbe subito che alcuni erano da eliminarsi, mentre altri gli erano sconosciuti. Su questi faceva scrivere da D. Bosco in varie parti per averne notizie, e il Servo di Dio gli riferiva le risposte. [635]
Anche dal Vaticano si trasmetteva al Commendatore una lista di sacerdoti giudicati degni dell'Episcopato, colla distinta delle diocesi che sarebbero loro affidate: e questa fu spedita a Firenze. Il Ministero l'esaminò. Alcuni degli eligendi furono assolutamente esclusi, ad es.: Mons. Paolo Ballerini, Arcivescovo rinunziatario di Milano per le persecuzioni accanite dei settarii, dopo di che il Papa lo promosse alla Chiesa Patriarcale di Alessandria. Altri non si vollero insediati ove li proponeva il S. Padre, il quale fu anche costretto a traslocare qualche Vescovo, già in sede, ad altra diocesi.
Pio IX fece qualche osservazione, ma non persistette nelle sue proposte, perchè gli pareva che non avrebbe ottenuto l'intento, con pericolo che andassero a vuoto le trattative; e decise secondo il consiglio di D. Bosco d'incominciare da quel momento ad accettare un certo numero di quelli, ai quali il Governo non avrebbe fatto opposizione. Quindi anche per far cosa gradita al Re proponeva che Mons. Luigi Nazari di Calabiana fosse trasferito da Casale a Milano: e a Casale fosse chiamato Mons. Pietro Maria Ferrè, che dal 1852 era Vescovo di Crema e non aveva potuto prendere possesso del Vescovato di Pavia per opposizione del Governo. Similmente destinava a Savona Mons. Giovanni Battista Cerutti, ad Aosta Mons. Giacomo Jans, Vicario Capitolare, e varii altri altrove.
Il Comm. Tonello, da vero gentiluomo, leale e cristiano, in questi lunghi negoziati aveva sempre cercato di rimuovere ogni malintesa od ostacolo perchè potessero essere condotti a buon termine; ed ascoltava volentieri i consigli di D. Bosco, il quale a quando a quando recavasi a conferire con lui. Narrava D. Francesia che avendolo un giorno accompagnato dal Commendatore, attese per più di un'ora la fine dell'udienza.
Il Servo di Dio gli espose l'incarico avuto dal Papa di [636] presentargli alcuni sacerdoti piemontesi da eleggere per gli Antichi Stati. Tonello approvò la scelta da lui fatta e dal Pontefice già accettata: e Don Gioachino Berto vide poi questa lista preparata da D. Bosco e scritta di sua mano: il primo nome era quello del Canonico Lorenzo Gastaldi, proposto alla sede di Saluzzo. Il Commendatore appoggiò subito questa nomina essendo che nell'ufficio del valente avvocato Gastaldi, padre del Canonico, egli aveva fatto pratica. Pio IX chiese a D. Bosco informazioni dell'eligendo, perchè non era ancora da lui conosciuto, e le ebbe favorevolissime. Il Venerabile era persuaso che la Chiesa avrebbe acquistato nel Gastaldi un zelante prelato, ammirevole per le sue cognizioni in ogni ramo di scienza e specialmente in Teologia, e che la nascente Società Salesiana avrebbe avuto in lui un valido appoggio. Il Servo di Dio voleva anche dare una dimostrazione sincera di stima, di riconoscenza e di affetto a chi gli era cordialissimo amico.
Gli altri, egualmente degni, presentati da D. Bosco erano i seguenti: per Alba il Can. Eugenio Roberto Galletti torinese; per Asti il Canonico Carlo Savio di Cuneo; per Alessandria il Can. Antonio Colli di Novara; per Cuneo il Canonico Andrea Formica, diocesano di Alba.
Quando giunsero in Torino le prime notizie di queste nomine, D. Giovanni Cagliero, trovandosi in Curia, udì il Vicario Capitolare Mons. Zappata esclamare:
- Bisogna che ci teniamo amici con D. Bosco! D. Bosco è distributore di mitre!
IL 2 febbraio, sabato, festa della Purificazione di Maria SS. e della benedizione delle candele, nell'Oratorio di Torino si facevano molte comunioni per D. Bosco. I giovani vi si erano preparati colla confessione e una novena di fioretti che il Servo di Dio aveva lasciati a Don Rua con suo autografo perchè ne annunciasse uno per sera.
Erano identici a quelli che aveva dati l'anno prima: Dio nostro padrone! ecc. [638] Da Roma giungevano altre notizie. Il 2 febbraio 1867 la Contessa Anna Bentivoglio scriveva al Cavaliere:
“Questa mattina Don Bosco ha detto la messa alle Stimmate e ci ha dato la Santa Comunione. Egli stava di un aspetto bellissimo, florido e sembrava veramente un giovane, malgrado la vita affaticatissima che fa, andando in giro e dando udienza, si può dire, dalla mattina alla sera. Tutti qui sono entusiasmati di lui, e lo riguardano come una santa persona, ed ha onori e privilegi straordinarii; ma che io sappia non credo abbia finora operato nulla di strepitosamente prodigioso, come sarebbe stato, per es. la istantanea guarigione di quell'idropico a Torino. Vedremo se prima della partenza il Signore permetterà che faccia qualche cosa di sbalorditivo.
Questa mattina noi non abbiamo avuto il tempo che di baciargli la mano, e salutarlo nel suo passaggio per la sacristia, perchè era aspettato di sopra per prendere qualche ristoro, suppongo, e poi andare alle funzioni in S. Pietro. Annibale va di tanto in tanto a S. Pietro in Vincoli, ma raramente ha la fortuna di trovarlo, perchè non gli lasciano un momento di riposo”.
Una Comunità femminile, ricordando la visita ricevuta nel 1858, gli scriveva:
Avendo altra volta il mio Monastero avuto l'onore di una sua visita, mi permetta la sua bontà di pregarla a volerci onorare ancora in questa circostanza, pria della sua partenza da Roma.
Domando umile scusa di tanta mia libertà e raccomandandomi alle sue sante orazioni, con rispetto ho l'onore di professarmi
Dalle Per.e Adoratrici del SS. Sacramento, li 2 febbraio 1867.
Suor MARIA TERESA DEI SS. CUORI, Sup.a
Di questa giornata e di altre scriveva D. Francesia: [639]
Vado alternando le mie lettere romane, indirizzandole un po' a Lei, un po' al Prefetto, perchè non nasca qualche invidia. Incominciando ora dalla casa dove abitiamo, le devo dire qualche cosa che non sarà inaspettata, ma nuova. È proprio vero che il sig. Conte Vimercati è industrioso e sagace nelle sue opere. Non vuole che alcuna Casa pia non l'abbia a ringraziare. Sappia che, oltre al molto che già fece, l'altro ieri ci fece questa brutta figura da offendere qualunque buon cristiano. Per fortuna ci aveva prima domandato scusa dell'ingiuria che aveva in animo, del rimanente era proprio il caso di scappare a Torino. Diede ordine alla sua lavoratrice di camicie che nel più breve spazio di tempo preparasse per D. Bosco e per me quattro camicie, e come! e quattro fazzoletti; in tutto otto, che poi ci vedemmo improvvisamente sul letto. Così oltre alla fatica del bucato, c'è la paga ancora. Evviva la cuccagna! Credo che Pelazza parteciperà al nostro sdegno e domanderà un compenso. Ha ragione. Ma non è tutto. La servitù per non impaurire D. Bosco sulla mancia da darsi, ha pensato di prevenirlo e di dargli qualche cosa pe' suoi cari ragazzi, che essa ama tanto nel suo direttore. L'altra sera, con mille rincrescimenti di non potere fare di più, diedero 36 lire anticipate, e come ringraziamento di essere venuto ad accrescere di tanto i loro lavori.
Il Centenario di S. Pietro va a vele gonfie, fu presentato al Papa, ne lesse subito alcune pagine, approvò l'opportunità, ne lodò altamente l'autore. La copia presentata al S. Padre, era magnificamente legata in tela bianca, e 25 copie, meno elegantemente, pei Monsignori; tutto a spese del bravo e benefico Vimercati. Non possiamo aprire un piccolo desiderio, che è già soddisfatto.
L'altro dì fui io pure alla casa Torlonia. Il sig. Principe è veramente incantato di D. Bosco. Non so se abbia già fatto qualche cosa per l'Oratorio, ma farà sicuramente. Non contento di averselo goduto tutta una mattinata, venerdì sera fu qui a restituirgli la visita. Non faceva che atti di meraviglia a sentire a parlare delle cose della Casa e capì largamente i molti bisogni. Dio volesse ispirargli qualche buon pensiero! Vidi in quell'occasione la sua povera moglie, che saprà essere inferma di mente. Vicino a Don Bosco era più calma; baciavagli la mano e non dava segni di pazzia. Povera donna! Alla sera, mentre si trovava il Principe Torlonia, stava ad aspettare D. Bosco il Duca Salviati; era la seconda volta che già veniva senza aver potuto vederlo, ed ora lo dovette attendere un'ora.
E' cosa inaudita che i Principi romani facciano anticamera; ci voleva D. Bosco per aprire una consuetudine nuova. Il Principe Ruspoli aspettò due ore per parlare a D. Bosco, senza impazientirsi menomamente. È una vera frenesia ne' Romani per D. Bosco. V'ha [640] già chi piange per doverlo perdere. Però si è trovato un mezzo per averlo in casa senza fallo: o venire ammalati, o promettere elemosine. Per es.: una signora ha preso 700 biglietti della lotteria, inoltre promette qualche altra offerta, ma vuole che D. Bosco si rechi a casa sua a prendere i danari. Ci andrà sicuramente; se no, io lo porto. In un altro luogo si preparò qualche oblazione, si presero 500 biglietti, e si daranno i denari, ma a lui in mano. Così un bravo signore, un Eminentissimo, ne taccio il nome come inutile, dal primo giorno che era giunto in Roma, aveva mostrato desiderio di vederlo e parlargli. È da notarsi che D. Bosco nol conosceva, ed aveva necessità assoluta per le cose nostre di avere seco lui qualche conferenza. No, signore; ci vollero 20 giorni e più, prima di avere un momento disponibile, ossia rubato e con mille stenti. Ci andò, e quell'Eminenza pose in mano a D. Bosco la bella oblazione di 50 scudi in segno di venerazione ed aiuto.
Quanti più conforti ci verrebbero, se Don Bosco potesse dividersi in 5 o 6 (si noti la cifra), e andare dove lo desiderano. Per eccesso di buon cuore e per la sua propensione a dire di sì gli avvenne più volte di accettare pranzi alla medesima ora in varii luoghi. Alcune volte io servo, negli intramezzi specialmente, ma vogliono sempre D. Bosco, e non andando possono nascere degli inconvenienti disgustosi. Quando si aspetta D. Bosco a pranzo in giorno ed ora determinata, si calcola di poterlo avere un due ore dopo, e ciascuno viene munito e premunito di pazienza.
Giovedì fummo, a pranzo al Collegio Nazzareno. Che belle accoglienze non fecero a D. Bosco quei giovanetti! Ne conoscevano già le opere, usano nella loro scuola la sua Storia Sacra e d'Italia e ne avevano sentite a dire tante, che quando lo videro credettero di vedere un Santo. Sapendolo molti giorni prima, avevano di ciò avvisati i parenti, che pur numerosi si trovavano. Al pranzo si fece allegria, ma alla fine ci fu tripudio. Un giovane aveva scritto qualche cosa in latino a lode del nostro amato D. Bosco, ed il lesse in mezzo al silenzio universale. Dopo, un furioso battimani, ed un evviva così alto, che pareva che si sfasciasse il cielo. Mi spiace di non ricordarmi le parole, ma ricordo benissimo il senso. Ringraziava D. Bosco di averli onorati in quel dì, quel Collegio esserne riconoscentissimo; S. Giuseppe Calasanzio, che ne fu il fondatore, giubilarne dal Cielo, e versargli sulla testa nembi di fiori; augurògli mille felicità. Tutto breve ed affettuoso. Dirne la bellezza, la grazia, la commozione, non potrei a lunga pezza giungervi colle mie parole. Visitata la casa, si radunarono in cappella, e vollero sentire D. Bosco a parlare. Improvvisò come il solito e quanto bene! Non c'era occhio che movesse; e D. Bosco parlò commoventissimo quando rivoltosi ai Padri ed agli alunni si separò.
Forse mi fermo un po' troppo spesso in queste circostanze; ma [641] sono così fatto, che le onoranze fatte a D. Bosco mi vanno sì profonde al cuore, che di esse non mi posso mai scordare.
Intanto qua e colà riceviamo buone notizie per le sue visite. Quegli migliora, questi più rassegnato, quell'altro guarito. Una povera monaca, da molto tempo ammalata, desiderò una medaglia di D. Bosco. L'ebbe e con tanta fede se la pose al collo, che subito migliorò, ed in termine di due o tre giorni al più era interamente guarita. Il fanciullino De Maistre di cui parlai nella prima mia, va sempre meglio, e, cosa singolare, ha cominciato a camminare, mentre prima della malattia non sapeva ancora mettere un piede a terra. La contessa madre ed il conte padre, Eugenio, ne sono gratissimi a D. Bosco e diedero già elemosine, e quella affermò che riguarderà la chiesa di Valdocco come oggetto speciale delle sue cure; e che ogni volta penserà a Maria, la dovrà onorare specialmente sotto al titolo Auxilium Christianorum per lei tanto salutare.
Si dice e si teme, e qui fu scritto, che D. Bosco sia l'arcivescovo futuro di Torino. È sogno di mente pazza. Qualche giornale si interessò di D. Bosco, e la Nazione di Firenze, parlando della conversione del P. Passaglia, accolta con tanto piacere a Roma, disse che doveva trattenere fra breve i suoi lettori del tanto famigerato D. Bosco. Ne dirà delle sue, ma non servirà ad altro che a propagarne sempre più il nome e le opere.
Caro sig. Cavaliere, questa mattina ho goduto anch'io delle feste romane. S. Pietro, così immenso, era pieno di gente. Io pensando di dover vedere e sentire per tanta gente mi portai in un bel posto, donde potei assistere alla funzione e vedere il S. Padre. La sua fisionomia non mi sfugge più dalla memoria. Quando prendeva la benedizione sua e la presi dieci o dodici volte da diversi punti, aveva sempre l'occhio all'Oratorio, dove stanno le mie più care memorie. D. Bosco doveva andare a prendere la candela, come il S. Padre gli aveva fatto sentire, ma non si potè combinare. Anzi non potè nemmeno prendere la più piccola parte, nè come attore, nè come spettatore. Cominciò per andare a dire messa alla Stimmate, chiesa vicino al palazzo Vitelleschi, dove lo aspettavano le sante turbe. Là però lo lasciai per andare al Vaticano. Non volea perdere una terza o quarta occasione di vedere a pontificare il S. Padre. Ma seppi che fu un'accoglienza la più bella e divota. Alle 11 ore fu libero; ed allora pensò di portarsi da Monsignore De Merode, presso cui dovevamo pranzare. Sale in vettura e lo conducono, sa dove? Alla villa Pamfili, per ammalati. Ebbi un bel protestare contro alla violenza, ma le proteste sono merce sconosciuta. Dovetti aspettarlo per un'ora e più dopo le 12, passeggiando vicino a S. Pietro. Che vuole? Si va a gara di poterlo avere, e quando uno l'ha, come padrone, non pensa più che a sè, lasciando che D. Bosco soddisfaccia come può alle cose e promesse sue. Tutti lo vogliono, chè la sua conversazione è molto cara. [642] Glielo dissi in altre lettere che mandi biglietti, solo biglietti. Ne mandi coi primo corriere e quanti può. Non sa l'avidità che si svegliò di avere di questi biglietti! Si soddisfacciano.
I giovani dimandano di avere lettere di D. Bosco, ma non è possibile che si metta al tavolino, che alle 10 di sera e più volte, anzi quasi sempre, va fino alle 12 ed oltre per leggerle soltanto. Si lamenta di non potere soddisfare alle giuste loro dimande, ne chiede tolleranza. Saluti tanti e molti, e preghi per il suo in Cristo
N. B. - Aveva ancor da dirle che ieri a S. Pietro in Vincoli si fecero i fuochi e belli, ma mi manca lo spazio.
Questa lettera era seguita da un'altra.
Leggo con molto piacere quello che scrivi di costà; i miei ringraziamenti te gli avranno già fatti da parte mia, ed ora li faccio io stesso. Parlando ai giovanetti nostri alla sera, non dimenticare di salutarli molto e molto a mio nome. Di' loro che li vedo in tanti altri giovanetti che mi fanno la corte a Roma. Malgrado però ogni comodità, chè siamo trattati da principi, io corro continuamente all'Oratorio. Le cose nostre vanno sempre bene lo stesso.
In questi giorni D. Bosco ha ordito e ordisce una trama contro il Can. Gastaldi, nostro riverito maestro di morale. Andando a scuola potrai comunicargliela, e se domanda qual sia questa trama, dirai che per ora non si può manifestare. Silenzio e mistero. Non dovrei essere così puntiglioso con lui, ma per questa volta voglio star sulle mie, come diciamo noi. Riveriscilo tanto da parte mia questo buon di Dio, e tu scrivimi spesso.
Saluta i nostri cari professori e di' loro che non posso dimenticarli ovunque io vada; e se qualche volta non manifesto il gran bene che loro voglio e desidero, vien piuttosto dal non sapermi esprimere. Ma li amo tutti e assai nel Signore. E tu, caro mio Durando, ama e raccomanda a Dio il
P. S. - Stamattina D. Bosco fu presso il Re di Napoli a celebrare la S. Messa; ne era stato tanto tempo prima invitato e con tanta istanza che non potè e non volle ricusare. [643] Francesco II aveva lasciato a D. Bosco la scelta del luogo ove si sarebbero incontrati; o l'avrebbe atteso al palazzo Farnese ove abitava, ovvero, se lo preferiva, egli stesso si sarebbe recato a fargli visita a casa Vimercati. Don Bosco gli rispose, come aveva concertato colla Duchessa di Sora, che se a lui non dispiaceva, volentieri si sarebbe recato all'abboccamento nella Villa Ludovisi, che era una splendidissima e regale abitazione, sia per il palazzo come per i giardini. Don Bosco vi andò e trovò che il Re di Napoli già lo aspettava con molti e nobili Signori, fra cui il De Charette, comandante de' Zuavi Pontificii. Celebrò la S. Messa e parlò per dieci minuti sulla Fede. Il discorso fu tale che la Duchessa, la quale altre volte aveva ammirati i suoi sermoni, esclamava fuori di sè per la meraviglia:
- Ma dove prende D. Bosco certe ragioni? Non ho mai sentito simile potenza di persuasione! Nessuno predica come lui!
Finito il ringraziamento il Venerabile disse essere a disposizione di Sua Maestà. Ambedue si ritirarono in una camera e il loro dialogo durò circa tre quarti d'ora.
Dopo vario parlare il Re lo pregò a dirgli con tutta schiettezza se avrebbe riacquistato il regno, poichè tutti gli promettevano che fra pochi mesi si sarebbe trovato nuovamente nella sua reggia.
D. Bosco si schermi dicendo che non toccava a lui divinare il futuro. Il Re insistette. E il Servo di Dio con tutta semplicità:
- Se vuole che Le parli schietto, le dirò che Vostra Maestà non tornerà più sul trono.
- E su cosa si fonda per dirmi questo? Sopra induzioni o argomenti certi?
- Sono per me argomenti certi il modo con cui i Reali di Napoli trattarono la Chiesa. [644]
- Che intende con queste parole?
- Che la Santa Chiesa fu trattata a Napoli con poca reverenza.
- Come?! la Chiesa non era protetta?
- Protetta la Chiesa?! Per più di sessant'anni rimasero in vigore le leggi Febroniane. Un Vescovo non poteva dare la cresima senza la licenza del Re, non poteva ordinar preti, radunar sinodi, far visite, pastorali, corrispondere con Roma senza aver prima il beneplacito del Sovrano. E questo si chiama protegger la Chiesa?
- Ma veda, D. Bosco, soggiunse il Re; era una misura generale di sorveglianza, era necessità politica, era il timore di una rivoluzione, era precauzione, perchè non fossero violati i diritti della Corona, che inducevano il potere civile a fare così.
- E crede Vostra Maestà che fossero tuttavia da approvarsi queste misure contro la Chiesa? E il pessimo tribunale della Regia Monarchia ed Apostolica Legazia di Sicilia, che da più di un secolo pretendeva che in quell'isola la Chiesa in gran parte le fosse soggetta?... che spiava e impediva ogni relazione del Clero secolare e degli Ordini religiosi colla S. Sede?... giudici iniqui che facevano ogni loro volere, usurpando l'autorità del Papa e dello stesso Sovrano? Costoro rendeano vane le disposizioni e gli ordini dei Vescovi, troppo spesso perseguitavano i buoni religiosi favorendo i peggiori, e per loro colpa venivano guasti spaventosi, che formavano lo scandalo dei fedeli: immoralità, simonia, prepotenza, frodi, introduzioni di indegni ne' maggiori uffizii, dispersioni de' beni religiosi in usi profani: e vi erano altri aggravi che non fa bisogno che enumeri. E tali giudici erano appoggiati o almeno tollerati. Questa è la causa dei presente castigo di Dio sulla Dinastia.
- Ma la Maestà di Re Ferdinando mio padre, negli ultimi anni del suo regno in buon accordo col Papa, aveva [645] acconsentito a togliere non pochi disordini che duravano in Sicilia.
- Sì, è vero; ma le cause di tanti mali religiosi non furono o non poterono essere rimosse. Si vollero conservare ancora alcuni privilegi di quel funesto tribunale, che avrebbe dovuto essere soppresso.
A questo punto D. Bosco rimase qualche tempo raccolto e pensieroso, e il Re dopo qualche istante ripigliò:
- E se io tornassi sul trono de' padri miei, crede che le cose non andrebbero meglio?
- Maestà, io conosco la sincera Vostra devozione alla S. Sede, conosco le prove luminose che ne avete date. Siete il figlio di una santa! Ma il potere corrisponderà al volere? Il malo influsso di certi consiglieri non cercò per molti anni di tenere accese nel cuore dello stesso vostro Padre, le diffidenze contro Roma Papale? In certi casi, se Dio non v'aiuta, potreste fare quello che fecero i Vostri Antecessori.
Il Re si mostrò quasi offeso di quella supposizione e replicò:
- Non sa che nessuno prima di lei mi ha mai parlato con tanta franchezza? Tuttavia mi piace che uno mi parli schiettamente, come la pensa.. Ora mi dica: non crede lei che un qualche avvenimento possa ricondurmi sul trono di Napoli?
- Non vi sarebbe che un solo avvenimento, ma che non avverrà.
- E quale? chiese il Re con viva curiosità.
- Che venga una generale anarchia, e mancando il Sovrano conquistatore e la sua dinastia, i popoli, o più presto o più tardi, in vista delle sue grandi e buone azioni, ricorrano a chi avevano prima per Re. Solo in questo caso vi potrebbe essere speranza. Ma è una pura supposizione.
In sul finire dell'abboccamento il Re pregò Don Bosco a volersi recare al suo palazzo, perchè anche la Regina [646] Sofia desiderava conoscerlo. Quel giorno era lunedì e la visita a palazzo Farnese venne fissata pel venerdì. Il Venerabile lasciò pensieroso il povero Re, che aveva sperato da lui un pronostico più conforme al suo desiderio.
A Torino D. Durando faceva la commissione di Don Francesia al Can. Gastaldi. Questi capì benissimo di che si trattava, e presto ebbe dallo stesso D. Bosco la piena conferma della sua elezione al Vescovado di Saluzzo. Incontrato in que' giorni dal professore D. Matteo Picco che si congratulò con lui, gli rispose famigliarmente:
- In questo momento io non sapeva che cosa fare, e il Papa mi ha dato un'occupazione!
IL 5 febbraio D. Bosco celebrava la S. Messa nella cappella privata del signor Filippo Canori Focardi, coronaro, che aveva stretta intima amicizia con lui nel 1858; e di quel giorno scriveva a D. Rua:
D. Francesia ti scriverà delle cose nostre: io parlo solamente delle cose tue, dei denari. Dunque di' al sig. Cavaliere che vada da Don Tomatis e prenda fr. ottomila che io pagherò qui al P. Betti in vece sua.
Di essi fr. 8000 darai 6800 al Dott. Gribaudo, se desidera di [648] averli; credo che tale sia il suo credito. Del resto ne farai quello che premerà di più.
I nostri affari qui vanno bene: spero che domani potrò scrivere una lettera ai nostri cari giovani. Continuate a pregare pel vostro D. Bosco, che è tutto occupato di voi. Sabato prossimo forse potremo fissare il giorno del desiderato nostro ritorno.
Dio ci benedica tutti e ci aiuti a salvarci l'anima in eterno. Amen.
P. S. Se prima niuno, poi troppi biglietti. Perchè non mi dài notizie di madama Curona, madama Duprè, dei giovani ecc.?
Nella lettera era accluso il seguente biglietto ad uno addetto alla cucina. Lo pubblichiamo per mostrare come il Servo di Dio non di rado fosse solito avvisare.
1° Si trovi cogli altri alle preghiere, alla Messa.
3° Non dia cose ad altri senza permesso.
4° Ogni quindici giorni od una volta al mese si accosti alla confessione.
5° Usi maggior economia nei combustibili, nel condimento ecc.
Insieme con quello di D. Bosco, giungeva un foglio di D. Francesia.
Abbiamo avuto notizie di Casa e fummo consolati che i nostri cari fossero in quel tempo tutti fuori di letto. Ci spiacque assai la notizia che il pane fosse tanto accresciuto di prezzo. D. Bosco ne fu e ne è tuttora fortemente impressionato. Sarà una cosa passeggera, ma sempre dolorosa, come la tempesta; e dobbiamo ringraziare il Signor Iddio di averci qui guidati, dove si poterono trovare elemosine onde far fronte alle ingenti spese dell'Oratorio. Questa notizia già nota a molti di qui produrrà il suo effetto, si spera.
Quanto è mai buono e cortese il Santo Padre coll'ottimo nostro D. Bosco! E non a caso mi cadde dalla penna e dal cuore questa spontanea esclamazione. Devi sapere che domenica a sera il S. Padre mandò [649] qui alla nostra abitazione il suo Maggiordomo Mons. Borromeo a recargli in tutta pompa un solenne cero che farà bella figura a suo tempo nella chiesa nuova. Esso è più alto di me di due buone spanne, grosso sì che ad impugnarlo ci vogliono le due mani, coll'effigie dell'Immacolata Concezione sopra e con altri tanti fregi, che mal può descrivere chi è sotto la cara impressione della sorpresa come sono io. Egli era il più bello, che nella festa della Purificazione gli fu presentato da uno de' diversi Parroci della città. Già vi ho scritto che il S. Padre ha veduto e letto con soddisfazione il Centenario di S. Pietro, ed al suo autore volle fare questo onorevole regalo.
Il Santo Padre è curioso di sapere la vita che fa D. Bosco in Roma, n'è lieto, chè predica e desta la pietà e la divozione, e ne desidera lunga la permanenza.
Ieri sera poi fummo a Palazzo per ringraziare S. S. della squisita bontà per il cero offerto, e potei essere testimonio oculare dell'affetto del S. Padre per il nostro amato D. Bosco. Stavano in anticamera ad aspettare l'udienza un Cardinale e diversi Monsignori, e D. Bosco con meraviglia di tutti stava dal Santo Padre e stette per più di mezz'ora. Potei poi essere ammesso anch'io alla sua presenza: per la seconda volta aveva questa fortuna e inginocchiandomegli:
- Santo Padre, dissi, permetta ch'io a nome de' miei compagni presenti a V. S. una manifestazione di voti e di eterna Fede per la V. S. Persona e di attaccamento alla S. R. Chiesa.
Egli accolse lo scritto che gli presentava, mi diede l'anello a baciare, e:
- Santo Padre, dissi; questo bacio lo assicuri della fede e dell'affetto di più di 1800 giovanetti che frequentano gli Oratori di Torino.
Ci diede la benedizione, promise che avrebbe letto quello scritto e concesso quello che io domandava a nome dei giovani dell'Oratorio. Sentì a parlare degli Oratori, dell'affezione verso la S. Sede con molta compiacenza, e mandò a tutti la patema sua benedizione.
Gli affari poi della nostra Congregazione pare che vadano bene contro ogni speranza, e per darle maggior avviamento D. Bosco dovrà fermarsi ancora qualche giorno a Roma. Di questo ritardo mi lagnerei, ma forse non sarei creduto. Eppure è così. Io molte volte resto solo, giro per Roma e mi annoio tremendamente.
Mons. Moroni, anch'esso corso alla fama della pietà del nostro D. Bosco, venne a riverirlo giorni sono e si credette felice quando Don Bosco disse che volontieri e con gratitudine avrebbe accettato l'Opera sua del Dizionario Ecclesiastico. Di fatti due giorni dopo venne egli stesso a consegnare a me con mille ringraziamenti l'opera: più di 100 volumi. Ora l'abbiamo qui in camera, ed il sig. Conte Vimercati, inesauribile nella sua bontà, pensa a farcela spedire all'Oratorio.
A giorni riceverete pure il cero del Papa... Oh! ma a proposito mi [650] dimenticava di dire, che una persona, cui ben conosce il Cavaliere, sig.ra Rosa Mercurelli ha voluto regalare a questo un cero che gareggiasse con quello del Santo Padre. Perciò invece di uno ne riceverete due, e chi sa che qualcuno volendo far qualche regalo al sig. Segretario di D. Bosco non faccia che diventino tre. Allora omne trinum esset perfectum davvero! La medesima persona oltre all'aver... sospendo un istante, forse con troppa libertà epistolare... per dire che il terzo cero è venuto adesso adesso portato al Segretario dalla Principessa Orsini! Non è tanto bello come i due primi, ma è più bello per l'importanza di chi lo dona e di chi lo benedisse, il S. Padre!
Continuano le udienze, e se Don Bosco non cercasse di diminuirle con eluderle, Dio solo sa se D. Bosco potrebbe ancora uscire di casa, pranzare e dormire. Dico ancora, chè la medesima signora Mercurelli ha fatto dono di più oggetti assai preziosi per la lotteria e medaglie, corone, croci per i giovani, e dice che prima della partenza di D. Bosco radunerà qualche altra cosa.
E' vero, fa specie a voi che D. Bosco non scriva, ma promette oggi di trovar qualche momento per consacrarlo a voi.
Delle notizie che mi dà D. Durando sono molto contento, e ringrazio cordialmente lui e tutti i professori che spiegarono tanto zelo in questi giorni e che procurarono così tanto bene ai nostri giovani. Ritornando porterà ad essi segno, piccolo se si vuole, ma caro della mia gita a Roma. I biglietti di lotteria piovuti sì copiosamente di costì vanno in modo incredibile. Si prendono da molti come reliquia e come rimedio efficacissimo contro il colera, che va pur infestando questi dintorni.
Se il sig. Conte potesse riaversi totalmente, o almeno da potersi mettere in viaggio, ci farebbe una visita, e ci restituirebbe quella che noi gli facciamo a Roma. Oggi per la prima volta uscì per Roma in carrozza. Un giornale che parlò di D. Bosco, disse tutte verità, tranne una sola e in materia che avremmo voluto fosse stato veridico. Diceva che il Conte era guarito. Oh fosse vero! Altri giornali si interessarono di D. Bosco ed era necessario che dopo il predicatore si facessero udire i critici. Però D. Bosco, invece di perdere, ne guadagna sempre più con tutte queste dicerie. È da tutti ammirato e chiamato santo, e per la sua semplicità e per l'amabilità.
Due cattivi signori, che non ne volevano sapere di religione, lo sentirono una volta l'amarono, e stassera verranno qui a confessarsi. Oh se avesse tempo, io credo che Roma intiera lo vorrebbe per confessore. Uomini barbuti, altro che il sig. Cavaliere e di faccia più rivoluzionaria, si aprono con D. Bosco colla stessa facilità con cui sogliono i nostri giovani. Ed è allora che le sue parole hanno dello straordinario, perchè dice a persone mai prima vedute e conosciute le cose più recondite e che esse cercano di nascondere con ogni studio; ma non [651] agli occhi di Colui che tutto vede. Oh giunto che sia a casa, ne avrò delle belle sin qui da raccontare.
Dove D. Bosco va a celebrare la S. Messa accade l'innondazione: tutta gente nuova; le antiche conoscenze scomparvero. La Vitelleschi, la Villarios, ecc. perdettero ormai la speranza di averselo in casa qualche volta. E malgrado questa apparente noncuranza, in cui pare che D. Bosco tenga queste buone persone, esse lo ammirano tanto, lo compatiscono, ed in ogni verso cercano di beneficarlo. Delle sue fortune godono come di cosa propria.
Il giorno della partenza non si sa ancora, ma si spera che sarà prima della fine di febbraio. Credo che se D. Cagliero ci mandasse delle sue composizioni musicali, si preparerebbe un po' di fama. Comincio io a diffonderne il nome, ma non basta: ci vogliono fatti. Mandi lo Spazzacamino e l'Orfanello, ecc. Qui anche si faccia gustare un po' di musica dell'Oratorio. So che di questi giorni si deve eseguire in un Collegio Romano lo Spazzacamino: occasione bella per spacciarlo. Se ne sapessi il luogo ci andrei, sicuro di essere il benvenuto: chè come segretario di D. Bosco posso penetrare dovunque.
Saluta i giovani da parte mia, di' loro che io sono sempre in mezzo ad essi, che ho già molti amici, ma che non mi bastano. Questo riposo piacevole, e anche doloroso, spero che mi darà lena per raddoppiare i miei lavori al ritorno. Venerdì (8 febbraio) mentre forse leggerai questa mia, saremo a Camaldoli, sito amenissimo, posto sui colli degli Appennini. Di là cercheremo Torino e manderemo a te e a tutti i giovani teneri ed affettuosissimi saluti. Addio.
Tutto tuo in G. G. e M. aff.mo Amico
P. S. -Si è diffuso per tutta Roma ed è letto avidamente e lodato il Centenario di S. Pietro: al mese di giugno se ne augura uno spaccio assai forte. Il giorno 5, fummo a pranzo in casa del Conte e Contessa Antonelli Falchi. Oggi sono le 2 dopo mezzo giorno e D. Bosco non è ancora venuto a pranzo.
Del Centenario di S. Pietro l'Unità Cattolica, che aveva moltissimi associati anche nelle regioni meridionali d'Italia, aveva fatto menzione il 22 gennaio, annunziandone anche il prezzo in 40 centesimi:
“Molto opportunamente il sacerdote Bosco Giovanni pubblicava nel primo fascicolo delle Letture Cattoliche di Torino questo libretto, dove, brevemente e con stile facile ed adatto alla capacità di tutti, viene esposta la vita di questo [652] santo Apostolo, arricchita di memorie storiche, corroborate dall'appoggio dei più accreditati autori sacri e profani. L'importanza della materia, la profondità e chiarezza con cui è trattata, ed il mitissimo prezzo a cui si vende, rendono preziosissimo questo libro, e noi lo raccomandiamo caldamente ai buoni cattolici come istruttivo ed acconcio a promuovere il culto e la divozione al principe degli Apostoli nella presente ricorrenza del Centenario della sua morte. A compimento dell'operetta fa seguito un triduo di considerazioni e preghiere in preparazione alla festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo”.
Anche La Civiltà Cattolica nella serie VI, vol. IX, fasc. 407, 15 febbraio 1867, scriveva:
“In questo libretto riunisconsi insieme le cose più opportune per celebrare il Centenario di San Pietro Apostolo, cioè: 1° La circolare pontificia sul Centenario; 2° L'anno del martirio di S. Pietro; 3° La vita di S. Pietro; 4° La venuta di S. Pietro in Roma; 5° Un triduo in onore dei SS. App. Pietro e Paolo. La vita si distende largamente per la maggior parte del libro ed è scritta con molta chiarezza e devozione. Gli altri trattatelli sono assai brevi, ma sufficienti all'istruzione comune dei fedeli. Il libro insomma è atto a servire di notizia e di preparazione alla celebrazione del Centenario di S. Pietro, al quale il suo successore, il Pontefice Romano, invita quest'anno la Chiesa”.
E appunto per questo D. Bosco stava pensando se non fosse opportuno farne una ristampa in Roma, avuta l'approvazione dei Maestro dei Sacri Palazzi. Il suo amico torinese Cav. Pietro Marietti aveva da due anni la direzione e l'amministrazione della grande tipografia del Collegio di Propaganda Fide, destinata a diffondere in ogni lingua, specialmente nei paesi rimoti, le salutari dottrine della chiesa; e lo avrebbe certamente servito con impegno.
Ma già in questo tempo il gesuita Padre G. Oreglia, fratello [653] del Cavaliere, aveva osservato nel libro un periodo che gli pareva inesatto. Il periodo, a pagina 192, sulla venuta di S. Pietro in Roma era il seguente: “Stimo per altro bene di dar qui di passaggio un avviso a tutti coloro che si fanno a scrivere e a parlare di questo argomento, di non considerarlo come punto dogmatico e religioso e ciò sia detto tanto pei cattolici quanto per i Protestanti”. Ne parlò a D. Francesia perchè ne riferisse a Don Bosco: e volendo meglio accertarsi egli stesso della cosa, scrisse un biglietto a Padre Cardella, Professore di Teologia nel Collegio Romano, chiedendo, se avendo un buon scrittore cattolico, del quale non palesava il nome, scritto quanto sopra, quella proposizione fosse sicura.
Il Padre Cardella gli rispondeva:
Collegio Romano, 4 febbraio 1867.
V. S. ha pensato benissimo di avvisare quel rinomato autore cattolico di correggere o piuttosto spiegare quel periodo, che ha bisogno piuttosto di spiegazione, che di rettificazione. Giacchè quando egli dice la venuta di S. Pietro in Roma non essere argomento dogmatico o religioso, ed essere storico ed estraneo alla fede, non intende già di dire che non meriterebbe alcuna censura chi lo negasse, o che in concreto, nella sostanza, non sia connesso col dogma, egli vuol dire che il dogma dei primato di S. Pietro ed anche dei Romani Pontefici suoi Successori polemicamente ed in astratto non dipende necessariamente dal fatto della venuta di S. Pietro in Roma. Che i Romani Pontefici siano successori di S. Pietro e come tali per diritto divino siano eredi del suo primato è cosa di fede e teologicamente si prova ad evidenza: colle stesse prove si dimostra che di fatto il modo di questa successione si è che i Romani Pontefici succedono nella Cattedra Romana di Pietro. Se i Protestanti riuscissero a gittar giù questo fatto, non per ciò potrebbero cantar vittoria, giacchè resterebbe fermo che i Romani Pontefici son successori del primato, benchè ne fosse diverso il modo. In astratto si può immaginare che S. Pietro, senza venir egli in Roma, avrebbe potuto stabilire che i Romani Pontefici fossero i suoi Successori: ma in concreto è chiaro che i Romani Pontefici gli succedono nel primato per diritto divino, appunto perchè seggono nella sua cattedra romana. Però il P. Perrone dice che in concreto la venuta di S. Pietro in Roma è un preambolo storico alla fede del [654] Primato Romano, presso a poco come S. Tommaso chiama preamboli della fede certe verità razionali: ma in astratto anche il P. Perrone riconosce che la cosa avrebbe potuto andare altrimenti e così spiega un passo di Arduino (San Pietro in Roma c. I, par. 3): benchè di fatto anche l'Arduino sostenga la venuta di S. Pietro in Roma.
Adunque in quel periodo si dovrebbe aggiungere che è di fede non solo che S. Pietro fa capo della Chiesa, ma che tali sono anche i suoi Successori, i Romani Pontefici. Ma suppongo che l'autore lo dica nel contesto, benchè nel breve tratto che V. R. mi ha trascritto solo dica: Dio stabilì S. Pietro come capo della Chiesa, e questo è dogma e verità di fede: che poi, ecc. Una noterella poi di spiegazione in che modo il fatto dell'Episcopato Romano e della venuta di S. Pietro in Roma si dica estraneo alla fede, non punto dogmatica, basterebbe per togliere ogni equivoco.
Del resto in difesa di ciò che ha detto, o ha voluto dire il dotto autore, le trascriverò qui quello che dice il prof. Murray nel suo recente bellissimo trattato De Ecclesia e con ciò darò fine alla mia cicalata, che non avrei mai creduto così lunga (Disp. XIX, Sect. i).
I.- Primatu Petri statuto, duae restant quaestiones solvendae: 1° An primatus illo jure divino perpetuus esse debuerit in Ecclesia ..... seu, an jure divino Petrus successorem in primatu habere debuerit perpetuum. 2° Quis sit ille successor .....
II. - Quaestio secunda a multis auctoribus seorsum tractatur ei in plures dispertitur: I° An Petrus Romae unquam fuerit. 2° An ibi mortuus sit. 3° An episcopatum Romanum susceperit. 4° An hunc episcopatum unquam deposuerit. Sunt (ut Billuart d. 4. a 2, Cercià s. 2, 1. I, etc.) qui sentire videntur haec omnia, ne nutet primatus Romani Pontificis, affirmanda esse. Alii vero, ut puto, communius (Bellar. l. 2. C. I Collect. de Ord. c. 3; Weith § 18, etc.) censent nonnisi tertium et quartum necessario affirmandum. Et merito quidem: ut enim R. P. sit verus successor S. Petri, sufficit Petrum episcopatum Romanum suscepisse, et usque ad mortem tenuisse: utrumque autem praestaro potuit etsi Romam ipse numquam adiisset.
III. - Neque vero necessarium fuit ut Petrus Episcopatum Romanum unquam reciperet, multo minus ut eum ad mortem usque sustineret. Fieri enim potuit ut successio in primatu, non ex successione in aliquo episcopatu particulari, quem Petrus susciperet, penderet et haberetur, sed ex designatione Petri definientis Episcopum huius vel illius sedis v. g. Romanae, successorem eius in primatu fore. Cum enim haec omnia ex libera Dei voluntate pendeant, bene fieri potuit ut vel Petro, Deo dante, integrum esset ut quam ipse designasset episcopalem sedem, in ea esset successio primatialis; vel etiam ut Deus ipse revelasset Petro sedem in qua successio ista constituenda et perpetuanda esset. In hoc quidem casu Petri esset tantum declarare ei patefacere divinum decretum. [655]
IV. - Resolutio ergo quaestionis: “Quis est Petri successor in primatu” polemice et contra adversarios nostros spectatae, nequaquam pendet ex resolutione istarum quaestionum de factis. Ut enim iam dictum est, ex Scriptura et traditione invicte demonstratur Petro jure divino successorem esso in primatu. Is alius esse non potest quam Romanus Pontifex quocumque modo haec successio primo constituta fuerit, sive successione in Episcopatu Romano Petri, sive libera designatione Petri, sive decreto divino Petro revelato. Quoniam enim ab initio Romanus Pontifex, isque solus, pro successore Petri habitus est ab universa Ecclesia, vel dicendum est eum verum esse successorem, vel dicendum est universam Ecclesiam ab initio, non solum suum verum caput non agnovisse sed aperte caput aliud fictitium appellasse eique paruisse.
V. - Haec polemice et contra adversarios dicta sunt. Si vero res trutina veritatis historicae ei dogmaticae examinetur, sine dubio ad quatuor quaestiones supra positas (n. 2) affirmative respondendum est.
Anzi appena val la pena di far quelle questioni in astratto e polemiche sulle mera possibilità: in concreto la successione nel Primato è connessa colla successione nell'Episcopato Romano.
Se avessi scritto più in breve, non dovrei chiudere chiedendo scusa. Son certo però che V. R. non solo mi perdonerà, ma anzi gradirà il desiderio che ho avuto di compiacerla.
Ma comunque potesse essere interpretato isolatamente l'accennato periodo, sta il fatto che Don Bosco, nello scrivere il libro, non si prefisse solo di narrare le gesta del Principe degli Apostoli, ma anche di mostrare al popolo cristiano la sublime dignità dei Papi per essere i Successori di Pietro sulla Cattedra Romana.
UN religioso Camaldolese, Padre Lorenzo Bertinelli, aveva con replicate lettere supplicato D. Bosco a dirgli se poteva fare liberamente e senza pericolo di qualche danno quello che andava meditando. D. Bosco naturalmente gli rispose che gli manifestasse qual fosse questo suo pensiero:
“No, gli rispondeva il monaco, nulla vi dirò: voglio vedere se siete ispirato quando date consigli. Rispondetemi adunque.” [657] Don Bosco non si curò di rispondere a così strana domanda, quand'ecco gli giunge dal medesimo un telegramma con risposta pagata: - “Io sono per decidermi; rispondetemi”. E Don Bosco rispose: - “Prima di fare un passo ci pensi e preghi! la sua decisione potrebbe esserle fatale.”
Aveva detto il vero. Questo religioso era per decidersi di andare in una casa del suo ordine in Polonia, anzi era quasi sulle mosse per partire, quando qualche tempo dopo la risposta di D. Bosco giunge notizia che quella casa era rovinata, schiacciando i religiosi che in essa si trovavano. Il monaco, pieno di ammirazione, giunto D. Bosco a Roma, era corso ai suoi piedi per ringraziarlo.
Or questi, divenuto suo amico, e con lui i suoi due fratelli, canonico l'uno, avvocato l'altro, desideravano di farlo conoscere agli altri religiosi; e a nome del Padre Arcangelo, Superiore generale dei Camaldolesi, Don Bosco fu invitato a visitare il loro eremo presso Frascati, il giorno stesso di S. Romualdo; e il Venerabile acconsentì.
Il racconto di questa gita l'abbiamo in una lettera di D. Francesia, cominciata il 9, terminata la sera del 10, e indirizzata a D. Rua, in cui si descrive anche, prima di altre cose, una giornata di D. Bosco a Roma.
Sono le 10 di sera. D. Bosco sta leggendo un cumulo di lettere torinesi e romane: ed io sto scrivendo questa che non so quando potrò terminare. Pare che D. Bosco voglia scrivere a tanti giovani che con tenerissima affezione gli scrissero, ma propriamente non può. Poverino! Come ha da fare? Senti. Scrivo la vita di un giorno in Roma e l'avrai di tutti gli altri.
Circa alle 6 di mattina si alza, visita il sig. Conte, incerto di poterlo vedere in tutto il giorno; eppure siamo in sua casa e mangiamo il suo pane. Dice poi messa in luoghi disputati da una settimana e più prima. È sicuro che dove si porta, ha divota ghirlanda di persone per comunicarsi da lui e per sentire le sue parole. Predica sempre e con quel tono profetico! Finita la Messa succede una piccola e santa confusione. [658] Ma sempre, ma ogni giorno. Chi vuole la medaglia, chi baciargli la mano, chi la veste, chi raccomandarsi alle sue preghiere, chi ..... insomma ognuno ha la sua. E D. Bosco in mezzo a tanta gente, che lo tira chi di qua, chi di là. Dopo vi è la visita degli ammalati. La visita è lunga ed io non lo posso accompagnare. Lo aspetterò a pranzo che sarebbe a mezzodì, ma non andiamo mai prima delle tre: ed allora egli ritornando trova già radunata novella gente che l'aspetta. Così fa fino alle 8 di sera. D. Bosco per Roma poi non fa che scendere o salire per le scale: pare la città degli ammalati e tutti vogliono essere visitati dal medico dottore D. Giovanni Bosco. Alcune volte ritornammo a casa alle 9 ed alle 10 di sera ed il sig. Conte non si era più visto e si lamenta, ma da vero e piissimo cristiano, di non poter vedere D. Bosco, e si rallegra per altro d'aver cooperato alla venuta di Don Bosco. Nè a ciò si limita la carità di questo signore. Egli è divenuto il nostro cassiere ed i danari si moltiplicano nelle sue casse. Se fosse a Torino che fortuna per l'Oratorio! Pensa che in pochi giorni trenta scudi si mutano in cinquanta e settanta e magari in cento per virtù sua particolare. Se D. Bosco si sgomenti di tal variazione nol so dire, tutto sta che a lui continua ad affidare i suoi averi.
Voleva parlare della vita di D. Bosco e invece parlo di quella del nostro benefattore. Lo inserii però a bello studio per raccomandarlo alle vostre orazioni. Quando egli sa che nell'Oratorio si parla, si prega per lui, piange di consolazione. Gli si potrebbe scrivere un indirizzo, ma come si deve, in carta bella, a nome di tutti i giovani, con una Storia d'Italia e Storia Sacra e qualche altro libretto (D. Cafasso per esempio), che già raccomandai di preparare ben rilegati. In questa maniera gli lascieremmo grata memoria di noi e dei nostri bisogni. A Dio il pensiero del resto.
D. Bosco dunque alle 9, o alle 10 di sera, entra in sua camera con un fascio di lettere su cui è scritto: preme, con premura, con molta premura, con tutta premura, urgente, urgentissima. E guai se D. Bosco non le legge alla sera, perchè quando potrebbe farlo? Infatti al mattino molti, per non dir tutti, aspettano la risposta. Agli uni dà la risposta per iscritto, ad altri a voce. Anche ai giovani dell'Oratorio diede finora quest'ultima risposta. E se non fosse così, come spiegare altrimenti quel fervore che mi si dice siasi destato fra i nostri cari giovanetti? E sarà per questo motivo che D. Bosco temporeggia ancora a scrivervi. E stassera, a forza d'importunarlo perchè volesse scrivere a voi, quasi quasi mi feci dare uno scappellotto. Ed ero sicuro di prendermelo, se non avessi usato prudenza ed augurata la buona notte! Ma lo compatisco e compatitelo anche voi!!! perchè non ha veramente tempo.
Ed ora che incominciamo a pensare a ritornare a Torino, proviamo diversi e dolorosi affetti. Eppure a Torino ci sono i nostri più cari ed [659] è pur là che ci vuole Iddio. Andiamo e senza rincrescimento. Non so però come potrà di nuovo adattarmi coi nostri giovani, ora che soglio bazzicare con Duchi, Conti, Principi e Re.
Infatti venerdì, che D. Bosco fu al palazzo Farnese per la messa, il Re di Napoli che mi aveva già visto, mi riconobbe, mi salutò per nome e mi strinse amichevolmente la mano; e già mi trovavo in mezzo al Duca della Regina, al Colonnello A, alla Duchessa B, che a gara mi volevano. Ovunque, dopo Don Bosco, mi vedo attorniato da questa gente. A Torino tornerò a farmi amico col Principe Michele e col principino l'asino, col cav. Enria, col barone Anfossi, col duca Battagliotti, colla principessa Magone e così, di questo piede; e bisogna pur che mi contenti. Ma lasciamo lo scherzo: quando sarò a Torino oh! allora sarà il mio cuore ben più libero e sciolto e l'anima mia più piena di fervore di Dio.
Il Venerabile accompagnato da Don Francesia, recatosi a palazzo Farnese, vi era ricevuto con ogni segno di onore. Le sale d'anticamera formicolavano di signori della prima nobiltà napoletana. Don Bosco celebrò la S. Messa nella cappella del palazzo, che gli fu servita dal maggiordomo; quindi il Re lo condusse ove aspettavalo la sua consorte colle sue dame. La regina Sofia era giovanissima, di poche parole e alquanto sostenuta. D. Bosco, invitato a sedere, parlò della sua chiesa di Torino e distribuì alla Regina e alle dame alcune medaglie: anche al Re che, ritiratosi per qualche istante, erasi affacciato alla porta, fece invito di avvicinarsi mostrandogli con amabile semplicità una medaglia, come avrebbe fatto ad un fanciullo. Francesco II la ricevette con riconoscenza. D. Bosco venne poi a parlare della santa sua madre Maria Cristina di Savoia, della quale procedeva alacremente la Causa di Beatificazione, non ostante la tristezza de' tempi. In fatti il 28 aprile 1866 era stata riconosciuta ed approvata dalla Sacra Congregazione dei Riti, la fama di Santità e delle virtù e miracoli della Venerabile Serva di Dio, il quale giudizio ai 3 maggio dello stesso anno veniva confermato dal Papa. [660]
Dopo varii altri ragionamenti, il Re a un tratto gli disse quasi scherzando:
- D. Bosco! Mia moglie desidera un po' di sentire da Lei, se conferma quello che mi ha detto l'altro giorno quando ci parlammo alla Villa Ludovisi.
- Maestà! Io non son profeta, ma se ho da dirle quello che sento, credo che V. M. farebbe meglio a deporne il pensiero.
A questa risposta la Regina vivamente accesa esclamò:
- Ma come? Ed è possibile ciò, mentre tutta la nobiltà è dalla parte nostra, tanti fedeli là combattono per noi, e il Regno d'Italia è cordialmente abborrito!
- Auguro, rispose pacatamente D. Bosco, che le speranze di V. M. si compiano; ma il mio povero parere si è che V. M. non avrà più da tornare sul trono di Napoli!
A queste parole la Regina frenò a stento lo sdegno, si alzò, salutò freddamente D. Bosco, e si allontanava. Il Re lo accompagnò fino al gran salone d'entrata. Tutti i valletti erano schierati in atto rispettoso. Era presente Mons., DeCesare, Promotore della causa della beatificazione della Venerabile Maria Cristina di Savoia e scrittore della sua vita. Il Re porse a D. Bosco il volume della vita della santa sua madre, pregandolo di volerlo aggradire, e voltosi a D. Francesia:
- Caro D. Francesia, gli disse, ora non ne ho altra copia, ma gliene farò tenere a casa una per lei. - E così fu.
Uscito dal palazzo Farnese, il Servo di Dio affrettavasi verso la stazione per andare a Camaldoli e narrava confidenzialmente a D. Francesia il dialogo che aveva tenuto col Re e colla Regina di Napoli. Don Francesia stupito esclamò:
- Ma lei perchè entra in questi particolari? [661]
- Perchè essi mi interrogano; gli rispose D. Bosco.
- Io lascierei almeno il conforto della speranza a questi poveri esuli!
- Non so ciò che faresti tu, se ti trovassi nel mio caso; mai io so che debbo rispondere così. In primo luogo essi non hanno figli. In secondo luogo il Signore li ha cancellati dal libro dei Re!
Ed ora riprendiamo' la lettera D. Francesia.
Venerdì, come dissi in altra mia, fummo a Camaldoli. Era in nostra compagnia il buon canonico Bertinelli e suo fratello l'avvocato che ci pagarono il vapore. D. Bosco per arrivar tardi è un peccatore ostinato e diede molti affanni a questi signori. L'ultimo segno era suonato, i viaggiatori al loro posto, la buca dei biglietti chiusa e D. Bosco non compariva ancora. Finalmente con tutta tranquillità arriva. Chi corre per i biglietti, chi ad afferrare D. Bosco, chi a lagnarsi della tardanza. Ma si entra pel rotto della cuffia e partiamo per Camaldoli. Non parlo del viaggio che fu buono, se togli un piccolo e momentaneo timore per un cavallo che s'impennò; perchè il vapore va fino a Frascati, quindi vettura.
Appena i religiosi seppero che D. Bosco si avvicinava, gli andarono incontro alla distanza di un miglio. A Camaldoli eravamo tra fratelli. Io che non aveva mai veduto di quella sorta di monaci, guardava estatico e riverente quella lunga barba, quella fronte calva, la faccia macilente e quello sguardo sì sereno e celeste di que' solitari. All'arrivo di D. Bosco si inginocchiarono per terra, domandarono la sua benedizione e lo introdussero quasi in trionfo in chiesa. Quali emozioni! Tralascio tutto il resto per venire al punto della partenza. Già la fama della sua virtù l'aveva preceduto, ed i buoni eremiti nel loro religioso affetto avevano congiurato contro di lui, per farlo fermare tra loro nella notte. D. Bosco però rispondeva di non poter accettare quel caro invito, perchè doveva andare a pranzo dal Principe Falconieri, Conte di Carpegna, il quale in quel giorno per fare onore a D. Bosco aveva fatto invito a molti. Questa Casa era di grande importanza e le persone che la componevano di naturale altiero e irascibile specialmente la signora. Il superiore del convento instava, D. Bosco continuava nella sua negativa. Avevano un loro confratello già sano e buono assai ed ora era caduto infermo che delirava in modo spaventoso. Desideravano che lo visitasse, gli ponesse addosso la sua benedetta medaglia, e lo guarisse almeno nella mente.
Che fecero? Sanno che colla preghiera si ottiene tutto. Quindi [662] benchè D. Bosco avesse deciso di partire ed il suo segretario s'impazientisse, il Superiore esclamò:
- Vedremo se il Signore mi farà la grazia che D. Bosco mi nega: - e mandò i suoi monaci davanti al SS. Sacramento.
Colle braccia aperte si posero tutti a pregare ai piedi del Tabernacolo, perchè Iddio facesse decidere il suo Servo a pernottare in quella pia solitudine. Il superiore ed altri si erano gettati ai piedi di D. Bosco, domandandogli per Gesù e Maria che non li volesse così presto abbandonare.
D. Bosco intenerito disse allora:
- Non sia mai detto che io neghi ciò, di che vien supplicato Gesù.
E scrisse subito due lettere. Una al Conte Vimercati perchè non l'aspettasse, l'altra al Principe D. Orazio Falconieri per avvisarlo, che gravi motivi lo trattenevano a Camaldoli e non poter venire a pranzo a casa sua. Quindi mi diede le due lettere incaricandomi di portarle a Roma, ed egli quieto come l'olio si fermò. Oh se avessi veduto quale gioia traspariva in quelle faccie celesti, alla promessa che D. Bosco per una sera sarebbe stato con loro. Ed allora da buon pensatore mi rimproverai il poco caso che faccio talora della veneranda sua persona e biasimai in ispirito quei nostri poveri fanciulli che non vogliono approfittarsi delle sante dottrine e parole di questo gran Servo di Dio. Oh lo sappiano questi poveri ingannati, come da altri che non sono dei suo ovile sia apprezzato, onorato, riverito il loro Padre e piglino coraggio e voglia di amarlo ed obbedirlo.
- Dove è il Santo? mi diceva su quei monte un povero uomo, dove è il Santo che dev'essere venuto poco fa; che io non voglio che parta, prima che io gli abbia baciato la mano e che egli abbia benedetta la mia famiglia!
D. Francesia intanto partiva per Roma. - Dio me la mandi buona esclamava fra sè: tutti aspettano D. Bosco, e invece arriverò io?... Chi sa che bronci! Che figura vado a far io! - E arrivò al palazzo Falconieri che erano le 5 pomeridiane, l'ora del pranzo. Un gran numero di invitati era già in aspettazione da lungo tempo e appena apparve D. Francesia, credendo che D. Bosco venisse dietro:
- Oh finalmente esclamarono, e D. Bosco?
- D. Bosco è qui! rispose D. Francesia, presentando la lettera.
La lettera, religiosamente conservata, diceva:
Alcuni affari che riguardano i buoni religiosi Camaldolesi mi trattengono qui stassera, perciò non posso trovarmi all'ora del pranzo presso V. E. siccome io desiderava; [663] se non àvvi niente in contrario, io andrò domenica alla stessa ora. - In ogni caso le professo la mia gratitudine.
Dio benedica Lei e tutta la sua famiglia e mi creda con pienezza di stima,
Tutti restarono disgustati, perchè quel convito era fatto per onorare D. Bosco. Don Francesia intanto fu introdotto nel salotto ove erano il principe e la principessa: e porse la lettera aspettandosi una solenne sgridata. Il signore lesse la lettera e poi disse con tutta tranquillità: - D. Bosco oggi non può venire; verrà un'altra volta.
La principessa stizzita esclamò con certa veemenza: - D. Bosco lo sa bene che domani parto e non lo potrò più vedere! - E faceva il broncio.
- Se non lo vedrai tu, lo vedrò io, concluse il marito. E si andò a pranzo.
Fu un portento la calma serena del Principe, non assuefatto a rifiuti, e in quella circostanza che sembrava di suo disdoro, in faccia a tanti signori invitati unicamente per vedere D. Bosco!
Intanto D. Bosco la mattina del sabato doveva trovarsi a Roma a dir messa ad un'ora stabilita. C'erano inviti molti; guai se avesse mancato. Quando si seppe che D. Bosco era a Camaldoli quante trepidazioni! Ma fortunatamente arrivò in tempo. Era aspettato con trasporto. La piazza di S. Agostino era piena di carrozze e la chiesa di persone. Don Bosco, cosa rara, era venuto un quarto d'ora prima. Dunque si impieghi santamente questo tempo; ed una persona venne a domandarlo per confessarsi. Si mette in confessionale. Ma appena si seppe che D. Bosco confessava, un correre, uno spingersi, un urtarsi e peggio, per essere il primo. E perchè potesse venir a dir messa non ci volle che la risoluzione e quasi la violenza del sagrestano. All'ora fissa D. Bosco andò all'altare. Ci furono più e più comunioni fatte dalle più elevate dame romane che ambivano la fortuna di ricevere l'ostia santa dalle mani del nostro Padre. Parlò dopo messa. Io non fui a sentirlo. Chi lo sentì, affermò che fra tutte le volte che aveva predicato non l'aveva mai fatto sì bene, sì acceso di fuoco celeste come in questa occasione. Sferzò, e per bene, e nessuno si lagnò; anzi tutti ne furono lieti. - È il Signore che parla per sua bocca! - si va dicendo ed è per questo che viene ascoltato con tanta reverenza. [664] Nella vita di un giorno avete la storia di tutti.
Quando ritorneremo poi, non si sa; e malgrado ogni buon volere D. Bosco forse dovrà di nuovo differire la partenza ad altro tempo. Finora D. Bosco ha stabilito di partire lunedì 18 febbraio: ma in quel giorno e per la domane si è impegnato per la messa: vuol dire che sarà in quella settimana. Intanto ci prepariamo per la visita di congedo al Santo Padre. Sarà tenera assai, m'immagino, e sarà forse l'ultima volta che questi due uomini straordinarii si vedono in questo mondo; ed il Santo Padre sente tanta benevolenza per D. Bosco, come Don Bosco profondissima riverenza ed amore per lui. Si cerca di far nascere qualche incidente per trattenerlo ancora, ma ci riusciranno? E riuscendo, ne sarete voi contenti? Ecco alcuni problemi facili a sciogliersi. L'altro giorno in una conversazione si parlava del dispiacere che avrebbero provato gli amici di D. Bosco quando fosse partito, e tutti si domandavano qual mezzo sarebbe da adoperarsi per fermarlo ancora per qualche giorno. Si parlò di Firenze e si disse che una signora coll'offerta di 10.000 Lire l'aveva fermato per tre giorni in quella città. Finirono con offrirsi a pagare una bella somma, se D. Bosco avesse accettata la condizione di fermarsi.
- Ora non posso, rispose D. Bosco; ma dopo un po' di tempo sarò ai vostri ordini. Volete che io venga a Roma? Preparatemi solo 2000 lire e vengo subito a prenderle.
Stamane (domenica 10 febbraio) a S. Pietro vi è una magnifica funzione per la beatificazione del Ven. Benedetto da Urbino, cappuccino. Io vi andrò. Non so se D. Bosco potrà venire. Ad ogni modo andrò a vedere quello che avranno forse a vedere i nostri nipoti di una persona che noi conosciamo benissimo. Ancorchè desideri di vederla io stesso, non invidio però tale consolazione ai posteri. A loro la festa, a noi la persona, a loro la storia, a noi le sue stesse azioni e parole. Sono questi ed altrettali i pensieri che mi nascono a tal proposito in mente, mentre ti scrivo e mi sento proprio tutto il cuore in movimento. Iddio ci esaudisca! Questa lettera, nol so di certo, sarà forse l'ultima che voi riceverete da Roma, così diffusa, e direi quasi storica; un'altra vi determinerà il giorno preciso in cui D. Bosco partirà da Roma e verrà verso Torino. Quel giorno lo sospiro.
Stassera ne avvenne una bella, che mi cagionò prima paura, poi contentezza. Don Bosco tardò molto a venire a casa: non entrò che suonata l'Ave Maria. Appena calato dal suo legnetto, ecco tre gendarmi pontifici a corrergli addosso. Devi sapere che vicino a noi sta una caserma di carabinieri, per tutelare l'ordine pubblico in questi luoghi remoti affatto dalla città.
Gli afferrano le mani come sogliono fare per abbrancare i birbanti. Io non sapeva che fare. Fuggire non voleva, gridare non poteva. Che cosa era? Uno di questi gendarmi da più mesi sentiva la febbre, che [665] tanto l'aveva strapazzato da ridurlo a parere uno scheletro. Ora vedendo la moltitudine di persone che venivano a farsi benedire da D. Bosco, acceso di fede e smanioso veramente di guarire, un bel dì si gettò ai suoi piedi, implorando la sua benedizione. Dopo i soliti ricordi lo benedisse. D'allora in poi, non fu mai più molestato dalla febbre, e questa sera veniva a ringraziare D. Bosco ed a mettere tanto spavento nel suo povero segretario. Pensa quanto egli sia contento! era in procinto di domandare il suo congedo, era magro a morte, ed ora sta bene, florido di faccia da mettere invidia.
Mons. Berardi, Arciv. di Nicea, sotto segretario di Stato, era tanto indebolito di mente e di stomaco che i medici lo avevano consigliato a ritirarsi dagli affari e menare vita privata. Tal decisione spiaceva molto a lui, che ha davanti a sè il più splendido avvenire. Quando Don Bosco fu a visitarlo, volle farsi benedire e ricevere la sua medaglia. D. Bosco obbedì; ed ora questo esimio prelato, sta meglio ed i soliti incommodi che lo affliggevano cessarono affatto e predica ovunque il fatto singolare. Se egli avesse cento medaglie benedette da D. Bosco, saprebbe dove collocarle, tanti sono gli infelici che conosce e che desiderano di essere guariti.
Una zitella collocata in un ritiro di educazione non vi voleva più stare. La madre afflitta, perchè non sapeva ove collocarla altrove, la fece benedire di lontano da D. Bosco. Si stabilisce un mese di preghiere ed al 28 del mese la ragazza tutta mutata scrisse alla madre, che ha conosciuto essere volontà di Dio, che si fermasse in quell'Istituto. E pensare che prima voleva piuttosto morire affogata. Oh potenza della preghiera!
D. Bosco mi lascia di dire a D. Cagliero che:
VISTA la sua abilità nella musica, VISTA la perfezione che in tale arte si ha in Roma:
Articolo unico. - Nella prima volta che qualcuno dell'Oratorio verrà a Roma, se saranno due uno sarà D. Cagliero: se sarà un solo, sarà pure D. Cagliero!
D. Bosco mi lascia pur di dire (e mi correggo di quanto ho detto in principio) che scriverà ai giovani e la sua lettera sarà dietro alla mia. Questa ve l'annunzio; tenetela cara e preziosa; sono i suoi caratteri. Una sua lettera è ambita a Roma come l'oro, è baciata come una reliquia.
Ti auguro ogni felicità. Dirai ai giovani salutandoli che di loro particolarmente parlai al S. Padre e che gradì con somma bontà le mie parole; che presto sarò da loro per assicurarmi della realtà delle belle cose che di loro mi scriveva D. Durando: che la mia vita sarebbe troppo bene spesa, che intendo sempre di consecrarla a Dio, a benefizio [666] dei nostri figli! Oh! accetti il Signore il mio sacrifizio e lo benedica colla sua santa grazia dal Cielo. Dominus vobiscum!
Tutto tuo nel cuore di G. e di M.
D. Francesia spedito questo foglio a Torino, accompagnava Don Bosco al pranzo del Principe Falconieri, al quale il Servo di Dio, nella sua squisita cortesia, prima di mezzogiorno aveva fatta recapitare un'altra lettera:
Grazie delle rinnovazioni di cortesia che nella sua grande bontà si compiace di farmi. Stassera circa le sei sarò presso di V. E. per godere di sua bontà e carità, ma non mancherò mai di raccomandare ogni giorno, siccome ho già cominciato, di raccomandare a Dio le cose che riguardano alla pace e felicità di sua famiglia. Dio è grande e ci ha destinati ad una grande felicità, ma vuole che ci perveniamo per ignem et aquam, perciò in mezzo alla bellezza delle rose che si trovano nelle famiglie sono eziandio pungenti spine. Dio però a suo tempo pagherà tutto. Fede, preghiera. Ogni celeste benedizione discenda sopra di Lei e sopra tutta la sua famiglia, e raccomandandomi alla carità delle sante sue preghiere mi professo con gratitudine
ROMA andava a gara con Firenze nell'aiutare Don Bosco a costrurre ed ornare la Chiesa di Maria Ausiliatrice. Le Dame di Firenze avevano fatto una colletta per offrire a D. Bosco sei magnifici candellieri per l'altare maggiore. Una principessa romana lo seppe e le venne in mente un bel pensiero. Una sera andò a conversazione nella casa di una nobile amica e vi trovò radunato un gran numero di Dame. La principessa incominciò a parlare di cose indifferenti, poi discorse delle cose politiche, da queste a parlar di Torino non era che un passo, e quindi come a caso accennò all'Oratorio di S. Francesco di Sales e a D. Bosco; e a poco a poco infervorandosi il discorso si vennero a magnificare le [668] cose meravigliose che egli faceva. Quando la principessa vide gli animi ben caldi, narrò del dono fatto a D. Bosco dalle Dame Fiorentine e concluse:
- Noi Dame Romane ci lasceremo vincere in generosità dalle Dame Fiorentine? Mai no; facciamo vedere che nessuno può superarci in grandezza di animo!
Le Dame accettarono con entusiasmo la proposta, si discusse sul da farsi e si deliberò di offrire a D. Bosco un magnifico tappeto per l'altar maggiore, tale che fosse un capo d'opera di lavoro romano!
D. Francesia, continuando a mandar notizie a Torino, scriveva all'Economo dell'Oratorio ed accennava ad un altro disegno di molte Signore.
Si preparino i pifferi; si incomincia a pensare al ritorno. D. Bosco saluta particolarmente Buzzetti con tutta la sua banda. Gli ultimi giorni di carnovale saremo costi anche noi a mangiare li agnellotti e a sentire le vostre armonie. Vorrei dare un consiglio da poeta; di mettere insieme un inno da cantarsi da tutti a coro. Avete ancora tempo. Ma forse l'avrete già fatto ed il mio consiglio giunge tre ore dopo...
V'ha una buona quantità di signore che vogliono fare una colletta per mettere su qualche centinaio di scudi pel nostro altare di S. Pietro. Può essere che con questa carestia di danari non vada avanti il progetto, ma dimostra tuttavia il buono spirito che vi ha per D. Bosco nei Romani. Oh se fossero tempi più calmi, quanto meglio sarebbe! È mirabile però quanto siano appassionati per D. Bosco.
Oggi andò a confessare in una chiesa di Roma e ad una penitente aveva già scritto prima di lasciarla tre ricordi; uno riguardante il passato, uno l'avvenire e l'altro il presente. L'afflisse e l'incoraggiò a sentirsi a dire chiaramente cosa a lei sola nota, comunicata mai a nessuna anima viva, riguardante il passato. Ora per lei D. Bosco è tutto; se le dicesse di farsi monaca, credo che non metterebbe tempo in mezzo.
Caro D. Savio, la mia vita è monotona, come la pioggia che mi chiude in casa. Per fortuna abbiamo un legnetto; del resto come fare? Siamo partiti da Torino senza neppure prenderci un parapioggia! Prega per D. Bosco e per chi l'accompagna .....
Un altro foglio, diretto al Cav. Oreglia, dava più importanti notizie.
Roma, 13 febbraio 1867] Ieri sera fui dal Marchese di Baviera, Direttore dell'Osservatore Romano. Fu graziosissimo e assicurò che avrebbe parlato del Centenario di S. Pietro. L'Avv. Casoni era a Bologna. Ma ieri sera stessa i due sullodati signori furono qui ad ossequiare D. Bosco, a offrirgli i loro servigi, a prestarsi per le opere sue. Lei riceverà, anzi avrà già ricevuto il loro giornale e fra breve vedrà che han parlato della lotteria; tanto promisero di fare. È vero che farà più poco il giornale dopo il moltissimo che fecero le pie turbe che procurarono uno spaccio incredibile di biglietti. L'immenso numero di questi mandato da lei è quasi esaurito .....
Mi spiace di non poterle dir nulla riguardo a quella certa sua domanda sulla proclamazione dei Vescovi. Se ne parlò in principio, anzi me ne parlò D. Bosco; e mi aveva soggiunto che in Roma si voleva differire sino a quel tempo, ma che egli aveva raccomandato, ed era stato in quel giorno ascoltato per sollecitare la cosa. E che allora si era poi stabilito di nominarne alcuni in un Concistoro da farsi anche negli ultimi giorni di carnevale, poi di tratto in tratto sarebbero stati proclamati tutti gli altri. So pure che D. Bosco parlò e fu ascoltato con molta deferenza, in favore di alcuni e propose alcuni che furono accettati. Chi siano questi io lo so, e credo prudente ancora non annunziarlo. Nè solo a Roma questi tali piacquero, ma piaceranno anche costà .....
Ieri pure si ebbe un'udienza tutta aristocratica. Le principesse Aldobrandini, Orsini, Borghese, il Duca Salviati, il Principe Torlonia, vennero a parlare ed a lungo con D. Bosco. Qualcuno ha già fatto per la casa nostra qualche cosa, ma promette di fare di più. Sono però favorevoli e basta. Altri non fece e farà. Preghino che il Signore nella sua misericordia voglia benedire la casa Torlonia ed essa ne sarebbe gratissima. D. Bosco non potrebbe essere più contento della sua gita a Roma, dove ha trovato tanta cortesia ed aiuto. Dopo tanti danari che si mandarono, mi pare inutile soggiungere che D. Bosco ha avuto dei sussidi. Il dirlo però mi va a genio. Eravamo tanto incerti della riuscita in questi tempi, che ci fa maggior impressione.
Per mezzo dei tipografo che viene da Roma le mando un ritratto di Pio IX in grande. Ha questo nella parte di dietro una scrittura. Fu un regalo che il fotografo faceva al sig. Pardini, nostro mastro di casa; ed ora il medesimo lo dona a D. Bosco. Come vede ha un esempio di più della somma gentilezza ed emulazione che tutti, regis ed exemplum, hanno per noi. [670] Abbiamo parlato e pranzato col principe Falconieri. Che uomo simpatico ed originale è mai costui! Buono come il sole ed allegro e gioviale come un ragazzo. Accetta biglietti, li pagherà subito e si obbligò di fare un'oblazione all'Oratorio nel corso di quest'anno medesimo.
Dal Piemonte a D. Bosco fioccano lettere perchè voglia far eleggere questi o quelli per Vescovi ed Arcivescovi. Fra coloro che scrissero in questo senso, sa chi vi è? niente meno che D. Beg... da Torino. Costui è ben singolare; ha sì poca stima per D. Bosco e poi crede che sia in suo potere il fare gli Arcivescovi di Torino. D. Bosco gli rispose faccia pure eleggere il Canonico A o il Canonico B, che egli ne sarebbe contento...
Fra le nobili Signore, che si recarono a visitare D. Bosco, fu l'Ecc.ma Principessa Barberini, la quale ottenne una grazia singolare.
Io qui sottoscritto sono stato in Roma dal 1850 al 1881 Segretario prima del fu Em.mo Sig. Cardinale Benedetto Barberini e poi del vivente Ecc.mo D. Enrico Principe Barberini. Premetto ciò unicamente onde si comprenda subito come io naturalmente ero nell'intimità di quella Ecc.ma famiglia. Conosceva io quindi le grandi angustie del sullodato Principe D. Enrico, e quelle molto maggiori della di lui consorte Donna Teresa, nata Principessa Orsini, perchè non avevano prole; benchè uniti in matrimonio da molti anni.
La Principessa, piissima signora, non cessava perciò di pregare, far celebrare tridui e novene in varii celebri santuari d'Italia, e raccomandarsi alle preghiere delle persone più conosciute per virtù e santità di vita.
Quando nel 1867 D. Giovanni Bosco venne in Roma, per la prima volta preceduto dalla fama delle sue virtù e della sua bella e santa opera, alla quale egli aveva dedicata la sua vita, tutti i buoni Romani facevano a gara per vederlo e conoscerlo; e la suddetta Principessa andò essa stessa a S. Pietro in Vincoli, ove D. Bosco dimorava, onde pregarlo di venire a celebrare la S. Messa nella cappella del suo palazzo, facendogli conoscere il perchè ricorreva alle di lui orazioni. D. Bosco glielo promise ed il giorno fissato egli venne a celebrare giusta il desiderio di quella signora.
Non assistettero alla Messa che gli Ecc.mi sposi, io e qualche intimo di casa. Dopo la messa fecero servire a D. Bosco il caffè in una stanza, ove gli Ecc.mi Signori a porte socchiuse si trattennero con lui circa mezz'ora. Di là usciti lo accompagnarono sino alla stanza ove mi teneva io, onde accompagnarlo sino alla porta. [671] Rimasto io solo con D. Bosco gli dissi:
- Io sono il segretario di Sua Eccellenza e so il perchè l'hanno pregata di venire a celebrare qui. Cosa ne pensa ella del desiderio di questa povera signora?
Egli mi rispose subito graziose parole e poi mi soggiunse asseveratamente in questi precisi termini:
- Ebbene, sì, il Signore vuole consolarla! Poverina! Ella vorrebbe un maschio, ma il Signore non vuole accordarle che una femmina! Bisogna che si rassegni e si contenti di aver una femmina! Ma questa sarà la sua consolazione.
Debbo confessare che io rimasi assai sorpreso a queste sue parole, benchè da lui dettemi con tutta convinzione e come ispirato. E la mia sorpresa nasceva dall'aver io antecedentemente inteso dal Dottore di casa e da altri dottori varie volte soprachiamati e consultati, che la principessa era sterile, che non poteva concepire, e che se per impossibile ciò fosse avvenuto sarebbe morta nel parto. Invece, qualche tempo dopo concepì non solo, ma partorì poi felicemente dopo diciotto anni di sterile matrimonio una figlia attualmente vivente, sana, robusta, virtuosa alla quale hanno voluto porre il solo nome di Maria.
Avendo io giorni fa narrato quanto sopra al mio amico D. Giuseppe Ronchail (Direttore dello stabilimento di D. Bosco in Nizza Mare) ed avendomene egli richiesto un attestato, volentieri glielo rilascio, pronto a confermarlo con mio giuramento.
Roccabruna (Alpi Marittime), 20 gennaio 1887.
Dottore in Sacra Teologia ed in ambe leggi.
Un altra predizione di D. Bosco si avverava in questo tempo. Nell'anno 1866 alcuni volendo fare il bello spirito avevano fatto intendere alla nipote della Marchesa Villarios come D. Bosco si adoperasse per combinare un matrimonio fra lei e il Conte Francesco De Maistre. Era una pretta invenzione. Ma il De Maistre era giovane, ricco, con un illustre nome, ufficiale nell'armata pontificia, sicchè la figlia si lasciò scaldare la testa. La zia invano si sforzava di persuaderla, e tutta desolata finì con scrivere a D. Bosco pregandolo di un suo biglietto per calmare la giovane.
D. Bosco le scrisse in questi termini: “Si tranquillizzi, troverà uno sposo non inferiore a quello che sogna. Lei ha [672] fatto molto per la Madonna e la Madonna le manderà lo sposo. Anzi D. Bosco verrà a benedire il matrimonio”.
Il fatto si avverò l'anno seguente. Il Marchese Patrizi, nipote del Cardinale, ricchissimo e nobilissimo signore, chiese la sua mano. D. Bosco si trovò in Roma nel tempo della celebrazione del matrimonio, andò a visitare gli sposi, e quando ritornarono dal viaggio di nozze, accettò un pranzo nel loro palazzo.
Anche in mezzo alle serie continue di tante udienze, visite, corrispondenze, benedizioni agli infermi, trattative generali per la Chiesa e per lo Stato, particolari per la sua Pia Società e per quanti ricorrevano a lui per mille occorrenze, Don Bosco pensava ai bisogni materiali dell'Oratorio, ringraziando la divina bontà che gliene procurava i mezzi. Scriveva in fretta a D. Rua.
Se il Padre Tomatis ha ancora il denaro a Torino oltre agli ottomila f. puoi prendere gli altri seimila, che io pagherò qui a Roma, appena mi scriverai che li hai ricevuti.
Essi però devono avere una destinazione fissa, cioè f. 2000 a Carlino Buzzetti e gli altri 4000 al panattiere. Per altri affari procureremo mandarvi altro.
Ma tu non mi dai notizia dell'entrata, nè dell'uscita, dei giovani, vivi o morti.
Disponi, da domenica in quindici, che possiamo fare una stupenda festa di S. Francesco di Sales.
Dio ci benedica tutti e ci conservi per la via del Paradiso. Amen. Roma, 13 febbraio 1867.
Nel medesimo giorno i giovani del Collegio Nazzareno, avendo ottenuta da D. Bosco la promessa che sarebbe ritornato a passare qualche ora in mezzo a loro, firmavano un indirizzo per gli alunni dell'Oratorio di S. Francesco di Sales. [673]
Carissimi fratelli in G. C. Signor Nostro,
E' stata tanta la gioia che ha ricolmato l'animo nostro l'aver conosciuto e conversato qui nel Collegio Nazzareno col vostro, più che amico, tenerissimo Padre D. Giovanni Bosco (delle cui sante industrie a prò delle anime vostre ritraete sì ubertosi frutti), che la nostra consolazione non ci è parsa piena, se non vi si comunicava, con questa nostra lettera che vi mandiamo. Diremo inoltre che con tanto e sì sviscerato amore il vostro buon Padre e Maestro ci ha parlato di voi, delle belle qualità che vi adornano, e del bene in gran copia che se ne ripromette, che noi abbiamo imparato da lui a stimarvi ed amarvi.
Perchè poi questa nostra affezione si mostrasse più presto ad atti che a parole, oltre alle oneste e liete accoglienze, fatte come meglio per noi si è potuto a questo inclito uomo, della Religione e dell'umanità sì altamente benemerito, ci siamo pure dati carico per quanto era in noi di cooperare allo scopo caritatevole e santo, a cui egli tiene rivolto il suo pensiero ed affetto, di soccorrere cioè alle vostre supreme necessità, e in pari tempo di compiere costì magnifica chiesa, dedicata alla Vergine nostra Avvocata e Madre amorosissima. Ne è da credere che l'effetto non debba corrispondere al pietoso desiderio, perchè Dio non potrà che benedire sì nobile impresa; anzi, provvido e misericordioso come Egli è, coi frutti delle vostre buone opere vi mostrerà quanto sia grande e segnalato il benefizio che vi ha fatto di togliervi, massime in questi tempi fortunosissimi e reissimi, dai manifesti pericoli che insidiavano alla vostra innocenza, e ricoverarvi in codesto beato asilo di sicurezza e di pace.
Umiliamoci or dunque davanti al Signore, e dopo averlo ringraziato dei larghissimi beneficii che ci ha concesso e ci concede incessantemente, preghiamolo che ci assista colla sua grazia, perchè conformati in tutto alla sua volontà, colla santa perseveranza nel bene, si tragga vita pura ed incontaminata. E come questo deve essere l'unico fine di ogni nostra azione, così sarà pure il solo premio, la sola corona che si aspettano quelle anime generose che con tante fatiche, annegazioni ed inestimabili sacrifizi cercano ogni via per informarci l'animo alla virtù ed alla vera sapienza.
Frattanto, carissimi fratelli in Gesù Signor Nostro, noi vi abbracciamo con tutto l'affetto e preghiamo continuamente che il Padre, il Figliuolo e lo Spirito Santo abitino sempre nei nostri cuori. Così sia.
Roma, dal Collegio Nazzareno, questo dì 13 febbraio 1867.
GIOVANNI DATTI Conv. - GIUNIO DEI -
FILIPPO NARDUCCI - ERCOLE BALSANO
-PAOLO CARUSO - GIULIO BUFALINI. [674]
Dopo qualche settimana giungeva dall'Oratorio una cordiale risposta.
Quando il venerato nostro superiore anzi padre D. Bosco era costì in Roma, voi lo avete colmo di tante belle accoglienze, che anche il nostro compagno ne fu intenerito e commosso. Nè solo a lui avete voluto dare pietosi segni di amore, ma volgeste il vostro sguardo anche a noi lontani ed a voi tuttora sconosciuti, e ci scriveste parole così piene di affetti quali fratelli ad amati fratelli. Grazie, o signori, grazie infinite.
E mentre in questa vostra bontà vediamo ed apprezziamo l'ottima educazione che vi è data dai seguaci di S. Giuseppe Calasanzio, santo che fu laboriosissimo per la gioventù, vediamo pure la mirabile vostra corrispondenza ai generosi loro sforzi. Oh potessimo, noi imitarvi! Voi invidiaste la nostra fortuna, e ben è tale da meritarcela. Se voi al vedere D. Bosco per una o due volte ne foste così violentemente presi, che dire di noi che lo vediamo ogni giorno, udiamo la sua santa parola, che ogni giorno riceviamo pure da lui il cibo che ci sostiene la vita? Oh potessimo pur mettere in pratica i suoi consigli; potessimo essere sempre fedeli a' suoi ammaestramenti! felici noi su questa terra e per tutta l'eternità!
Senza il suo soccorso che sarebbe mai stato di noi? Egli ci raccolse, ci mantiene colla sua carità e ci educa paternamente agli studi ed alle arti per procacciarci così un giorno onestamente il pane della vita.
Riconoscenti noi tutti per quello che al nostro amato D. Bosco voi avete voluto fare, per l'interesse che avete avuto per soccorrerlo per i nostri bisogni, abbiamo pregato perchè il Signore vi benedica nelle vostre scolastiche fatiche, e dia a tutti forza e grazia a praticare la sua santissima religione. Forse noi non avremo la felice sorte di potervi di presenza vedere in questa vita, ma abbiamo viva fiducia di potervi tutti ossequiare; dove? nella patria dei beati, a cantare al Creatore un eterno inno di gloria.
FRA i molti che desideravano avere notizie di Don Bosco eravi Mons. Pietro Rota, Vescovo di Guastalla. D. Cagliero lo informava di quanto avveniva in Roma e il buon Prelato manifestavagli le impressioni provate. Gli scriveva il 31 gennaio: [676] Ho letta ai miei preti ed ho fatta leggere agli alunni la di lei pregiatissima lettera e tutti ne sono stati meravigliati e commossi; e gli alunni si sono messi nel desiderio di rivedere D. Bosco e baciargli le vesti non che la mano. Io gli ho scritto a Roma perchè nel ritorno non manchi di venire a Guastalla o almeno, di fermarsi in Reggio, perchè possiamo rivederci.
Oggi finalmente mi è pervenuta la carissima sua ed è stata la bramata ricreazione del dopo pranzo. L'abbiamo letta con avidità io, il mio segretario, il maestro e l'economo di S. Rocco, confessore degli alunni… Abbiamo ammirato Colui, che si mostra mirabilis in sanctis suis; e il segretario mi ha portata via la lettera per darne domani un buon pasto spirituale ai nostri ragazzi, smaniosi ormai come quelli dell'Oratorio di rivedere D. Bosco, ma forse invano…Da quanto si sente, non toccherà più a me il consecrare la nuova chiesa, poichè dicesi che sia già fatto l'Arcivescovo di Torino. Pazienza! Ho più piacere che sia provveduta questa vedova diocesi di quello che avere a fare io la funzione. E quando si farà l'apertura? La Provvidenza da quanto sento va provvedendo. Benissimo, benissimo.
Intanto continuavano a giungere in Torino lettere da Roma, delle quali si continuava a dar lettura ai giovani dell'Oratorio e sì mandava copia a Mirabello e a Lanzo. Il nome del Conte Vimercati era sempre ascoltato da tutti con riconoscenza, per quanto faceva pel loro buon padre. Quindi il Prefetto D. Rua procurò fosse steso un indirizzo collettivo degli Oratorii e Collegi Salesiani in omaggio al Conte, e lo spedì a D. Francesia perchè lo presentasse, con alcuni libri, al generoso benefattore.
Noi sottoscritti animati dalla più tenera gratitudine verso la bontà di V. E. osiamo umiliarle questo poverissimo pegno di profondissimo ossequio e della più affettuosa riconoscenza. Noi siamo i figliuoli della Divina Provvidenza raccolti mercè la cura del Sac. Don Giovanni Bosco nell'Oratorio di S. Francesco di Sales. Noi abbiamo veduto partire il nostro tenero padre per la città di Roma; colle [677] lagrime agli occhi, col cuore pieno di trepidanza pregavamo gli angioli della Divina Provvidenza che lo custodissero nel cammino e gli aprissero un paterno tetto nella città dove avrebbe presa dimora: ed i suoi angioli tutelari hanno esaudito la nostra preghiera. Ed oh quanto ci furono propizii avendolo raccomandato alla carità del sig. Conte! E dove mai avrebbero potuto meglio guidarlo che presso di V. E., la quale stendendogli benefica la mano gli porgeva sì generosa ospitalità, prodigando al nostro tenero padre ed all'amato suo compagno Sacerdote Francesia le più provvide cure? Oh come vorremmo, Eccellenza, attestarle con segni ben più sensibili l'affettuosa gratitudine che per Lei sentiamo. Quanto ci stimeremmo fortunati se potessimo contraccambiarla con qualche servizio. Ma che mai potremo far noi poverelli, che di continuo abbiam bisogno dell'altrui soccorso? Ah! sebben meschini, tuttavia qualche cosa possiamo fare. Un mezzo ci rimane. La preghiera. Con essa speriamo di ottenere da chi è Onnipotente, ciò che non possiamo far noi nella nostra povertà e debolezza. Ma che? Ella non ha certo d'uopo delle nostre povere preghiere. I tratti di carità generosa che Ella prodigò al nostro caro Padre parlano ben più eloquentemente davanti al Signore, che qualunque nostra preghiera. Ciò non ostante ci facciam coraggio; e confidiamo che il Signore non voglia sdegnarla. Sì, Eccellenza; se la preghiera del povero beneficato, se l'accento della semplicità possono trovar accesso davanti a Dio e muoverlo a versare copiose benedizioni, sono migliaia e migliaia le voci che dai tre Oratori di Torino e dalle case di Mirabello e di Lanzo si innalzeranno al trono delle celesti misericordie, migliaia e migliaia i cuori che imploreranno su di Lei e sull'Augusta e Benemerita sua famiglia centuplicati quei favori che Ella a noi compartiva nella persona del nostro D. Bosco.
Degnisi pertanto, Ecc.mo sig. Conte, di perdonare se povere mani non potendo porgere che povero dono, le umiliamo questo tenue attestato del nostro profondo ossequio e della nostra affettuosissima gratitudine. Noi preghiamo caldamente il Signore a supplire alla nostra povertà col favorirla delle più copiose benedizioni sulla terra e col consolarla un bel giorno aprendo a Lei ed alla sua benemerita famiglia le più soavi dolcezze del Paradiso.
Rinnovandole i sentimenti dell'intimo nostro rispetto e della nostra più sincera gratitudine ci professiamo,
Per i dieci preti dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, Don Angelo Savio.
Per i quaranta chierici, Merlone Secondo.
Per i cinquanta rettorici, Bruna Gio. Battista. [678]
Per i cinquanta umanisti, Cagliero Cesare.
Per gli ottanta di terza ginnasiale, Vota Michele.
Per i novanta di seconda ginnasiale, Montiglio Carlo.
Per i cento ottanta di prima ginnasiale, Battagliotti Domenico.
Per i duecento artigiani, Franchino Giuseppe.
Per i trenta domestici, Bertinetti Michele.
Per i giovani esterni dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, Villa Giuseppe.
Per i giovani dell'Oratorio di S. Luigi, Formica Giuseppe.
Per i giovani dell'Oratorio di S. Giuseppe, Occelletti Giovanni.
Per i giovani del piccolo Seminario di Mirabello, il Direttore Don Bonetti.
Per i giovani del Collegio di Lanzo, il Direttore D. Lemoyne Giovanni Battista.
Questo indirizzo fu ' recapitato al palazzo presso S. Pietro in Vincoli alla sera del giorno 16; mentre D. Bosco, diceva D. Francesia rispondendo, era di ritorno dall'aver fatto visita al Card. Angelo Quaglia, dal quale era andato per interessare l'Eminentissimo a favorire la Pia Società di S. Francesco di Sales, e per udire i suoi consigli riguardo il conseguimento di certi privilegi e l'approvazione canonica. Ecco la lettera di D. Francesia.
Ho ricevuto l'indirizzo dei giovani e lo presenterò domenica p. v. nel vivo desiderio di poter pure avere allora i libri che ella avrà forse già fatti legare .....
Tutti ammirano D. Bosco, anche quelli, e ve n'erano, che prima ne mordevano la fama; vedendolo, ne restano meravigliosamente presi.
Quest'oggi fu dal Card. Quaglia; lo trattò come si usa tra alme cortesi. Malgrado che D. Bosco avesse cavalli e carrozza del Barone Capelletti volle tuttavia aver esso l'onore di farlo condurre a casa co' suoi cavalli. Che bella figura facevamo in quella magnifica vettura cardinalizia! Quante scappellate si fecero in nostro onore, conoscendosi la vettura e credendovi dentro il Cardinale. E non è il solo Cardinale che abbia usate queste gentilezze con D. Bosco. Tutti le fecero. Si sa che D. Bosco parte presto e si moltiplicano tanto le udienze che sembra impossibile.
Dal Ministro delle finanze otterrà forse qualche agevolezza per le Letture Cattoliche togliendo il peso postale, come già si usava prima [679] del 1859. Diede offerta a Don Bosco per la sua Chiesa mostrandosi commosso per la sua gentilezza d'averlo visitato. Era al congresso, lo sospese, introdusse D. Bosco e lo presentò ad honorem.
Don Bosco ha vero bisogno di riposarsi; a Roma non è possibile; a Torino peggio; sospira il Paradiso. Prima di mezzanotte non è mai coricato. Lungo il giorno o parla, o predica, o benedice; la sera scrive e legge lettere. Il suo esteriore ha deteriorato, ma sarà cosa di un giorno. Si riposerà sul vapore.
Stassera fu a predicare alla Chiesa della Pace, dove si raduna a lavorare il Clero Romano. Era desideratissimo ed invitato con una bella lettera. Ha commossi tutti colla sua facile e divota maniera di predicazione. Pareva a tutti impossibile che si potesse predicar così bene e con tanta semplicità. Quei preti erano lieti ed affezionati a Don Bosco come quelli dell'Oratorio. L'attorniarono dopo il breve discorso, il trattarono come padre, l'ascoltarono come maestro. Fece molto bene.
Abbiamo raccolti moltissimi oggetti e paiono anche di valore.
Ho parlato molto dell'Oratorio e di D. Bosco ed ero sempre ascoltato con affezione da una corona di uditori che si faceva sempre più grossa. Narrava quaeque laetissimus vidi, e pareva loro di leggere o sentir leggere una bella pagina, il cui protagonista non fosse mai esistito che nella mente del narratore.
Avevo di questi giorni scritto al Marchese Fassati per comunicavagli i favori a lui concessi dal S. Padre. D. Bosco gli porterà il diploma colle dovute formalità.
Io tutto questo oggi non ho parlato a D. Bosco, eccetto un momento a pranzo, ed ora sono le 8 ½ di sera ed è assediato dalla gente. Quando andremo a cena nol so.
Ricevendo questa lettera forse saremo già sulla partenza. I Romani invitano D. Bosco e quasi lo violentano a ritornare per la Canonizzazione dei venticinque Beati Martiri giapponesi .....
Don Francesia fa cenno delle onorifiche accoglienze che il Ministro delle Finanze aveva fatto a D. Bosco, ma non ne rileva il motivo. Lo diremo noi, come consta dalle nostre carte del 1867. Il Ministro Ricasoli aveva dal Comm. Tonello fatto ufficiare Don Bosco, perchè cercasse di sapere quali potessero essere le intenzioni del Governo Pontificio, qualora il Governo Italiano proponesse alcuni accordi che riguardavano le relazioni commerciali dei due Stati. Egli [680] sperava con questo mezzo di venire a qualche conclusione anche per certi suoi progetti. D. Bosco, prevedendo che l'accondiscendenza avrebbe giovato all'elezione dei Vescovi, ne parlò al Cardinale Antonelli che non trovò contrario; per lo stesso fine si presentò a Monsignore Tesoriere Generale, Ministro delle Finanze, e potè far sapere a Ricasoli che sarebbero bene accolte le sue proposte. In conseguenza nel Giornale di Roma il 16 marzo venne pubblicata nella parte ufficiale la nota seguente: “Allo scopo di ognor più facilitare il movimento commerciale, per disposizione ordinata dalla Santità di Nostro Signore, si è abolito il dazio di transito, sulle merci e sugli articoli d'ogni specie che traversano il territorio dello Stato colle vie ferrate. Si sono modificate eziandio le discipline doganali ed esentati dall'ammagliatura e dal bollo i colli contenenti gli effetti ed i bagagli dei viaggiatori sulle vie medesime”.
Fu anche preso qualche provvedimento che agevolava ai viaggiatori italiani il transito pel Territorio Pontificio e la loro permanenza in esso.
D. Francesia scriveva nuovamente la domenica a sera, 17 febbraio.
…Si mandino al Rettore del Collegio Nazzareno 30 copie del Giovane Provveduto e 50 della Chiave del Paradiso. Si spera che anche il sig. Conte farà adottare ne' suoi istituti questi medesimi libri. È dolente di non averli conosciuti prima. Desidererei che ella procurasse di legar bene una Storia d'Italia, come dono al Sig. Conte fatto dai nostri giovani. Gli oggetti di lotteria ed assai preziosi fioccano come tra voi cade la neve.
Stamattina D. Bosco andò a celebrar messa alla Trinità dei Monti dalle religiose del Sacro Cuore. Al cappellano si erano già mandati 500 biglietti e a D. Bosco come elemosina della Messa e come dono alla chiesa di Maria Ausiliatrice le religiose offrirono un magnifico calice oro e argento. Tre angioli seduti sul piede sono di una bellezza singolare. D. Cagliero ed anche Vecchio saranno contenti. Le religiose hanno anche in pronto una pianeta che deve essere assai bella. In [681] quasi tutti i monasteri si fece un mucchietto di oggetti e di denaro, ma si pretende che D. Bosco in persona vada a ritirarli.
Si ottennero già alcune dispense con modica spesa e parte gratis.
Alcuni desiderano per mezzo di D. Bosco aver la firma del Santo Padre. Lo dovette già disturbare tante volte, che sarebbe importunarlo troppo.
Oggi il principe Ruspoli è venuto a ringraziare D. Bosco che era andato a benedire sua moglie da più mesi chiusa in casa; perchè dopo due o tre giorni dalla benedizione, con suo e altrui stupore, era uscita e andata in persona a ringraziare il Signore della guarigione ottenuta. Qui e là accaddero alcuni altri di questi fatterelli.
D. Bosco parlò a lungo col S. Padre dei nostri benefattori, specialmente del cav. Collegno Zaverio, del cav. Villanova Clemente, e del Marchese Fassati, e dietro sua formale domanda il Pontefice, accordò a costoro e ad altri tre signori che a lei saranno già noti, nientemeno che il titolo di commendatore dell'Ordine di S. Gregorio Magno. Tutti sono meravigliati della facilità con cui D. Bosco potè ottenere questo.
E la meraviglia ancor più grande si è che queste sei croci il Papa le concesse senza voler esso determinare le persone, desiderando che ne fossero insigniti coloro, cui D. Bosco avrebbe creduto bene di dare quella onorificenza. Ma dal buon Pio che cosa non ottiene D. Bosco? Presto giungeranno i diplomi autentici della grazia sovrana.
Domenica 24 andrò a vedere la festa del nuovo Servo di Dio assunto agli onori degli altari e non mi dimenticherò nè di lei, nè di tutti i miei cari amici dell'Oratorio.
Un terzo foglio diretto dal medesimo agli alunni dell'Oratorio, parlava sempre con entusiasmo dell'amatissimo Padre.
Pare che il nostro ritorno all'Oratorio sia ritardato. Se vedeste qual folla c'è sempre di gente, anche voi dividereste il mio timore! Se vedeste con quanto trasporto i giovanetti Romani corrono verso Don Bosco! L'altro giorno D. Bosco fu di nuovo al Collegio Nazzareno. Gli fu letto un bellissimo discorso in lode sua ed indirizzato a voi. Quanti elogi alla vostra fortuna, o giovani carissimi! Ve lo manderanno tra breve. Sono giovani ricchi, che si sentono poveri in paragone di voi che avete la bella fortuna di possedere D. Bosco. Con quale trasporto di figlial divozione gli baciavano la mano e con quale confidenza gli parlavano dell'anima loro. Già sono più che persuasi che D. Bosco conosce meglio di loro la coscienza di ciascuno e con giovanile franchezza [682] lo interrogavano. Voi che siete accostumati alla vita dell'Oratorio non potreste esser più confidenti. Che sonoro scoppio facevano questi fanciulli colle loro labbra baciando le mani al nostro Don Bosco: pareva che con quel bacio gli volessero dire tante cose, e gliele dicevano diffatto. E quei buoni Padri Direttori del Collegio sempre lì ad onorare, a riverire, e ad ossequiare D. Bosco. Voi lo amate Don Bosco, ma mi parve in quell'istante che quei giovanetti vi superassero. Conoscevano chi fosse D. Bosco. Forse non tutti voi lo conoscete. Don Bosco tra breve vi scriverà e paleserà a tutti voi, vita, virtù, miracoli, che in questo spazio di tempo avete fatti. Ascoltatelo come si merita.
Forse vi sarete già accorti che io vi faccio la predica e voi incominciate a sbadigliare. Voi volete sapere notizie di D. Bosco. Cambiamo dunque argomento.
Dopo il dramma, all'Oratorio suole sempre darsi la farsa. E qui a Roma, nel magnifico dramma che eseguisce D. Bosco, abbiamo avuto anche una piccola farsetta.
Pochi giorni sono due nostri concittadini mentre stavano discorrendo fra di loro intesero da due popolani questo dialoghetto:
- Neh! hai sentito a parlare di quel prete che venne da lontano e che fa tante belle cose?
- Sì, rispose l'altro, e sta a S. Pietro in Vincoli.
- Bisognerà che ci facciamo sopra le nostre cabale, i nostri calcoli. Sapresti mo' di qual giorno venne? sarebbe un numero. Il prete è un altro; molta folla è un terzo; è santo! sarebbe un quaterno infallibile. Addio, li vado subito a consultare.
E si divisero con animo giubilante per andare a casa a fare i loro conti e acchiappare la fortuna pel ciuffo. Risero i nostri due buoni amici che avevano ascoltato questo dialogo singolare e mi riferirono ciò che per passatempo vi riporto.
Voi intanto, per guadagnare un quaterno, fate che D. Bosco al suo ritorno non abbia da corrucciarsi con nessuno di voi, pulite le vostre anime, imitate i giovanetti Romani che prima di presentarsi a D. Bosco si vanno a confessare.
D. Bosco domenica a sera fu di nuovo al Vaticano per visitare il Card. Antonelli che parla sempre volentieri e sente parlare con soddisfazione del Servo di Dio e de' suoi figli. Nell'anticamera incontrò una buona Principessa che aveva sentito a parlare di D. Bosco dal nostro Cavaliere. Appena si avvicinò a lui non fu più possibile di separarla. Doveva andare dal Card. Antonelli e per D. Bosco differì ed ebbe la pazienza di aspettare due ore nell'anticamera. Prima lasciò che D. Bosco passasse: “volle aver l'onore, diceva questa pia signora, di cedere a D. Bosco la sua udienza”. E D. Bosco andò e si trattenne con Sua Eminenza tre buoni quarti d'ora e più. È superfluo il dirvi [683] che il Cardinale trattò con somma affabilità, e direi quasi riverenza, il nostro D. Bosco. Egli ha tanti affari, eppure li dimentica per quel tempo affine di stare col Padre nostro. Gli prese la mano tra le sue, gliela baciò e tiratolo in camera gli parlò della sua migliorata salute ottenuta da Maria Ausiliatrice. Mentre da qualche tempo doveva farsi portare in seggiola dal suo appartamento a quello del Papa per l'udienza, ora invece andava speditamente per gli scaloni e per le scale del Vaticano. Chiusa poi la porta, volle ricevere la benedizione e chiese una medaglia.
- Ma, Eminenza, non faccia il ragazzo! gli disse D. Bosco.
- Non c'è qui ragazzo che tenga, replicò il Cardinale, mi benedica!
D. Bosco, che non voleva, si era subito gettato in ginocchio ai suoi piedi per baciargli l'anello; ma dovette pure obbedire, perchè il Cardinale si era inginocchiato. Per tratto d'esimia bontà, che tanto onora questo porporato, offerse a D. Bosco 1000 lire per la chiesa nuova e per soccorrere la casa nostra e i figli dell'Oratorio che tanto cooperarono a farlo migliorare nell'affralita salute sua. Soggiunse che questa non sarebbe stata l'ultima oblazione.
Quando D. Bosco uscì, trovò l'anticamera piena di nobili personaggi che aspettavano udienza. Ma appena videro D. Bosco gli si serrarono tutti attorno e chi voleva baciargli la mano, chi supplicavalo per avere una medaglia, chi domandava di essere benedetto. Del Cardinale nessuno si dava pensiero. Questi aspettò alquanto e poi comparso sulla soglia della camera, disse ad alta voce:
- Ma signori! Io vi aspetto, venga qualcheduno!
Nessuno si mosse. Diceva uno all'altro: - Vada lei per il primo, vada lei. - E tutti si ritraevano. Nessuno voleva andare pel primo, perchè tutti bramavano parlare con D. Bosco. Ed egli dovette impiegare parecchio tempo per sbrigarsi di quella folla.
Quella medesima fiducia spirituale che voi mettete in D. Bosco, da quanti sommi prelati io ho veduto riporla in lui qui a Roma. Ogni parola di D. Bosco è notata, chiosata, interpretata e posta gelosamente nel cuore.
Lunedì 18 del corrente, andò a consolare un monastero che desiderava di vederlo. Quali pietosi segni di gratitudine gli diedero! Suonarono le campane, suonarono gli organi in chiesa e raccolte in chiesa le pie fanciulle con voci angeliche cantavano: Benedictus qui venit in nomine Domini! hosanna in excelsis! Era una festa, un tripudio, un trasporto. Venne alle 8 e non potè uscire che alle 11 e ½, tante erano le istanze, le premure che gli facevano, perchè si fermasse ancora; ed una piccola bambina semplice, ma graziosa: - È perchè, disse, o Padre Bosco, ci lascia orfane? Nel nome di Dio resti ancora con noi. - E questo succede dappertutto. [684] M dimenticava di raccontarvi un episodio che ci accadde domenica. Un pio Romano aveva vivo desiderio di conoscere e parlare con D. Bosco. Aveva sentito dire dove poteva trovarlo e fu là. Non lo trovò ed ebbe la pazienza di girare per varie parti di Roma; finchè vista una vettura con un prete dentro, si mise davanti al cavallo e lo fermò. Poi afferrò la mano di D. Bosco e disse con affettuoso e lieto accento: - È lei ch'io cerco! È lei D. Bosco! Prenda parte de' miei risparmi. - Erano alcuni marenghi che il buon artigiano, ora divenuto signore, dava a D. Bosco. Sapete chi era costui? Il figlio della Provvidenza, cresciuto, educato, salvato da quella, ed ora riconoscente dona il superfluo ai poverelli. Oh con quanta gioia diede quella somma a D. Bosco! Ci narrò la sua vita, e pianse e ci fece piangere di meraviglia e di gratitudine per il Signore. A tenera età fu orfano, ma benefica persona lo tolse con sè, gli insegnò a lavorare e la via della virtù. Il Signore lo benedisse, ed ora ha un fiorente negozio, ed i risparmi dona alla famiglia di un suo fratello e d'ora in avanti manderà qualche cosa anche all'Oratorio. Chi lo conosceva, chi lo inviava? La Provvidenza! Quanto egli fu contento di questo incontro! Non si poteva più distaccare da noi. Di questi episodii ne ho tanti a narrarvi: meglio a voce che in iscritto .....
Correggo le parole che ho detto sul principio e vi dico da parte di D. Bosco che lunedì prossimo venturo partiremo per alla volta di Torino. Ci fermeremo però in qualche città, andremo a Fermo a restituire la visita all'esimio Card. De Angelis, che con lettera affettuosissima, ove faceva cara memoria di tutti voi, invitava D. Bosco alla sua dimora. Lo saluteremo anche da parte vostra: ne siete contenti? Ad ogni modo del giorno ed ora precisa vi avviseremo poi ancor meglio per via. Alla nostra partenza si farà dimostrazione, me l'aspetto, dolorosa e cara. Molte persone, che prima non avevano mai veduto D. Bosco, ora piangono per doverlo abbandonare.
Un'anima buona, smaniosa veramente di conoscere e vedere Don Bosco, era venuta nella casa nostra e sapete quanto tempo stette? Dal mezzo giorno alle 6 e poi lo vide appena e se ne andò tutta giubilante, dicendo:
Spesse volte per la strada la gente fermava l'umile vettura di Don Bosco. Sono dieci, sono quindici, più o meno persone, soldati, negozianti, uomini del popolo e talora anche sacerdoti che domandano di essere benedetti. S'inginocchiano in mezzo alla via e bisogna che Don Bosco li contenti.
Qui al palazzo c'è sempre un concorso tale, che sembra impossibile che tanta gente debba muoversi per un solo. Ieri sera (lunedì) venne un principe, di nome difficilissimo, mi pose in mano una bella elemosina, e mi disse: - Giacchè non posso vederlo questo buon [685] Servo di Dio, gli offra questa piccola oblazione da parte mia, colla sola obbligazione di raccomandarmi al Signore. - Hanno tanta fiducia nelle preghiere di lui, che sono sicuri di tutto ottenere, se a lui si raccomandano.
Addio, o miei cari giovani, Verrà presto il giorno in cui ci parleremo a lungo di queste cose, ora pessimamente scritte. Il Signore vi benedica. Buona notte.
Le preghiere e le sollecitudini di D. Bosco non solo avevano ottenute da Dio grazie particolari, ma anche, e questo in quel momento più gli importava e lo riempiva di gioia, di veder esaudito uno de' più caldi suoi voti.
Pio IX aveva deciso una prima proclamazione di Vescovi, e il 22 febbraio tenne Concistoro segreto. In questo Concistoro recitò un'allocuzione, dicendo: - Come le pratiche onde provvedere alle diocesi vacanti in Italia fossero ripigliate per volere di quelli che dominano l'Italia...; che la Santa Sede aveva sempre anteposti a tutti gli altri interessi, come suo supremo diritto e dovere, il diritto e il dovere di curare la salute delle anime...; che la scelta delle persone al Vescovato non viene lasciata intieramente al giudizio del Sommo Pontefice, ma viene attraversata dalle pretenzioni di uomini juxta saeculi placita viventium; quindi, con altri Vescovi per varie diocesi d'Europa, annunziò 17 nomine per l'Italia, di cui 4 in Piemonte e Liguria, 3 in Sardegna, 2 in Sicilia, 3 in Toscana, 2 nelle Marche.
Ma che cosa erano queste poche chiese, provviste in conforto delle tante altre che restavano ancora vacanti? Eppure Bettino Ricasoli faceva dichiarare, forse per politica, che non si permetterebbe al Papa di procedere a nuove nomine di Vescovi in Italia! Tale dichiarazione leggesi nella Nazione del 25 di febbraio, num. 56; eccone le parole: “Colle nomine fatte nell'ultimo Concistoro dal Papa, per alcune Sedi Vescovili d'Italia non si provvide neppure ai due terzi delle diocesi vacanti. Sulle altre ancora non si è presa alcuna [686] determinazione. Sembra essere negli intendimenti del Governo del Re di lasciarle per la massima parte in amministrazione, all'oggetto di agevolare poi la soppressione di quelle che non si reputasse necessario conservare”.
Colla permessa nomina dei Vescovi non si voleva destar le ire dei settarii, sui quali il Governo voleva appoggiarsi per le imminenti elezioni generali dei deputati al Parlamento.
Giuseppe Garibaldi, partito da Caprera il 21 febbraio, entrava in Firenze e pubblicava un bando contro i clericali dichiarandoli nemici della patria. Aveva ordine di attizzare l'odio dei popoli contro i Sacerdoti, la Chiesa e Roma Papale. Andò quindi a Bologna, esortando i popoli a mandare al Parlamento deputati nemici dei preti, col programma: - Guerra ai Preti! - Si mettessero d'accordo, ei diceva, onde allontanare il pericolo che i clericali facciano entrare nella rappresentanza nazionale i loro difensori. - Andò poi a Ferrara e dal Ministero fu lasciato imperversare sfrenatamente per le città Venete e Lombarde e poi a Torino, e il 14 marzo ad Alessandria. Questo viaggio trionfale venne fatto a spese del Governo fra le ovazioni delle plebi e le accoglienze dei Municipii, accrescendo gli uffiziali dello Stato colla loro presenza la pompa solenne dei ricevimenti. Egli vomitava dappertutto, nelle piazze, nelle sale e dai balconi dei palazzi ove prendeva alloggio, le più atroci ingiurie contro la Chiesa e il Papato; e aggiungeva: “- Roma è roba nostra! - Il Papato è la cancrena d'Italia! - I Preti hanno venduto Nizza allo straniero! - I preti sono il primo flagello della nostra penisola! - L'Italia è una Luogotenenza Francese! Vi hanno troppo influenza Napoleone ed i preti suoi satelliti. - Andremo a Roma. -Gli assassini io li conosco: ve lì dirò: Sono i preti. - Mandate al Parlamento deputati che non siano preti, nè complici dei preti, nè sostenitori dei preti.”
Conseguenza di queste atroci invettive fu che in Udine la plebe infuriata saccheggiò il palazzo arcivescovile; a Treviso [687] e a Venezia assalì il palazzo Vescovile e patriarcale; e altrove ebbero luogo tumulti.
Venuto il 10 marzo, appena un terzo degli elettori si presentava alle urne. Di certi aspiranti alla deputazione, stampava in Firenze la Gazzetta d'Italia: “Dai bassifondi, ove il vizio connubia con l'astuzia e con l'infamia, sono schiumati a galla candidati, che non possono essere veduti in alto, senza correre involontariamente col pensiero al patibolo a cui sembrano sottratti”.
Il 29 marzo i novelli deputati e i senatori si raccolsero a Firenze nella gran sala dei Cinquecento per udire il discorso della Corona, che su Roma tenne assoluto silenzio.
Ma nella gran maggioranza la Camera era quale la desideravano i settarii. Il Comitato Nazionale Romano e il Centro d'insurrezione stampavano proclami per il sollevamento di Roma, e il 22 marzo Garibaldi scriveva a quest'ultimo: “Sono superbo di chiamarmi Generale Romano”; e nelle città dell'Emilia si facevano arruolamenti per ignote destinazioni. Tornavano a farsi vedere le camicie rosse.
Tuttavia Roma era tranquilla e le disposizioni Pontificie del 16 marzo per il transito delle merci italiane nel suo territorio dovevano imporsi, e impedire, finchè Ricasoli fosse al potere, gli attentati settarii. Così il 27 marzo il Papa teneva un altro concistoro segreto e preconizzava per l'Italia altri diciasette Vescovi, fra i quali uno nell'Umbria, due nelle Romagne, uno nel Piceno, uno in Sardegna, sei nel Piemonte, ove restavano ancora vacanti Fossano, Vigevano, e Susa che poco prima aveva perduto Mons. Odone.
I Vescovi nominati nei due Concistori, accettati dal Governo Italiano e che presero possesso delle loro diocesi, furono 34.
Mentre il Ministero erasi affrettato di effettuare la decretata spogliazione dei beni, guarentiti dallo Statuto ai Vescovi come proprietà della Chiesa, i popoli con gioia ed [688] entusiasmo si preparavano ad accogliere i nuovi loro pastori. Tuttavia rimanevano ancora vacanti quasi i due terzi delle Diocesi d'Italia; e per alcune di esse il Governo di Firenze aveva già dato il suo consenso, quando il 4 aprile Ricasoli dava le sue dimissioni con tutto il Ministero per questioni di finanza. Cessarono pertanto ulteriori trattative e il Comm. Tonello lasciò Roma.
Ma D. Bosco aveva fatto un gran bene alla Chiesa, nè solo in quest'anno; ma possiam dire che ne aveva preparato per i susseguenti, perchè di mano in mano che vi era bisogno e possibilità di preconizzare qualche nuovo Vescovo, Pio IX aveva nelle note di D. Bosco i nomi di sacerdoti proposti da lui e già dal Governo accettati. Così D. Bonetti.
Delle sue sollecitudini per la nomina dei Vescovi fecero giurata testimonianza Don Michele Rua, Don Bonetti Giovanni, Mons. Cagliero e D. Giovanni Turchi, il quale ne ebbe conferma da Prelati Romani, e nel 1895 ne faceva cenno in un libretto intitolato: Omaggio a D. Bosco: “Io so che talvolta D. Bosco era stato richiesto di consiglio in alto nella gerarchia della Chiesa e in affari generali e importantissimi e che il suo modo di vedere era preso più che in considerazione; il che si verrà forse meglio a conoscere a suo tempo”.
QUASI tutti giorni che passò a Roma, Don Bosco non mancò di rivolgere ai fedeli che accorrevano ad ascoltare la sua messa un discorsetto di quindici o venti minuti. Predicò talora in Chiese pubbliche, come in Sant'Agostino, ad un affollatissimo uditorio; e ritornando dall'altare trovava piene le sagrestie ed i corridoi di [690] gente inginocchiata che domandava la sua benedizione, perchè diceva: - È la benedizione di un santo!
Ma la maggior parte delle volte predicò in cappelle private o di Comunità religiose, però sempre presenti un 50, 100, 120 e anche più persone. Eran sermoni che accendevano in ogni cuore la fiamma dell'amor di Dio, col desiderio di migliorare la propria condotta.
Egli aveva deciso di celebrare per divozione, prima di partir da Roma, una messa nella cappella di S. Stanislao Kostka al Quirinale, nel noviziato dei PP. Gesuiti. Le signore non potevano entrarvi essendovi clausura, ma la Principessa Odescalchi andò a chiedere licenza al Cardinal Vicario che per quel giorno vi potessero entrare le donne; e il permesso fu accordato. Dopo una numerosa comunione, Don Bosco fece al solito un discorsetto. Il Padre Angelini, che lo ascoltò, esclamava:
- Quanta unzione, quante verità in poche parole. Il nostro Padre S. Ignazio non avrebbe parlato altrimenti!
Ma ciò che rendeva anche più cara ai Romani la parola di D. Bosco era quell'aurea semplicità di ragionare adattata a tutte le intelligenze. I sacri oratori non erano in gran numero popolari; ed inoltre nelle Chiese pubbliche e parrocchiali la predicazione domenicale ordinaria e catechistica prescritta dal Concilio di Trento non era in Roma tra le costumanze. Invitato a dir messa a S. Rocco D. Bosco vi andò e alla Comunione si volse per dire due parole ai fedeli. L’organo lo interruppe. Fe' cenno al sagrestano che gli serviva messa, come volesse dir due parole.
- Non si predica! - gli fu risposto. E l'organo continuava.
D. Bosco aveva creduto sulle prime che si facesse musica per isbaglio e invece facevasi apposta per impedire che predicasse. Quindi insistè; il sacrestano replicò risoluto:
- Fu invitato solo a dir la messa; e non si predica! [691] D. Bosco abbassò il capo e prese a distribuire la Comunione.
Che meraviglia se tornato a far visita al Papa, e richiesto che cosa avesse visto in Roma che gli sembrasse da correggere, rispondesse essere stupito come alla Domenica non si predicasse e non si facesse il catechismo: - In Piemonte, egli aggiunse, ogni parroco non crede di aver soddisfatto al suo dovere se non fa la spiegazione del Vangelo, l'istruzione agli adulti, il Catechismo ai fanciulli ogni Domenica.
Pio IX, che era informato diversamente, non voleva credere a questa deficienza di predicazione e disse:
- Verificate coi vostri occhi e non state solo a ciò che vi dicono gli altri. Verificate e riferitemi.
Infatti una domenica dopo pranzo egli uscì di casa con D. Francesia, e fino alle cinque passò di chiesa in chiesa, ove non solo non trovò che si facesse funzione, ma le trovò tutte chiuse. Alle 5 arrivò al Gesù, che aprivasi in quel momento, e vi fu una breve funzioncina. Ritornato dal Papa raccontò quanto aveva visto. Il Papa osservò: - Almeno il parroco di S. Rocco predica!
- Sì, predicava! replicò D. Bosco. L'anno scorso io gli scrissi incoraggiandolo, e incominciò le sue istruzioni regolari, ma dopo qualche mese gli furono tutti addosso, gridando alla novità e dovette desistere.
- Non credeva, esclamò il Papa, che fossimo a questo punto! Adesso capisco perchè il Signore ci castiga e ci castigherà anche di più, perchè siamo noi la cagione dell'indebolimento della fede dei popoli! Fides ex auditu, auditus antem per verbum Christi. - È proseguì a dolersi con frasi egualmente energiche. Mandò quindi a chiamare chi doveva mettere riparo a questo sconcio, insistette, qualche vantaggio ottenne, ma di breve durata. [692]
Altro incarico di confidenza il Venerabile ebbe da Pio IX. Questi, come nel 1858, così nel 1867 gli commise di far visita al magnifico Ospizio di S. Michele a Ripa, il quale con i molti fanciulli ricoverati albergava circa 1200 persone e in Roma godeva fama d'istituto di poveri giovani. L'Ospizio stava grandemente a cuore di Pio IX, perchè n'era stato egli medesimo per venti mesi il presidente, per volere di PP. Leone XII nel 1825. Trovatolo molto decaduto ne aveva rimossi gravi abusi, allontanato impiegati infedeli, riordinato il bilancio, saldati i debiti contratti dal suo predecessore, rialzate le scuole di arti e mestieri, sicchè rifiorì in modo meraviglioso. Conoscendo pertanto gli antichi disordini, temeva che si rinnovassero e che le persone interessate nell'amministrazione, alcune per esserne causa, altre perchè conniventi o timide, non gli facessero conoscere il vero stato delle cose. Ed è per questo che si rivolgeva a D. Bosco. Dal canto suo il Servo di Dio era già stato informato dalla Duchessa di Sora e da altre Dame della prima nobiltà. Quindi gli rincresceva adempiere a questo uffizio, tanto più che prevedeva le difficoltà di porre rimedio a certi disordini. Ma il Santo Padre glie l'aveva imposto ed egli ubbidì. Postosi ad interrogare con quella finezza, che gli era propria, or l'uno or l'altro dei ricoverati, conobbe che di giovani poveri, nello stretto senso della parola, ve n'erano pochi o nessuno. In quanto al resto, poco o nulla era stato mutato dal giorno della sua prima visita.
Ritornato dal Papa stava in dubbio se dovesse o no palesargli l'intiera verità; ma il Santo Padre accorgendosi della sua esitazione gli disse chiaramente:
- Voglio che mi diciate tutto! vi ho mandato a visitare appunto perchè mi facciate una relazione fedele.
D. Bosco allora parlò schietto, e conchiuse dicendo che, colle vistose rendite dell'Ospizio si sarebbero potuti accogliere, mantenere e istruire convenientemente un numero [693] molto maggiore di giovanetti. Il Papa fu soddisfatto nel sentire tutta intiera la verità. Il Venerabile aggiunse ancora:
- Santo Padre! purtroppo che verremo al punto che l'Ospizio cadrà... - cioè sarebbe caduto in mani laiche. Questa previsione restò impressa nella mente di Pio IX, che la ricordava a D. Bosco, come vedremo, dopo il 1870.
Ma l'esposta relazione attirò una tempesta addosso al Servo di Dio. Gli amministratori dell'Ospizio, chiamati dal Sommo Pontefice che fece loro una buona ramanzina, non tardarono a pensare che la visita di D. Bosco poteva essere la sola cagione di quei rimproveri, e decisi, con altri, di prendere una rivincita, non potendo intaccar la sua persona, stabilirono di cercar qualche appiglio nelle cento operette da lui divulgate a piene mani in mezzo al popolo cristiano.
Il rumore che il nome di D. Bosco faceva in Roma spiaceva già a più d'uno, fra cui allo stesso Canonico Audisio, piemontese, e a que' Prelati che poi si mostrarono avversi alla Pia Società di S. Francesco di Sales. Nel 1873 diceva a D. Berto Mons. G. B. Fratejacci, Uditore civile dell'Em.mo Cardinal Vicario e grande amico di D. Bosco e de' Salesiani:
Vidi D. Bosco, quando nel 1867 abitava con D. Francesia presso San Pietro in Vincoli. Qual mondo di gente correva alla sua abitazione. Ella non se lo può immaginare! Si può dire che tutta Roma era là rivolta! Uomini e donne, ricchi e poveri, secolari e sacerdoti, Monsignori e Cardinali si disputavano D. Bosco onde poterlo vedere e parlargli una volta. Ma alcuni interpretavano male e vedevano di mal occhio questo affluire di gente, in specie perchè D. Bosco, in certa occasione si era lasciato sfuggire di bocca una verità terribile, pur troppo vera, ma che offese l'orecchio di qualcuno, ed era questa: - Il motivo per cui le cose di religione camminavano così male è la mancanza di istruzione catechistica. I tre quarti della popolazione di Roma non hanno neppure il [694] catechismo. E se le cose andranno sempre peggiorando, vedremo in Roma la conseguenze imprevviste di questa ignoranza. - Difatti vediamo adesso tutto ciò che D. Bosco allora prevedeva e diceva; e lo vediamo coi nostri occhi; e non siamo più a tempo per rimediare. Ma in que' giorni per quella verità detta da D. Bosco si cominciò a parlare contro di lui, dicendo: - Dobbiamo forse imparare da Don Bosco il modo d'istruire il popolo? Forse egli ne conosce i bisogni spirituali meglio di noi? Egli solo sa fare il catechismo? E tutti noi altri siamo persone buone a niente nel promuovere la soda cultura religiosa?... Vedi che cosa si fa in San Pietro in Vincoli! Là vi sono i dottori! Uno predica di dentro, e l'altro di fuori... - Fra gli avversarii e i critici di D. Bosco vi era eziandio Monsignor Monaco La Valletta. Alcuni potei avvicinarli e loro esposi ciò che D. Bosco prevedeva; ed essi vedendo poi di giorno in giorno avverarsi a puntino ciò che D. Bosco aveva detto, incominciarono a stimarlo, e Mons. La Valletta divenne suo amico. Io però fin d'allora avvisava D. Bosco dicendogli: - Non parli più con tanta franchezza. Se fa così, si rovina”.
Il Venerabile aveva intanto decisa la sua partenza e fissato l'itinerario del ritorno; e la lieta notizia era trasmessa a Torino.
L'ottimo D. Bosco, conosciuto ed ammirato per le sue virtù, è il soggetto di ammirazione, di santa invidia, di desiderio universale. Da tutti ricercato, da tutti chiamato, come può e fin dove può si fa tutto per tutti. Il vederlo e il parlargli si rende ad onta di ciò difficile e tante volte si impiegano delle ore di inutile attendimento. Io ho mandato questa mattina un mio domestico per sapere se e quando potrò vederlo prima della sua partenza e mi auguro di baciargli domani la destra. Penso sugli effetti e sulle impressioni della lontananza di questo degno sacerdote dal suo Oratorio, ma presto sarà di ritorno fra gli amplessi dei suoi figli. Conta di partire lunedì prossimo 25 [695] febbraio, prendendo la via di Ancona, Fermo, Bologna; e sento, se gli riuscirà, che il 28 del mese vorrebbe essere a Torino. Se i Romani, e quelli che per la dimora che qui fanno e per lo spirito che hanno possono considerarsi tali, dovessero seguire i movimenti del cuore, il visto al passaporto di D. Bosco sarebbe negato. Senza far valutare quelle sue riflessioni, che mentre sono giuste in se stesse, il farle valutare sarebbe per me mancanza di rispetto, potendo supporsi eccitamento a partire, dirò in genere che ho ricevuto la sua lettera, in cui vi erano espressi dei desiderii sul ritorno di D. Bosco. Se lo vedrò, se gli potrò baciare la mano, la commissione sarà compiuta, caso diverso mi avrà per iscusato. Io non saprei come rispondere all'ufficio caritatevole a cui mi chiama, trovandomi incerto se devesi considerare carità lo accelerare la partenza o il prolungare il soggiorno, che anche fosse protratto di altri due mesi, non sarebbe bastevole a dare sfogo a tutti i religiosi desiderii di vederlo e ricevere i suoi consigli. La vita tenuta da D. Bosco è stata di affaticamento e la mano visibile della Provvidenza lo assiste, lo incoraggisce e confidiamo pur noi in questo possente e benefico aiuto.
Roma è tranquilla e lo sarà sempre, perchè ubi Petrus, ibi Ecclesia e portae inferi non praevalebunt. Cogli avvertimenti di Don Bosco la mia permanenza qua si rende più ferma e lo credo necessario pel mio bene e della mia famiglia...
SCIPIONE CONESTABILE DELLA STAFFA.
Mons. Rota, avvisato da D. Cagliero del prossimo ritorno del Venerabile, gli rispondeva il 25 febbraio: “Ho subito scritto a Sua Eminenza il Cardinale Arcivescovo di Fermo, pregandolo che comandi a Don Bosco di venire a Guastalla”.
Erano adunque gli ultimi giorni della permanenza in Roma ed anche Don Francesia ne scriveva a Torino.
Abbiamo spedito stamattina pel vapore il giovane tipografo con un compagno. Quest'ultimo, raccomandato da Mons. Pacifici, entra come figlio della Casa. Non so a quali condizioni: dirà poi D. Bosco. Sarà forse per rimunerare i grandi e segnalati favori a noi concessi da questo buon Monsignore. I giovanetti in discorso quando arriveranno a Torino, noi partiremo da Roma. Si minacciano congiure per impedire la nostra partenza. Fu chi faceva la proposta di 20 scudi al [696] giorno, da lunedì in là, tutti i giorni che D. Bosco sta a Roma. Accetterà sì o no? Eppure bisogna che parta. È impossibile reggere a cotesta vita. Non mangia, non dorme, e patisce dolori. Non sono cose nuove, ma ora D. Bosco mi fa pena.
Non è necessario di dirle che la sua fama va sempre dilatandosi e che è sempre desiderato da ogni infelice e da ogni fortunato. Potesse, partendo, lasciare qualche bella ricordanza, per es. se stesso, farebbe graditissima cosa. È affare molto delicato parlar di partire. Non si vuole sentire questa parola. Ciò deve tornare a noi suoi figli di bel conforto, vedendo come la lunga sua dimora non abbia ancor potuto soddisfare a tutte le brame. Che dico a tutte? Neppure alla metà, neppure ad un decimo. Ci piovono ora da tutte le parti lettere d'invito. Aderirà D. Bosco? Non so, nè posso saperlo, non sapendolo, io credo, neppur D. Bosco stesso.
L'altro dì fu alla casa un buon signore che veniva da un paese lontano 50 e più miglia, solamente per vedere D. Bosco, sentirne una sola parola. Finito il suo còmpito, lieto oltre modo partì per il suo paese, senza volersi per nulla fermare a Roma.
- Ho veduto D. Bosco, mi diceva; e mi basta! - Sia benedetto e sia felice!
I famigliari del Conte ci fecero una seconda burla; prepararono otto paia di calzette per D. Bosco, e tre per me. E di qual roba! Ciò in memoria e pegno dei servizii che ci resero in tutto il tempo della nostra dimora. Finezze tali non si potrebbero neppure immaginare. Sono tutti addolorati per la nostra dipartita. Oh se potessero accompagnarci! M’invidiano, e invidiano tutti voi cordialmente per la ventura felice di posseder Don Bosco. Oh se davvero ascoltando la sua parola ci approfittassimo tutti della sua presenza!
Ieri sera verso le 6 D. Bosco pranzava in casa della contessa Calderari. Assistevano al pranzo molti nobili signori; quando giunse un servitore che portava una lettera della Marchesa Villarios indirizzata a D. Bosco. Esso prese quel biglietto e lesse:
Rev. sig. D. Bosco. - Un giovane di 17 anni, appartenente alla cospicua famiglia dei... si trova gravemente malato di etisia e secondo il parere dei medici gli restano più poche ore di vita. Finora non volle saperne di confessione, ma dice che da un solo prete sarebbe disposto di confessarsi, da D. Bosco. Protesta che in caso diverso vuol morire senza Sacramenti. La madre piange sconsolata sulla ostinazione del figlio. Tutta Roma conosce le disposizioni affliggenti di questo giovane ed è ansiosa sulle sue sorti. D. Bosco tiene troppo care le anime per lasciarne perire anche una sola. Vada subito e lasci qualunque affare”.
D. Bosco lesse, ripiegò la lettera con tutta tranquillità e continuò il suo pranzo. Dopo diede udienza a diverse persone. D. Francesia [697] impaziente lo tirava per l'abito dicendogli: - Ma venga, D. Bosco; si tratta di un'anima! Si sbrighi!
D. Bosco gli rispose: - Non dubitare, lo vedrò!
Alle 7 di sua si incamminò verso quella casa e fu al letto dell'ammalato. Che scena commovente, caro sig. Cavaliere! Quel povero giovane aveva tale pallidezza di morte sul volto che questo non distinguevasi dai capezzali che gli sorreggevano il capo. I suoi occhi brillavano pel fuoco della febbre. Metteva pietà e direi quasi ribrezzo. Un solo piccolo lumicino rischiarava la stanza. Il giovane vedendo entrare un prete indovinò chi fosse e si alzò sul gomito - Ah! D. Bosco! - esclamò - e colla mano chè gli restava libera cercò la mano di D. Bosco, gliela strinse, gliela baciò e pianse. Fatto quindi uno sforzo, gettò le braccia al collo di lui che si era curvato per dirgli una parola, ripetendo: - Mi confessi, D. Bosco, mi confessi!
La madre sua non trovava parole per esprimere la sua contentezza per la venuta di D. Bosco ed il figlio gliela dimostrava tenendosi sempre attaccato alla mano salvatrice del buon Servo di Dio.
Tutti si ritirarono e dopo mezz'ora D. Bosco uscì dalla stanza. La madre lo aspettava in sala piangendo e gli disse: - Grazie, Don Bosco, grazie! È il Signore che l'ha mandato!
Tutta la famiglia avealo circondato e volle essere da lui benedetta, dopo aver ricevuto una medaglia di Maria Ausiliatrice.
Alle dieci e tre quarti partiva benedetto da quella casa. Oh l'angelo di Dio si poserà vicino a quell'infelice, nè si muoverà più che per condurlo al Cielo. (Infatti poco dopo moriva).
- Si muore così bene dopo una visita di D. Bosco! - dicono gli ammalati Romani.
Ma qui io vorrei dire ai nostri figli dell'Oratorio: - Giovani cari! Sapete voi perchè questo giovane in punto di morte non voleva confessarsi? Perchè in vita non aveva frequentato, anzi disprezzava questo gran Sacramento. Ma il Signore nella sua infinita misericordia, mosso dalle preghiere della sua povera madre, gli fece una grazia che non concede a tutti coloro che hanno la sventura di ostinarsi nel male… Una piccola medaglietta dalla mano di D. Bosco è reputata un tesoro. Per avere una medaglia da lui, si fanno anche parecchie gite fino alla nostra casa. Se ne ebbero in molti siti felici risultati di guarigione. Una, inferma in una spalla da tempo lunghissimo, applicò questo rimedio ed in breve ne fu pienamente risanata. Ma noti però che quasi in tutti quei luoghi ove D. Bosco non andò, ma di lontano pregò, si ottennero i favori; altrove raramente. Ella mi dirà che è un mistero ed io sono del medesimo sentimento.
A quest'ora saprà chi è L'Arcivescovo di Torino: lo si fece per telegrafo. Non voleva accettare: alfine aderì alla Voce che partiva da S. Pietro. [698] Anche noi la sentimmo questa voce, forse per l'ultima volta, la sera di giovedì. Benedisse D. Bosco, il suo Clero, l'archidiocesi di Torino, tutti gli stabilimenti di beneficenza, gli Oratorii, colla più tenera effusione di cuore.
E i sente di dover essere per l'Oratorio un grande strumento della Provvidenza e la ringrazia. Ringraziò pure tutti quelli che da Torino lo avevano soccorso nella sua povertà. Disse che pensava a costoro, parlò pure dell'obolo nostro. Non gliene sfugge una. Parlando della Pia Società di S. Francesco di Sales, tra i consigli che diede a Don Bosco sulla fondazione di nuove case, espresse questi due:
1° Non mettere mai le case, specialmente gli ospizii per artigiani nel centri piccoli, perchè le invidie, i pettegolezzi, le curiosità portano gravissimo danno.
2° Non mettere più case in una stessa città o anche in due città vicine. L'autorità ecclesiastica, l'autorità civile, le altre corporazioni potrebbero adombrarsi dell'influenza che si verrebbe ad esercitare su molti della cittadinanza.
Noi a questo punto noteremo come il Sommo Pontefice sottoscrivesse altresì, di proprio pugno, la seguente supplica che D. Bosco gli presentava.
Il Sac. Giovanni Bosco, nel desiderio di dare un segno di gratitudine verso il Sac. Pietro Vallauri della diocesi di Torino, si prostra ai piedi di V. B. e dimanda come speciale favore la facoltà che il medesimo possa celebrare la S. Messa nel Giovedì Santo per servirsene dove ne scorgesse la maggior gloria di Dio; sopratutto negli Ospedali e nelle case di educazione, dove egli esercita il Sacro Ministero.
La lettera di D. Francesia prosegue:
Baciammo infine il sacro piede e partimmo consolati e commossi per le parole del Santo Pontefice. Egli raccomandò in particolare qualche cosa a tutti noi e ve la comunicherà D. Bosco o in lettera o a voce. A lettera non oso più promettere; fui troppo vergognosamente smentito dal fatto. Bisogna però compatirlo! Povero uomo! È il bersaglio dei buoni e dei tristi. I buoni per farsi santi, i tristi per farsi [699] buoni; ma intanto lo martoriano. Mi creda sulla parola: c'è un entusiasmo indescrivibile per lui ed un dispiacere sensibilissimo perchè debba partire. Egli intanto fece intendere ad alcuni principi Romani il grave obbligo che avevano di fare elemosina, se volevano avere nella loro famiglia la benedizione del Signore; e le sue parole furono prese in buona parte.
Oggi (24) incominciò il carnevale e D. Bosco ed io l'abbiamo fatto in casa del Canonico Bertinelli, carissima persona. Abbiamo pranzato in sua casa, in compagnia di un Vescovo Slavo. Parlavamo latino. Quel Vescovo non cessava di dire:
- Gratissimum mihi est, o venerande vir, te nunc primum visere, quem tot tantisque rebus celebrem toties audivi. Te Deus omnesque filios tuos salvos faciat! - Si divisero colle più care espressioni. Oh la carità cristiana lega in un sol vincolo le anime di tutto il mondo!
Ma il carnevale più bello fu che D. Bosco era aspettato a casa da un mondo di persone, fra cui il Principe d'Arsoli, il Duca Salviati, di Sora, De Maistre, ecc. Sanno che parte e lo vogliono vedere ancora. Che fede e che amore hanno per lui! Io credo che a Roma ci siano in questo momento più medaglie di D. Bosco che napoleoni d'oro. Quante migliaia ne diede, e non ne sono ancora sazii. E D. Bosco distribuisce sempre: è come una fontana sempre ricca di acqua. Il Signore premierà la loro fede.
Abbiamo in faccia a noi un Collegio dei Maroniti, ove questi orientali si preparano per andare a spargere il buon seme fra i loro fratelli. Giovedì (21) fummo a trovarli nell'ora del pranzo. Quel Padre Abate è affascinato dalle benevoli maniere di D. Bosco e se ne fece un zelante promotore. Diede e dà e fa dare a lui elemosine ed in cambio di tanta carità non vuol altro che ricevere la benedizione di D. Bosco: e la riceve inginocchiato per terra con religioso trasporto. Fece cantare dai suoi allievi un canto alla Madonna in lingua araba, che non era cosa tanto gradevole, ma cara per la novità. Aveva ai fianchi il cav. Marietti. Questo buon signore fece molto e fa per la nostra casa. È un vero uomo di Dio e perciò è perseguitato. Sed fiet lux. Perchè la sua famiglia ricevesse la benedizione da D. Bosco prima che egli partisse, la condusse nel giardino di quella pia casa ove noi pranzavamo, ma in breve ora il cortile tutto si era ingombro.
Questa mia lettera le doveva arrivare lunedì mattina, perchè incominciata sabato di buon tempo e ieri alle 11 e ½ era ancora attorno senza poterla finire, dopo aver lungo la giornata più volte presa la penna in mano senza alcun risultato .....
Malgrado ogni invito, ogni cortesia, D. Bosco partirà senz'altro lunedì (25) da Roma facendo quel giro che le notai altra volta. Da Bologna telegraferà per dire l'ora che arriveremo a Torino. L'ansietà dei nostri giovani per D. Bosco è sentita, lodata dai Romani, molti [700] dei quali, direi quasi, fanno fretta a D. Bosco perchè li venga a consolare.
A casa Vitelleschi fui commosso nel partire che fece D. Bosco sabato a sera. La signora Maria non se ne poteva distaccare e dopo varie prove della sua religione, piangeva nel pensare che la sua casa non sarebbe forse più rallegrata da un Santo. Così essa diceva. Gli faceva toccare parecchi oggetti e poi tutti in ginocchio con Mons. Arcivescovo, suo cognato, si misero in terra per ricevere la sua santa benedizione. Dopo la volle D. Bosco da Monsignore e partì portandosi seco il loro cuore e la loro letizia.
La sera del 24, vigilia del giorno fissato per la partenza, l'amicissimo Mons. Fratejacci presentava a D. Bosco varii doni per la lotteria, inviati dal nuovo Istituto degli Ospedalieri dell'Immacolata Concezione, dal rev. Sig. D. Pietro Ceccarelli di Modena, dalla Sig. Contessa Caterina Boschetti Grossi di Modena, dalla Sig. Teresa De Dominici nata Rondanini, il cui marito curvo della persona per male alla spina dorsale sperava di ottenere la grazia di esser liberato da quell'incomodo e prometteva un'offerta generosa per la Chiesa di Torino.
D. Bosco lo ringraziò di gran cuore, gli raccomandò le pratiche che lasciava incompiute presso la Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, ed entrava negli appartamenti del suo benefattore.
Tutta la famiglia del Conte Vimercati era radunata in sala insieme colla servitù. Tutti erano inginocchiati, tutti piangevano. D. Bosco volle dire qualche parola, ma i singhiozzi lo soffocarono e finì con piangere dirottamente. Non potendo reggere, strappossi da loro ed entrò nelle camere del Conte. Il Conte era in piedi singhiozzando e tendendo risolutamente la destra verso di lui:
- D. Bosco, gli disse: lei non partirà; ha da fermarsi con me ancora domani.
Troppi benefizii aveva fatti quel signore a D. Bosco, il [701] quale non potè resistere a quella preghiera e cedette. Don Francesia si avvicinò al Conte e: - Signor Conte, gli disse, ha fatto bene a ritener D. Bosco: mi rincresceva troppo partire domani... e poi è così stanco D. Bosco! - D. Bosco disse allora al Conte:
- Mi fa pena darle nuovi disturbi per un giorno, ma son contento di potermi trattenere ancora qualche poco con lei.
Il Venerabile rientrò nella sala, e appena si seppe che non sarebbe partito al domani, tutti erano in frenesia per la gioia. Saltavano, ridevano, gridavano Viva D. Bosco, l'attorniavano e sembravano figli che da lungo tempo non avessero più visto il padre.
L'indomani il Venerabile andava a pranzo dalla famiglia Vitelleschi, volendo darle ancora un segno della sua riconoscenza. Mentre alla sera s'intratteneva co' suoi ospiti, viene annunziato l'arrivo del Cardinale Principe Altieri. Secondo l'uso principesco il servo pronunciò per tre volte questo nome ed alla terza volta ecco Sua Eminenza entrare nella sala. Don Bosco che pei tanti suoi affari non aveva trovato tempo di fare una visita all'illustre Porporato, il quale desideravalo vivamente, un po' confuso gli si avvicina ossequiandolo. L'Eminentissimo gli disse un sostenuto e freddo buon giorno e nulla più.
Breve fu la conversazione; a D. Bosco non uno sguardo, un complimento, una parola. Quando il Cardinale fu partito, la famiglia Vitelleschi, e principalmente l'Arcivescovo, non sapeva darsi ragione dei modi del Cardinale:
- Che cosa sarà? Povero D. Bosco! E adesso come fare per conoscere in quale circostanza sia rimasto offeso il Principe? A qual mezzo ricorrere per placarlo e di nuovo farselo amico?
Parlavano cosi, perchè il Cardinale non era uomo che facilmente si piegasse. [702] E D. Bosco, calmo e tranquillo, rispondeva:
- A cosa da nulla: lascino fare a me: domani andrò a visitarlo, ed ogni cosa sarà aggiustata.
E all'indomani mattina, giorno 26, D. Bosco colla solita sua franchezza andò a trovare il Cardinale Altieri come se nulla fosse stato, e, per prima cosa, gli presentò 500 biglietti della lotteria. Il Principe sorrise, pagò i biglietti e gli regalò per soprappiù 500 lire a benefizio de' suoi giovani. Frattanto la Principessa, sua cognata, non appena ebbe l'annunzio che D. Bosco era in casa, corse subito esclamando: - D. Bosco! D. Bosco! - e andò a buttarsi ai suoi piedi! - Erano quattro mesi, aggiunse, che desiderava conferire con lei!
Le cortesie furono delle più cordiali e il Venerabile, partito di là, si presentò in casa Vitelleschi, ove si stava in molta pena per lui.
- Come è andata? esclamarono tutti appena lo videro. Il Cardinale lo ha ricevuto? come lo ha trattato? che cosa le ha detto?
E il Servo di Dio, sorridendo presentava loro l'offerta ricevuta, e narrava le particolarità di quella visita. Lo ascoltarono a bocca aperta e poi meravigliati esclamavano:
- È un portento! Solo D. Bosco poteva riuscire bene in questa visita dopo lo sdegno dimostrato da quel signore!
Nella famiglia Vitelleschi si ricordava una profezia di D. Bosco e se ne aspettava con sicurezza l'avveramento. La Marchesa era affetta da lenta tisi, e sul principiare del 1866 chiedendo a D. Bosco biglietti di lotteria, gli aveva scritto mandandogli anche un'offerta per la Chiesa.
“Favorita dal Signore dei beni di fortuna quanto uno può essere su questa terra, io ho una sola pena, ma terribile: ed è il pensiero di dover morire; questo pensiero mi causa dolori indicibili, contro i quali la mia fede non mi dà forza sufficiente. Sono pronta a tutto, purchè riesca a vedere [703] cessato questo continuo e spaventoso tormento. Questa e nessun'altra è la cagione della presente. Il tempo vola, e la malattia, che ho, può apportare, forse presto, la sua spaventosa conseguenza. Ella, deh! m'assicuri che la sua buona Maria SS. Ausiliatrice mi otterrà la grazia di non temere la morte, ma di veder giungere senza orrore il momento del gran passaggio; ed io dal canto mio le faccio una promessa. Già sua cooperatrice, diventerò la sua serva e cosa tutta sua e dei suoi poveretti; ogni mio avere, tutta la mia buona volontà, quanto mi resta di vita, tutto io spenderò per lei: non risparmierò nulla di quanto è in mio potere e di quanto ho, per essere uno strumento della Divina Provvidenza verso di lei; ma per amor di Dio Maria SS. mi liberi dall'orribile spavento che mi dà la morte”.
Non è già che la buona Marchesa avesse cagione di temere i giudizii di Dio, ma provava un vero ribrezzo pensando all'agonia e all'atto stesso del morire.
Don Bosco, letta la lettera, le aveva risposto a volta di corriere: “Io l'assicuro, riverita signora, che Maria Ausiliatrice le ha già accordata la grazia chiesta. Ella morrà senza apprensione di sorta, anzi senza neanche avvedersene. Mantenga la sua promessa, chè la Santa Vergine certo mantiene la sua”.
La Marchesa sì tranquillò, incominciò a godere una pace profonda ed inalterabile, e tenne sempre uno dei primi posti fra coloro che aiutavano l'Oratorio. Or nel partire da Roma D. Bosco le rinnovava l'assicurazione che sarebbe morta senza accorgersene.
E infatti verso la fine del 1871, un giorno la Marchesa dice a suo marito:
- Mio caro, essendo un bel pezzo che non ho fatto la confessione generale, darei a ciò gli ultimi giorni di quest'anno. Che te ne pare? me ne dai licenza?
- Contentissimo! le risponde il Marchese; fa' come meglio [704] ti aggrada. - La signora impiegò più giorni nell'esame e nell'accusa, tanto volle essere precisa, e, ricevuta l'assoluzione, ritornò a casa così contenta da non poter contenere in sè la gioia.
- Mi trovo in istato, ripeteva, come se avessi oggi ricevuto il Santo Battesimo! Domani farò la Comunione.
Era il 31 dicembre; e il giorno seguente, capo d'anno, ricevuta l'Ostia Santa rientrava nel suo palazzo esclamando: - Che Comunione! Una Comunione simile non l'ho mai fatta! Vale più questa che tutte insieme le altre di mia vita. -E andò a sedersi sopra un divano posto in mezzo alla sala, che circondava un gran vaso di fiori. Quivi stesso i servi preparavano l'occorrente per la colazione. Erano stati invitati alcuni parenti e i loro ragazzetti si trastullavano poco lontani. A un tratto la Marchesa dice ai domestici: - Aprite le persiane, chè qui c'è oscuro.
- Sono tutte spalancate, signora Marchesa!
- Ma aprite, vi dico, che non ci si vede.
Ed i servi da capo a farle osservare che erano aperte.
- Eppure! eppure! - e volta al marito, quasi illuminata da un'idea improvvisa, dice sorridendo: - Angelo (era il nome del marito), Angelo! forse io muoio! sai; forse io muoio!
Furon queste le sue ultime parole! ed era morta, senza dolori, e senza alterazione di fisionomia. Maria SS. Ausiliatrice aveva mantenuta la sua promessa. Nella lettera che il Marchese scrisse a D. Bosco per dargli questa notizia si legge il seguente periodo: “Io non piango questa morte come una sventura; ma ne benedico Maria SS. Ausiliatrice, come di una grazia
D. Rua e D. Francesia hanno resa testimonianza del fatto. Ed è da notarsi come altre profezie fatte da Don Bosco in Roma siansi avverate ammirabilmente.
DELLA permanenza di D. Bosco a Roma Don Francesia pubblicò un volumetto nel 1905, scrivendo quanto ancor gli ricordava la sua felice memoria. Quanto scrisse allora concorda mirabilmente colle sue lettere del 1867 in questo: nel ritrarre la fama di santità che circondava già in quel tempo D. Bosco. Anche la Civiltà Cattolica del 2 settembre 1905, annunziando l'operetta di Don Francesia, rende eguale testimonianza:
“Due mesi con Don Bosco a Roma. - È un libro piccolo, ma che si legge volentieri, massime da chi come noi conosce [706] la Roma di trent'anni fa. È una delizia il trovarsi in presenza di tutto quel mondo, scomparso ora in gran parte, tutto vivo nell'ammirazione di D. Bosco. Per noi, che conoscemmo di persona quel gran Servo di Dio, era una specie di dolce incantesimo, riconfermarci nell'alta venerazione che D. Bosco c'ispirò nelle relazioni assai intime che avemmo con lui, e specialmente della sua vita mistica e (per quanto lice a persona particolare il dirlo) mistica e prodigiosa”.
Continuiamo il racconto. Il 26 febbraio, dopo la visita alle famiglie Altieri e Vitelleschi, D. Bosco ritornava alla casa ospitale del Conte Vimercati per intrattenersi con lui nelle ultime ore della sua dimora in Roma. Accondiscendendo alle sue preghiere, permise che lo fotografassero in atto di benedire D. Francesia, il signor Pardini, maestro di casa, e il figlio di questi, inginocchiati innanzi a lui. Pare che qualcuno desiderasse che questo ritratto fosse posto in vendita e ne corse la notizia; ma non se ne fece che una limitata distribuzione di copie ad amici intimi e benefattori. Infatti nel mese di luglio giunsero lettere all'Oratorio, le quali domandavano questo ritratto, ed ebbero per risposta che non se ne aveva.
Cordialissimi e commoventi furono nel pomeriggio i colloquii del Conte con D. Bosco, che anche in quelle ultime ore diede udienza a persone che insistevano per parlargli. Un sacerdote, da lui ricevuto la sera, prima che partisse, gli scriveva a Torino dopo alcuni giorni:
Nella dimora che Ella ha fatto qui in Roma, un bel giorno ebbi l'onore di essere ammesso alla sua udienza, nella quale esposi il motivo perchè era venuto da Lei, cioè che stando in Roma a causa di studi, pregava Vostra Signoria, che avesse fatto una preghiera al Signore affinchè ottenessi la grazia di avere lumi tali, onde io possa col divino aiuto apprendere bene le scienze tanto necessarie per un Sacerdote e Ministro di Dio. Ella mi rispose che mi raccomandassi alla Madonna, [707] ripetendo spesso quel titolo Sedes Sapientiae, ora pro me, come pure dire ogni giorno un Pater al Patriarca S. Giuseppe. Le stesse cose Ella mi ripetè nella seconda volta che fui a trovarla, precisamente nella sua, prima che Ella partisse da Roma. Io, indegnamente, pratico le divozioni suddette, tanto che ho incominciato il mese dedicato a San Giuseppe; e spero che la grazia sarà da me ottenuta con l'aiuto divino. Intanto ho scritto la presente a Lei, e mi perdoni se ardisco pregarla per ottenere la grazia suddetta, vale a dire di ottenere dal Signore tali lumi di apprendere le scienze che qui mi verranno insegnate. Sì, o amabilissimo Confratello, mi faccia questa carità, preghi, preghi assai, e mi ottenga la grazia che bramo; pongo ogni fiducia in Lei, essendo certo che le sue preghiere sono più accette e care a Dio. La prevengo che io ripeterò a scriverle assai più volte, fino a che io non vegga ciò che io bramo. Io poi, le prometto, che nel S. Sacrificio, che ogni mattino vado a celebrare, la terrò presente. Le bacio umilmente le mani e con segni di stima mi professo
P. S. - Si degni Sua Signoria riscontrarmi alla presente. La mia abitazione è: Via S. Ignazio, N. 23, Piano 4°.
Il Venerabile s'incamminò alla ferrovia accompagnato da Mons. Emiliano Manacorda, al quale consegnava una circolare ai suoi benefattori, già stampata in Roma, perchè la spedisse a Torino. Mons. Manacorda., eseguendo la commissione, non si sentì di descrivere la partenza del Venerabile.
Le scrivo poche righe per incarico avuto dal nostro amatissimo D. Bosco. Tengo ancora gli occhi gonfi dalle lagrime che mi procurò la sua partenza.
Ieri sera alle 8 ci lasciava qui in Roma quali orfani desolati e commossi nel vederlo partire. La S. V. saprà cosa fu la dimora di questo nostro buon padre in Roma. Il vincitore di Magenta con tutte le sue batterie, porti con se stesso l'impero stesso, diventerà un pigmeo di fronte a D. Bosco. La nobiltà Romana che si confondeva colla plebe, e dimenticava l'etichetta di corte per piegare il ginocchio a D. Bosco e riceverne la benedizione, non lascierà l'anticamera del Padre dei monelli, per sedere al fianco del gran Sire. Oh quanto è potente la virtù di D. Bosco.
Vorrei descriverle la scena della sua partenza, ma non posso, non mi regge il cuore. D. Francesia le dirà tutto. [708] Le mando la lettera di D. Bosco stampata per ristamparla subito .....
Sento che si vorrebbe vendere la fotografia di D. Bosco. Io non intendo avere influenza su chicchesia, solo per l'affetto e la venerazione che sento in me per questo nostro Padre, mi faccio lecito di dire non essere tal cosa conveniente, anzi indecorosa per ora, e pregherei la S. V. ad assecondare questo mio parere. Qui in Roma farebbe cattiva impressione .....
Purtroppo i malevoli, come vedremo, stavano ancora sull'attenti. Nello stesso giorno scriveva D. Francesia.
Ieri sera soltanto abbiamo lasciato Roma e dopo felice, se non lieto, viaggio siamo arrivati a Fermo. Abbiamo visto Sua Eminenza; sta bene, il suo segretario e gli altri di sua famiglia, tutti bene, e ci accolsero colle feste più belle e care. Ma il nostro cuore è ancora a Roma.
Prima di tutto deve sapere che invece di lunedì sera, come era stato stabilito, solo il giorno dopo ci fu permesso di partire. Una folla di gente era alla stazione! Molti non avevano potuto reggere a quella separazione dolorosa e se ne erano allontanati, paghi di salutare coi cenni, cogli sguardi, Lui che li aveva per poco resi così felici. Non si potè frenare le lagrime quando ci separammo dal Sig. Conte. Povero vecchio! Si inginocchiò per terra e piangendo come un fanciullo domandò la benedizione a D. Bosco. Esso pure era commosso in modo straordinario. Superiore il più delle volte a queste impressioni, non potè resistere in questo caso. Piangeva e volendo non poteva più parlare. Ad ambedue pareva tanto poco il tempo che si erano potuti vedere!
Al vapore la commozione non fu minore. La famiglia Vitelleschi, la Villarios, ecc., ecc. mesti aspettavano D. Bosco. Entrammo in stazione e fummo da loro accompagnati. Non bastava loro il cuore nè di parlare, nè di allontanarsi. Dopo qualche parola è tempo di salire in vagone. D. Bosco entrò sotto la tettoia, montò, ma commosso assai. I più piangevano e si raccomandavano affollati intorno a lui chè li tenesse in memoria. Al vedere un interesse così speciale per un viaggiatore, molti mettevano la testa fuori degli sportelli dei vagoni e domandavano con curiosità chi fosse quel prete oggetto di tante dimostrazioni.
Un po' prima del fischio gli amici vollero ancora ricevere la benedizione di D. Bosco e là in pubblico, in pericolo di scherni, si [709] inginocchiarono a riceverla. Oh che rimanga con loro copiosa e perenne la benedizione di Dio.
Il convoglio partì. Era notte, e nel silenzio non sentivamo che il rapido correre e sbuffare della macchina che ci dilungava sempre più da oggetti così benevoli e cari. Io chinai la fronte, la nascosi fra le mani, finsi di dormire e piansi. D. Bosco era abbattuto, ma molto meno.
Ad ogni modo ora ci avviciniamo a casa e sabato mattina arriveremo a Torino col convoglio diretto delle 11 ½.
Con qual tripudio allora l'abbraccerò e con lei abbraccerò tutti quelli che potranno venire incontro a D. Bosco. Sebbene i nostri fagotti sieno piene di indulgenze, dispense, ecc., tuttavia non sono per nulla indulgenti con noi e pesano orribilmente. Mandi perciò qualcheduno alla stazione che ci usi un po' di carità cristiana con aiutarci a portarli.
E a Roma? Quale eredità di affetti ha lasciati D. Bosco! Uomini d'ogni specie, anche l'ambasciatore di Spagna con tutte le persone addette all'ambasciata, vennero a fargli riverenza. Il Console di Francia desiderò pure un'udienza con la sola famiglia. L'Ambasciatore la domandò, ma non la potè avere.
Altre più cose e notizie a nostro comune contento le esporrò a voce. Le parlerò di varii progetti delle Matrone romane in riguardo a Don Bosco ed alla sua Chiesa. L'altare del Conte Bentivoglio va bene; riuscirà magnifico. Le Signore romane ne propongono uno ed anche i signori ne vogliono fare uno.
D. Bosco alle 10 e ½ ant. era giunto a Fermo ove trattenevasi tutto il giorno e fino al dopopranzo del di seguente. Sua Em. il Cardinale De Angelis era fuori di sè dalla gioia procuratagli da quella visita e diceva a Don Bosco: - Ho sentito che a Roma ha fatto furori! Me ne rallegro! - Don Bosco rispose con una facezia, perchè in tutte le circostanze egli era sempre D. Bosco, cioè umile.
La mattina del 28 egli celebrò in Seminario la messa della comunità, predicando e distribuendo la S. Comunione ai chierici, che poi nelle varie camerate gli davano una cordiale dimostrazione di rispetto. Un alunno della camerata San Luigi leggevagli e consegnavagli una poesia colla propria firma. [710]
Salve, Giovanni. Oh! il giubilo |
Siccome in notte placida |
Figlio di caldo affetto, |
Bella è a mirar la luna |
Oh! il gaudio e la letizia |
In cui candore argenteo, |
Di cui ci esulta il petto |
Almo splendor s'aduna, |
|
|
Ora che il dolce e amabile |
Come di varii e fulgidi |
Sembiante tuo miriamo, |
Color l'iri s'abbella, |
Ora che un bacio imprimere |
Qual sorge dall'oceano |
Sulla tua man possiamo. |
Ridente amica stella, |
|
|
Più volte del tuo giungere |
Così soave e amabile |
Volò tra noi la fama, |
Ne appare il tuo sorriso, |
Di te più volte vivida |
In cui la luce splendere |
Si accese in cuor la brama, |
Veggiam del Paradiso. |
|
|
Ed ecco alfin s'appagano |
Dunque gradisci il giubilo, |
I desideri ardenti: |
Figlio di caldo affetto, |
Alfin ci è dato scorgerti, |
Gradisci la letizia |
Ci è dato udir tuoi accenti. |
Di cui ci esulta il petto; |
E in sul partir, deh! a' pargoli
Non chieggon più, chè renderli
Camerata S. Luigi, 28 febbraio 1867] Il Venerabile disse una parolina all'orecchio e diede uno sguardo affettuoso ed una piccola medaglia al caro poeta. E questi, poi Vescovo di Forlì, quindi Arcivescovo di Bologna e Cardinale, che promosse a Bologna il Primo Congresso Salesiano e prese parte al Terzo, tenutosi in Torino prima dell'Incoronazione della Sacra Effigie di Maria SS. Ausiliatrice, conservò sempre quella medaglia con immenso amore.
Nell'aprile del 1895 l'Em.mo Card. Domenico Svampa, inaugurando il 1° Congresso Salesiano a Bologna, diceva in adunanza plenaria: [711]
“Per me, mi sia consentito il dirlo, la memoria e la venerazione profonda che sento per Don Bosco e per l'opera sua è antica, perchè si riannoda ai miei primi anni. Incominciò da quando, appena trilustre, ebbi la fortuna di incontrarmi con quell'uomo straordinario, ne intesi la calda parola, ricevetti dalle sue mani la S. Eucaristia, la S. Benedizione, e fui regalato di una piccola medaglia che tuttavia porto al petto[24]”.
E dieci anni dopo, nell'aprile del 1905, pregato a dettare una pagina pel Bollettino Salesiano in occasione del mese di Maria Ausiliatrice, tra le altre cose scriveva:
“.... Io rammento ancora, e rammenterò sempre, la santa emozione che provai, quando giovane convittore, appena trilustre, nel Seminario di Fermo, ebbi la sorte di vedere per la prima volta il grande apostolo della pedagogia cristiana, che aveva già iniziato in Italia l'opera sua educatrice a salvezza dei poveri figli del popolo. Don Bosco non era oratore di parata, ma incatenava i cuori colla sua parola semplice, familiare, e tutta avvivata dallo spirito di Gesù Cristo. Dopo aver celebrato la S. Messa nella cappella del nostro Seminario, e dopo averci dispensato la S. Comunione, egli ci tenne un discorso deliziosissimo. Ci parlò come parla un padre a' suoi figliuoli, non in sublimitate sermonis, ma in ostensione spiritus, e noi succhiavamo avidamente le sue parole, che sgorgavano limpide dalla vena del suo cuore sacerdotale. Due cose ci raccomandò specialmente: la devozione a Gesù Sacramentato e la devozione alla nostra cara Madre celeste. Ed affinchè rimanesse in noi scolpito il ricordo di quella visita tanto cara, venne nelle sei camerate in cui eravamo divisi, per intrattenersi più da vicino con noi, esortandoci a crescere virtuosi e buoni, sotto il manto materno di Maria Ausiliatrice. Prima di accomiatarsi, consegnò ad [712] ognuno la medaglia della Madonna, e noi con vivace affetto stampavamo dolci baci e sulla medaglia e sulla mano di chi ce la offriva. Inginocchiati per terra, domandammo infine ed ottenemmo la sua benedizione.
La medaglia di Don Bosco io tenni sempre carissima, e la riguardai come una protezione ed un ammaestramento. Son passati quasi quarant'anni, ed io ho sperimentato in questo periodo non breve della mia vita, che l'assistenza materna di Maria Ausiliatrice non mi è venuta mai meno, e tanto più mi ha sostenuto e confortato, quanto più gravi e difficili erano le vicende in cui per avventura io mi sono incontrato. Intesi anche, e profondamente mi stampai nell'animo, una grande lezione, che cioè dopo Gesù Cristo, non abbiamo miglior appoggio su questa terra, nè consolazione più gioconda, che affidarci al patrocinio di Lei che è la dispensatrice delle celesti grazie ....”
Anche Don Bosco conservò fino alla morte la poesia che gli lesse Domenico Svampa giovinetto; autografo prezioso, oggi caro per doppio titolo, che gelosamente custodiamo!
All'ora della partenza il Card. De Angelis si inginocchiò per terra e pregò D. Bosco a benedirlo; ma il Venerabile si gettò anch'egli in ginocchio innanzi al Cardinale.
- Sono vecchio: non ci vedremo più su questa terra: D. Bosco, mi benedica!
- Io benedirlo! Io povero prete? Mai più!
- Ma come? io povero pretazzuolo benedire un Cardinale, un Vescovo, un Principe? Tocca a lei benedir me!
- Quando è così, vede D. Bosco quella borsa? - e glie l'additava. - È poca cosa, ma se mi benedice gliela dono per la sua Chiesa; altrimenti no!
Don Bosco pensò alquanto e poi concluse: - Quando è così, io la benedico. Vostra Eminenza della mia benedizione [713] non ne ha di bisogno, mentre io invece ho di bisogno dei suoi danari. -E si alzò e lo benedisse.
Partito da Fermo D. Bosco giungeva a Forlì alle 11 e ½ pomeridiane. Quel Vescovo, amicissimo del Conte Vimercati, desiderava far la conoscenza coi Venerabile e avendo fatto sapere al Conte il suo desiderio, D. Bosco aveva stimato cosa conveniente aderire al suo invito. Da Fermo aveagli scritto in qual'ora sarebbe giunto; per cui, presa una carrozza alla stazione, si fece portare all'Episcopio, certo di essere aspettato. Ma trovò le porte e le finestre chiuse. Si ebbe un bel bussare, nessuno venne ad aprire e dovette andare all'albergo del Falcone. Quivi fu accolto con ogni cortesia, tanto più che, dando D. Francesia scherzevolmente il titolo di eccellenza a D. Bosco, i camerieri si credettero di aver da fare con un prelato.
Fatto giorno, accompagnato da Don Francesia, andò a dir messa al celebre santuario della Madonna del Fuoco, ove avvenne la conversione del B. Pellegrino Laziosi, e chiesero di poter celebrare.
- Avete le carte? domandò il sagrestano.
- Questi è D. Bosco! - rispose D. Francesia.
Bastò. E tutto in faccende il sagrestano tirò fuori una delle più belle pianete, già adoperata da Pio VII e condusse D. Bosco all'insigne altare della Madonna.
Dopo aver celebrato, si recarono a far visita al Vescovo, il quale solo in quella mattina aveva ricevuta la lettera di avviso. Con ogni urbanità e festa accolse il caro ospite, s'intrattenne molto tempo con lui e alle II lo fece assidere ad un lautissimo pranzo di magro, improvvisato, poichè D. Bosco intendeva di partire alla 1 e ½ pomeridiana. Monsignore non mangiò, perchè era solito pranzare al tocco.
D. Bosco arrivò a Bologna alle 4 e 15 e, fermatosi presso [714] il Marchese Malvasia, alle 3 dopo mezzanotte ripartiva per Torino e vi giungeva in sul mezzo giorno del 2 marzo.
Descrivere il tripudio dei giovani, le musiche, gli apparati del cortile non sarebbe cosa così spiccia.
L'iscrizione che dominava sulla fronte della casa era questa: “Roma ti ammira, Torino ti ama” volendo dire che là erano gli amici, qui erano i figli. Notiamo di passaggio che questo saluto, conosciutosi a Roma, fu causa di affettuose proteste: parecchi scrissero che D. Bosco era amato anche a Roma come a Torino.
All'indomani si celebrò la festa di S. Francesco di Sales. Alla sera vi fu teatro, al quale D. Bosco invitò il Conte Saverio di Collegno e gli presentò fra i plausi di tutti i giovani le insegne dell'alta onorificenza ottenutagli dal S. Padre.
L'Unità Cattolica del venerdì 8 marzo 1867 dava annunzio anche degli altri decorati.
PIO IX Al CARITATEVOLI TORINESI.
L'amato nostro Santo Padre, sempre intento ad incoraggiare i buoni cattolici ad essere perseveranti nei doveri del buon cristiano e promuovere il decoro di nostra cattolica religione, deliberò di dare un segno di paterna benevolenza verso alcuni Torinesi che si segnalarono in opere di carità verso la casa detta Oratorio di S. Francesco di Sales, specialmente nella costruzione della chiesa dedicata a Maria Ausiliatrice in Valdocco. Oltre a parecchi favori spirituali concessi a tutti quelli che in qualunque modo e misura abbiano dato mano a questa pia impresa, si degnava di conferire il glorioso titolo di Commendatore di S. Gregorio il Grande ai signori: Marchese Domenico Fassati di S. Severino; comm. Giuseppe Antonio Cotta, senatore del Regno; cavaliere Carlo Giriodi di Monasterolo; cavaliere Clemente Scarampi di Villanova; Barone Carlo Bianco di Barbania; cavaliere Zaverio Provana di Collegno; titolo che ben si conviene a questi fervorosi cristiani pel lodevole impiego delle loro sostanze, pel zelo religioso che hanno costantemente professato, e per l'antico e nobile casato a cui essi appartengono.
In quei giorni, prima ancora che D. Bosco fosse arrivato a Torino, i tipografi dell'Oratorio avevano ristampata la [715] Circolare, mandata al Cav. Oreglia da Mons. Manacorda, la quale a migliaia di copie fu diffusa in ogni parte d'Italia e anche all'estero, a segno che se ne dovette fare una seconda edizione in data del 20 marzo.
Da molto tempo stava aspettando un'occasione di poter dare un segno esteriore di sentita gratitudine verso a quegli insigni benefattori che coi loro mezzi materiali e morali mi vennero tante volte in aiuto per sostenere le opere di beneficenza, che la Divina Provvidenza, senza alcun mio merito, mi volle affidare a beneficio della povera e pericolante gioventù. Questa sospirata occasione si presentò propizia nella giornata del 12 del passato gennaio, quando il S. Padre degnavasi di ammettermi ad un'udienza particolare. Prostrato allora a' suoi piedi ho dimandato i seguenti favori:
1. Una speciale benedizione sopra a tutte quelle famiglie che in qualunque maniera e misura hanno concorso a sostenere le opere degli Oratori colle loro beneficenze e specialmente sopra di quelli che si fecero promotori della Lotteria, il cui provento è destinato ad ultimare la chiesa consacrata a Maria Ausiliatrice posta in costruzione in Valdocco, regione della città di Torino.
2. Ai medesimi indulgenza plenaria ogni volta che premessa la sacramentale Confessione si accosteranno alla S. Comunione.
3. Indulgenza plenaria in articolo di morte.
Il Santo Padre con bontà veramente paterna lodando i caritatevoli benefattori concedeva con effusione di cuore i favori implorati e mi autorizzava a parteciparli a tutti quelli, cui si possano riferire.
Mentre pertanto compio a questo mio gratissimo dovere, la prego di voler gradire questo novello tratto di benevolenza del Supremo Gerarca della Chiesa, insieme coi segni della più profonda mia gratitudine. Nella persuasione poi che in quest'anno, mercè la continuazione della sua beneficenza, avremo la consolazione di vedere inaugurato il sospirato edifizio al divin culto, l'assicuro che non mancherà di pregare il pietoso Iddio affinchè colle celesti benedizioni degnamente la rimeriti nel tempo, e la renda poi un giorno pienamente felice nella beata eternità.
Questa circolare fu accolta con somma riconoscenza dai benefattori; ogni corriere recava a D. Bosco lettere di ringraziamento, le quali generalmente esprimevano i medesimi [716] pensieri ti fede e di affetto al Servo di Dio. La Contessa Carolina Lützow, amica della Marchesa Vitelleschi, la cui famiglia, illustre per diplomatici, da molti anni era in continua corrispondenza epistolare coll'Oratorio, scriveva in francese al Cav. Oreglia da S. Vito presso Torino, ove soleva passare più mesi dell'anno.
“È con un sentimento di profonda gratitudine e di emozione dolcissima, che mia madre ed io abbiamo ricevuta ieri la circolare di Don Bosco colla data da Torino 1° marzo.
Mi rivolgo a voi pregandovi di testimoniargli la mia più viva riconoscenza per le grazie inapprezzabili che ha voluto chiedere al Santo Padre. Mia madre mi incarica di farvi la stessa preghiera in suo nome. Siamo commosse nel vederci ambedue annoverate fra coloro ai quali D. Bosco ha ottenuta l'indulgenza e la benedizione dal Santo Padre, noi che abbiamo contribuito così debolmente alla sua bella opera. Tutte le volte che potremo conseguire l'indulgenza plenaria concessa dal S. Padre, noi benediremo il nome di D. Bosco, pregando il Signore di ricompensarlo, per averci procurato così grande beneficio, col benedire sempre più le sue caritatevoli fatiche”.
Dalla Sardegna, in data 16 marzo, il Teologo Filippo Campus Canonico, Parroco a Sassari, scriveva a D. Bosco.
“Coll'ultimo corriere ho ricevuta la lettera a stampa con la quale la S. V. partecipava ai benefattori e promotori della lotteria i favori spirituali accordati da Sua Santità: tanto io come gli altri associati a questa santa Opera ne siamo oltre modo contenti .....
Se mi crede buono per qualche cosa, la prego di tener conto della mia povera persona per qualche opera che contribuisca alla gloria di Dio, al trionfo della Chiesa, ed a sollievo del prossimo.
Mi raccomando alle di lei preghiere; io mi ricordo sempre quel giorno in cui ebbi la consolazione di fare la sua conoscenza; non dimenticherò mai l'Oratorio di S. Francesco di Sales e prego Dio, perchè mi presenti l'occasione propizia per dimostrare colle opere l'interessamento che io prendo a quel pio Stabilimento”
E in un foglio della Contessa Virginia de' Cambray Digny, con data Firenze 12 aprile, si leggeva: [717]
“La ringrazio mille e mille volte per la sua preziosissima lettera e per il consolante ricordo che vi era unito, ricordo che io custodirà gelosamente in tutta la mia vita, come un nuovo pegno della sua immensa bontà verso di me, che ne sono tanto indegna....
Le sono riconoscentissima di essersi rammentata di mia figlia alla presenza del Santo Padre e sono convinta che quella benedizione avrà contribuito a farle fare con vantaggio dell'anima la sua prima Comunione.
Debbo farle i più distinti complimenti della signora Gerolama Uguccioni che ho veduto questa mattina e che mi ha incaricata di pregarla a non dimenticarla nelle sue preziose orazioni. Simile raccomandazione le rinnovo ancor io per tutta la mia famiglia e per me”.
IL 3 marzo, domenica di Quinquagesima, dopo le sacre funzioni Don Bosco radunava a conferenza tutti i confratelli della Pia Società. Erano presenti il Direttore di Lanzo, Don Cerruti Francesco rappresentante il [719] Direttore di Mirabello e Don Pestarino Domenico di Mornese. Questi tre esposero lo stato delle proprie case; e Don Bosco parlò dell'Oratorio, del suo viaggio, della speranza che presto sarebbe approvata canonicamente dalla S. Sede la Pia Società, del progetto di aprire una Casa Salesiana in Roma, e dei favori concessi dal Sommo Pontefice.
Egli aveva ottenuto dal Papa tutto ciò che aveva domandato. Oltre le indulgenze già ricordate, Pio IX aveva data licenza ai preti di benedire le corone e le medaglie e concessa loro indulgenza plenaria ogni volta che celebrassero la Santa Messa: come pure licenza di leggere e ritenere libri proibiti. Questi privilegi però erano personali, e quindi riguardavano solo quelli che si trovavano in que' giorni nella Casa. E come se ciò ancora non bastasse tutte le indulgenze e i favori concessi all'Oratorio aveva estesi ai Collegi di Mirabello e di Lanzo.
Don Bosco aveva portato a tutti i suoi figli anche un crocifisso benedetto dal Papa con 400 giorni d'indulgenza ogni volta che gli si desse un bacio, oppure si desse a baciare ad altri; e l'indulgenza plenaria a tutti quelli che lo avrebbero baciato in punto di morte.
Dopo aver esposto queste cose ai Salesiani, coll'animo pieno d'affetto verso il Pontefice e verso i suoi giovani, parlò a questi dopo le orazioni della sera. Ecco gli appunti di ciò che disse a tutta la comunità:
Pio IX mi ha domandato: - D. Bosco, mi amano i vostri giovani?
- Santo Padre! se vi amano? gli risposi; vi hanno nel cuore! Il vostro nome lo portano intrecciato con quello di Dio! - Grande Pontefice! Nelle sue afflizioni, ne' suoi dolori, mentre tanti cristiani osano fargli guerra, egli trova la sua consolazione nell'udire che voi lo amate!
Ricordate l'elemosina di 400 lire che mandò all'Oratorio non è gran tempo con queste poche parole: - Un povero padre ai suoi poveri figli! - Ma egli ben altre prove volle darvi dell'amore che vi porta, vi concesse ciò che quasi mai si concede. D. Bosco gli domandò per voi l'indulgenza plenaria tutte le volte che farete la Comunione; di [720] più l'indulgenza in articulo mortis, ancorchè non sia presente alcun prete autorizzato a darvi la benedizione papale; di più ancora l'indulgenza plenaria una volta al mese in forma di giubileo nell'Esercizio della Buona Morte.
Quando feci queste domande, Pio IX rimase un istante pensoso e senza parlare; ed in ultimo esclamò: - Facciamo uno sforzo di nostro potere. Sinora non ho concesso a nessuno quanto domandate; ma a voi lo concedo!
Io però, dubitando che il Papa non avesse capita tutta l'estensione della mia supplica, Aggiunsi: - E queste grazie solamente per alcuni? - Voleva io dire se per quelli solo della Congregazione o se anche per i loro alunni.
Pio IX replicò: - Se debbo concederle per alcuni, perchè non a tutti? - E così furono compresi tutti i giovani attualmente accolti nelle nostre case. Di quanti preziosi privilegi ci ha favoriti il Papa!
Ma voi domanderete: - Che cosa vuol dire indulgenza plenaria? - Vuol dire che quando vi confesserete bene, non rimarrete solamente assolti dal peccato, ma, fatta la Comunione, eziandio dalla pena temporale, dalle pene del purgatorio meritate pel peccato stesso. La pena temporale è condonata dall'indulgenza. Comunicatevi dunque sovente. Che bella fortuna saldare tutte le volte che si vuole le proprie partite col Signore, e saldarle completamente.
Pertanto, figliuoli miei, nella vostra vita non dimenticate mai che il Papa vi ama, e quindi dalla vostra bocca non esca mai parola che possa essere a lui d'insulto, le vostre orecchie non ascoltino mai con indifferenza ingiurie e calunnie contro la sacra sua persona, i vostri occhi non leggano mai giornali o libri, che osino vilipendere l'altissima dignità del Vicario di Gesù Cristo.
In fine vi dirò che si è pensato di procurarvi una memoria che vi ricordi l'amore e i privilegi coi quali il Sommo Pontefice volle onorarvi. Questa memoria, a chi la vorrà, costerà qualche cosa, perchè colui che la provvide dovette sborsare una bella somma.
- Ma quanto costerà questa memoria? - domanderete.
“Ecco: 5 soldi; 25 centesimi. “
E' un bel ritratto di Pio IX in fotografia, il quale avrà dietro una pagella stampata, ove saranno notate le ultime grazie concesse dal Pontefice. A giorni questi ritratti saranno pronti e depositati in dispensa, donde verranno distribuiti a chi li richiederà.
Così aveva parlato D. Bosco. Applaudirono i giovani e tutti andarono a gara nell'acquistare il sopradetto ricordo. Esso, dinanzi, aveva il ritratto di Pio IX in piedi, in atto di benedire. Sotto l'effigie era imitato un autografo del Santo [721] Padre, che egli aveva scritto sotto una fotografia presentatagli da D. Bosco:
Initium sapientiae timor Domini - subjugate intellectum vestrum.
A tergo portava stampata la seguente scritta:
in udienza del 12 gennaio 1867 concedeva al giovane ................
1° La sua speciale benedizione apostolica;
2° Indulgenza plenaria ogni volta che confessato si accosterà alla S. Comunione;
3° Indulgenza plenaria in articolo di morte.
Questi, fin dal primo momento che era giunto a Torino, in cima ai suoi pensieri teneva anche gli alunni del Collegio di Lanzo, i quali, mentre egli era a Roma, gli avevano mandato una lettera di affettuosi saluti sottoscritta da tutti; e non ne avevano ricevuta risposta. Perciò dava incarico al Direttore, venuto a Torino per la festa di S. Francesco di Sales e per la Conferenza, di tornare al più presto fra i suoi giovani, per ripeter loro i sentimenti, che egli aveva già espressi a quelli dell'Oratorio, suggerendo quel di più che voleva fosse detto. E a Lanzo così parlava il Direttore nella sera del 4 marzo.
Cari figliuoli. Eccomi stassera ad adempiere l'incarico commessomi da D. Bosco di parlarvi a nome suo. Ha fatto menzione di voi con tanto amore! Mi disse che vi aveva sempre presenti nella memoria, sempre scolpiti nel cuore; che nelle sue preghiere voi tenevate il primo posto, che mentre celebrava la S. Messa nel momento dell'elevazione diceva sempre a Gesù che vi benedicesse e che un solo era l'affetto che dominavalo: tornare in mezzo a voi, godere della vostra compagnia, esultare della vostra contentezza. Siete i suoi figliuoli e non volete che vi ami? Se entrava nelle sale dorate dei principi in [722] mezzo al fiore della nobiltà romana, il discorso cadeva sempre su di voi che siete la sua gloria e la sua corona. Se nelle gallerie del Vaticano s'intratteneva coi Cardinali e cogli altri prelati, era sua soddisfazione raccontare i fatti della vostra pietà, la vostra compostezza nella chiesa, la vostra frequenza ai Sacramenti. Il Santo Padre lo mandava a chiamare ed era consolato nel parlare di voi e nell'udire come voi siate buoni cristiani e veri figli della Chiesa. D. Bosco andava a visitare Collegi e ai plausi di quei giovani egli gioiva, perchè in quei volti parevagli di vedere i vostri e a quelle voci parevagli di ascoltar le vostre.
D. Bosco mi disse pure che più di una volta col suo spirito era venuto a visitarvi, a passeggiare per i vostri corridoi, ad aggirarsi per le vostre camerate, ad osservare la vostra condotta, e che venendo saprà dirvi qualche cosa in proposito.
Ora che è tornato da Roma, non crediate che sia venuto a mani vuote! No! Ha portato a tutti un bel regalo, una medaglia e forse una corona per ciascuno, benedetta dal Sommo Pontefice, in memoria della sua gita a Roma. Di più, venendo a farvi una visita, darà a ciascuno un biglietto nel quale troverete scritti i benefizi, le indulgenze, le benedizioni che il S. Padre vi concede. Vedete da ciò quanto D. Bosco vi ami.
Ha sentito con dispiacere che non avete ricevuto risposta alla vostra lettera che gli fu tanto di gradimento. Esso la lesse e con infinito piacere. Aveva incaricato D. Francesia di rispondere, ma questi, distratto da molte occupazioni, si dimenticò; ha scritto a Torino, a Mirabello, ma Lanzo fu posto nel dimenticatoio, D. Bosco pertanto vuol riparare a questo errore ed egli stesso vi scriverà. Non vuole che i suoi cari figliuoli di Lanzo siano trascurati.
Siete contenti così? E sapete perchè D. Bosco vi ama tanto? Miei cari, avete un'anima redenta dal sangue di Gesù Cristo, voi siete destinati ad essere principi del Paradiso e un giorno, se voi lo meriterete, abiterete cogli angioli, in compagnia della Vergine benedetta. Coraggio adunque. Amate D. Bosco e amate l'anima vostra.
Si era nei giorni di Carnevale; e nell'Oratorio ai divertimenti e alle rappresentazioni teatrali si alternavano, gioconde, le pratiche religiose. D. Bosco avea ripreso il suo posto nel confessionale, con gioia di tanti giovani desiderosi di aprirgli il cuore. Il martedì, 5 marzo, si fece l'esercizio della Buona morte ed il Pater Noster solito a recitarsi “per quello che fra noi sarà il primo a morire” giovò all'anima dell'alunno Fogliani [723] Cipriano di Santa Domenica (Svizzera). Moriva in quello stesso giorno a casa sua e il Parroco, dopo oltre un mese, così ne scriveva a D. Bosco:
Santa Domenica, 15 aprile 1867.
già passato un mese che io doveva e voleva scriverle la presente... Fogliani Cipriano non è più! Dopo pochi giorni del suo arrivo in patria, dovette mettersi a letto per non più uscirne, se non per essere portato alla sepoltura. In tutto il corso della sua lunga malattia, ha dato esempi sublimi di cristiana rassegnazione, senza mai conturbarsi menomamente nei suoi dolori di viscere. La sua quotidiana preghiera al Signore e alla Vergine Immacolata era questa: - Se col guarire posso salvarmi, fatemi guarire: in ogni cosa però sia fatta la vostra divina volontà. - Egli ricevette tutti i conforti della Religione: si confessò varie volte durante la malattia, e per l'ultima volta si confessò appena un quarto d'ora prima di spirare. Nel mentre io gli recitava le preghiere dell'agonia, egli le accompagnava colla sua mente e le ripeteva muovendo le labbra moribonde e baciando il crocifisso con grande edificazione della molta gente accorsa. La morte di questo buon giovane fece una così viva impressione in questa popolazione, che a stento abbiamo potuto cantar l'uffizio e la Messa da morto, sebbene la chiesa fosse piena di gente. Moriva il 5 marzo 1867, in età di 14 anni.
Cappuccino di Cavallermaggiore,
Dopo il carnevale, il Venerabile per varie sere tenne discorsetti ai suoi alunni di più cose viste in Roma: Basiliche, tombe di martiri, anfiteatri, monumenti di miracoli strepitosi, e da tutto ricavava qualche massima morale che servisse di eccitamento a santificare la quaresima. Di queste parlate una sola è ricordata nelle nostre Memorie, ed è quella detta la sera del giorno 7.
In San Pietro in Vaticano vi è una pila d'acqua lustrale veramente bella. La conca è sorretta da un gruppo rappresentante la tentazione. Vi è un demonio spaventoso, colle corna e colla coda, che corre dietro ad un giovanetto per afferrarlo. Il poverino fugge, ma è vicino a cadere nelle unghie di quella brutta bestia: in atto di gridare spaventato [724] solleva le braccia, mettendo le mani nell'acqua benedetta e il demonio spaventato a sua volta non osa accostarglisi.
L'acqua benedetta, miei cari giovani, serve a cacciare le tentazioni e lo dice il proverbio accennando ad uno che fugga con rapidità: - Scappa come il demonio dall'acqua benedetta.
Nelle tentazioni adunque, e quindi principalmente entrando in chiesa, fate bene il segno della Croce, perchè è lì dove il demonio vi aspetta per farvi perdere il frutto della preghiera. Il segno della croce respinge il demonio per un momento; ma il segno della croce coll'acqua benedetta lo respinge per molto tempo. Santa Teresa un giorno era tentata. Ad ogni assalto essa faceva il segno della croce, e la tentazione cessava, ma l'assalto ritornava pochi minuti dopo. Finalmente stanca di lottare S. Teresa si asperse di acqua benedetta e il demonio dovette andarsene colla coda fra le gambe.
Avvicinandosi la festa di S. Giuseppe, l'Unità Cattolica di martedì 12 marzo 1867 dava il seguente annunzio:
“Vita di S. Giuseppe, raccolta dai più accreditati autori, colla novena in preparazione alla sua festa. - Tipografia dell'Oratorio di S. Francesco di Sales in Torino. - Questo librettino, oltre ad essere prezioso, perchè porge ai cristiani belle cognizioni sulla vita di un santo che a tutti è per mille motivi carissimo, ne rende anche più facile e più estesa la divozione. Tutti possono spendere 25 centesimi e con sì poca spesa tutti possono imparare a conoscere il più valido protettore, dopo Maria, presso il nostro Redentore Gesù. L'essere uscita fra le Letture Cattoliche di Torino, redatte dal Sac. Bosco, è guarentigia sufficiente della bontà dell'operetta e del frutto che ne potrà derivare a chi lo legge”.
Intento l'II marzo erano incominciati i catechismi quaresimali. Qui ricordiamo d'aver veduto più di una volta il giovane Agostino Richelmy, già studente di liceo, nei nostri Oratorii festivi, circondato da una numerosa schiera di ragazzi operai e poverelli a cui faceva in bel modo il catechismo. La sua venuta segnava sempre qualche copiosa elemosina nella cassetta dell'Oratorio. Sovente ne spiegava anche lo scopo dicendo: - Desidero che domenica si diano le castagne a tutti quelli che verranno. Qui c'è la spesa. - Era l'uso del danaro che i parenti gli davano perchè se ne servisse a suo piacere, e già fin d'allora il miglior piacere per lui era quello di allettare la gioventù di Torino ad accorrere agli Oratorii. [725] Esemplare nella pietà, Agostino Richelmy primeggiava anche per ingegno nelle pubbliche scuole del ginnasio e del liceo, terminate le quali, si decise per la carriera ecclesiastica.
Prima però di prendere l'abito clericale ebbe a consultare chi meglio poteva fargli sapere la volontà di Dio a suo riguardo. E noi sappiamo che parlandosi con D. Bosco del nuovo alunno del nostro Seminario, egli che era solito a ricevere le visite e le pie elargizioni di casa Richelmy, ebbe a dire: - Vedrete, vedrete che cosa sarà un giorno questo virtuoso chierico! - Ed il felice presagio non poteva meglio avverarsi: egli divenne Cardinale Arcivescovo di Torino.
In mezzo al lavoro dei catechismi Don Bosco non dimenticava gli altri impegni e quindi neppur quello di condurre a buon termine la lotteria. Fin dai primi del mese aveva mandato alle stampe e pubblicata un'altra circolare.
La Lotteria più volte raccomandata alla carità di V. S. Benemerita stando per finire, io sento in modo speciale il bisogno dell'appoggio della sua mano benefica.
I pubblici avvenimenti dell'anno scorso ci hanno incagliato lo spaccio dei biglietti. Soffra adunque quest'ultimo invio e veda se può in qualche modo ritenere od esitare le qui unite N… decine. Vi è tempo fino al 10 di aprile, giorno in cui avrà luogo la pubblica estrazione.
Quindici giorni prima di tale opera è pregata di far pervenire alla sala dell'esposizione quei biglietti che non intendesse di ritenere; che se mai Ella conoscesse caritatevoli persone, presso cui poterne ancor altri collocare, io mi raccomando con tutto il cuore di volerlo fare, perchè ne esiste ancora una notabile quantità da spacciare.
Iddio, ricco in grazie e benedizioni, rimeriti con largo guiderdone tutta la sua beneficenza e conceda sanità e giorni felici a Lei e a tutti quelli che in qualunque modo concorrono a beneficare i poveri giovanetti dalla Divina Provvidenza a me affidati e a compiere i lavori della chiesa qua posta in costruzione.
Colla più sentita gratitudine ho l'onore di potermi professare,
Oratorio di S. Francesco di Sales - Torino-Valdocco. [726]
Non si può credere qual cumulo di lettere erano spedite e ricevute dall'Oratorio! Una di queste, indirizzata a Don Bosco, ci fa conoscere alcunchè di quello che egli fece a Bologna nel suo ritorno.
Non ho mancato di mandare al Rev.mo Mons. Canzi, a D. Lanzerini, come anche al Marchese Prospero Bevilacqua ed alla contessa Sassatelli, i biglietti ad essi destinati.
Non le so esprimere quanto mio marito ed io siamo stati dispiacenti di non aver potuto ottenere che Ella prolungasse un poco più la sua graditissima visita, solo ci consola la promessa solenne, fattaci in presenza di due testimoni, di non tardar molto a rinnovare con più comodo la sua visita; speriamo che Ella non si dimenticherà di tale promessa e che prenderà le sue misure per poter non solo celebrar la Santa Messa nella nostra cappella (sempre secondo la solenne promessa), ma anche aver tempo di visitare il celebre Santuario della nostra Madonna di S. Luca, quello di S. Caterina di Bologna, e ciò che potrebbe ancora interessare la pietà di V. S.
Il Conte Malvasia m'impone di presentarle i suoi più distinti saluti: la sua sanità è stata migliore dopo che Ella lo ha visitato; oggi abbiamo incominciata la novena del Patriarca S. Giuseppe, ma il tempo non si annunzia propizio acciò che egli possa sortire in carrozza il giorno della festa di questo gran Santo, dopo un anno e mezzo che non è affatto uscito di casa. Però egli ha gran fiducia nella sua parola e vuole che le dica che aspetta da Lei la spinta per andare a Roma pel Centenario di S. Pietro.
La prego…. per carità di ricordarsi di me, di mio marito, della mia famiglia e del povero nipotino sordo, che Ella ha benedetto qui in casa nostra, nelle sue orazioni… Tanti doveri al suo giovane compagno.
Altre lettere da Roma, mentre rispondevano all'invito per la lotteria, mandando i residui delle somme riscosse per spaccio di biglietti, manifestavano le impressioni affettuose lasciate da D. Bosco. Raccogliamo alcune frasi scritte al Cav. Oreglia:
Il Conte Scipione Conestabile della Staffa: “La stima che gode D. Bosco, lo precede, lo accompagna, lo siegue, e lascia [727] delle sue virtù incancellabile memoria, inimitabile esempio”. - La Duchessa di Sora: “D. Bosco ha lasciato a tutti noi generalmente un'impressione di pace; egli era tutto a tutti. Spero che non ci dimenticherà, ma gli dica che non parli di gratitudine. Dette da lui queste parole mi sembrerebbero una derisione, se non sapessi che Egli ha troppa carità per ridere”.
A D. Francesia il Marchese Angelo Vitelleschi: “Quanto ci manca, mancandoci la compagnia di D. Bosco; ci eravamo abituati a quella cuccagna, ed ora è duro il non vederlo e non udirne le parole”. - E il Conte Vimercati: “Circa alla mia salute, le cose stanno al solito. Gli urti nervosi non fanno tregua, anzi paiono più frequenti e mi abbattono assai. Dio sia benedetto. Se piacerà a Maria SS. interporre la sua valida protezione, potrò averne qualche sollievo, altrimenti sarò egualmente contento e tranquillo .Non passa un momento che io e la mia gente non facciamo cordiale commemorazione di loro! Io mi trovo proprio come in un deserto e sconsolato. Oh! quelle care e confortanti benedizioni di D. Bosco non ci sono più! -Povero me!”
Provenienti da Roma e da altre parti, molte lettere che abbiamo sott'occhio e dirette a D. Bosco, esigevano da lui stesso una risposta. Si chiedevano consigli persino su cose intime di famiglia, sul tramutarsi da una città all'altra, sull'aspirare ad un impiego, sulla composizione di una lite, sull'abbracciare una professione, sul contrarre un imprestito, sul modo di regolare la propria casa, sull'educazione di un figlio, sulla scelta dello stato, e su cento altre dubbiezze e necessità che s'incontrano nella vita. D. Bosco a queste lettere non mancava di fare adeguate risposte, delle quali una ci fu rimessa.
Se potessi parlarle verbalmente, potrei dimandarle e risponderle quanto non si può confidare alla carta.
Stando per altro a quanto mi scrive io dico che può andare avanti [728] nel contratto di matrimonio progettato senza timore di opporsi alla volontà del Signore.
Posto poi che Ella possa vivere fuori delle occupazioni legali, dove eziandio si può fare molto bene, si appigli pure ad una sfera più vasta di occupazioni scientifiche e specialmente, come mi dice, cose che possano tornare a vantaggio di nostra Santa Religione.
Chi sa che qualche occasione non ci porti a poterci parlare? Allora potremmo parlarci ed intenderci meglio.
Dio benedica lei e le sue fatiche, preghi per me e per questa mia famiglia e mi creda con pienezza di stima
Intanto l'Unità cattolica del 26 marzo ricordava il termine della lotteria.
ESTRAZIONE DELLA LOTTERIA DI VALDOCCO.
Col 1° aprile termina il tempo della pubblica esposizione dei doni offerti per la lotteria di Valdocco, ed avrà luogo l'estrazione dei numeri vincitori. Siccome rimane ancora notabile quantità di biglietti, così chi volesse concorrere ad una vera opera di carità e di pubblica beneficenza potrebbe acquistare o spacciare alcuna di quelle cartelline che sono al tenue prezzo di mezzo franco caduna. Il provento è specialmente destinato a sollevare i poveri giovanetti che in numero di circa ottocento sono raccolti nella casa detta Oratorio di S. Francesco di Sales, ed a continuare i lavori della chiesa ivi posta in costruzione in onore di Maria Ausiliatrice.
Non ostante la strettezza dei tempo, il Venerabile continuava a fare larga distribuzione de' suoi biglietti in varie città a quelli dai quali poteva sperare un immediato aiuto.
Scriveva alla Signora Guenzati a Milano.
Ho ricevuto il suo dispaccio ed ho subito pregato e fatto pregare per l'ammalato che mi raccomandava e continuiamo a raccomandarlo al Signore. [729]
La Lotteria si avvicina al suo termine ed abbiamo ancora molti biglietti; faccia quello che può per aiutare il sig. Pedraglio per ispacciare i biglietti che gli furono trasmessi. La Contessa Caccia potrà forse aiutar lei a compire quest'opera di carità.
Dio benedica Lei, suo marito, e tutta la sua famiglia e preghi anche Ella per me che rispettosamente mi professo nel Signore
Un'altra lettera ad un sacerdote, suo grande amico, diceva:
Ci troviamo sul termine della Lotteria già altre volte alla provata di Lei carità raccomandata, ed abbiamo ancora una notabile quantità di biglietti da esitare. Potrebbe Ella ritenere dieci decine di essi per soccorrere i nostri poveri giovanetti e per continuare i lavori della Chiesa in costruzione ad onore di Maria Ausiliatrice? Ecco l'umile mia domanda. Faccia quel che può, se poi non può, rimandi pure liberamente quanto non giudica di ritenere.
Il Santo Padre le manda la sua benedizione colle indulgenze indicate nella lettera ivi unita, ed io le professo tutta la mia gratitudine per la carità usata in più occasioni; ed augurandole ogni benedizione celeste ho l'onore di potermi con pienezza di stima dichiarare
Indirizzava pure una supplica a S. A. R. il Principe Amedeo di Savoia.
Sotto i gloriosi auspizii di V. A. R. abbiamo cominciata la nostra Lotteria che col primo aprile volge al suo termine. Ogni cosa riuscì colla massima soddisfazione, ma ora rimane ancora una notabile quantità di biglietti e per questo mi fo ardito di raccomandarne ancora n. 50 decine con umile preghiera di volerli accogliere per fare un'opera di carità ai nostri poveri giovanetti, che nutrono la più cordiale venerazione verso l'augusta di Lei persona.
Io mi unisco coi beneficati per augurarle dal Cielo copiose benedizioni [730] e pregare Iddio che lungamente ci conservi un principe che forma la delizia di quanti lo conoscono.
Colla più sentita gratitudine reputo il più alto onore di potermi professare,
Erasi eziandio rivolto al Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, perchè si accettassero alcuni pacchi di biglietti e riceveva la seguente risposta.
AGRICOLTURA, INDUSTRIA E COMMERCIO
Del Prot. Divisionale 410 Torino, addì 25 marzo 1867.
Per la scarsezza di fondi stanziati nel bilancio passivo di questo Ministero non potrei consentire intieramente alla richiesta fattami dalla S. V. Rev.da col foglio del dì 22 volgente; ma avuto riguardo allo scopo che determinò cotesto stabilimento nello iniziare una lotteria a favore dei poveri giovanetti nel detto Stabilimento raccolti, ho disposto che vengano acquistati per conto di questo Ministero venti decine di biglietti della lotteria medesima per la complessiva somma di lire cento che saranno quanto prima esigibili su cotesta Tesoreria mediante mandato a favore della S. V. Rev.ma.
Le restituisco le residue venti decine delle quaranta trasmesse, meno però 20 biglietti che vennero ritenuti a seguito della facoltà concessa di ritenerne sopra dieci uno gratuitamente.
Anche il Municipio di Torino rispondeva favorevolmente alla domanda di D. Bosco.
La Giunta Municipale in seduta del 27 marzo p.p., accogliendo [731] la domanda della S. V. Rev.ma, ha deliberato di acquistare i biglietti da lei trasmessile della lotteria a beneficio di codesti Oratorii festivi.
Il sottoscritto ha già dato gli ordini necessarii per la spedizione del mandato relativo di L. 150, che la S. V. potrà fra pochi giorni riscuotere in questa civica Tesoreria.
Aggiungeremo che il Vescovo di Guastalla Mons. Rota, benchè non invitato e nelle strettezze, chiedeva ancora biglietti di lotteria. Il suo gran cuore si rispecchia nelle lettere che scriveva a D. Cagliero, delle quali trascriviamo qualche periodo.
12 marzo 1867. - Ma e di D. Bosco che cosa mi sa dire? Io sperava di vederlo, scrissi appositamente a Fermo, ma intesi che passava da Reggio senza fermarsi e lo intesi quando era già passato. Quanto volentieri avrei inteso da lui qualche cosa di Roma e di quelle cose che non si potrebbero sentire da altri! Me lo riverisca mille e mille volte e gli dica che, non credendo che egli stesso abbia tempo di scrivermi di sua mano, dica a lei quello che mi ha da scrivere ed ella poi mi dica tutte quelle altre notizie che sa e che possono piacermi e interessarmi.
E il carissimo D. Francesia? Gli dica che io avrei amato tanto che egli fosse venuto a Guastalla e che facesse coi miei alunni, così almeno per un'ora, quel mestiere che egli poi sa... non dico altro. Sono stato deluso nelle mie speranze, ma quod differtur non aufertur. Questa estate lo rivedremo qui colla carovana che ad ogni modo dovrà in quest'anno passare almeno da Guastalla.
Già pel teatro è provveduto. In questo carnevale si è eretto in Vescovado…Veda che cosa fa un Vescovo! Cosa da scandalizzare tutto il mondo!... e in quello si sono cantate per tutto divertimento tre certe romanze che Ella conosce: Il Ciabattino, il Figlio dell'Esule, e lo Spazzacamino! Che ne dice?
18 marzo 1867- La prego a mandarmi due mazzetti della lotteria dell'Oratorio pei quali accludo nella presente un biglietto da lire 10...
Abbiamo letta al focolare la di lei lettera… Godo di tutte le onorificenze ricevute da D. Bosco a Roma; ma che cosa sono quei funesti prognostici di lucerna vicina a morire, ecc.? Sentesi forse male in salute? Voglio sperare che abbia non solo a veder finita la sua chiesa, ma anche a continuare molto tempo l'opera santissima dell'educazione della gioventù.
25 marzo 1867. - Tanti saluti a D. Bosco, ma subito, subito. Egli ha fatto dei Vescovi e credo proprio che abbia scelto bene. Dio volesse che si riempissero così bene tutte le sedi vuote. Saluti poi tutti quanti gli altri, preti e secolari, vecchi e giovani.
IL primo di aprile secondo le prescrizioni del Decreto Prefettizio e colle formalità consuete, nel palazzo municipale si estraevano i biglietti cui la sorte assegnava un premio. Tostochè furono stampati gli elenchi nella Gazzetta ufficiale, veniva pubblicata questa circolare. [733]
ORATORIO DI S. FRANC. DI SALES
Mi fo' premura di trasmettere a V. S. B. l'elenco dei numeri vincitori nella lotteria più volte alla carità di Lei raccomandata. I pubblici avvenimenti, che si succedettero, ci hanno obbligati a protrarre alquanto la pubblica esposizione, e con questo mezzo si ottenne un risultato che più favorevole non si poteva desiderare.
Ora mi trovo in dovere di ringraziarla con tutta l'effusione del cuore dei disturbi, delle sollecitudini e di tutta la carità usata nel corso di questa opera di beneficenza. Mentre poi l'assicuro di conservare verso di Lei la più sentita gratitudine, non mancherà co' giovanetti beneficati d'invocare le benedizioni del cielo sopra di Lei e sopra tutti quelli che la secondarono. Nel pregarla pertanto di gradire questi deboli sentimenti di riconoscenza, la supplico a voler ognora conservare questi giovanetti sotto la efficace di Lei protezione e annoverare la loro condizione fra le opere dalla sua carità sostenute e promosse.
Le annunzio eziandio con piacere che si poterono già ripigliare i lavori per la chiesa dedicata a Maria Ausiliatrice, e, se Ella mi continuerà il suo caritatevole appoggio, spero che nel corso di quest'anno si potranno condurre a tal punto da poterci andar dentro per farvi le sacre funzioni.
La Santa Vergine ricompensi degnamente le sue opere di carità, e ci ottenga da Dio le grazie necessarie per vivere nel tempo ed essere poi un giorno tutti insieme riuniti nella gloria dei beati in Cielo: Così sia.
Con pienezza di stima ho l'onore di professarmi Di V. S. Benemerita
Il lavoro enorme per rispondere alle richieste, per verificare i biglietti, per consegnare o spedire i premii, mandava le cose per le lunghe. Perciò non mancavano le replicate domande; ed è da osservarsi come in quasi tutte queste e altre lettere si parli sempre del caro, dell'amato D. Bosco. Preghiamo il lettore di stare alla nostra asserzione, poichè le prove che potremmo arrecare sarebbero senza fine. Ci limiteremo ad esporne una solamente. [734]
Mi faccia la carità; ma proprio la carità di consegnare subito non solo questa lettera al nostro amato e venerato D. Bosco, ma faccia in modo che la legga subito e supplicandolo ancora di una qualche risposta almeno con una immaginetta rapporto all'ottimo P. Blasi, che alla carità ancora delle sue preghiere caldamente raccomando.
... Mi sono stati rimessi quattro biglietti vincitori: come si può fare per avere i premii? Due sono della signora Rosa, un anello d'oro ed un borsellino di margherite. La contessa Antonelli, credo, un guancialetto per spilli. Il Padre Generale dei Trinitarii la Storia d'Italia di D. Bosco. Mi dica se devo mandare i biglietti vincitori e come si possono avere questi premi, chè tutti ci pretendono come ad una reliquia per memoria di Don Bosco. Mi dica se ha mai scritto al Conte Vimercati per quei ritratti; non mi ha dato niente, e quelle persone li aspettano; io non ho il coraggio di domandarli, ci pensi lei.
Mi fa tanto piacere di rivedere fra qualche giorno l'ottimo cavaliere Oreglia e così parlare un poco a lungo di D. Bosco. Da quando sono partiti, non abbiamo più saputo niente del nostro D. Bosco .....
Il 1° giugno Don Bosco faceva pubblicare nell'Unità Cattolica il seguente avviso:
Lotteria di Valdocco. - La Lotteria di doni a favore degli Oratori maschili di questa città venne alla pubblica estrazione nel palazzo municipale nell'aprile passato. Il tempo utile per ritirare i premi secondo il programma dovrebbe essere di due mesi: ma attesa la distanza di molti che hanno concorso e nel vivo desiderio che per quanto è possibile tutti i benemeriti concorrenti siano soddisfatti, saranno egualmente consegnati i doni vinti fino al giorno 20 del prossimo giugno I doni non ritirati a quell'epoca vengono considerati come ceduti a benefizio degli Oratori sopramentovati”.
Così finiva una lotteria incominciata dal 1865. Il Venerabile, benchè si fosse tanto occupato per la sua buona riuscita, contemporaneamente affrettava a Roma le pratiche ad ottenere l'approvazione delle regole o almeno il privilegio delle dimissorie. Nell'eterna città molte visite egli aveva fatto a Cardinali a questo fine, ed ora per lettera continuava le istanze. [735] Aveva chiesto anche al Vicario Capitolare di Torino una Commendatizia in proposito. La Commendatizia venne, ma non appoggiava espressamente nè l'uno nè l'altro favore.
Dottor Collegiato in S. Teologia, Canonico Prevosto della Chiesa Metropolitana di Torino, uffiziale dell'Ordine di S. Maurizio e Lazzaro e vacando la Sede Arcivescovile
Con nostre lettere delli II febbraio 1864 commendammo il M. R. Sig. Sac. Giovanni Bosco del luogo di Castelnuovo di questa diocesi, domiciliato in questa città di Torino, e l'Istituto dal medesimo col concorso di benefattori fondato e retto in questa stessa città per religioso allevamento ed istruzione dei giovani poveri o di mediocre fortuna mediante modica retribuzione, attestando essere il prefato sacerdote persona di conosciuta ed edificante probità, fornito di dottrina, di zelo e di pietà, e tornare l'Istituto predetto di grandissimo vantaggio ai giovani posti nelle suaccennate condizioni. Richiesti ora di lasciare una nuova commendazione, non solo di buon grado confermiamo in ogni sua parte la commendazione sovra annunciata, che anzi dichiariamo che la Casa persevera nello stesso buon ordine, che il predetto Sacerdote dà sempre nuovi saggi di pietà, di zelo e di sollecitudine, che d'allora in poi avendo ampliato l'Istituto sopramentovato, dal quale uscirono ed escono ogni dì in maggior numero giovani religiosamente e civilmente educati, capaci di guadagnarsi il vitto nei varii rami di arti e di mestieri ed alcuni anche distinti nello stato ecclesiastico, si è reso vieppiù meritevole di particolare attestato pel conseguimento di quelle grazie, delle quali il Santo Padre giudicherà di degnarlo.
GIUSEPPE ZAPPATA, Vic. Gen. Cap.
(Luogo del sigillo) T. GIUSTETTI GIUSEPPE, Seg.
Pochi giorni prima il Venerabile erasi raccomandato al Card. Costantino Patrizi, Vicario Generale di Sua Santità, e ne aveva la seguente risposta:
La pia indiscrezione dei Romani ha tolto a me il piacere di potermi più a lungo trattenere con Lei, durante la sua dimora in questa Capitale: [736] spero per altro di essere più fortunato Un'altra volta, che sento non sarà molto lontana, del suo ritorno in Roma; seppure anche allora non verrà assediata dalla turba dei devoti che non Le lascino un momento da respirare.
Mi sono occupato dell'affare di cui tratta nella sua lettera, e dopo tenuto discorso col buon Ab. Frateiacci, già di tutto informato, ne ho dato un cenno al Card. Quaglia, Prefetto della Sacra Congregazione. La difficoltà che s'incontra per accordare il privilegio delle dimissorie per gli Ordinandi è quella assai rilevante, che cioè l'Istituto non è stato finora che lodato dalla S. Sede, e non approvato, per cui non essendosi mai usato di concedere privilegi e grazie straordinarie, come appunto sarebbe questa delle dimissorie, se non agli Istituti e Congregazioni già approvate, è assai difficile che si deroghi a quest'uso d'altronde assai ragionevole. Potrebb'essere che le particolari circostanze che concorrono nel caso di questo nuovo Istituto inclinassero il S. Padre a fare una eccezione ed è questa la grazia che si implora, e si vedrà se potrà ottenersi: credo per altro che a ciò gioverebbe assai una commendatizia dell'Arcivescovo, del di cui diritto specialmente si tratta in questo affare.
Basta, se il Signore vorrà e sarà per il bene dell'Istituto, la cosa riuscirà bene, ed intanto coll'orazione e coi, debiti mezzi umani si procurerà di sollecitarne il buon esito.
Mi abbia sempre presente nelle sue orazioni, e mi creda pieno di stima e di attaccamento.
Anche Mons. Giuseppe Berardi, Arcivescovo di Nicea in partibus infidelium, era stato sollecitato al proposito.
La premura che Ella prende per la mia salute è tutta propria della bontà del suo cuore. Rilevo infatti dal cortese suo foglio dei 20 del p. p. mese di marzo le preghiere che per me si sono innalzate al Signore a tal fine, ed io non ho espressioni sufficienti a rendergliene grazie. Posso poi dire francamente di star meglio, ma non di essere guarito del tutto, giacchè risento ancora degli incommodi ove protragga l'applicazione. Confido tuttavia, che coll'intercessione della B. Vergine Immacolata sia a poco a poco per ricuperare il mio primiero stato sanitario.
Quanto all'affare che lo riguarda ho appreso con dispiacere la insorta difficoltà. Forse quante volte Ella, che mi onorò di farmi parte [737] dei suoi disegni, avesse creduto opportuno appigliarsi ai miei subordinati consigli, le cose sarebbero andate diversamente. Al punto però in cui son ora giunte le cose, posso dirle soltanto colla massima riservatezza, che stante la decisa contrarietà di cotesto Vicario Capitolare non si risolverà quel che da lei si brama, se non dopo che sarà stato interpellato in proposito ed avrà risposto coll'esternare il proprio parere l'Arcivescovo testè nominato per cotesta Archidiocesi, e si sarà altresì esaminata la materia nella piena Congregazione dei VV. RR., siccome si è prescritto recentemente dal Santo Padre. Convien dunque aver pazienza ed attendere l'esito di siffatto esame.
Le comunico ciò per norma e pregandola a proseguire a tenermi raccomandato nelle orazioni sue e de' suoi alunni, le porgo i più cordiali rispetti di mia madre, ed ho il bene di confermare i sensi della distinta, affettuosa stima, con cui sono
Il giorno 7 di aprile, domenica di Passione, D. Bosco diceva ai giovani: - Il Cardinale Antonelli mi scrisse una lettera in cui mi annunzia che è guarito, ci ringrazia delle preghiere che abbiamo fatto per lui e ci assicura che esso pregherà sempre per noi. Aggiungo che domani verrà a direi la S. Messa Mons. Gastaldi Vescovo di Saluzzo, persona molto benemerita della casa. Chi volesse confessarsi, sappia che io vado in coro...” - Si trattava anche di suffragare l'anima del giovane Valentino Gallenzi, morto a casa sua il 30 marzo.
Venne il Can. Gastaldi, celebrò il Santo Sacrifizio e poi, come aveva fatto più altre volte, s'intrattenne lungamente con D. Bosco per sentire da lui notizie della Pia Società. Vide la lettera del Cardinale e quella di Mons. Berardi; seppe che la Commendatizia del Vicario Capitolare di Torino era stata mandata al Card. Vicario; e venne pure informato che si aspettava da Mons. Fratejacci una relazione sullo stato delle pratiche per le dimissorie, sulla disposizione degli animi di chi doveva concederle, sulle speranze o meno di ottenerle. [738] Il giorno II la relazione di Mons. Fratejacci era in mano a D. Bosco.
Veneratissimo e carissimo sig. D. Bosco,
Sia benedetto il Signore che oggi finalmente posso scriverle. Le mie occupazioni ordinarie e straordinarie sono sì molte da impedirmi talvolta il tempo da scrivere una lettera! Dovrà durar sempre questa mia situazione di dieci anni?...
Farò come il Gazzettiere per dare ordine alle varie materie che sono l'oggetto della lettera presente, accennando con parole iniziali ogni articolo che scrivo, sicchè l'iniziale sia come il Berescit che segnala il libro della Genesi fra tutti gli altri sacri libri.
S. Congregazione de' Vescovi e Regolari. - Dopo l'ultimo abboccamento da me avuto con Mons. Svegliati siamo restati d'accordo che la proposizione relativa alle Costitutiones Sociorum Sancti Francisci Salesii in Diocesi Taurinensi si trattenga ancora per alcun tempo, sinchè arrivi alla sua Sede Mons. Riccardi e possa la S. V. Rev.ma officiarlo ed ottenere da lui favorevoli attestazioni presso la lodata S. Congregazione. Secondo la Regola del Diritto: Omne per idem genus dissolvitur, quo colligatum est. Ritenuto perciò che dalla Curia Ecclesiastica di Torino sieno state promosse le difficoltà all'approvazione delle dette Costituzioni, deesi oggi con ogni studio curare che dalla stessa Curia di Torino vengano parole ed offici favorevoli alle dette Costituzioni. Per conseguenza importando ben poco che la discussione si faccia presso la S. Congregazione oggi o piuttosto domani, ho stimato dell'interesse di V. S. che tutto si trattenga per alcun tempo. Lasciamo che vengano in Roma il Card. De Angelis, l'Arciv. di Pisa Card. Corsi ed altri che più possono influire presso il S. Padre e la S. Congregazione e allora si proporrà la questione più vantaggiosamente e con migliore effetto. Intanto starà sempre attendendo gli esemplari in numero di 12, o 15 delle Costituzioni, come già le accennai, per distribuirsi ai Cardinali componenti la S. Congregazione. A queste debbono aggiungersi le copie delle Animadversiones e le copie delle risposte alle animadversionibus.
Il Vescovo di Savona. - Coll'eletto nuovo Vescovo di Savona Mons. Cerruti, mio amico, ho stimato bene di tener discorso sulle dette Costituzioni nel doppio scopo e di averlo protettore di esse e di ottenere per suo mezzo il favore del suo antecessore Mons. Riccardi, nuovo Arcivescovo di Torino. Ragione di ciò il sapere io bene che il Cerruti è amicissimo del Riccardi e quasi il suo alter ego, oltrecchè successore in Savona e che può di ragion sua, come ogn'altro Vescovo di codesta contrada, influenzar moltissimo in favore delle Costituzioni. E fui ben lieto di trovare in Mons. Cerruti moltissima propensione [739] per Lei e pel suo Istituto. Egli si pregia di conoscerla e ne ha stima, e mi promise che non solo per sè, ma anche presso l'Arcivescovo di Torino farà quanto può. Non trascuri la S. V. di coltivare questo buon elemento, e, se crede, scriva anche a S. E. Mons. Cerruti una lettera di rallegramento per la di lui promozione e gli dia in essa un sol cenno che - “s'impromette anche da lui la protezione al suo nascente Istituto e spera di ottenerla dal suo antecessore, ora traslato a Torino, per di lui opera, ossia del di lui successore in Savona”. Quest'officio, sarà certo graditissimo, ed è, a quanto stimo, assai opportuno. Per di lei regola, mi dice Mons. Cerruti che Riccardi cerca ogni via per indugiare più che può la sua gita a Torino. Però è certo che il S. Padre sollecita la partenza di Cerruti perchè sia al più presto in Savona. Egli si consacrerà la prima festa dopo Pasqua per le mani del Card. Di Pietro. Ciò in riservatezza, perchè siale di norma.
Il Card. Vicario. - La saluta con ogni affezione. Prima della lettera che da più giorni le ha già scritto, e che la S. V. avrà già letto, mi comunicò la lettera di V. S. scritta a lui, ed anzi consegnò a me per leggere i fogli: Super animadversiones, etc., che ho ancora presso di me. Mi assicurò di aver già parlato col Card. Quaglia in favore della cosa, ma mi esternò una somma perplessità, e sua e del Quaglia, in consentire al privilegio che domandasi per gli ordinandi del suo Istituto. E gli sembra che se prima non si verifica l'approvazione in genere della Santa Sede, e non sia passato un certo numero di anni, non possa concedersi un tal privilegio. Io non mancai di formare altrimenti con varie ragioni l'animo di S. Eminenza; e infine chiusi il colloquio persuadendolo a cooperare se non altro, a far sì che per ora si conceda almeno tassativamente per un determinato numero di ordinandi, per es. 20, o 30. Si andranno di poi chiedendo le proroghe di questo indulto, sinchè scorso un certo tempo la concessione diverrà perpetua e stabile.
Libera Chiesa in libero Stato. - Questa solenne utopia, utopia delle utopie, io negoziai fra le altre col Card. Vicario, e vado negoziando con altri ancora in favore delle sue Costituzioni, per provare che qualora si verificasse questa impossibile segregazione di enti, Chiesa e Stato, lo Stato volendo usufruttuare di tutti i suoi uomini atti alla guerra, renderebbe impossibile l'ordinazione dei chierici, salvo che in quel ristrettissimo numero assegnato ad ogni diocesi. Or come potrebbero i Vescovi occuparsi degli alunni del suo Istituto? E l'istituto come potrebbe sussistere, se alle pastoie che pone lo Stato, vi si aggiungessero le pastoie con cui lo lega la Chiesa? Altronde ammesso una volta il privilegio di ordinare i giovani alunni indipendentemente dai Vescovi e stando nel fatto che gli alunni del nuovo Istituto sono o Italiani o esteri, l'Istituto accomodandosi alle circostanze accetterà in preferenza i corsi, a mo' d'esempio, i maltesi, i pontificii ed altri, [740] li educherà, ne farà buoni sacerdoti, non soggetti per difetto di nazionalità alle leggi d'Italia, e intanto di questi nuovi ministri si gioverà la religione in Italia e fuori, e questo Istituto con tal metodo darà alla Chiesa e alla società liberi cittadini e santi ecclesiastici, grandemente utili al benessere d'amendue.
Supra animadversiones. - Nei fogli da V. S. rimessi al Card. Vicario super animadversiones non ho veduti notati due recentissimi istituti che hanno goduto e godono del privilegio di cui trattasi. Il primo è la Congregazione dei preti detti Pallottini, a' quali il Card. Lambruschini ottenne dal Papa Gregorio XVI questa facoltà, vivendo quasi il fondatore, D. Vincenzo Pallotta. L'altro è la Congregazione Polacca de' Sacerdoti della Risurrezione, istituita in Roma nella chiesa e casa di S. Claudio de' Borgognoni, a cui si è conceduto l'indulto di ordinare dieci o dodici chierici, indulto che va poi prorogandosi e rinnovandosi mano a mano. Queste due Congregazioni non hanno voti solenni, le loro Regole o Costituzioni non sono ancora formalmente approvate dalla S. Sede. Ora se in meno gravi e urgenti circostanze di tempi non ha dubitato la Santa Sede di concedere cotale indulto, come potrebbe convenientemente negarlo all'Istituto dei Sacerdoti di S. Francesco di Sales, che sorge fra tante procelle politiche e religiose ond’è menata al presente l'Italia? Si hic et ille, cur non ego?
Mons. De Falloux. - Avverta che Mons. De Falloux, Segretario della Disciplina Regolare, è molto avverso in genere, come io a voce già le accennai. Una sera io impresi a combattere alcune sue proposizioni presente un Cardinale. Anche avverso mostrossi Mons. Monaco La Valletta, Assessore del S. Officio. La S. V. prudentemente si giovi di queste notizie per valersene all'occasione, ma con somma riservatezza. E basti su ciò.
Debbo adesso interessare la S. V. di altri particolari.
La Principessa Odescalchi, da me visitata sono varie sere per un affare del mio ufficio, mi parlò della S. V. con tanto trasporto. Mi pregò a salutarla ed ossequiarla e a dirle che la sua sorella è molto grata alla S. V. di ciò che ha fatto per l'anima del suo figlio testè morto in Francia. La detta buona signora mi ha mostrato desiderio di veder qualche lettera da V. S. promessale. Io non ho mancato di scusarla asserendo che attualmente trovasi la S. V. occupatissima. Se può scriverle una riga ed includerla in qualche lettera a me diretta, potrò io stesso recarmi a farne la consegna a sì pia e rispettabile signora che tanto lo stima.
Il Ritratto. - Non ho potuto frapporre alcuna osservazione, intorno alla pubblicazione del ritratto di V. S. perchè già eseguito da 20 e più giorni. Può essere sicura la S. V. che io godo sinceramente d'ogni cosa che possa tornar utile al di lei Istituto e ai santi desiderii che [741] l'animano. Il timore che io divideva coll'ottimo Mons. Manacorda su questo proposito era ed è parto dell'amore. Era ed è dettato dalla prudenza necessaria a' tempi e agli uomini da cui siamo menati. Ma voglio sperare di cuore che omnia cooperentur in bonum.
Il Cardinal Antonelli è in istato di salute lodevolissimo e può dirsi come quasi guarito. Me lo assicurava questa sera un Cardinale, che oggi lo ha veduto nel ritorno dal passeggio. Laus Deo!
Mons. Manacorda ha sofferti gravi dispiaceri senza meritarli. Egli è alla S. V. attaccatissimo. Ha bisogno di una parola di conforto. Per la stima che fo' di lui, prego la S. V. all'insaputa di lui, che gli mostri gradimento per risarcirlo in qualche parte de' disgusti ricevuti dal lato del C. V. ospite di V. S. Conosce troppo bene la S. V. che anche i valenti uomini vanno talvolta soggetti ad errare; nè ciò toglie per nulla l'alta stima dovuta all'ottimo sig. C. Homines sumus.
Letture Cattoliche. - Con piacere ricevetti e lessi i due libriccini delle Letture Cattoliche: cioè Il Centenario di S. Pietro e il S. Giuseppe. Desidero sapere se e quale cosa io debba per questi libri e pei seguenti.
Varie pie persone. - Sono pressato ogni giorno per raccomandare alle orazioni di V. S. e della sua famiglia le persone che io qui le presentai in mia casa: 1° la signora Sofia Frigiotti che non può comunicarsi per l'asma che la soffoca. 2° il sig. Gio. Battista De Dominicis curvo nella spina dorsale, la cui moglie ha promesso, come le accennai, una larga offerta se vedrà il suo marito libero da tale mostruoso incurvamento di tutta la persona. 3° la signora Elisabetta Forti, moglie del cav. Forti, cieca d'ambedue gli occhi, che promette egualmente larga offerta se ottiene la vista. 4° Finalmente le ricordo me stesso e la buona Agnese e tutti della mia famiglia che V. S. qui in mia casa conobbe. Non lasci di pregare per noi.
Il Card. Vicario. - Oggi nel pranzo dato da S. Eminenza per la consecrazione di Mons. Franceschini, Vescovo di Macerata, lo stesso Eminentissimo chiamatomi da un lato mi ha consegnato e la lettera scrittagli da V. S. e l'attestato di lode e di raccomandazione rilasciato il 28 marzo 1867 da cotesto Mons. Giuseppe Zappata, Vicario Capitolare in favore della S. V. e del suo Istituto per farne a di Lui nome quell'uso che io stimassi più opportuno. -Io credo di trattenerlo nel momento presso di me, perchè sibbene in detto foglio si dia cenno degli alunni ecclesiastici che escono dal detto Istituto, e si raccomandino al S. Padre per quelle grazie che stimerà ad essi opportune, non si parla però ex professo dell'indulto circa la S. Ordinazione. Per conoscenza qualora possa sperarsi dal nuovo Arcivescovo Riccardi, col concorso di Mons. Cerruti, Vescovo di Savona, una commendatizia ad hominem e possa questa colla commendatizia di due o più Vescovi presentarsi alla Sacra Congregazione, l'attestato del Vicario Capitolare servirà a decorazione di quelle e farà esso pure la sua forza; ma [742] da se solo poco valore potrebbe ora avere, e forse potrebbe anche nuocere. La causa per ora non si propone: finchè abbiamo tempo faccia la S. V. ciò che le ho accennato giovandosi di Mons. Cerruti e vedrà del resto che tutto riuscirà secondo i desiderii. Lasciamo che sia in Roma il Card. De Angelis ed il Card. Corsi, da cui andrò a parlare quanto bisogna. Facciamo che scrivano e l'Arcivescovo di Torino e quello di Savona ed altri quanti Ella può averne in suo favore. In questo frattempo ponga in pronto la S. V. e mi spedisca le copie sopranotate delle Regole e allora che tutto sarà pronto e che l'opinione dei Cardinali e del S. Padre sarà ben apparecchiata, si darà subito corso alla proposizione della causa, che spero con fiducia avrà esito felicissimo.
La situazione presente d'Italia e di Francia va peggiorando di giorno in giorno. Iddio protegga noi tutti e la sua Chiesa, e faccia che tutto torni a comun bene della religione e della società sì malmenata fin qui. Ho presente ogni giorno nella Santa Messa la S. V. e tutto il suo Istituto, ma la S. V. preghi con impegno per me, secondo le mie intenzioni che tornerebbero forse utili anche al suo Istituto, se il Signore si degnerà d'ascoltarle.
Fra Bonaventura di Modena, Superiore Generale degli Ospedalieri della Concezione, che trovasi ora a fondare un nuovo Ospedale in Cento presso Bologna, nella lettera di colà scrittami mi prega di avvisare la S. V. che Egli non trovatosi qui a Roma quando fummo a visitare il casino di Pio V, desidera di venirla a visitare in Torino. Gli ricordi la S. V. il Crocifisso recatole da me in dono a di lui nome, nè dimentichi di fargli sapere che le ho scritto questo cenno. Vedrà che buon religioso è Fra Bonaventura.
Con tanti saluti ed ossequi miei e del Cardinal Consolini che sempre le ricorda il Marchese Luigi, suo fratello, infermo in Sinigaglia, di tutti di mia casa, e specialmente di Agnesina, che un giorno giuocò un terno di 10.000 con animo di darne metà al suo Istituto e che poi nulla ha vinto, Le bacio con affetto la Sacra Mano e con riverente stima mi raffermo,
Questa lettera, splendida prova della deferenza che molti eminenti prelati avevano pel Venerabile, quantunque lo animasse a sperar bene, non poteva però fargli credere che si sarebbero superate con facilità le opposizioni. Ma D. Bosco era tranquillo aspettando che la Divina Provvidenza disponesse [743] degli eventi come meglio avrebbe stimato per la sua gloria.
Nello stesso tempo gli recava somma gioia il pensare alle feste solennissime che si preparavano in Roma, e spronava i suoi amici a recarsi in pellegrinaggio alla tomba di S. Pietro.
Al Teologo Appendino Giovanni, Priore a Villastellone, scriveva:
Desideravo anch'io di parlare con V. S. carissima, ma non si potè; ciò spero che sarà fra breve; del resto venga a passare un giorno con noi e le darò una medaglia benedetta dal Santo Padre.
In qualunque momento Ella ed altri suoi amici andassero a Roma, io farei volentieri lettera d'accompagnamento a persona di speciale relazione nell'alma città.
Buone feste, caro sig. Teologo, Dio benedica Lei, le sue fatiche, la sua famiglia; preghi per me e per i miei poveri giovanetti, e mi creda sempre nel Signore,
In quei giorni era stato spedito agli associati delle Letture il fascicolo di aprile che portava il titolo: - Novelle e racconti tratti da varii autori ad uso dei giovani. Gli autori erano Silvio Pellico, Cesare Cantú, Giuseppe Manzoni.
Oltre svariati racconti vi si leggevano otto aneddoti sulla ammirabile carità di Pio IX esposti dallo scrittore francese signor Alfonso Baleydier. In capo al fascicolo si leggeva questa nota: “Nella speranza di poter dare una vita intera di Colui che il Mondo Cattolico venera come Sommo Pontefice e suo Pastore, cominciamo a preparar l'animo dei i lettori con alcuni fatterelli divoti e speciali, di cui è piena la sua gloriosa vita. Possa questa tenue nostra fatica tornar gradita a tutti e specialmente alla gioventù. Tutto a maggior gloria di Dio! Vivete felici”. [744] Ma lo zelo di Don Bosco per esaltare Pio IX con animo sincero, era eguale all'umiltà e all'amore per la verità nel Santo Pontefice.
Scopo della presente è dirle che Mons. Berardi mi significò non andare troppo a genio del S. P. che si stampino sul suo conto aneddoti, o fatti che si raccontano e che i giornali hanno inventato e pubblicato, che non sono veri; che perciò desidererebbe che V. S. Ill.ma e Rev.ma non ammettesse nelle Letture Cattoliche tali pubblicazioni.
Comincio a sentire l'effetto delle preghiere di V. S. Ill.ma e Rev.ma e forse anche di quelle che m'ingiunse di fare in famiglia .Prego V. S. Ill.ma e Rev.ma a voler esaminare innanzi a Dio questa faccenda e dirmi quello che le sarà inspirato.
Ieri, fu deciso l'affare della Tipografia Camerale, che ad onta de' miei ripetuti rifiuti, si vuole assolutamente affidata alla mia direzione, contemporaneamente all'amministrazione sociale di quella di Propaganda Fide. Feci interrogare il S. Padre se era veramente sua volontà; egli mi fece rispondere che era sua ispirazione, che egli mi aveva suggerito a Mons. Ministro di Finanze, che accettando gli farò piacere, ma che mi lascia la libertà non intendendo di comandarmelo. Ieri fu licenziato il presente Direttore sig. Salviaccio e fui avvertito dal Direttore dei Beni Camerali, che nella prossima settimana verrà la nomina officiale con partecipazione del fatto all'Em.mo Cardinale Prefetto Generale di Propaganda Bernabò.
L'onorario è molto grazioso: 60 scudi al mese: ma come domerò io tutti quei 70 circa impiegati in quella Tipografia abituati a lavorare ad uso impiegati? Quali saranno le odiosità, le invidie, le gelosie, le calunnie che me ne verranno? Reggerà Pierotto? Riuscirà a fare quel bene che ne spera e ha diritto pretendere il S. P., l'ottimo, il carissimo Pio IX?
Mi dica a titolo di carità quello che Iddio ispira a V. S. Ill.ma e Rev.ma, che io farò una Comunione secondo la sua intenzione per ringraziamento, conservandone però eterna la riconoscenza.
Il consiglio di D. Bosco fu che ottemperasse all'invito dei Papa. Per conto suo aveva provato gran pena nell'aver fatto involontariamente cosa non accetta al S. Padre, che [745] gli dava in quei giorni una prova segnalata di affetto e di stima. Leggiamo nelle nostre memorie colla data del 24 aprile 1867.
Due illustri e ricchissime persone di Marsiglia, marito e moglie, avevano tentato tutte le risorse dell'arte medica per far guarire l'unico loro figliuolo, erede delle loro sostanze, che a stento reggevasi in piedi ed era sordo e muto. Aveva da 4 a 5 anni. I genitori desolati lo portarono a Roma, speranzosi che la benedizione del Sommo Pontefice avrebbe operato un miracolo. Ma il Signore e la Madonna avevano scelto per medico di questo piccolo incurabile il nostro D. Bosco.
Pio IX lo benedisse, dando però consiglio ai parenti di condurlo a Torino da D. Bosco, che in Roma aveva poco prima guariti tanti e di anima e di corpo. E que' buoni signori comparvero nell'Oratorio, esposero a D. Bosco la loro disgrazia, e gli presentarono l'unico pegno così infelice del loro amore. La cosa era grave, ma la Madonna doveva coadiuvare il suo Servo, il quale dopo averla invocata, benedice il fanciullo, quindi lo prende per mano e lo invita a camminare. Il fanciullo cammina spedito da sè! Allora gli passa dietro alle spalle e batte leggermente le mani palma a palma; e il fanciullo si volge a lui in atto di chi ha udito. Con voce sommessa gli dice: - Chiama papà e mamma. - E il fanciullo con prontezza: - Papà e mamma! - Era guarito! Chi può esprimere l'ammirazione dei genitori e la loro gioia per simile prodigio? Per l'addietro il bambino non aveva mai proferito una parola, e chiamato ad alta voce non aveva mai dato segno di udire. La grazia era proprio segnalata: ora egli camminava, udiva, parlava distintamente. Quei signori fecero una vistosa offerta per la Chiesa, e passando nell'anticamera, trasecolati e piangenti per la contentezza, dissero al segretario e ad altri che ivi si trovavano, come invidiassero la fortuna di coloro che abitavano nell'Oratorio vicini a D. Bosco. [746] Testimoni di questo fatto furono D. Berto e D. Rua, il quale conosceva anche il nome di quella famiglia.
Ciò accadeva il mercoledì dopo la festa di Pasqua, la cui santa allegrezza era stata temperata dal lutto. Si legge nel necrologio scritto da D. Rua:
Il 23 aprile muore Finino Gio. Battista, da Cisterna, in età di 60 anni. Era uomo molto pio. Passava le ore intere avanti il SS. Sacramento in fervorose preghiere. Non contento delle ore libere della giornata dedicava alla preghiera eziandio parte della notte. Se non gli era permesso stare in chiesa dopo le orazioni della Comunità, si tratteneva a colloquio colla SS. Vergine avanti la statua che trovasi sotto il porticato. Rassegnato nella lunga e penosa malattia, morì coi Sacramenti della Penitenza ed Estrema Unzione.
Un altro lutto aveva colpito l'Oratorio il giorno prima. A Lanzo era morto di crepacuore, per gravissimo dispiacere di famiglia, il giovane Giulio Gladini, colà mandato da Don Bosco perchè trovasse tra quei monti qualche svago che lo togliesse da una desolante atonia.
Intanto era partito per Roma il Cav. Oreglia acciocchè procurasse la diffusione delle Letture Cattoliche, degli elenchi dei premi vinti e dei catalogi della libreria dell'Oratorio. Egli doveva trattare coi giornalisti cattolici, coi librai, cogli incaricati delle associazioni, coi principali benefattori, anche nelle città per le quali sarebbe passato. A Firenze aveva preso alloggio dal Barone Arnaudi e si era trattenuto coll'Arcivescovo, che per oltre un'ora lo volle sentir parlare di Don Bosco.
Il 23 aprile scriveva a D. Rua il fatto e il da farsi nella tipografia; le commissioni da eseguirsi e le spedizioni dei doni vinti e dei libri promessi; i saluti di Mons. Frescobaldi, di D. Campolmi, della Principessa Boutourlin, della Contessa Soranzo e di molte altre persone che s'interessavano delle Opere Salesiane: e diceva delle loro speranze di poter rivedere nel maggio D. Bosco a Firenze. Chiedeva pure notizie dell'affare [747] delle Letture Cattoliche col Vescovo d'Ivrea, allora non ancora concluso.
D. Bosco gli fece rispondere: “Approviamo l'operato; coraggio; noi preghiamo; ma si curi la sanità”.
Il giorno 26 il Cavaliere era a Bologna presso il Padre Lanzerini, Fondatore dell'Ospizio dell'Immacolata in via Galliera, e il 30 faceva conto d'essere a Roma. Fra i molti, lo aspettava D. Alessandro Aicardi, il quale fin dal 3 aprile gli palesava il suo desiderio di venir incaricato di far commissioni per qualche nuovo Vescovo del Piemonte, notando: “So da canale sicuro avere il Rev. D. Bosco avuto molta influenza, e ben meritata, presso il Santo Padre, l'Em.mo Antonelli e Mons. Berardi, per la nomina dei Vescovi degli antichi stati sardi”.
Questa lettera dal Cavaliere era stata consegnata a Don Bosco, cui trasmetteva anche un altro foglio a lui scritto dal Vicario Generale e Capitolare di Fossano, Mons. Guglielmo Marengo, il 20 aprile 1867.
La preziosa lettera di V. S. Ill.ma, pervenutami ieri, mi ha grandemente commosso il cuore e ravvivata in me la speranza di ottenere fra poco nominato il Vescovo di questa vacante diocesi. L'assicuro, sig. Cavaliere, che è aspettato col più vivo desiderio, sia dall'intero clero, sia dai secolari. Ieri quando ebbi a comunicare la notizia, fattami gentilmente pervenire dalla S. V. Ill.ma al Capitolo e al Clero, mi hanno manifestati i più teneri sentimenti di gioia.
Spero vivamente che i buoni e santi uffici dell'ottimo D. Bosco rimuoveranno le lievi difficoltà che in Firenze potessero ancora mettere qualche impedimento alla nomina del Vescovo di questa diocesi...
La prego ad essere compiacente di esternare al Rev. D. Bosco la mia più sentita riconoscenza, non che quella del Clero, del Capitolo e di tutti i diocesani.
OCCUPAZIONI tanto gravi non distoglievano dai giovani i pensieri salutiferi di Don Bosco. Abbiam visto che aveva fatto scrivere da Roma com'avesse visitato l'Oratorio, osservando ciò che si andava facendo da ciascuno; e quando fu di ritorno seppe dire in privato ai singoli quale condotta, anche morale, avessero tenuta nei due mesi della sua lontananza. Ma se li aveva sorvegliati lontano, in modo singolare li sorvegliava ora essendo vicino. Nelle nostre memorie di quest'anno troviamo notati alcuni fatti simili a quelli che erano già avvenuti negli anni antecedenti e che vedremo ripetersi ancora.
Sembra impossibile che D. Bosco avesse continuamente sott'occhio la sua numerosa comunità, sia quando radunavasi [749] in un sol luogo, sia quando era sparsa qua e là e in modo da non perdere di vista nessun alunno. Potendo, la sera egli andava a recitare le preghiere in comune, ma bene spesso doveva trattenersi in refettorio per udire qualche rapporto e dare qualche ordine, ovvero rimanere o salire in camera per finire una lettera. Or bene: più volte disse a' preti e a' chierici che si trovavano con lui in tempo delle orazioni: - Va' a vedere là, nel tal sito del parlatorio: ci sono alcuni che invece di pregare si divertono; vicino al muro, in quell'angolo, si dorme, si chiacchiera. - E chi andava trovava che era vero ed avvertiva que' dissipati.
Altre volte, non avendo nessuno da mandare, scendeva egli stesso dalla sua camera e attraversando la folla dei giovani inginocchiati andava diffilato ad ammonire que' tali che non pregavano. Anche in altri casi, e il suo modo di parlare e la certezza con cui additava il tempo, il luogo in cui avveniva questo o quel disordine, tutto faceva credere che egli vedesse quelle cose collo spirito, come le avrebbe vedute cogli occhi del corpo.
D. Antonio Riccardi narra che, ancor giovanetto, un sabato a sera essendosi andato a confessare da D. Bosco, questi finita la confessione gli disse: -Va' sulla scala in cima del fabbricato degli artigiani; vi è il tale dei tali che fuma; chiàmalo e digli che pensi a confessarsi. - Andò: la scala era allo scuro, tuttavia salì. A un certo punto incominciò a sentire l'odore del fumo di tabacco. Egli si fermò temendo che l'artigiano, grande e robusto, si sdegnasse per essere sorpreso in aperta violazione del regolamento; e lo chiamò per nome. Tutto rimase in silenzio. Chiamò di nuovo e nessuna voce rispose. Allora, benchè a malincuore, procedette fino alla cima. L'artigiano era seduto per terra sul pianerottolo e continuava a fumare. Riccardi gli disse in fretta: - D. Bosco ti chiama perchè tu vada a confessarti! - e senz'altro scappò via, temendo di essere percosso, e si nascose dietro un pilastro per [750] osservare che cosa avrebbe fatto quel tale. Non tardò a vederlo attraversare il cortile e andare con serietà a confessarsi.
Ma il suo mezzo favorito per far bene all'anima dei giovani era il prevenire le mancanze, coll'avvisarli continuamente, consigliarli, dir loro una parola all'orecchio, adoperando un'amorevolezza tutta paterna.
Ad un giovane che domandava in qual modo avrebbe potuto progredire nella via della perfezione, rispose: - Ubbidienza cieca; osservanza di tutte le regole della casa; dar sempre buoni consigli ai compagni; far ogni giorno un poco di meditazione; tutto a maggior gloria di Dio, sia che si mangi, che si beva, che si diverta, che si studi, che si riposi ecc. E poi un S e un T: che vuol dire: parlami sovente delle cose dell'anima e palesa sempre tutto; cioè confidenza illimitata nel Superiore. - E gli aggiungeva di conservare il silenzio, cioè a dire non perdersi in discorsi frivoli, di lamento, di mormorazione, di critiche o di lode propria.
Talvolta soleva esortare i giovani ad esporgli anche per lettera ogni loro pena, o mancanza commessa e gli stessi timori che avessero di essere in qualche maniera in poco buona vista presso i Superiori. Un giorno uno fu da lui avvisato di combattere la propensione che aveva ad irritarsi internamente per le disposizioni prese dai Superiori, e gli accennò le cause di quel suo stato inquieto; e il giovane scrisse una letterina a D. Bosco, conchiudendo con queste parole: “Glielo dico di cuore: io non voglio più altro se non tutto quello che vuole lei, o padre amatissimo in Gesù Cristo”. E D. Bosco dopo cena nel refettorio, vistòselo vicino gli diceva all'orecchio: - Ho letto la tua lettera e mi piacque molto. Io dal mio canto nulla risparmierò per giovarti. Si vede che io intendo te e tu intendi me. Ho indovinato?
- Solo ti raccomando di aver cura della tua sanità.
Un giovanetto che si lasciava vincere dalla melanconia, [751] essendo andato dopo cena a baciargli la mano: - Oh, mio caro! - gli fece D. Bosco ed abbassò il capo vicino a quello del giovane, come in attesa che gli dicesse confidenzialmente qualche cosa. E il giovane:
- Che cosa vuole le dica? Mi dica lei qualche cosa.
Ed egli: -Tu hai de' fastidii, sei malinconico, e vedendoti melanconico, divento mesto io pure. Invece, se tu sei allegro, lo sono anch'io. Io vorrei che tu fossi sempre lieto, che ridessi, che saltassi, per poterti fare felice in questo mondo e nell'altro.
Un giorno nel quale sapevasi nell'Oratorio come Don Bosco fosse impensierito per gravi contraddizioni, il Servo di Dio si avvicinò ad un tale afflitto per bazzecole di comunità, e gli disse: - Tu puoi contribuir molto a farmi stare allegro. - Allo stesso, che il giorno dopo essendo andato ad aiutarlo a svestire gli abiti sacri, dopo la messa, baciavagli la mano, diceva sorridendo: - Coraggio e sta' allegro. Dice S. Filippo Neri che la malinconia è l'ottavo peccato capitale.
Ad uno spirito altero, offeso per una disposizione dei Superiori a suo riguardo che sembravagli umiliante e contraria alle sue inclinazioni: -Pace e coraggio, ripeteva! Di certo il tuo stato presente non durerà. Tutto passa.... e facciamoci qualche merito.
Ad un altro, vessato da varie tentazioni, dava il consiglio: - Guarda sovente il Crocifisso, che deve essere lo stendardo della tua salute.
Vedendo ridere chi era di naturale serio, ma agitato dagli scrupoli, disse:
Temi pur, ma come figlia |
Ridi pur, ma il tuo sorriso |
Che osa al padre alzar le ciglia, |
Gioia sia di Paradiso; |
Sia un affanno pien d'amore, |
Sia contento d'alma pura |
Un sospiro di virtù. |
Che sta ai piedi di Gesù. |
Avendo intorno a sè una bella corona di giovanetti, chiese ad uno: [752]
- Ibi... ubi! che cosa vuol dire? - E spiegava: - IBI fixa sint vestra corda, UBI vera sunt gaudia: cioè camminate coi piedi per terra e col cuore abitate in cielo.
Dopo pranzo, sedendo in refettorio, estraeva talvolta dalla saccoccia il Breviario o l'Imitazione di Gesù Cristo, e facendo aprire dai giovani che lo circondavano qualche pagina a caso, invitavali a leggere la prima massima in cima del foglio. Si davano singolari combinazioni di sentenze, talora adattate all'individuo che leggevale, e talora applicate da Don Bosco stesso apertamente. Un alunno sbadato nell'adempimento de' suoi doveri, aperto il breviario lesse nella prima riga il versicolo del libro dell'Ecclesiaste: “Tempus plangendi: tempo di duolo”. Don Bosco lo fissò in volto, poi gli disse una parola all'orecchio e l'altro rimase tutto pensoso.
Con garbo sapeva dare anche un rimprovero. Venendo a casa, incontrò per via un suo giovane prete, il quale, dopo aver discorso di molte cose, finì col criticare il modo di predicare dell'abate Bardessono. D. Bosco lo interruppe e gli domandò:
Il pretino rispose di no. E D. Bosco: - Ebbene: aspetta che tu abbia incominciato a predicare e poi, se ti basta l'animo, criticherai l'abate Bardessono!
Ai sacerdoti, tanto se allievi dell'Oratorio quanto a quelli dei seminarii, aventi cura d'anime, raccomandava che esortassero i loro fedeli alla Comunione frequente in ogni circostanza di prediche, novene, quaresimali, catechismi, fervorini, confessioni, conferenze. I buoni frutti dimostravano la bontà della raccomandazione. Un giovane, che divenuto parroco di un grosso centro, si attenne ai suoi consigli, si accinse all'opera; ebbe lotte da sostenere, dai preti e dai liberali, ma in fine potè aver più di 200 comunioni tutti i giorni e 1000 alla domenica. [753] Alle sue parole dava un gran valore l'efficacia delle benedizioni.
Il Chierico Carlo Giachetti era da due anni tormentato dal mal di denti; e il terzo anno nel mese di aprile i dolori si erano fatti acerbissimi. Tutto quello che l'arte medica suole suggerire in tali casi erasi usato senza alcun esito. Il povero giovane era ridotto a tal punto, che se il giorno gli pareva orrido, eterna e sciaguratissima era per lui la notte, in cui non poteva chiudere l'occhio al sonno che ad istanti interrotti e brevissimi. Da tre giorni non aveva preso alcun alimento. La sera del 29 aprile egli gemeva senza posa e mandava grida strazianti. I compagni, mossi a compassione e disturbati nel loro riposo, andarono ad avvisare D. Bosco del suo deplorevole stato. D. Bosco si recò a lui insieme con D. Francesia e D. Cagliero, e chiestogli come si sentisse ebbe in risposta:
- Non so dire quanto io soffra e non so se pur anche nell'inferno stesso si soffrano dolori più crudeli di quelli che soffro io.
- Hai confidenza in Maria Ausiliatrice?
- Oh sì! se lei mi benedice, spero che la Madonna mi otterrà la guarigione. - D. Bosco, esortati gli astanti che circondavano il letto del sofferente a dire una Salve Regina, mentre tutti erano inginocchiati gli diede la benedizione. Non aveva ancor finito di pronunciare la formola che il giovane chierico ebbe calma, e rimase così profondamente addormentato che qualcuno degli astanti lo credette morto. Ma accostato il lume si vide che respirava ed allora si lasciò tranquillo. Dormì senza più svegliarsi sino alla mattina seguente all'ora della levata. Quando si alzò cogli altri compagni, era così perfettamente guarito che pareva non avesse sofferto alcun malanno. Dopo d'allora non ebbe più a soffrire per mal di denti nel corso della sua vita, che terminò circa dieci anni dopo per acuta malattia di tifo. [754]
In questo anno un certo Patarelli divenne all'improvviso mezzo ebete, smemorato, sicchè sembrava fatuo. Durò 15 giorni questo suo stato, finchè D. Francesia, che era direttore degli studi, vedendo come non vi fosse rimedio e bisognasse condurlo a casa, pensò di presentarlo a D. Bosco e lo accompagnò in sua camera. D. Bosco lo fece inginocchiare e lo benedisse. Patarelli subito si riscosse e, come risvegliato e rivenendo in sè, esclamò: - Ove sono io?
- In mia camera, gli rispose D. Bosco; e perchè sei qui invece di andare a scuola?
- Ma non so neppur io come abbia fatto a venir qui.
- Dunque va' a scuola, perchè è già suonata.
E il giovane tutto allegro corse a scuola. Era perfettamente guarito!
Da Tortona il Can. Arciprete Giuseppe Maria Cantù Cancelli il 15 aprile 1867 scriveva al Ven.mo e Car.mo Don Bosco:
“Io la ringrazio con tutta l'anima dell'affettuosa lettera che sì degnò di indirizzarmi li 6 del corrente mese... Il caro Vic. Remotti da alcuni giorni prova notabile miglioramento dai gravi e lunghi suoi malori. Giovedì scorso ebbe la consolazione di poter fare la S. Pasqua co' suoi colleghi capitolari alla Messa Pontificale del Venerato nostro Vescovo. Oh quanto efficace e pronto fu mai l'effetto della preghiera pel detto infermo, di V. S. carissima e dei suoi giovani! Ai caldi ringraziamenti beneficato aggiungo anche i miei vivissimi e ci raccomandiamo entrambi a Lei, perchè ci continui la bella e sì fiorita carità di sue orazioni, e le presentiamo i nostri più affettuosi rispetti, baciandole con amor figliale la mano... Non dimenticherà certamente la costruzione della sua chiesa e così V. S. mi otterrà dalla cara Mamma celeste di veder me e la numerosa mia famiglia allogati con sicurezza sotto il pietoso suo manto e preservati dall'irruente diabolica influenza “.
Un antico allievo nel 1888 scriveva a D. G. Bonetti: “La figlia che tengo oggidì vivente era spedita dai medici, i quali anzi avevano detto non rimanerle più che poche ore di vita. Mia moglie a tale annunzio esterrefatta mandò sul momento a chiamare D. Bosco, perchè venisse a benedire l'inferma e a [755] pregare per lei. Oh prodigio delle preghiere di D. Bosco! Mia figlia guarì sul momento e il medico, dopo averla esaminata, esclamò pieno di meraviglia: - Questo è un miracolo!”
Sul finire del mese di aprile o in principio di maggio del 1867, D. Bosco fu chiamato a Vercelli per visitare una Marchesa ammalata, la quale chiedevagli la sua benedizione pronta a dare 500 lire per la Chiesa se fosse guarita. Da più mesi, presa dal male, era divenuta quasi incurabile, stremata di forze, giacente in un letto. D. Bosco andò, benedisse l'inferma e quindi uscì per la città a sbrigare alcune faccende. Non era ancor molto lontano dall'abitazione della Marchesa, quando ode una voce che lo chiama e sente una mano che lo tocca sulla spalla. Si volge e vede il Marchese il quale, estremamente commosso, gli dice come la sua signora lo pregasse a ritornare in casa.
- Sta forse peggio? - chiede D. Bosco.
Rientrato, trova una signora la quale aspettavalo in sala, che gli chiede se cercasse della Marchesa. Don Bosco rispose di si: - Ebbene, quella soggiunse, andiamola a vedere sul suo letto.
Don Bosco giunge nella camera e con grande sua sorpresa vede il letto vuoto. Quella signora, che era la Marchesa in persona: - Conosce la Marchesa? gli disse:
- Proprio io: ecco i 500 franchi per la sua Chiesa dedicata a Maria Ausiliatrice!
D. Rua ne fece testimonianza; e D. Bosco stesso, esaltando la Madonna, narrava più volte il fatto miracoloso.
Ma non meno sorprendente era in lui l'intuito col quale giudicava se un infermo sarebbe guarito o meno. Racconta Giovanni Bisio: “Accompagnai D. Bosco a visitare una [756] signora ammalata, la quale però non era così grave da far temere la morte. Dopo che l'ebbe confortata e benedetta, la famiglia lo interrogò per sapere se la madre sarebbe guarita. - Preghiamo, preghiamo! -rispose semplicemente il Servo di Dio. A queste parole e al modo col quale furono pronunciate, tanto io che la famiglia rimanemmo persuasi che l'inferma dovesse morire. E infatti morì dopo otto o dieci giorni”.
Giuseppe Brosio, il bersagliere, ricordava: “Io nel 1867 aveva in casa una figlia inferma, che non era ancor stata cresimata. Io desiderava tanto che gli fosse amministrato questo sacramento; ma il curato asseriva non essere ciò necessario perchè la ragazza era troppo giovane. Esposi allora il mio desiderio a D. Bosco e il domani aveva già Mons. Balma in casa mia, che amministrava il sacramento alla piccolina. Se D. Bosco non avesse prevista la sua morte, non si sarebbe affrettato a soddisfare la mia preghiera”.
Lo stesso Brosio narrava ancora:
“Un giorno accompagnai D. Bosco che andava a fare visita ad un prete infermo, che abitava in via Carlo Alberto vicino alla Madonna degli Angioli. Giunti che fummo nella camera dell'infermo, le sorelle del prete supplicarono D. Bosco acciocchè lo facesse guarire. Don Bosco, dopo aver recitata una preghiera e data la benedizione all'infermo, che si affannava molto per timore della morte, incominciava una scherzevole conversazione. Raccontò come un giorno fosse andato a visitare un ragazzo, che stava molto male e che tremava in tutta la persona pel timore di dover morire. Per confortarlo gli aveva detto che lasciasse da banda ogni paura, poichè se moriva sarebbe andato in Paradiso, ove aspettavalo ogni sorta di godimenti, di felicità, di ricchezze, ecc. Il ragazzo, tranquillizzato, gli aveva chiesto se in Paradiso vi erano anche dei pomi d'oro da mangiare. - E sì, gli aveva risposto D. Bosco: - In Paradiso vi è da godere ogni sorta di beni, e vi saranno anche dei pomi d'oro, purchè vi si vada… e per andarvi bisogna star tranquilli, non affannarsi, è rassegnarsi alla santa volontà di Dio.
Si rise per i pomi d'oro, ma D. Bosco nel raccontar questo fatto aveva il fine di far intendere all'infermo come l'affannarsi in quel modo per timor di morire non era cosa profittevole per un cristiano. [757] Usciti di là, non avevamo ancora disceso le scale che D. Bosco si arrestò, dicendomi: - Domani questo infermo sarà morto! - E così fu: eppure non sembrava che il suo male dovesse portarlo così presto alla tomba”.
La Madonna, oltre al rendere efficaci le benedizioni di D. Bosco, operava pur molte grazie colle medaglie. Il Servo di Dio scriveva a Suor Maria Filomena Cravosio, Domenicana, a Mondovì Piazza.
Le benedizioni del Signore scendano copiose sopra di Lei, sopra la signora M. Maria Mantundini e sopra tutte le loro fatiche. Amen. Le mando alcune medaglie benedette dal Santo Padre sotto l'invocazione di Maria Ausiliatrice. Le distribuisca con fede e speriamo molto da chi molto può. La chiesa a questa celeste Madre dedicata va avanti e se Ella continua come ora a concedere straordinari favori, chi noti vorrà approfittarne?
Dio ci conservi tutti per la via del Paradiso. Amen.
Gli effetti salutari della medaglia li sperimentò la stessa madre della Suora, la Contessa Cravosio, la quale scrisse a D. Rua dopo la morte di D. Bosco:
Nell'anno 1867 D. Bosco mi diede una medaglia benedetta con parole rassicuranti: appena messa quella al collo di una mia figlia ammalata, essa ricuperò istantaneamente la salute. Quantunque non tenesse il letto, non poteva nè mangiare, nè digerire, nè camminare, perchè priva di forze. Io stessa le posi al collo la medaglia benedetta ed essendo ambedue piene di fede nella Madonna e nella preghiera di D. Bosco, ho visto la mia figlia acquistare i suoi bei colori, mangiare a pranzo con piacere, digerire senza difficoltà: abbiamo fatto insieme una lunga passeggiata senza soffrirne.
Ma perchè le benedizioni e le medaglie operassero il desiderato effetto, di regola ordinaria D. Bosco esigeva, come altrove è notato, la cooperazione di chi domandava la sanità: [758]
1° Col mettersi in grazia di Dio colla Confessione e Comunione. Gesù prima di guarire il paralitico gli disse: O uomo, sono a te rimessi i tuoi peccati.
2° Col fare qualche opera di carità perchè “allora, dice Isaia, al capo 58, tu invocherai il Signore ed egli ti esaudirà, alzerai la tua voce ed ei dirà: Eccomi a te, quando tu aprirai le tue viscere all'affamato e consolerai l'anima afflitta.”
3° Coll'orazione fiduciosa e perseverante: Petite et accipietis.
L'opera di carità che la Madonna aveva chiaramente fatto intendere di volere era la misericordia verso i giovanetti ricoverati da D. Bosco e la costruzione della sua Chiesa in Valdocco. Anche fuori d'Italia incominciava ad essere noto il volere della Regina degli Angioli e degli uomini, e la signora Maria de Lorette Guttierrez de Estrada, scriveva a D. Bosco da Parigi il 26 aprile 1867:
“... avendo saputo che si fabbrica in Torino un Santuario dedicato a Maria SS. Ausiliatrice gli manda 50 lire e raccomanda alle sue preghiere il padre, infermo gravissimo da tre mesi”.
NEI due mesi dacchè era tornato da Roma, D. Bosco aveva ordinata la ristampa del suo libro pubblicato nel 1856: Vita di S. Pancrazio martire, con appendice sul santuario a lui dedicato vicino a Pianezza. Il suo amore al martire giovanetto e al suo santuario era il principale scopo di questa edizione; ma egli voleva eziandio dare un segno di stima al Rettore della Chiesa. Ricorderà [760] il lettore quel sagrestano dei duomo di Chieri al quale Don Bosco, ancor studente, aveva fatto scuola di lingua latina in modo che potè vederlo vestire insieme con sè l'abito chiericale, e cui in seguito aveva continuato a dar lezioni di filosofia e di teologia. Ora appunto di lui nell'accennata edizione faceva un elogio.
“In questi ultimi tempi codesto santuario fu totalmente ristorato, ornato, abbellito, arricchito ed ampliato, mercè le cure dello zelante Rettore sig. Carlo Palazzolo. Esso ha qui regolare dimora. Lungo l'anno fa catechismo e scuola ai fanciulli del vicinato che con difficoltà potrebbero recarsi al paese di Pianezza; celebra ivi tutti i giorni la Santa Messa; dà la benedizione agli avventori che vengono a richiederla; si presta prontamente per le confessioni. All'occasione poi della festa procura che colà si trovi abbondante numero di confessori e di altri sacerdoti per soddisfare allo straordinario concorso di fedeli, che o per necessità o per divozione sogliono ogni anno intervenire a questo santuario al 12 maggio; giorno in cui il nostro Santo riportò il martirio, avvenne il prodigio che diede origine al Santuario, e in cui la Chiesa Cattolica ne celebra la festa”.
Man mano faceva ristampare anche altri suoi libri e componevane dei nuovi, incoraggiato in questa santa impresa dal Sommo Pontefice. Pio IX era tutto per lui ed egli ne conosceva intimamente i pensieri. Se avesse avuto il menomo dubbio che alcunchè di ciò che aveva scritto non fosse secondo la verità cattolica e il rispetto e l'amor suo al Papa, avrebbe riprovato e condannato non uno ma tutti i suoi libri ed avrebbe desistito dallo scrivere.
Tale era sempre la sua ferma volontà, mentre alcuni suoi contradditori di Roma, che stimavansi offesi da lui, si erano coalizzati con una combriccola interessata delle provincie della bassa Italia e d'altre parti contro le Letture Cattoliche. Era nell'intenzione di costoro di far condannare dalla S. Congregazione [761] dell'Indice il Centenario di S. Pietro, recando uno sfregio gravissimo al suo autore, e di giovarsi di questa condanna per gettare il dubbio su tutte le altre opere stampate da D. Bosco. La passione offuscava i loro giudizii. Certamente non avevano potuto leggere e ponderare in sì poco tempo i 154 fascicoli che già componevano la collezione delle Letture, e neppure avevano osservato i molti nomi di autori dotti che li avevano scritti, nè posto mente che erano destinati per il popolo, con stile e modi studiatamente familiari, perchè piacessero e fossero intesi.
Di questa trama aveva scritto a D. Bosco qualche fido amico, ed a lui erano anche pervenute varie lettere di note persone, contenenti espressioni per lui offensive; ed egli con meditata prudenza le distruggeva man mano che gli arrivavano. Ciò faceva per riguardo agli stessi scriventi, poichè non voleva che l'onore di costoro restasse compromesso, ed anche perchè non era bene che quegli scritti cadessero in mano di qualcuno dell'Oratorio, per tema non si accendessero animosità, causate dal grande amore che i suoi figli gli portavano.
Eppure mentre tanti e santi sacrifizi per riscattare la proprietà delle Letture Cattoliche, come abbiamo esposto, stavano per essere coronati, il demonio tentò di colpire in altro modo quella provvidenzale pubblicazione; e dopo molti trionfi il Signore permetteva che anche pel Venerabile venisse un'ora di grave tribolazione. Omnes qui placuerunt Deo, per multas tribulationes transierunt (Iudith 2).
Prima ancora della sua partenza da Roma que' signori avevano deferito alla Sacra Congregazione dell'Indice, perchè fosse esaminato il fascicolo del Centenario, lodato dallo stesso Sommo Pontefice.
Alla S. Congregazione la tendenziosa domanda non rimase inosservata e il libro fu dato in esame ad un Consultore, il Canonico Pio Delicati, Professore di Storia Ecclesiastica [762] all'Apollinare, il quale il 21 marzo così presentava il suo voto.
Sopra l'opuscolo che ha per titolo: “Il Centenario di S. Pietro Apostolo colla vita del medesimo principe degli Apostoli ed un triduo della preparazione della lesta dei SS. Apostoli Pietro e Paolo pel Sacerdote Giovanni Bosco. -Torino 1867;”.
Con l'enunciato opuscolo il Sac. Bosco si propone di invitare i suoi lettori a considerare le gesta del gran Principe degli Apostoli ed a disporre il loro spirito con devota preparazione alla prossima solennità che andrà a celebrarsi. Certamente che è lodevole un tale scopo ed è degno pure di encomio lo zelo del quale si mostra animato il nominato scrittore. Però sembra che il lavoro non possa andare esente da censura per i rilievi a cui esso porge occasione.
E primieramente è rimarchevole che nello svolgersi del divisato argomento, bene spesso ai fatti inconcussi per l'autorità stessa delle Divine Scritture, si accoppiano altri racconti, ricavati in parte da incerte tradizioni, ed in parte da apocrifi documenti, senza alcuna distinzione od alcuna avvertenza, come se questi e quelli fossero di egual peso ed ottenessero l'identico grado di certezza. Per ragione di esempio a pag. 102 dopo essersi detto che S. Pietro andò a fondare la Chiesa in Antiochia, si aggiunge che l'Apostolo incontrò gravi ostacoli da parte del Governatore di nome Teofilo il quale lo mise in prigione, e di più per ischerno gli fece tagliare i capelli per metà lasciandogli un cerchio intorno al capo in modo di corona, dando ad intendere che in questo fatto si debba ravvisare l'origine della corona o chierica nel capo degli Ecclesiastici. Così ancora essendosi riferita la prodigiosa liberazione di S. Pietro dal carcere ove egli era ritenuto in Gerosolima per comando di Erode, a pag. 126 si prosiegue a narrare che il medesimo Apostolo si diresse alla casa di una certa Maria ed ivi era una fanciulla di nome Rosa, la quale, grandemente sorpresa nel vedere S. Pietro che sapeva trovarsi rilegato nella prigione, senza aprire l'uscio corse a darne avviso ai suoi padroni i quali non volevano prestarle fede, ed intanto S. Pietro seguitava a picchiare alla porta annunziandosi per quegli che era realmente, sino a che tutti, accertati della verità, lo accolsero in casa ed appresero da lui il prodigio operato per mezzo dell'angelo. A pagina 132 si ammette per certo che Tiberio avendo divisato di annoverare Gesù Cristo tra gli Dei Romani, interpellò l'autorità del Senato il quale però respinse la proposta. A pagina 152 affermasi che S. Pietro risuscitò un morto, sul quale già prima Simone Mago aveva fatto inutili tentativi per operare il richiesto prodigio. A pagina 157 si presenta come cosa indubitata il volo e la caduta dello stesso [763] Simone Mago con circostanze del tutto speciose, le quali non sono constatate dai critici come si vorrebbe far credere. A pagina 164 si pone tra i fatti parimenti certi, che S. Pietro ad insinuazione dei fedeli aveva deciso di sottrarsi alla persecuzione suscitata in Roma contro i cristiani, ma non appena uscito fuori della città mutò consiglio per obbedire alla voce del Redentore che gli apparve nel suo cammino.
Ma oltre a ciò che si è osservato, convien notare nel libro di cui trattasi talune proposizioni non esatte o in ordine alla Storia Evangelica, o rispetto alle teologiche dottrine. E, veramente difetto di esattezza per rapporto alla storia evangelica si riscontra a pag. 17 ove si fa credere che gli Apostoli fossero occupati nel ministero della predicazione nel tempo che conversavano qui in terra col Salvatore, cioè prima di avere riportata la solenne missione con quelle parole euntes docete e di aver ricevuto la comunicazione del Divino Spirito. Con più precisione su tal proposito parla lo scrittore nella pagina 69 ove dimenticando forse quanto aveva scritto di sopra, afferma che dopo la discesa dello Spirito Santo fu allora che S. Pietro pieno di santo ardore cominciò a predicare la prima volta Gesù Cristo. Non è poi conforme alle teologiche dottrine quando dicesi a pagina 217 che la violazione di ogni divino comandamento è la trasgressione di un articolo di fede.
Dal che verrebbe ad ingerirsi che pecca sempre contro la fede chiunque pecca contro un divino precetto. Ecco le parole colle quali si esprime il nostro autore: La nostra fede deve essere intera e cioè deve abbracciar tutti gli articoli di nostra religione. Tutte le verità della fede sono da Dio rivelate; quindi chi nega di credere un solo articolo di fede nega di credere a Dio medesimo. Perciò colui che dice di amare il prossimo e intanto nomina il nome di Dio invano; colui che onora i genitori e intanto prendo la roba altrui, o si dà in preda alla disonestà, al disprezzo dei Sacramenti, del Vicario di Gesù Cristo, costui, dico, trasgredisce un articolo di fede che lo la colpevole di tutti gli altri.
Altro luogo meritevole di specialissimo rimarco trovasi a pag. 192 sulla venuta di S. Pietro in Roma. Sebbene lo scrittore non metta alcun dubbio su tal punto, anzi adduca non pochi argomenti a provare ciò, in tal modo egli sentenzia sulla natura e sul carattere dei fatto medesimo: “Stimo per altro bene di dar qui di passaggio un avviso a tutti coloro che si fanno a scrivere o parlare di questo argomento, di non considerarlo come punto dogmatico e religioso; e ciò sia detto tanto Poi Cattolici quanto poi Protestanti”. Ora il sostenere che la venuta di San Pietro in Roma non è punto dogmatico e religioso, nel senso che escluda ogni attinenza a punto o ad argomento dogmatico e religioso, è un grave abbaglio in materia teologica, il quale non può a meno di non offendere le pie orecchie dei fedeli. Il fatto del quale trattasi è bensì storico e dimostrasi trionfalmente cogli argomenti di critica, ma insieme ha un intimo rapporto con ciò che è strettamente religioso e [764] dogmatico, essendo il supposto o fondamento storico di un vero dogmatico e religioso che è il primato dei Romani Pontefici. Perciò la venuta di S. Pietro in Roma è un punto, un vero, non meno difeso dai critici che propugnato da tutti i cattolici in ogni tempo, e negato soltanto da alcuni critici, i quali si presuasero di arrivare in tal modo a rovesciare il dogma del primato dei Romani Pontefici. Quel che debba ritenersi del nesso tra il dogma del primato dei RR. PP. ed il fatto storico della venuta di S. Pietro in Roma, ben lo dimostra chiaramente il dotto Pietro Ballerini nella sua opera De vi et ratione primatus alla pag. 3. “Si enim, così egli, stet Romae Petrum fuisse et in Romana Sede decedentem successoribus suis primatum bono Ecclesiae necessarium reliquisse, statim sequitur quod et Catholici cum tota Ecclesia tamquam dogma certissimum tenent Romanos Pontifices eidem Petro in ipsius primatu succedere...”. Il nostro scrittore però con idee assai confuse e con linguaggio sempre inesatto prosegue nel citato luogo: “Iddio stabilì S.Pietro capo della Chiesa e questo è dogma, verità di fede. Che poi S. Pietro abbia esercitata questa sua autorità in Gerusalemme, in Antiochia, in Roma od altrove; questa è discussione storica, estranea alla fede”.. Nel qual tratto parla in modo come solo si dovesse ritenere per verità di fede il primato conferito a S. Pietro, mentre è pure verità di fede, che il primato di S. Pietro persevera nei Romani Pontefici, ed a questo dogma non è estraneo il fatto di S. Pietro che venne in Roma, e quivi stabilì la sua sede, per far comprendere che nei Romani Pontefici doveva trasfondersi il primato su tutta la chiesa.
Dietro le suindicate osservazioni sembra esservi ben fondate ragioni onde sul libro in discorso si abbia a decretare proscribendum donec corrigatur. Nel quale caso potrebbesi eccitare lo scrittore ad emendare o meglio a rifondere interamente il suo piccolo lavoro.
Del resto, questo qualunque parere si sottomette pienamente al sapiente autorevole giudizio di cotesta Sacra Congregazione.
Can. Pio DELICATI, Consultore.
Prefetto della Sacra Congregazione dell'Indice era Sua Eminenza il Card. Ludovico Altieri, Vescovo di Albano; ma presiedeva la seduta S. E. il Card. Antonio Maria Panebianco, dell'Ordine dei Minori Conventuali, Prefetto della Sacra Congregazione delle Indulgenze e Sacre Reliquie.
La Sacra Congregazione esaminò il voto e non lo approvò nella sua conclusione finale, ma si limitò a farlo conoscere al Venerabile a mezzo dell'Arcivescovo di Torino, con ordine [765] di tenerne conto in una ristampa. Così aveva voluto il Sommo Pontefice Pio IX, il quale a chi gli aveva accennato ad una proibizione, aveva risposto:
- Oh questo poi no! Povero D. Bosco! Se c'è qualche cosa da correggere in quel libro, si corregga nella seconda edizione che se ne farà.
E noi, ritornando sulla lunga questione nei capi seguenti, avremo da ammirare sempre più l'umiltà e la santità di D. Bosco.
Intanto egli continuava a celebrare le lodi dei Papato. Pel mese di maggio il fascicolo delle Letture Cattoliche era il seguente: Dei benefizii arrecati dai Papi all'umanità: conversazioni tra un giovane e il suo Parroco pel Sacerdote Boccalandro Pietro, Rettore di S. Marco in Genova.
Ecco gli argomenti: I Papi hanno incivilita la società: liberato l'Italia dalla dominazione dei barbari; frenato il dispotismo germanico: protetto le scienze e le belle arti. Si ha torto a gridare contro la condotta dei Papi, nè Pio IX è il più grande nemico d'Italia. La ragionevolezza, il diritto, il volere di Dio che il Papa possegga un territorio indipendente.
In appendice i fedeli erano invitati a pregare per la conversione degli Ebrei.
In quei mesi al Papa erano rivolti i pensieri anche della parte eletta del patriziato Torinese, e molti di esso fin d'allora si recavano a Roma per prendervi stanza a loro agio, essere presenti alle solennissime funzioni di S. Pietro in Vaticano e prestare omaggio al Vicario di Gesù Cristo. Ad alcuni di questi signori Don Bosco affidava lettere confidenziali, dirette a cospicue famiglie di cooperatori romani che gli avevano chiesto consigli, a' Prelati per l'interesse della Pia Società, al Cardinale Antonelli per lo stesso fine e circa le nomine dei Vescovi in Italia.
Di simili commissioni incaricava pure l'ecc.ma Duchessa [766] de La Val Montmorency-De Maistre, che dimorava a Borgo Cornalense presso Villastellone.
Non so se potrò ancora ossequiarla di presenza prima che Ella parta per Roma; ad ogni modo le affido qui un pacco di lettere. Quella indirizzata al Card. Antonelli è di qualche premura, perciò se non potesse portarla, la metta in qualunque buca delle lettere, e l'avrà prima e prontamente. Le altre poi sono chiuse in piego alla Marchesa Villarios; essa ne farà le parti a chi sarà del caso. Se le accadesse di parlare con questa signora, vedrebbe una copia di S. Francesca Romana.
Dio la benedica e l'Angelo del Signore l'accompagni e la difenda da ogni male nell'andata, permanenza e ritorno.
Abbia la bontà di riverire la famiglia del sig. Conte Eugenio ed il sig. Francesco, cui auguro ogni bene spirituale e temporale. Preghi anche per me che con gratitudine mi professo
Il Cardinale Antonelli gli rispondeva.
Se sono fin qui mancate di mia risposta le due lettere di V. S. Ill.ma in data 20 marzo e 5 aprile p. p. Ella facilmente ne avrà immaginata la cagione, conoscendo l'ingombro di affari onde va soggetto il mio ministero.
Quanto alla prima lettera serve di compenso al mio ritardato riscontro quel che so essersi a Lei già scritto sull'assunto da Mons. Berardi. Tuttora la cosa è in corso d'esame presso la S. Congregazione de' Vescovi e Regolari, ed io non ho nel momento a dirle più del già dettole da altri: potendo Ella del resto ben persuadersi dello impegno datomi a richiamare la speciale attenzione ai rilievi da Lei dedotti sul punto a cui riguardavano la lettera e i fogli corrispondenti.
Dall'altra lettera appresi con grande piacere l'universale gradimento che sortirono le nomine per le sedi vescovili ivi menzionate.
E' questo un argomento di molto conforto dopo la cura applicata appunto alla scelta di Sacri Pastori, quali richiede specialmente negli odierni tempi il buon governo delle Diocesi. Tali cure servono di garanzia all'intento che qui condusse i due commendevoli Ecclesiastici portatori della lettera ora enunciata. Ed a questo proposito non occorre [767] notare qual sollecitudine serbi la S. Sede di generalizzare la importante operazione a vantaggio delle sedi tuttor vacanti: e quanto conseguentemente la rattristi il veder che dalla parte impegnata ad intendersi con essa non si manifesti quell'andamento progressivo, di cui le primordiali aperture ingerivano la speranza.
Sarebbe perciò desiderabile che col mezzo di qualche idonea influenza prudentemente si procurasse di scuotere nelle competenti regioni il soppraggiunto ristagno.
Intanto non ho lasciato di prendere nel dovuto conto le ulteriori di Lei designazioni, ed in particolare le ben giuste sue commendatizie a riguardo del degno prelato che da gran tempo spende la zelante opera sua a vantaggio delle orfane Diocesi.
Qui poi aggiungerò un cenno sul separato cartolino, accertandole che sarà tenuto a calcolo nell'eventualità quanto ivi si nota.
Ringraziandola senza limiti della pia memoria che di me conserva presso l'Altissimo, non cesso d'invocare reciprocamente sulla meritissima di Lei persona ogni miglior assistenza e conforto dalla Bontà Divina, e colgo ben volentieri l'opportunità di confermarle i sensi della mia distinta stima.
L'illustre Porporato gli faceva notare la necessità che qualche idonea influenza facesse riprendere dal Governo Italiano le pratiche interrotte; e a suo tempo noi vedremo il Venerabile stesso riattivarle di sua propria iniziativa.
Don Bosco aveva raccomandato al Card. Segretario di Stato, Mons. Balma, Arcivescovo di Tolemaide in partibus infidelium, che poi ebbe l'Arcivescovado di Cagliari; aveva proposto altri nomi, poichè anche in Piemonte v'erano ancora diocesi vacanti. Fin d'allora ei forse pensava al Canonico Degaudenzi per Vigevano, al Can. Rosaz per Susa, a Mons. Manacorda per Possano. Il Servo di Dio voleva tener viva l'attenzione del Segretario di Stato sopra una questione così vitale, e che non si lasciassero sfuggire le occasioni in qualche modo favorevoli per ottenere, anche in modo limitato, uno scopo così santo. [768] In questo modo cercava di consolare il Papa, conoscendo i suoi ardenti desiderii per la salute delle anime.
Pio IX infatti con atto di virtù eroica il 13 maggio si rivolgeva all'Imperatore Napoleone, principalmente perchè inducesse il Governo di Firenze a riprendere le trattative per le sedi vacanti; ed aveva aggiunto: “Non può udirsi senza ribrezzo come siansi preferiti per l'insegnamento certi preti e frati apostati e certi laici in parte increduli, i quali hanno per iscopo di corrompere la gioventù. Una parola della M. V. potrebbe risvegliare la volontà dei governanti italiani per purgare i luoghi dell'insegnamento da questa feccia”. Il Papa scriveva così a Napoleone, perchè sperava tornargli più utile che il querelarsene direttamente cogli interessati.
Napoleone gli rispondeva il 18 giugno che non mancherebbe di far udire i suoi consigli a Firenze, ma che poco sperava, perchè colà “tornava difficile fare ascoltare la voce della ragione, e fare accettare i desiderii quantunque disinteressati affatto”[25]
E i consigli di Napoleone, se pur furono dati, a nulla valsero; trionfarono invece que' di D. Bosco e per lui, come diremo, tutte le Chiese vacanti d'Italia deposero le gramaglie ed accolsero i loro Prelati.
IL giorno dell'Invenzione di S. Croce è festa solenne in Caramagna, e D. Bosco vi si recava a fare il discorso, accompagnato dal chierico Giacomo Costamagna, fratello di Luigi, che ve l'aveva con calde istanze invitato. Fu ricevuto come un angelo mandato dal cielo: scampanio, mortaretti, musica, tutto fu messo in opera per festeggiarlo.
Di quanto siamo per dire fu testimonio oculare il sullodato ch. Costamagna, il quale il giorno dopo ci narrò quanto vide e poi Sacerdote e missionario ce ne spediva da Buenos [770] Aires il 5 novembre 1888 relazione scritta, dichiarandosi pronto a confermarla con giuramento.
“Era il 3 di maggio del 1867. Don Bosco, venuto al mio paese nativo di Caramagna, aveva predicato un magnifico discorso sull'invenzione di S. Croce nell'Oratorio che del Santo Legno porta il titolo, e si era degnato accettare un pranzo nell'umile casa di mia madre. Più volte D. Bosco era venuto a Caramagna, e questa fu l'ultima. Dopo il pranzo il doppio cortile si rende stipato di gente, che domandava una benedizione dell'uomo di Dio. Don Bosco scende volentieri dalla stanza insieme con mio fratello Luigi e con me, che era desideroso di vedere qualche meraviglia celeste in quella mia terra.
La prima persona che si presentò a D. Bosco fa una povera donna, alquanto avanzata negli anni, tutta sciancata, che trascinavasi su due grucce. Aveva sentito parlare dell'efficacia delle benedizioni di D. Bosco e sperava. Allora io mi misi tutt'occhi ad osservare, alla distanza di un metro appena dalla scena che cominciava, e fui testimonio del seguente dialogo seguito da un miracolo. D. Bosco incominciò:
- Che cosa volete, mia buona donna?
- Oh D. Bosco! Abbia compassione anche di me! Che mi dia una sua benedizione!
- Di tutto cuore: ma avete fede nella Madonna?
- Dunque, continuò D. Bosco, pregatela e vi farà la grazia.
- Ah! preghi lei perchè è un santo; io non sono buona a pregar bene. - Bisogna che preghiamo tutti e due!
Ah D. Bosco! È tanto tempo che non posso più inginocchiarmi; ho le gambe quasi morte. [771]
- Non importa, inginocchiatevi!
E quella donna per obbedire si appoggiava alle due grucce, per tentare se potesse strisciare su quelle fino a terra: ma D. Bosco, togliendogliele di sotto alle braccia e dalle mani, risolutamente disse:
- Così no, così no... inginocchiatevi bene.
Nella folla regnava un silenzio universale: non sì udiva un respiro: ed erano presenti seicento e più persone. La donna si trovò in ginocchio a terra, come per incanto, e piangendo diceva:
- Ah! D. Bosco, e come ho da pregare?
- Dite con me, le rispose D. Bosco, tre Ave Maria alla Vergine Ausiliatrice!
E dopo aver recitato insieme le tre Ave Maria, senza che nessuno l'aiutasse, quella donna si levò su senza più sentire i dolori che da diversi anni l'opprimevano. D. Bosco le mise, sorridendo santamente, le due grucce sulle spalle e le disse: - Andate, mia buona donna, e amate sempre Maria Ausiliatrice! - Quella fortunata s'incamminò fra la turba verso casa, magnificando e ringraziando la Madonna e il suo benefattore. La gente, che fino allora aveva osservato un perfetto silenzio, scoppiò in un oh! prolungato di ammirazione e si precipitò su D. Bosco che ebbe da fare per lunga ora a benedire e consolare tutti: la vecchierella poi fu vista nel paese camminare allegra e scioltamente, avuto riguardo all'età, con un solo bastoncello. Mio fratello Luigi fu eziandio, testimonio del fatto”.
Causa di tanto entusiasmo e slancio di fede fu la voce sparsa: essere il predicatore un prete santo. Al mattino Don Bosco era stato invitato a visitare una signora ammalata che da lungo tempo teneva il letto per un cancro. Dopo averla esortata a confidare in Maria Ausiliatrice, la benedisse, le fissò il domani per levarsi; il posdomani, che era Domenica, per uscire di casa e andare alla messa; e il termine del mese [772] per venire a Torino a fare un'offerta di ringraziamento a Maria Ausiliatrice. Senonchè pochi minuti dopo che D. Bosco era uscito da quella stanza, l'inferma si sentì pienamente libera dal suo male, suonò il campanello, tutta la famiglia accorse, ed essa annunziava di essere guarita. Si alzò, uscì di casa, andò tosto nella chiesa parrocchiale a ringraziar la Madonna e, prima ancora che D. Bosco partisse, recossi con meraviglia di tutti a portargli la promessa obblazione, che fu di 3000 lire. Di ciò pure abbiamo testimonianza scritta del sig. Luigi Costamagna, il quale nota ancora:
“Dopo questi fatti e qualche altro che per brevità tralasciamo, e dei quali fui sempre testimonio, dovendo Don Bosco nella sera stessa far ritorno all'Oratorio, trovò la strada affollata di gente che voleva vederlo e gli contrastava il passo; e nol lasciarono partire senza prima gettarsi a terra ed essere da lui ancora una volta tutti insieme benedetti”.
Nell'uscire dal paese il Venerabile pronunciava una parola profetica. La mugnaia, di cognome Allaria, gli presentò due sue figlie, una delle quali aveva 12 anni, ed era buona, tranquilla, semplice e molto divota; mentre l'altra di 14 anni, essendo di naturale vivacissimo, si presentava meno contegnosa ed anzi, almeno in apparenza, sbadata. La madre pose la più piccola alla destra di D. Bosco e la più grande alla sinistra perchè le benedicesse; ma con sua sorpresa il Servo di Dio fece tramutar l'una al luogo dell'altra e rivoltosi alla maggiore d'età: - Questa disse, si farà religiosa e giungerà ad una gran santità! - Era presente la giovanetta Orsola Camisassa che poi si aggregò alle Figlie di Maria Ausiliatrice, compagna alla più grandicella, che udì chiaramente quelle parole che fecero strabigliare tutti i presenti. E infatti la sua amica si fece religiosa fra le Giuseppine in Torino e, quando morì a Bra, la stessa Camisassa udì il Prevosto Appendini leggere la lettera del parroco che annunciava quella morte, ove si diceva: - Il suo morire fu consolantissimo, [773] Perchè la religiosa era giunta ad una gran santità. - Le stesse parole di D. Bosco.
D. Giacomo Costamagna, poi consecrato Vescovo, dopo averci confermato quanto sopra fu esposto, ci scriveva nel 1893. “La sera del 3 maggio 1867, sul treno, ritornando a Torino, D. Bosco mi apriva il suo cuore e giubilava per tante grazie che il Signore gli faceva, specialmente con avergli donati giovani cooperatori, ornati di esimie doti. Nominava Durando, Francesia, Cagliero, Cerruti, Bonetti, Albera, Ghivarello, ecc. ecc. E diceva: - Questi è valente grammatico, l'altro letterato, uno musicista, l'altro scrittore, uno teologo, un altro santo, ecc. ecc. - Di certuni annunziava singolari abilità nelle quali poi si distinsero, ma che allora nessuno poteva intravedere. In questa enumerazione, giunto a D. Rua, così mi disse: - Guarda, Giacomo, se Dio mi dicesse: “Preparati, che devi morire, e scegli un tuo successore perchè non voglio che l'Opera da te incominciata venga meno; chiedi per questo tuo successore quante grazie, virtù, doni e carismi, credi necessarii, perchè possa disimpegnare bene il suo ufficio, chè io tutti glieli darò…” tacque e poi soggiunse: “ti assicuro che non saprei che cosa domandare al Signore per questo scopo, perchè tutto quanto già lo vedo posseduto da D. Rua”.
Da Torino, come diremo poi, D. Bosco portavasi a Saluggia, ove il parroco chiamavalo per consiglio in certe serie questioni che aveva con qualche parrocchiano, e ritornato nell'Oratorio scriveva al Cav. Oreglia, che era in viaggio alla volta di Roma, una lettera che giova leggere attentamente:
Ho ricevuto le sue lettere ed ho subito dato esecuzione a quanto in esse contenevasi. Godo del suo viaggio; ho dato di sue notizie ai giovani che le accolsero con gioia ed applauso.
Le accludo qui alcune lettere per sua norma: sono da sigillare: le metto in una busta che porta il suo indirizzo. [774] L'affare delle Letture Cattoliche è finalmente ultimato nel senso indicato e ciò fu nel primo giorno del mese di maggio.
La mia sanità è abbastanza buona ad eccezione delle vertigini che mi si fanno con maggior frequenza sentire.
Il giovane Depaoli, suo antico allievo, è morto dopo una lunga paziente infermità con tutti i conforti della Religione, al principio di marzo. Fogliani Cipriano morì da santo, in sua patria, poco prima di Pasqua. Finino dopo Pasqua qui nell'Oratorio. Gladini morì in Lanzo il giorno dopo Pasqua. Tra pochi giorni le darò notizie di altri decessi, ma non tema per lei che non è ancor giunta l'ora sua.
I lavori della chiesa vanno avanti in un modo veramente sorprendente. Le meraviglie di Maria operate in tempo passato sono un nulla in confronto di quelle che succedettero dopo la sua partenza. Io non le posso scrivere perchè ci sono interessato. Godiamo, ma godiamo nella bontà del Signore.
Giunto in Roma fra le prime visite vada da D. Ruggeri Emilio, precettore di casa Grazioli. Si occupò molto della Lotteria, ci mandò un manoscritto per le Letture Cattoliche, di cui ne desidera un'edizione elegante. È persona pia, ma bisogna secondarla.
In questo momento ricevo lettere indirizzate al nostro novello Arcivescovo, in cui mi fu tentato il colpo di far mettere all'indice il Centenario di S. Pietro. Però la Congregazione dell'Indice si limitò a comandare alcune correzioni non specificate, ma per una futura edizione. Di questo io ne fui minacciato in Roma ed anche dopo la mia partenza, ed una persona molto amica ne diede la ragione principale: perchè in Roma ho avuto di preferenza molta famigliarità coi Gesuiti. Qui però prudenza somma e silenzio: io le manderò copia di ogni cosa e ciò servirà di norma al P. Oreglia.
Del resto noi qui stiamo bene: le tribolazioni della vita ci fanno più presto desiderare il Paradiso. Fiat!
Non nomino, ma saluti amici e benefattori.
Tratti Mons. Manacorda con molta cortesia e benevolenza: egli ci ha fatto e ci fa molto bene.
Dio benedica Lei e le sue fatiche e mi creda nel Signore
Era dunque arrivata alla Curia di Torino comunicazione di quanto aveva deciso la S. Congregazione dell'Indice in merito al Centenario di S. Pietro, con il foglio delle osservavazioni del Consultore, da noi già trascritto. Ne fu data [775] comunicazione a D. Bosco, ma non gli fu subito consegnato a quanto pare, il foglio delle osservazioni. Quando l'ebbe, tentò leggere la firma del Consultore, e non ci riuscì; fu D. Rua, che dopo lungo studio potè interpretare il nome del Can. Pio Delicati.
La lettera con cui era stato comunicato quel foglio era indirizzata al nuovo Arcivescovo, il quale per anco non era entrato in sede.
Deferito alla S. Congregazione dell'Indice l'opuscolo che ha per titolo: Il Centenario di S. Pietro, ecc. pel Sac. Giovanni Bosco, dopo maturo esame e previa discussione, il Sacro Consesso degli Eminentissimi Cardinali stima doversi adottare la seguente risoluzione: Scribendum Archiep. Taurin. ut praecipiat Auctori novam typis parare editionem in cuius praeloquio moneantur lectores auctorem retractasse quidquid censura dignum ab S. Concilio deprehensum est prout ex folio epistolae huic adnexo (Archiep. reservato) patebit. La quale da me riferita alla Santità di N. S. degnossi sotto il dì 12 spirante apporvi la sua sanzione sovrana, dopo di che a me incombe in ragion d'officio il comunicarla all'E. V. Rev.ma, affinchè prenda con pari sollecitudine e vigilanza le opportune determinazioni.
Colgo altresì il destro, presentandomisi l'opportunità, avvertirla che altre denunzie a questi dì ne pervennero intorno ad una pubblicazione periodica che vede costì la luce col titolo Letture Cattoliche ove incontransi, se non errori manifesti, per lo meno, tali parole o storielle da eccitare, anzichè la pubblica edificazione, le risa e le beffe in un secolo in cui la critica cotanto abusa per screditare la religione, segnatamente in fatto di opere ascetiche e mistiche. Non ha molto che fu condannata dalla S. Sede: La Vita di Gesù Cristo, stampata in Torino dagli eredi del defunto parroco Cuniberti con l'approvazione di cotesta Curia Ecclesiastica, ed io scrissi a cotesto Mons. Vicario Capitolare perchè si adoperasse a farne ritirare le copie e correggerne gli errori, ben comprende l'E. V. Rev.ma di quanta vigilanza ed accuratezza faccia mestieri nell'esaminare gli scritti di argomento religioso per non esporre all'insulto e alla derisione l'ecclesiastica autorità.
Co' sensi della più alta stima e venerazione godo di rassegnarmele
Fr. ANGELO VINCENZO MODENA de' Pred.
Fu questo il risultato dei maneggi di chi aveva pensato di giungere a screditar Don Bosco, prendendo di mira le Letture Cattoliche.
Questi non tardò a recarsi presso il Canonico Zappata Vicario Capitolare, per consegnargli una copia della vita S. Pietro da lui richiesta, e il Vicario parlando delle Letture Cattoliche dicevagli:
- Ho letto varii di que' fascicoli! Non avrò la testa a posto, ma io non ci ho trovato nulla da ridire, nulla; tanto meno che sia meritevole di condanna!
Recò pure il suo libro al Can. Gastaldi, il quale lo esaminò e trovò, a suo parere, che pur ammettendo qualche possibile emendazione lo scritto non era incriminabile; quindi, senza punto venir meno del dovuto ossequio al disposto dalla S. Congregazione, lo consigliò a preparare una dichiarazione di difesa, la quale avrebbe potuto presentarsi, qualora la prudenza e l'invito della Suprema autorità lo avesse permesso. D. Bosco ne chiese licenza al Vicario Capitolare e avutala, prese a studiare il suo lavoro.
L'annunzio però dell'esposta ammonizione e la forma colla quale era redatta, fu un colpo ben doloroso per lui che aveva un cuore così sensibile; solo la sua virtù e la sua devozione al Vicario di Gesù Cristo e l'amor suo a Pio IX gli diedero forza di sopportarlo. Tuttavia, benchè abitualmente apparisse tranquillo e sereno, in certi momenti grande doveva essere il suo abbattimento. Quanti pensieri dolorosi, che non palesava, dovevano affacciarsi alla sua mente e confondersi in un serto di spine, legate coi dubbio: “Se la cosa venisse a rendersi di pubblica ragione, o per indiscrete confidenze o per malignità di animo, sia a Roma che a Torino?”
Gli pareva una macchia grave sul nome del fondatore di una Congregazione religiosa, e forse un impedimento a conseguire ulteriori approvazioni alla sua Pia Società, e que' privilegi che con tanta insistenza domandava. Poi, innanzi [777] ai giovani non avrebbe potuto perdere una parte del suo prestigio, con danno delle anime e delle vocazioni? E la diffidenza non si sarebbe fatto strada anche nei soci Salesiani, dei quali alcuni erano continuamente sobillati con promesse lunsighiere, perchè entrassero nel Clero secolare? E quale discredito e scapito per le Letture Cattoliche! I Protestanti avrebbero esultato nel vedere spezzata un'arma formidabile che invano avevano tentato strappargli dalle mani. Ma sopratutto egli doveva esser ferito nella parte più sensibile del cuore, perchè accusato di non aver sostenuta l'Autorità Pontificia! accusato lui, che per il Papa avrebbe dato la vita piuttosto che recargli il minimo dispiacere!
Ma Iddio, se aveva permessa questa prova, non permise che al suo Servo ne venisse disdoro.
La lettera di Mons. Modena annunziante la decisione presa dalla Sacra Congregazione recava la data 29 aprile e il 14 maggio non ne era giunto alcun sentore neppure all'ufficio della Civiltà Cattolica. Padre Oreglia il 14 scriveva a D. Francesia, chiedendogli molte novelle importanti di Torino, e non faceva alcun cenno di ciò che era di somma angustia a D. Bosco.
“La ringrazio affettuosamente della buona memoria che ha conservato di me e di noi …Sono confuso della loro bontà e carità, tanto più che avendo essi trovato in Roma tanta corrispondenza ai santi loro desideri e progetti, ed avendo io nulla fatto, hanno però voluto mostrare il loro buon cuore sotto forma di gratitudine....
D. Cagliero farà bene a venire per la Canonizzazione. Se ha il donum petitionis che hanno i Santi di Casa D. Bosco, troverà una buona occasione. E poi non mancheranno musiche! E poi col viaggio gratis; insomma bisogna farlo venire .....
E il Crotti? Bel trionfo per le elezioni de' cattivi! Certo fu atto eroico e mirabile: ed io nella mia miseria godo che quell'atto di coraggio sia venuto dal Piemonte, l'uomo vecchio non si spoglia mai affatto. Sono Italiano, ma Piemontese .....
Il Vimercati lo vidi al Gesù il dì del B. Canisio. Passeggiava con un bastone, abbastanza bene.
I miei ossequi a D. Bosco e un'Ave per me alla Madonna”. [778]
Il gesuita Padre Oreglia era in que' giorni entusiasta della condotta del Conte Crotti, sincero e coraggioso cattolico. Eletto a deputato, pronunziando il giuramento alla Camera aveva detto con voce chiara, limpida e a fronte alta: - Giuro di essere fedele al Re e allo Statuto, salve le leggi divine ed ecclesiastiche. - Invitato dal Presidente a giurare senza qualche restrizione o riserve non ammesse dallo Statuto, egli erasi nobilmente rifiutato, restando così escluso dal Parlamento.
Nell'Oratorio intanto gli esercizii spirituali erano incominciati la sera del 12 maggio, festa del Patrocinio di S. Giuseppe, e finivano il giorno 16. Anche i chierici e qualche prete, continuarono a prendervi qualche parte, quantunque avessero nell'autunno il loro regolare ritiro di una settimana, e il Servo di Dio da mane a sera attese alle confessioni; tanti erano i giovani che desideravano affidare a lui i segreti dell'anima.
DON Bosco che si era accinto alla ristampa dell'opuscolo del Centenario l'aveva sospesa in ossequio al monito ricevuto. Il 15 maggio, D. Enrico Bonetti, che suppliva in tutto il cav. Oreglia nel dirigere la Tipografia, mandando a questi una relazione degli affari librarii, tra l'altro scriveva: “Hanno tirato già due fogli del Centenario di S. Pietro, la ristampa del quale si farà totalmente subito che D. Bosco abbia fatte alcune modificazioni… Don Bosco da quel che pare, sta bene e per nostra fortuna, tranne qualche giterella, è sempre in casa”.
Nello stesso giorno il Padre Oreglia rispondeva a D. Bosco, che gli aveva dato la prima notizia della ammonizione avuta. [780]
E’ arrivato quest'oggi il nostro Federico: ed avendogli date le lettere per lui che erano venute a me dalla posta, lesse e mi comunicò quello che Ella gli scrive relativamente all'affare che ora lo disturba e di cui scriveva a me pure nella sua preg.ma cui risposi ieri.
Sappia adunque che io fin da quando ella era qui, parlai coll'ottimo. D. Francesia di un periodo del suo Centenario che mi pareva inesatto. Era il periodo in cui dice (dico di memoria il senso): Del resto è bene avvisare qui i Cattolici e i protestanti che è di fede che S. Pietro fu da G. C. fatto capo della Chiesa, etc.; ma che S. Pietro sia venuto a Roma o no etc. è questione non attinente alla fede e puramente storica[26].
Questo periodo mi parve inesatto e ne parlai a D. Francesia perchè ne parlasse a Lei.
Intanto volendo io stesso accertarmi della cosa scrissi un biglietto al P. Cardella Professore mattutino di Teologia in Collegio Romano e l'interrogai se avendo uno scrittore cattolico (non nominai Lei per lasciarlo più libero a scrivermi) scritto ecc. quella proposizione era sicura.
Il P. Cardella mi rispose la lettera che io mando a Lei in originale autorizzandola, se crede, a copiarla, ma pregandola a rimandarmi l'originale.
Siccome questa lettera in sostanza diceva che la proposizione era sostenibile, io non cercai altro: nè più mi inquietai di sapere se D. Francesia ne aveva o no parlato con Lei: se glie ne aveva parlato leggermente e senza premura, egli dunque è probabile che non avrà fatto caso della cosa.
Intanto però altri in Roma faceano la stessa osservazione. Io non ne seppi mai nulla sino ad oggi che Federico mi parlò.
Ed ecco che appena partito Federico dalla camera mia, viene il P. Piccirillo dall'udienza del Papa e mi dice che avendo il Papa veduto nel fascicolo della C. C. un articolo sul Centenario si ricordò del libretto di D. Bosco e disse che però ci era un periodo che gli aveva spiaciuto: e che quella cosa non era ben detta: e che D. Bosco dovrebbe togliere quel periodo. Non parlò affatto di indice, nè di condanna, ed io credo che non sarà mancato qualche zelante che avrà voluto anche l'Indice: ma dal modo come parlò il Papa, il P. Piccirillo mi assicura che è impossibile che il libro sia condannato.
Intanto però è certo che: 1° la proposizione, secondo questa lettera del P. Cardella è sostenibile; 2° che è però inopportuna; 3° che il Papa (come dottore privato) la crede falsa e insostenibile.
Dunque ella vedrà quel che sia da fare. Il certo è pure che il Papa [781] parlò di lei al solito con molto affetto e bontà; e sarebbe molto contente (credo io) se presto ricevesse una edizione corretta.
Non spetta a me darle pareri. Credo però che sarebbe meglio ancora se nella Prefazione dicesse chiaro il perchè della seconda edizione e senza condannare una proposizione non condannata e forse sostenibile e non condannabile, notasse però che l'ha cancellata almeno come inopportuna. Il P. Piccirillo invece crede che sarebbe meglio cancellarla col fatto e non parlarne nella prefazione.
Siccome il P. Cardella mi scrisse l'acclusa in fretta e senza molta meditazione, così egli potrebbe offendersi sapendo che io l'ho comunicata e più poi se ella ne facesse qualche uso pubblico. Perciò la prego a servirsene solo per sua norma, e non nominare il P. Cardella.
Scusi la furia e la fretta e la cattiva scrittura. Preghi per me e mi creda
E Don Bosco non fece alcun uso della risposta del P. Cardella, che noi abbiamo già riferita.
Se poco si era saputo a Roma di questo affare, nulla ne seppero a Torino gli alunni dell'Oratorio e la maggior parte dei Salesiani, eccetto alcuni pochi ai quali per riguardo al loro ufficio era stato confidato il segreto. Tutti gli altri pensavano indisturbati ai loro studii e ad una rappresentazione latina che andavano preparando e per la quale D. Francesia aveva scritto il seguente invito:
Cui dedit Sanctus Franciscus nomina,
Agent latinam fabulam novissimam
Decimo sexto Maji, hora secunda,
Iure vocatam Deceptores decepti.
Hanc ego nactus occasionem, gaudeo,
Quod tibi possiem promere obsequium,
Et quod tu possies videre studia
Quae pro puerulis fovere nitar,
Tu, quippe doctior late nominaris.
Melius quo possient litteras arripere
Pueri, quid enim homines solent [782]
Maximi consilii nobis inculcare,
Quam, quos pulcherrimos habent volumina,
Locos certatim memoria dicere?
Mei hoc fecerunt, et postea facturi
Si a te probari praesentia noverint.
Et hanc Rosinii plautinam fabulam
Probe tu dixeris, qui rectius sapit
Veteris verba Plauti ferre in medium,
Et nostris rebus commodius aptare.
Omnibus cum illis ergo, quis libuerit,
Veni, et ipse mihi gratus honor sies
Et meis quos amo pueris gaudium,
Omnem qui lapidem movebunt alacres
Ut lepide, iucunde transigas horam.
Cantabunt, Iupiter! vocibus et tibiis,
Avenis, fistulis, fidibus et tympanis,
Omniaque facient quibus laetaberis.
Cuncta tibi fausta precor a Superis.
Ex aedibus quae vulgo dicuntur: Oratorio di S. Francesco di Sales, Nonis Majis - anno MDCCCLXVII.
D. Bosco assisteva alla recita, della quale così scriveva l'Unità Cattolica del 19 maggio 1867.
UNA COMMEDIA LATINA NELL'ORATORIO Di D. Bosco.
Giovedì, 16 corrente, nell'Oratorio di S. Francesco di Sales in Torino venne recitata una commedia in versi latini dai giovani studenti di quell'istituto. Intervennero a quella rappresentazione i Monsignori Gastaldi, Vescovo di Saluzzo, Mons. Galetti, Vescovo d'Alba e Mons. Formica Vescovo di Cuneo, e con esso loro molti professori delle Università, dei licei e dei ginnasii. Tutti restaron meravigliati dei modo con cui que' vispi ed intelligenti giovani seppero fare la parte loro. Quest'esercizio, che viene rinnovato varie volte nell'anno da questi bravi giovani, è sommamente proficuo per ogni lato; e sarebbe un bell'esempio da imitarsi in tutti gli istituti di educazione. Anche il canto eseguito ottenne l'applauso dei numerosi ed intelligenti spettatori, i quali porsero le più sincere congratulazioni a chi con tanto amore ed assennatezza dirige quella cara gioventù.
Queste recite e più ancora il brillante esito degli esami, facevano conoscere a tutti come fossero coltivati gli studii classici nel ginnasio dell'Oratorio, ed è perciò che a quando [783] a quando si faceva preghiera a D. Bosco perchè accettasse la direzione di qualche Collegio Municipale. Allora era la volta delle scuole pubbliche di Chieri. Nulla si concluse, ma noi riportiamo la lettera da lui scritta al Cavaliere Marco Gonella, anche come prova che i disgusti, per quanto gravi, non gli toglievano la consueta attenzione agli affari che aveva tra mano.
Se sapessi la spesa che sopporta il Municipio di Chieri, studierei di fare un piano in modo che potesse avere qualche vantaggio. Se mi tenessi alla tassa governativa, passerebbe i sessanta mila franchi tra il corso
Ginnasiale: un insegnante per classe;
Corso tecnico con maestri legali;
Io credo per altro che tale somma si possa ridurre a trenta mila e si terrebbe aperto il convitto senza che il Municipio ci avesse da aggiungere un soldo.
Questa proposta è in astratto e per concretarla bisogna:
1° Che il Municipio accetti in massima; 2° stabilisca una giunta per trattare. Se si dovessero adottare certi principi economici si potrebbe ancora avere forse una riduzione di 8 mila franchi senza alterare per niente l'insegnamento.
Del resto Ella sa la mia buona volontà; dove l'industria, il buon volere possano conseguire qualche cosa per la gloria di Dio, io ci sono con tutte le mie forze.
Con pienezza di stima e di gratitudine mi creda nel Signore
Di que' giorni, dopo molte preghiere e dopo essersi consigliato con dotte persone, specialmente col nuovo Vescovo di Saluzzo, Mons. Lorenzo Gastaldi, si era pure occupato a mettere in carta una rispettosa risposta agli appunti fatti dal Consultore dell'Indice al suo opuscolo. Così aveva scritto: [784]
SOPRA ALCUNE OSSERVAZIONI FATTE
“Il Centenario di S. Pietro Apostolo”.
In ogni mio scritto di cose sacre e di cose profane ho sempre
avuto in mira difendere e sostenere l'autorità della Chiesa e segnatamente del Sommo Pontefice. Nelle prediche, nelle pubblicazioni di ogni genere studiava sempre di mettere in chiaro nel modo più semplice questo supremo principio di Nostra Santa Cattolica Religione. Quando pertanto mi venne prima detto vagamente, poi assicurato e in fine comunicato ufficialmente che si erano fatte varie osservazioni a quel piccolo lavoro, io rimasi come colpito da un fulmine pel vivo dispiacere sentito, che potessero essermi uscite dalla penna delle espressioni opposte interamente al mio sentimento. Seppi poi che non tutte le osservazioni fatte a quel mio lavoretto erano state dall'autorità competente giudicate tali che dovessero portare correzione o modificazione. Ciò non ostante mi fo' animo ad esporre sopra tutte le osservazioni fattemi alcuni schiarimenti, che spero potranno dare soddisfazione.
Prima di accingermi a scrivere la vita di questo Principe degli Apostoli ho procurato di leggere gli autori antichi e moderni. Per quello che è nella Bibbia mi sono tenuto alle annotazioni di Mons. Martini, la cui autorità è universalmente ammessa; di poi ricorsi alle fonti tratte da autori Romani, che avessero scritto in Roma, stampato in Roma, coll'approvazione ecclesiastica in generale, e con quella del Maestro del Sacro Palazzo. Per testo ho tenuto gli annali del Padre della Storia Ecclesiastica, il Card. Cesare Baronio, colle osservazioni dei Bollandisti, e l'Abate Luigi Cuccagni. Questo dotto scrittore era rettore del Seminario Ibernese in Roma; scrisse la vita di S. Pietro in tre volumi, la dedicò a S. S. Pio VII, di felice memoria. La sua opera fu stampata in Roma l'anno 1777. Ebbe più revisori: il P. Ag. Racchini, maestro del Sacro Palazzo e stabili, il dotto Padre Ximenes, Generale dei Carmelitani e Consultore della Congregazione dei riti. Egli mette questo libro fra i più dotti, più esatti, più cattolici; in seguito a questo otteneva l'approvazione del Maestro del Sacro Palazzo, ed il Sommo Pontefice ne accettava la dedica.
Questo libro così raccomandato, dedicato al Sommo Pontefice, io ebbi per guida a segno che credo non potersi trovare alcun periodo del mio libretto che non sia ricavato fedelmente da quella fonte. Ogni più breve riflesso morale è ricavato dai Santi Padri che per lo più [785] sono sempre citati. Gli altri autori antichi o moderni sono tutti notati per ogni volta che ai medesimi feci ricorso. Da queste fonti ho tratto quanto ho esposto intorno alle azioni del Principe degli Apostoli.
Compiuto il lavoro, procurai di farlo leggere da alcune persone erudite, quindi fu trasmesso per la revisione al Vescovo d'Ivrea appositamente incaricato dalla gloriosa memoria di Mons. Fransoni; e la prima edizione si eseguiva nel 1854. I giornali cattolici ne parlarono favorevolmente; parecchie centinaia di esemplari vennero richiesti da Roma. Il libretto faceva serie di quelli che il Card. Vicario raccomandava con apposita circolare in data 22 maggio 1858. Intorno alla stessa serie il Santo Padre, dopo averne gradita copia, compiacevasi di encomiarla fra le altre con queste parole: “Hac agendi ratione nihil praestantius nihilque utilius ad populi pietatem fovendam, augendamque” (Lett. 7 gennaio 1860). Pertanto io non poteva a meno di confidare che questo libro non contenesse cosa riprensibile e la prima edizione essendo esaurita, sul principio di questo anno pensai di farla ristampare. Prima però di offerirne copia in Roma ho giudicato bene di sentire il parere di due personaggi in Roma autorevolissimi, che mi incoraggiarono a diffonderla con tutti quei mezzi che mi erano possibili. Con queste premesse io era tranquillissimo intorno all'ortodossia del mio tenue lavoro.
SCHIARIMENTI SOPRA LE OSSERVAZIONI FATTE AL LIBRETTO.
Si osserva in prima che alcuni fatti sono ricavati da libri apocrifi o da incerte tradizioni senza distinzione, ossia senza notare che non sono ricavati da libri sacri.
Al che osservo che nella vita di S. Pietro del Cuccagni, i fatti da me narrati sono esposti con identici pensieri e quasi colle stesse parole.
In quanto poi alla distinzione di questi, da quelli ricavati dai libri sacri, pare che sia bastevolmente toccata nella citazione che è posta alla fine dei fatti non registrati nella Bibbia. Per es. si nota a pag. 102 il fatto di Teofilo che non appartiene alla Bibbia: ma al termine del paragrafo io avverto che quel fatto è ricavato da S. Basilio di Seleucia, e dalle Ricognizioni di S. Clemente. Il fatto notato a pag. 126 sembrami tutto conforme al testo biblico, ad eccezione della parola Rode che io dal Greco tradussi Rosa, seguendo il citato Martini in questo luogo, e il Cuccagni Vol. 2°, 167-8.
Riguardo al fatto di Tiberio, che propose al Senato di annoverare Gesù Cristo fra gli Dei, io mi sono letteralmente tenuto a quanto espone Benedetto XIV di gloriosa memoria nel tomo I, c. 1° De servorum Dei beatificazione.
A pag. 152 si disapprova il racconto di un morto da S. Pietro risuscitato. Questo fatto è colle medesime circostanze riferito dallo stesso Cuccagni, e affinchè il lettore si accorga che quel fatto non è parte [786] dei Sacri Libri io noto subito che è ricavato da S. Paciano, Epistola seconda: V. Cuccagni v. 3, pag. 170-1.
Si biasima l'esposizione come certa del volo e della caduta di Simon Mago: eppure S. Cirillo Gerosolimitano, Sulpizio Severo, S. Epifanio, S. Ambrogio, S. Agostino, S. Massimo ed altri celebri Santi Dottori o scrittori ecclesiastici lo ricordano come cosa ammessa quale fatto storico. Quindi lo ammette il più volte notato Cuccagni, che vi aggiunge ancora parecchie altre circostanze. In Roma poi nella chiesa di S. Francesca Romana presso all'arco di Tito è una pietra la quale dall'iscrizione in marmo che le è vicina si dà come quella su cui era inginocchiato S. Pietro mentre pregava per la caduta di Simon Mago.
A pag. 164 si osserva che non può forse annoverarsi tra i fatti certi quello che riguarda l'uscita di S. Pietro da Roma ed il suo ritorno in città dopo l'incontro del Salvatore che portava la croce. Però il Cuccagni lo espone con circostanze ancor più particolari, di poi cita S. Ambrogio e molti altri celebri autori, cui sembra potersi dare almeno una fede storica. Tanto più che posto questo fatto in dubbio, si offenderebbe la pia e costante tradizione delle persone e dei monumenti che in Roma stessa tuttora lo attestano. V. Cuccagni Vol. III, p. 195.
Si notano poi talune proposizioni non esatte in ordine alla storia evangelica e notasi per es. a pag. 17 dove si accenna che gli Apostoli erano occupati nella predicazione. La qual cosa, secondo le osservazioni, non è conforme, anzi sembra contraria alla Storia Evangelica. Ma non pare cosa chiara che si debba applicare alla predicazione degli Apostoli prima della morte del loro Divino Maestro, quanto è ripetuto così spesso nel Vangelo a questo proposito? S. Matteo, cap. X, dice: “Convocatis duodecim discipulis suis dedit illis potestatem spirituum immundorum ut ejicerent eos et curarent omnem languorem et omnem infirmitaem”. V. seq. Hos duodecim misit Jesus praecipiens eis, dicens: In viam gentium ne abieritis et in civitatem Samaritanorum ne intraveritis. Sed potius ite ad oves quae perierunt domus Israel. Euntes autem praedicatae dicentes: quia appropinquavit regnum coelorum.
Cose ancora più esplicite sono in S. Marco al capo III; quindi al cap. VI e VII: Coepit eos mittere binos et dabat illis potestatem spirituum immundorum. Lo stesso leggiamo in S. Luca c. VI e X. Da questi tratti evangelici apparisce chiara la missione degli apostoli. Che poi abbiano esercitata questa missione mentre conversavano col loro Divino Maestro nella vita mortale appare chiaro dal c. VI, v. 12 di San Marco, in cui si dice che gli Apostoli dopo aver ricevuta questa missione: Exeuntes praedicabant ut poenitentiam agerent, et daemonia multa ejiciebant et ungebant oleo multos aegros et sanabant. Il Sacr. Concilio di Trento insegna che in questa unzione era figurato il Sacramento dell'Estrema Unzione istituito di poi da Gesù Cristo. V. Martini in [787] S. Marco c. VI, v. 13. S. Luca c. X, v. 17: Reversi sunt autem septuaginta duo cum gaudio dicentes: Domine, etiam demonia subiiciuntur nobis in nomine tuo. Capo XXII, v. 34-36: Dixit eis: quando misi vos sine sacculo et pera et calceamentis, numquid aliquid defuit vobis? At illi dixerunt: nihil. Da ciò sembra potersi chiaramente mettere come verità evangelica che gli Apostoli furono dal Salvatore mandati a predicare e che di fatto esercitarono il ministero della predicazione prima della morte del Salvatore solamente agli Ebrei; ma nel mio libro non si dice che abbiano predicato Gesù Cristo.
Quando poi ricevettero la missione dell'Euntes docete omnes gentes, vale a dire tutte le nazioni, e, ricevuto poi lo Spirito Santo, S. Pietro cominciò a predicare per la prima volta Gesù Cristo.
A pag. 217 mi si osserva di aver detto, che la violazione di ogni divino comandamento è la trasgressione di un articolo di fede. Questo non era per certo la mia intenzione. Io voleva significare, che siccome chi trasgredisce un solo precetto della legge, perde la grazia di Dio non meno che se li avesse trasgrediti tutti: così chi nega un solo articolo di fede spegne in sè il lume della fede, come se li avesse negati tutti. Voleva anche dire che chi trasgredisce un precetto divino commette un'azione la quale è articolo di fede che sia peccato mortale. Insomma io intendeva di seguire quanto scrive S. Giacomo nella sua lettera c. II, v. 10 dove dice: “Quicumque autem totam legem servaverit, offendat autem in uno factus est omnium reus. Qui enim dixit: Non moechaberis, dixit et, Non occides. Quod si non moechaberis, occides autemf, actus es transgressor legis.”
Si osserva ancora che nell'appendice sulla venuta di S. Pietro a Roma si premette un avviso con cui si dice essere questo un punto storico, non un dogma cattolico. Su tal punto storico si osserva che la cosa è vera, ma si biasima altamente che io abbia detto che questa discussione è estranea alla fede. Io voleva solo dire che questo punto storico è fuori della cerchia degli articoli definiti quali punti dogmatici. Altrimenti che il Romano Pontefice sia successore di S. Pietro credo d'averlo ripetuto cento volte nel corso del testo, anzi chi legge può di leggieri accorgersi che questo comunque siasi lavoro non ha altro scopo che provare, insinuare e definire il primato di S. Pietro passato nel Romano Pontefice suo successore. Non credeva necessario, ripeterlo qui stante che alcune pagine dopo (206) vi è un capo, ossia un'intera considerazione: sul Capo visibile della Chiesa, successore di S. Pietro. Tuttavia su questo punto si toglierà ogni ambiguità nella futura edizione, ed anche si toglierà interamente quel preavviso che non altera la collegazione della materia: oppure al luogo notato pag. 192 riporterà o meglio ripeterà la definizione del Concilio Fiorentino da me riferito a pag. 58, come segue: Sebbene non sia dogma di fede la venuta di S. Pietro a Roma, tuttavia è dogma dalla Chiesa definito che il [788] Sommo Pontefice n'è il Successore, come definì il Concilio Fiorentino con queste parole “Noi definiamo che il... Romano Pontefice è il Successore del Principe degli Apostoli...” ecc. pag. 58 fino Chiesa Universale.
Dati questi schiarimenti conchiudo con assicurare: 1° Che tanto nello scrivere questo ed altri opuscoli, quanto nell'esporre questi schiarimenti io non ho avuto altro scopo che promuovere nella mia pochezza la maggior gloria di Dio e la gloria di nostra Santa Cattolica Religione e specialmente per insinuare rispetto e venerazione verso la persona del Supremo Gerarca della Chiesa, come ognuno può vedere nella serie delle Letture Cattoliche, che da quindici anni si pubblicano coll'approvazione si può dire di tutto l'Episcopato Subalpino e del medesimo S. Padre.
2° Tutto quello che si sarà per dire o fare dopo questi schiarimenti lo reputo una vera opera di carità, carità ancora più grande, se mi si noteranno in concreto le cose che sembreranno opportune per la verità dei fatti o per esattezza delle massime.
3° M offro pronto a modificare, correggere, cancellare, aggiungere quanto mi venisse semplicemente proposto in modo concreto, affinchè io possa con sicurezza seguire i suggerimenti.
Come ebbe finito, insieme colla lettera indirizzata all'Arcivescovo e il Voto del Consultore, fece copiare il suo lavoro dal ch. Chiapale, il quale, poi Cappellano Mauriziano a Fornaca Saluzzo, ci scrisse il 12 agosto 1889 quanto D. Bosco avesse allora sofferto:
“Il periodo più doloroso della lunga e fortunosa carriera di D. Bosco fu nel 1867. Dico fortunosa, perchè la vita di lui fu un'intreccio di rose e di spine e forse molto più di queste che di quelle, da esclamare con Gesù: His plagatus sum in domo eorum qui diligebant me.
Era sullo scorcio, credo, del mese di maggio. Una sera D. Bosco mi diceva privatamente: - Dopo cena verrai in mia camera. Ho un lavoro da darti che preme.
Mi recai sollecito all'ora stabilita; erano le nove e già nella cameretta attigua alla sua, sopra un tavolino, stava preparato l'occorrente per l'opera mia: - Copierai questo, mi disse, ma guarda di fare un lavoro pulito. [789]” Veramente lo scritto era assai intralciato, sia per la calligrafia, come per le correzioni e per le minute postille in margine. Solito però come era a copiare difficili manoscritti (come le prediche per gli esercizii spirituali di D. Cafasso ed i foglietti del mio Prof. Giuseppe Ghiringhello sul nuovo testamento, di cui io solo, forse, godo di conservarne gelosamente la trascrizione) l'opera mia scorreva felicemente.
Era questo scritto la difesa compilata insieme tra Don Bosco e Mons. Gastaldi, preconizzato vescovo di Saluzzo, circa le gravi osservazioni ed accuse mosse dalla Sacra Congregazione presieduta dall'Em.mo Cardinale Panebianco, contro alcuni fatti e proposizioni più inesatte che erronee, come dappoi risultò. Mi si permetta però di osservare, che mentre alacremente attendeva all'opera mia, qualche importuna lagrima veniva irrorandomi le guancie con pericolo di impedirmi la celere trascrizione.
Effetto era questo delle espressioni che mi toccava vergare mandate all'indirizzo del caro D. Bosco. Lessi la requisitoria che era grave, severa come si addice a chi esercita un alto ufficio: quello però che feriva assai lo spassionato osservatore, si era il modo con cui era trattato D. Bosco, come se fosse un visionario, un cantastorie, un dappoco, ecc. Pareva che in un affare di così alta importanza e conseguenza si potesse benissimo congiungere la giusta e severa censura contro gli errori, se vi erano, col dovuto rispetto all'autore, fatta anche astrazione dalla difficile e delicata posizione di D. Bosco presso la società.
Erano anche causa di mia commozione i frequenti sospiri e le parole tronche di D. Bosco nella camera attigua, che udiva nel profondo silenzio.
Omai suonava la mezzanotte quando sento aprire dolcemente l'uscio tra la sua cameretta e quella dove io scriveva.
- Ebbene hai finito? mi diceva D. Bosco.
- Per ora basta, purchè possiamo mandarlo domattina alle otto per la posta a Roma.
Mentre osservava la mia copia, m'introduceva nella sua camera. Ei si sedeva abbattuto. Col suo braccio sinistro appoggiato al tavolino sorreggeva la testa stanca:
- Hai visto, mi diceva come stanno le cose?
- Sì; rispondeva io istupidito dal suo cordoglio standogli d'appresso in piedi; ho visto come è trattato D. Bosco... ma... sarà niente .....
- Eppure, o mio Gesù, guardando il Crocifisso egli continuava, tu lo sai che ho scritto questo libro con buon fine. - E le lagrime gli cadevano grosse sul tavolino. - Ab! Tristis est anima mea usque ad mortem!... Fiat voluntas tua.... Non so come passerò questa notte... O mio Gesù, aiutatemi voi.
Io cercava di lenire il suo dolore con qualche frase interrotta dal singhiozzo; ma egli mi disse: - Chiapale, va' a riposare, è tardi; domani mattina hai di nuovo da venire qui per terminare la copia.
- Ah! D. Bosco, mi lasci stare qui con lei questa notte, io gli risposi; tuttavia non posso dormire.
Dopo un momento di silenzio, si alzò risoluto: - Là, mi disse, va' va' a dormire.
Come D. Bosco abbia passato quella notte, solo Iddio lo sa. Al mattino alle cinque ritornai da lui e lo trovai più sereno e tranquillo. Mi lasciò solo a scrivere, ed egli come se nulla fosse, secondo il solito discese in Chiesa per confessare e celebrare la Santa Messa. Al suo ritorno io aveva finito lo scritto con sua soddisfazione, perchè avendolo minutamente esaminato mi disse: - Va' bene.... bravo.... sei un campione! - D. Bosco pareva tutt'altro da quello di poche ore prima. [791]
In questo frattempo ecco risuonare una potente voce alla porta: -C'è D. Bosco? - Riconosco in quella il Can. Gastaldi, mio professore di eloquenza sacra nell'Oratorio, e: - C'è Mons. Gastaldi - dico al mio Superiore. -D. Bosco gli andò incontro: - Passi avanti, Monsignore, gli disse.
Questi lo ripassò rapidamente, dicendo: - Va bene, ci manca niente.
- Vuol dire che non ci sarà pericolo di.... lo interrogò D. Bosco.
- Uomo di poca fede, lo interruppe Monsignore; e perchè teme? Ho letto e riletto bene il libro, vi potrà essere qualche inesattezza da correggere, ma errori veri non ve n'ha. Stia tranquillo, D. Bosco, e riposi sulla mia parola”.
Immediatamente si mandarono gli schiarimenti a Roma e con questi una lettera indirizzata a S. E. Rev.ma Mons. Fr. Angelo Vincenzo Modena dei Predicatori, Segretario dell'Indice.
Appena che per mezzo di Mons. Vicario Capitolate ed a nome di S.E. Rev.ma l'Arcivescovo di Torino mi fu comunicata la risoluzione adottata dalla Congregazione del Concilio sull'opuscolo: Il Centenario di S. Pietro Apostolo colla vita dei medesimo principe degli apostoli, ecc. in cui mi è comandato di preparare una nuova edizione nella quale venga corretto e ritrattato quanto dal Santo Concilio fu giudicato meritevole di censura; appena avuta tale comunicazione mi fo' dovere di assicurare, promettere con termini i più esplicati che, come Sacerdote Cattolico, come direttore di opere di pubblica beneficenza, e come scrittore di alcune operette riguardanti la religione, di sottopormi puramente e semplicemente a questa e a qualsiasi altra risoluzione che fosse per prendersi intorno a questo libretto o ad altri già da me pubblicati o che mi accadesse di pubblicare in avvenire.
Fo' solamente umile e rispettosa preghiera di voler invitare il Rev. Consultore Relatore a voler con tutta bontà leggere gli uniti [792] schiarimenti che serviranno a dilucidare alcuni fatti della cui esattezza si muove dubbio. Ardisco fare questa preghiera perchè la sapiente ed autorevole Congregazione dell'Indice accolse la relazione del Consultore in senso benevolo e diminuì assai il parere di condanna assoluta del libro. Da questi medesimi schiarimenti credo che ognuno potrà conoscere la volontà fermamente cattolica dell'autore, e che quanto fu trovato o potesse trovarsi degno di censura è oltre, anzi contro alla mente dell'autore. Reputerei vera opera di carità se il sig. Consultore si degnasse di concretare le cose che egli giudica erronee, affinchè io possa con sicurezza tenermi alle sue osservazioni ed emendare quanto sarà del caso nella futura edizione cui dò mano immediatamente.
Io mi sono a Lei indirizzato di consenso del Superiore Ecclesiastico, affinchè così venga meglio conosciuta la buona volontà dell'Autore.
Del resto sono pienamente persuaso che in questo doloroso affare mi userà bontà e mi farà da padre; perciò reputo al più alto onore di potermi professare,
I due documenti vennero recapitati a Padre Oreglia, il quale pel momento li avrebbe custoditi, poi presentati, qualora si presentasse favorevole occasione.
CONTINUAVANO a giungere dall'ufficio della Civiltà Cattolica lettere rassicuranti all'Oratorio. P. Giuseppe Oreglia scriveva a D. Francesia il 21 maggio:
Secondo che già scrissi a Don Bosco ed ella ora saprà certamente, non credo che ci sia niun pericolo di ciò ch'ella non crede dire per l'opuscolo sul Centenario. [794] Se ella si ricorda quel periodetto sulla venuta a Roma (giacchè non credo che si tratti di altro) fu tema di discorso tra Lei e me in camera mia. Io credeva allora che il periodo fosse da correggere. Ma volendo essere sicuro ne interessai per lettera il P. Cardella, professore di Teologia in Collegio Romano. Il quale mi rispose dimostrandomi che il periodo era sostenibile, benchè inopportuno. Allora io non dissi altro: anzi sostenni, come sostengo la innocenza astratta e teoretica di quella proposizione: benchè mi paia che non era nè il luogo, nè il tempo. Poi non udii mai più nulla: e se qualche cosa si fece e si tentò fu al tutto segretamente...
Mandai a D. Bosco la lettera del P. Cardella dalla quale (se crede) può estrarre per sua norma e difesa ciò che crede: purchè non si serva del nome del P. Cardella, il quale ignora affatto che io abbia comunicata la sua lettera scritta in furia: e potrebbe lamentarsi giustamente se il suo nome fosse pronunziato.
Quella lettera desidero che mi sia rimandata. Ma le ragioni che ci sono, se valgono e piaciono, sono senza vincolo di proprietà letteraria. Se ho poi da dire intero ciò che penso, non bisogna che nè D. Bosco nè ella si figurino la cosa peggio che non è. Siccome io sono molto affezionato a D. Bosco e a tutte le cose sue per mille ragioni, e pure alla prima lettura di quel periodo mi sentii portato a censurarlo, così è molto più spiegabile che molti altri, senza niun mal animo e per puro amor della verità o di ciò che sembra tale, abbiano fatto lo stesso. La cosa passando di bocca in bocca giunge agli indifferenti, a quelli che non conoscono affatto la persona: e questi naturalmente parlano con più libertà. Qualche nemico anche lo voglio supporre possibile, ma non credo di fatto ci sia, ed è meglio credere che non ci sia, ancorchè ci fosse, il che non credo affatto. Da qualche parola che Federico può sentire e scrivere non vorrei che si facessero false opinioni sullo stato degli animi qui. Io credo poter assicurare che nè questo incidente, nè altro, non ha nociuto affatto nè sminuito quell'affetto e venerazione che si aveva a D. Bosco e ai suoi, e alle opere sue.....
D. Bosco accettava con riconoscenza le confortanti parole degli amici, sebbene queste non potessero togliergli la persuasione che la realtà delle cose fosse come altre lettere da noi accennate gli avevano indicato; e rispondeva al Cavaliere.
Ho ricevuto la lettera di suo fratello che mi fu di grande consolazione. Gli ho risposto ed avendo dovuto mandargli un pacco un po' [795] grosso per la posta, faccia il piacere di vedere quanto ha pagato per la posta e lo indennizzi coi più sentiti ringraziamenti.
Certamente nella mia dimora non ha potuto soddisfare a tutti i miei doveri; riguardo però al cav. Befani, ho mandato tre volte Don Francesia per poterlo trovare in qualche sito, ma non si è potuto avere.
I signori Fattori e il Cav. Pasquali furono da me desiderati; voleva andare a far loro visita, ma essi mi hanno più volte ripetuto che, vista la farragine di cose da cui era attorniato, mi dispensavano da ogni sollecitudine di recarmi da loro, come avrei desiderato.
Ella dica sempre che io non ho mai vantato cose straordinarie: io ho sempre detto che Maria SS. Ausiliatrice ha conceduto e concede tuttora grazie straordinarie a quelli che in qualche modo concorrono alla costruzione di questa chiesa. Io ho sempre detto e dico: L'offerta si farà a grazia ottenuta, non prima.
Del resto non è possibile di contentare tutti anche colla più buona volontà. Debbo per altro assicurarlo e lo dissi ripetutamente alla Marchesa Villarios, che nel vedermi assediato da tanti e sì diversi personaggi, ho fatto pel tempo che fui in Roma speciali preghiere affinchè Dio non concedesse niuna cosa clamorosa che facesse parlare del povero D. Bosco e in ciò credo che Dio ci abbia esauditi.
Ella poi sa che io doveva evitar certe persone, altre frequentare perchè buoni cattolici del nostro spirito e pronti ad aiutarci. Tali sono: P. Ambrogio Ab. degli Antoniani, piazza di S. Pietro in Vincoli; le monache Filippine; del Sacro Cuore di tutti e tre i monasteri; di Torre de' Specchi; il Procuratore Generale dei Fratelli delle Scuole Cristiane, il Cav. Giacinto Marietti, Mons. Manacorda, Comm. Angelini, sig. Nicoletti Gerente del Banco dei Fratelli Bertinelli, Cav. Avv. Giuseppe Bertinelli (Via del Corso, 38; è in casa alle 2); suo fratello Canonico di S. Eustachio, e i suoi fratelli; Casa De Maistre, Monti, Serluppi, Contessa e Conte Antonelli, Mons. Fratejacci, Uditore del Card. Vicario, il Padre Generale dei Domenicani. Con costoro e con altri della loro relazione ho trattato ed ho fatto quel tanto che si potè. Con essi mettasi in relazione e vedrà che pietà e che propensione a beneficare. Con essi metto P. Lorenzo Superiore di Camaldoli, fratello di Bertinelli; tutti quelli di antica relazione ed altri molti di cui ignoro l'indirizzo.
Buzzetti farà la spedizione di cui mi ha parlato.
Oggi fu qui la principessa Solms, moglie del ministro Rattazzi. Visitò tutta la casa e si mostrò molto contenta. Promise mari e monti: vedremo.
In giugno sentirà risuonare il piemontese in tutte le vie di Roma. Un'immensa moltitudine si prepara per andarvi.
Non può immaginarsi le meraviglie, che noi vediamo ogni giorno operarsi da Maria SS. Ausiliatrice. La settimana scorsa in piccole [796] offerte fatte per grazie ricevute, vennero registrati tremila ottocento franchi. Oggi un signore di alta condizione, che non vuole per niun modo essere nominato, dopo un anno che aveva un braccio paralitico, fatta una preghiera riacquistò l'uso del suo braccio e scrisse: - Maria Ausiliatrice, aiutatemi. - Nel trasporto di sua gratitudine andò a casa e ritornò portando tremila franchi, per continuare i lavori della chiesa o meglio per pagare una parte dei debiti esistenti dell'anno scorso. Sia in ogni cosa benedetto il Signore.
Colla lettera di D. Savio riceverà i saluti e gli auguri di sanità da tutta la casa e Iddio lo accompagni in ogni passo, in ogni parola.
A tutti poi saluti con assicurazione di preghiere. Al giorno 24 i nostri giovanetti faranno la loro Comunione, colla Messa e preghiere in onore di Maria SS. Ausiliatrice pei nostri benefattori di Roma.
P. S. - Scriverà in proposito alla Duchessa di Sora.
Il 21 adunque la Principessa Maria Laetitia Wise-Bonaparte Solms era venuta nell'Oratorio. Scrittrice di romanzi ne aveva stampato già quattro volumi e il quarto era intitolato Le Chemin du Paradis; nel quale si parlava di fatti e di persone come se ne suol parlare in libri di simil genere, e il Marchese Napoleone Pepoli con altri credette trovare in quelle pagine allusioni personali. Ne nacque uno scandalo e la Principessa venne esigliata per un anno dalla Corte di Firenze. Mentre partiva per Torino il Ministro Urbano Rattazzi aveale raccomandato di venire a visitare l'Oratorio - Va' e sarai contenta! - E di quella visita ne rendeva avvertito D. Bosco.
Difatti venne all'Oratorio accompagnata da nobili signori e seguita da un domestico. La banda musicale era alla porta. D. Bosco le mosse incontro e le fece percorrere lo stabilimento e visitare ogni cosa. La condusse in Chiesa, ove inginocchiandosi disse alla principessa: - Signora, vi è il SS. Sacramento! - Essa pure si segnò e si inginocchiò da buona cristiana, e non si alzò se non quando alzossi D. Bosco. [797] La principessa fu così ammirata delle accoglienze fattele, della musica, del canto, dei laboratorii, del numero dei giovani, che ritornata a casa mandò un telegramma al ministro suo marito: - Vengo dall'Istituto Don Bosco: sono al tutto soddisfatta: godo d'aver potuto conoscere bene una delle meraviglie del secolo XIX.
Rattazzi rispondevale: - Ero sicuro che saresti stata bene accolta. Sono contento che abbia anche tu veduto co' tuoi occhi questa meraviglia: così non mi riprenderai più, come facevi sempre, allorchè ti diceva che D. Bosco è forse la più gran meraviglia del nostro secolo.
E scriveva una lettera di ringraziamento a D. Bosco.
Nello stesso giorno che visitava l'Oratorio la principessa Solms, una santa Religiosa di nobili natali, l'eccellentissima Presidente delle Oblate di S. Francesca Romana di Tor de' Specchi, Madre Maddalena Galeffi, che col profumo di una ingenua virtù, carità e umiltà, sembrava un contrapposto umiliante alla studiata urbanità della romanziera e della donna del gran mondo, scriveva a D. Francesia:
.....Sia certo che mi farà cosa grata ogni qualvolta si compiacerà di scrivermi le notizie del nostro D. Bosco, come di ciò che riguarda gli Ospizi del medesimo. La mia salute è abbastanza buona, così fosse quella di D. Bosco, che dal Cav. di Santo Stefano sento assai decaduta. Oh! Dio lo conservi per carità e pel vantaggio di tutti! Me lo riverisca e gli dica che non dimentichi le varie preghiere, o domande che gli feci a voce e collo scritto e mi raccomandi a Gesù nel Sacramento. Lo stesso faccia Lei per chi chiamata dalla campana al coro lascia di scrivere.
Il giorno seguente D. Bosco spediva un altro suo scritto al Cav. Oreglia, annunziando l'andata di D. Cagliero a Roma con un compagno perchè assistesse alle feste del Centenario, alla Canonizzazione di 25 beati, martiri la maggior parte; e alla Beatificazione di 205 martiri Giapponesi. Prima però di partire, D. Cagliero si recava a Lanzo con D. Bonetti a predicarvi gli esercizii spirituali. [798] Nella stessa lettera D. Bosco tornava a parlare del libro del Centenario, e del bisogno che sentivi di un buon laico, che sapesse disimpegnare nella Pia Società la parte contenziosa.
D. Savio e D. Cagliero le daranno di nostre notizie, perciò io mi limito solamente a dirle che ho scritto a varii personaggi, di quelli che mi ha nominato; in quanto all'affare del libro mi tengo a quanto mi disse suo fratello Giuseppe.
Se ha danaro da spendere ce lo mandi, chè ne abbiamo bisogno specialmente in questi giorni che tutti domandano: ad eccezione delle oblazioni per grazie ricevute, del resto ci viene proprio niente.
Giunto a Torino bisogna proprio che la facciamo procuratore generale del foro contenzioso, perchè i preti negli uffìzi di procuratori sono fuori di posto.
Domani scriverò altra lettera che riceverà martedì.
Sappia darmi notizie di Mons. Frateiacci e di D. Pellegrini, ecc. Vale dic omnibus amicis in Domino. Amen.
Il 24 maggio, venerdì, ricorreva la solennità di Maria SS. Ausiliatrice, e benchè fosse giorno feriale alla messa della comunità nella Chiesa di S. Francesco di Sales vi fu musica e gran numero di Comunioni. In questo giorno D. Bosco pubblicava una circolare per l'erezione di una cappella nella nuova Chiesa, da dedicarsi ai Cuori SS.mi di Gesù e di Maria.
UN FIORE A MARIA AUSILIATRICE.
La vostra offerta sarà un giglio che germoglierà sull'altare di Maria.
In Torino, nella regione Valdocco, è in costruzione una chiesa dedicata a Maria SS. Ausiliatrice. I lavori sono già inoltrati e, se questa Celeste benefattrice continua a benedire l'opera sua, credo che in [799] quest'anno potrà essere ultimata e forse anche consacrata al divin culto.
Parecchie pie signore di altre città d'Italia mosse da spirito di divozione si associarono per provvedere il novello edifizio di ornamenti interni. Questo slancio di generosa carità infuse nelle signore di Torino il vivo desiderio di concorrere colla loro beneficenza e dimandarono che fosse iniziata una soscrizione diretta a raccogliere i mezzi per l'erezione di una cappella consistente in un altare, balaustra e dipinto rappresentante i sacratissimi cuori di Gesù e di Maria, cui verrebbe dedicata la cappella medesima. Per corrispondere al pio desiderio ho deliberato di formolare il presente invito.
L'opera sarà più o meno ricca di ornamenti secondo che sarà maggiore o minore l'abbondanza delle oblazioni; ma nulla si risparmierà affinchè per quanto si può riesca se non degna, almeno gradita all'augusta Regina del Cielo e al suo divin Figliuolo.
Ognuno può fare una oblazione mensile in quest'anno, oppure fare un'offerta subito od anche, a piacimento, nel corso dell'anno corrente, come si può vedere nella scheda a parte. Chi poi non potesse o non giudicasse di concorrere con mezzi materiali, è pregato di recitare almeno un'Ave Maria per quelli che concorrono.
Terminata la cappella, si formerà una tabella in cui si noterà nome e cognome di tutti quelli che hanno concorso a quest'opera di carità; e questi poi avranno certamente una parte particolare dei meriti che si acquisteranno negli esercizi di cristiana pietà, che si compieranno a questo altare dei Sacratissimi Cuori di Gesù e di Maria.
Le oblazioni e le schede firmate si potranno far pervenire al sottoscritto, oppure a quella persona, che per amor di Maria si assumerà di diramare tali inviti.
Conchiudo con le parole con cui il caritatevole Pontefice Pio IX accompagnava la sua prima oblazione per dare cominciamento alla costruzione della chiesa: “Dio benedica tutti quelli che prenderanno parte alla costruzione di questo edifizio, egli diceva, e questa tenue oblazione del Sommo Pontefice abbia più potenti e generosi oblatori che concorrano ad accrescere e dilatare il culto dell'Augusta Madre del Salvatore in terra e così diventi più grande il numero dei suoi divoti che le faranno un giorno gloriosa corona in Cielo
La scheda di sottoscrizione era impressa in questi termini: [800] Ad onore di Maria Ausiliatrice - per un altare e cappella da dedicarsi ai SS. Cuori di Gesù e di Maria nella chiesa in costruzione in Valdocco di Torino:
Offro e pago per questa volta Fr.
Offro per ogni mese di quest'anno Fr .....
Offro nel corso di quest'anno Fr ......
Abitazione ... Via.......................Numero..........Piano .....
D. Bosco aveva affidato ad esimie benefattrici lo spaccio di queste schede; di ciò non ci restano che due memorie.
Nella speranza di poterla riverire in persona ho tardato fin ora d'inviarle il resoconto delle schede che V. S. favorì d'incaricarmi di far sottoscrivere; gliene invio soltanto tre; le altre che mancano una fu inviata al M. R. Mons. Calabiana, che rispose d'occuparsene tostochè fosse rimesso in salute; la seconda fu rimessa alla Contessa Morelli Casanuova, che forse l'avrà già spedita a Lei con la sua offerta; la terza la diedi alla famiglia Camerana e credo che la damigella sia andata in persona a portarle la loro offerta .....
Mi permetta di rammentarle la sua promessa di visitarci in Albuguano.....
La seconda memoria sta in una lettera di D. Bosco a Madre Maddalena Galeffi.
Benemerita signora Madre Presidente,
Si assicuri, signora Madre, che non mancherò di raccomandare lei e le sue religiose al Signore nella S. Messa; lo stesso fanno ogni giorno i nostri giovanetti nelle comuni loro preghiere e comunioni.
Ella mi dice che è disposta di fare altre cose per la chiesa. Deo gratias! la S. Vergine la ricompensi di tutto. È però bene, che mi spieghi perchè non s'intenda una cosa per un'altra. Il sig. Cav. Oreglia mi significò che V. S. aveva intenzione di dare due mila scudi per una cappella della novella chiesa e in vista di ciò io ho dato ordini per un altare, che per quanto possiamo noi, sarà degno dei SS. Cuori di Gesù e di Maria. Ora io non so se oltre a questo Ella intenda ancora di voler estendere la sua carità ad altro; ma in ciò avrei bisogno che ella con tutta libertà si pronuncia affinchè nulla io dica nè intraprenda [801] che le possa cagionare sorpresa. Riguardo ai pagamenti si possono fare a quote ripartite e con mora.
Comunque ella sia per fare, io non mancherà di pregare la S. Vergine affinchè le conceda sanità durevole, giorni felici, il Paradiso. In fine, con gratitudine mi professo
Il giorno stesso di Maria Ausiliatrice D. Rua dava novelle al Cavaliere di ciò che andava facendo D. Bosco.
Ho molte cose a dirle e a raccontarle; procurerò di essere breve. In casa varie novità. Il Finino volossene al Paradiso. Requiem aeternam dona ei Domine.
Abbiamo avuto per alcuni giorni un missionario Veronese accompagnato da un moro che egli erasi condotto seco quando ritornò dall'Africa: stamane è già di nuovo partito per le missioni: se potrà, ci manderà qualche moretto.
I giovani stanno bene in generale; fecero gli esercizii spirituali dettati dal sig. Can. Eula di Mondovì; par che siano riusciti bene. Ella preghi perchè se ne conservino ora i frutti. Don Bosco di salute sta bene; ma il Signore lo mette alla prova in varie guise; egli però sopporta tutto colla solita tranquillità e rassegnazione. Di qualche tribolazione sarà informata, m'immagino, da lui stesso; io le accennerò una sola ed è che fummo privati del favore per le ferrovie; siamo stati pareggiati in questo agli altri istituti di educazione. Cause affatto da noi indipendenti ci procurarono sì fatta privazione.
La Madonna però va consolando D. Bosco per altre vie.
Un padre di famiglia venne a sfogare la piena del suo dolore con D. Bosco perchè, paralitico della mano destra, più non poteva servirsene e languiva per conseguenza esso colla sua famiglia. D. Bosco lo esortò a confidare in Maria. Prima che uscisse di camera sua quella mano, che da parecchi mesi non gli aveva più servito che d'imbarazzo, scrisse sopra un foglio, che io conservo, le parole: Maria Ausiliatrice, aiutatemi .....
Nei primi giorni del mese D. Bosco fece un viaggio a Saluggia per assicurare (mediante qualche offerta) il parroco dalle minacce di assassini che, dopo aver tentato già due volte di ucciderlo, avevano mostrato ferma intenzione di disfarsene in altra occasione. Che cosa sia passato tra lui e il parroco, nol so; so bensì che avendo dovuto discendere dal vapore a Livorno Vercellese, dovette andare a Saluggia in vettura. Trovavansi quattro nello stesso calesse. Colui che guidava [802] il cavallo e gli altri due erano tutti intenti a mostrare a D. Bosco le belle campagne, narrargli la storia delli cascinali che incontravan per via; ed una conversazione animatissima erasi intavolata, quando all'improvviso tutti quattro fecero un salto terribile; tre furono balzati a terra, D. Bosco solo che ebbe tempo a dire: - Maria Ausiliatrice, aiutatemi! - rimase sul calesse, limitandosi per la scossa a battere del mento sulle ginocchia senz'altro male. Fortunatamente anche gli altri non ebbero che qualche ammaccatura o scalfittura. La vettura erasi imbattuta in un paracarro a cui non aveva badato chi guidava il cavallo. Alzatisi di terra tutti tre, si accusavano a vicenda essere causa della caduta. All'uno s'imputava che non aveva fatto attenzione a quel che faceva; all'altro si rispondeva che non avrebbe dovuto additare certe case od oggetti e distrarre così l'attenzione di chi teneva le redini. D. Bosco però li mise tosto in pace: - Perchè mai, disse, state ad accusarvi l'un l'altro, mentre siete tutti e tre innocenti? Non ha torto il cavallo che correva moderatamente, non ha torto la vettura che serve benissimo, non avete torto voi che guidavate e neppur voi che parlavate, perchè ciascuno aveva buona intenzione di far bene la sua parte. Il torto….il torto è di colui che ha piantato lì quel paracarro! - Risero di cuore i compagni malgrado che sentissero ancora la pelle a bruciare, salirono nuovamente in vettura e compirono felicemente il loro viaggio.
Ora basti; ad altro tempo altre cose. Se mai la madre di Spazzacampagna le dimandasse nuove del figlio maggiore, le dica che nella sua salute non vi è peggioramento, e che aspettiamo solo un'occasione per inviarglielo secondo il desiderio espressoci. Faccia tanti rispetti suo fratello, a Mons. Manacorda ecc. Compisca bene il mese di Maria e preghi pel
Dunque l'Oratorio era stato privato dei biglietti di favore per le ferrovie, aventi il ribasso del 75 per cento. Atteso il numero degli alunni appartenenti ad ogni regione d'Italia, i bisogni che frequentemente richiamavano or l'uno or l'altro al proprio paese, e la lunghezza delle linee che molti dovevano percorrere, si accrescevano in modo straordinario le spese dell'Oratorio. Fra i giovani ve n'erano ventidue, raccomandati dal Ministero dei Lavori Pubblici e dalla Direzione delle Ferrovie, accettati e ricoverati da Don Bosco, come consta dai registri. [803] Questi però non si perdette d'animo e scriveva alla Direzione delle Ferrovie. Le sue lettere sono una prova della tranquillità del suo spirito anche in mezzo alle contraddizioni.
Ill.mo Sig. Direttore Generale,
E' già trascorso un anno e mezzo da che questa benemerita Direzione concedeva ai poveri giovani della nostra casa la riduzione al quarto di tariffa pei viaggi sulle ferrovie dell'Alta Italia. Inaspettatamente fu sospeso il favore e fu di non lieve sconcerto pei nostri giovani, giacchè alcuni non poterono più ritornare dai loro rispettivi paesi.
Dimandata la cagione di questa privazione furono specialmente addotti due fatti. Uno di Castagnole delle Lanze, ove alcuni parenti dei giovani accettati e che venivano in questo stabilimento cercarono di introdursi seco loro per godere del medesimo favore. Il Capo Stazione conobbe la cosa e rifiutò il biglietto non solamente a chi cercava di defraudare, ma ai giovani stessi.
L'altro avvenne a Saluzzo, pel caso di un giovane che per motivo di malattia erasi recato in patria. Contro gli ordini dati egli rimise il suo foglio a stampa ad altri che non appartenevano alla nostra casa. Scoperta la frode, furono consegnati i frodatori ai carabinieri. E in questi casi i Capi Stazione compirono i loro doveri.
Ma l'amministrazione di questo Stabilimento non ebbe alcuna parte nei fatti mentovati, anzi usò sempre ogni sollecitudine e si raccomandò sempre a tutti gli applicati alle ferrovie di aiutarci ad impedire qualunque disordine potesse avverarsi nella pratica di tale concessione.
Ora la prego, sig. Direttore, ad essermi cortese da farmi significare se tale ritiramento di favore viene dal Consiglio di amministrazione, oppure se è una sospensione temporaria, o una revocazione assoluta: e non potendosi più ottenere per intiero il favore, almeno si concedesse agli indigenti la riduzione che suole farsi agli indigenti.
Qui le noto che, in seguito al favore concesso dalla Direzione delle ferrovie, io ho ritirati parecchi ragazzi che per la morte dei loro genitori impiegati alle ferrovie, o per altri motivi eccezionali, trovavansi in assoluto abbandono e in estremo bisogno. Il numero di codesti ricoverati in questo senso presentemente è di 20 circa. Parecchi sono in aspettazione: onde il benefizio intendo che ceda totalmente, come faceva nell'antica amministrazione, a favore dei poveri fanciulli degli applicati alle ferrovie e raccomandati dai rispettivi capi.
Con ciò non intendo di mettere in mezzo di una strada questi ragazzi qualora mi venisse definitivamente negato il favore; anzi [804] raddoppierà li miei sforzi per ritenerli e ricoverarne altri ancora; ma la necessità mi costringerà a limitarmi, mancandomi i mezzi.
Ad ogni modo io prego rispettosamente V. S. Ill.ma a prendere in benigna considerazione lo stato di mille duecento poveri giovanetti, i quali a Lei tendono la mano supplichevole e pregano i signori Amministratori della ferrovia dell'Alta Italia a venir loro in aiuto con quel maggior favore che si possa loro concedere.
Dal canto mio prometto di praticare tutti quei mezzi che mi saranno suggeriti per impedire qualunque abuso che da tale concessione possa derivare.
Con gratitudine e con rispetto ho l'onore di potermi professare,
Dopo qualche pratica verbale, la Direzione delle Strade Ferrate accettava le ragioni di Don Bosco, e gli accordava il favore di riduzione del 50 per cento.
La S. V. Ill.ma si degnò significarmi che essendo stato revocato il favore del quarto sulla tariffa pel trasporto dei miei poveri giovani, tuttavia riduceva il prezzo alla metà. Io sento il dovere di rispettosamente ringraziarla, giacchè sebbene senza alcuna mia colpa sia stato privato del beneficio, ciò non di meno dopo il fatto non posso a meno che accettare colla più sentita gratitudine quella porzione che mi si vuole pur anco accordare.
Farei soltanto rispettosa preghiera di volermi stabilire un modulo di biglietto da doversi presentare alle stazioni, senza dovere ogni volta fare regolare domanda, perchè questa formalità rende difficile e per lo più priva di risultato la concessione. Da alcuni giorni furono già fatte parecchie domande, ma il permesso giunse sempre al tempo in cui i ragazzi avevano già dovuto partire. Poi se ad ogni ragazzo e per ogni volta si dovesse fare ricorso speciale, tornerebbe certamente di troppo grave disturbo in cotesti uffizii, giacchè vi sarebbero oltre a mille duecento giovanetti che non meno di due volte all'anno dovrebbero in questo modo ricorrere.
Io per altro sono tuttora pieno di speranza che in un tempo, forse non molto lontano, Ella si degnerà di dire una parola in mio favore ed i miei poveri ragazzi potranno godere di nuovo della riduzione ad [805] un quarto, come appunto abbiamo già goduto e godono altri stabilimenti di questo genere.
Per altro, qualunque cosa sia per concedere, a nome dei miei poverelli io le professo la più sentita gratitudine ed auguro ogni bene del cielo sopra di lei e sopra tutti quanti gli amministratori della Società della Ferrovia dell'Alta Italia e mi sottoscrivo con pienezza di stima
Torino intanto aveva il suo nuovo Arcivescovo, Mons. Alessandro Ottaviano Riccardi dei Conti di Netro. Nato a Biella il 23 maggio 1808, successivamente Chierico e Cappellano di Corte, Canonico della Metropolitana, elemosiniere di Re Carlo Alberto, e poi Vescovo di Savona nel 1842, aveva per caratteristica la bontà. Era tanto amato in Savona per le sue opere di beneficenza che aveva pianto al pensiero di dover partire; aveva pregato, aveva rivolto suppliche al Papa e al Re; ma tutto era stato inutile e dovette sobbarcarsi alla nuova croce, e venire a Torino. Fino allora era stato ammiratore ed amicissimo di D. Bosco. Avealo visitato a Roma e Don Bosco gli rese la visita. Il degno Prelato lo accolse con una espansione straordinaria, esponendogli molti suoi progetti, tra cui quello di affidargli la direzione dei piccoli Seminari di Giaveno e di Bra, e del Seminario di Chieri. In D. Bosco metteva tutta la sua fiducia per l'educazione del giovane Clero. Quando il Venerabile si congedò, l'Arcivescovo gli aveva detto: - Contate pure sopra di me in ogni cosa: io voglio essere un vostro affezionatissimo amico! - E D. Bosco era tornato a Torino col cuore pieno di speranza di aver ritrovato il protettore, perduto con la morte di Mons. Fransoni.
L'Arcivescovo, giunto a Torino, andò a prendere alloggio presso suo fratello, e il giorno dopo comparve all'Oratorio vestito da semplice prete, sicchè il portinaio non lo conobbe. Chiese di veder D. Bosco, ma non era in casa. Dopo avere atteso [806] alquanto, vedendo che D. Bosco non giungeva, disse al portinaio: - Quando D. Bosco ritornerà, gli direte che il suo Arcivescovo è venuto in persona all'Oratorio, desiderando procurarsi il piacere di fargli pel primo una visita. - Ciò detto uscì.
Don Bosco commosso a tanta degnazione il dì seguente si affrettò di recarsi al palazzo dei conti di Netro. Accolto a festa dall'Arcivescovo, che gli mosse incontro, dopo varii discorsi gli diceva: - Monsignore, Lei può giovarmi molto in un affare importantissimo che ho per le mani.
- Pensate se non voglio aiutarvi; con tutto piacere.
- Lei saprà che ho dato principio ad una nuova Società religiosa....
- Voi? una Società religiosa? - E restò come sbalordito perchè nuovissima riuscivagli la cosa. D. Bosco prese a narrargli le sue passate vicende e le difficoltà presenti. Monsignore che fino allora aveva creduto l'istituzione di Don Bosco semplicemente Diocesana e quindi dipendente in tutto da Lui, nel venir a conoscere come fosse destinata a scopo mondiale, dipendente da Roma, e quindi nella necessità di ottener l'esenzione dall'immediata dipendenza dell'Ordinario, si mostrò attonito come se avesse ricevuto un affronto, e disse: - Io credevo che voi avreste lavorato totalmente nella mia diocesi, e che ci saremmo aiutati a vicenda pel vantaggio delle anime che mi sono affidate! - E come uno che soffre una viva contraddizione, congedò D. Bosco molto freddamente. In seguito questa freddezza crebbe, ma unicamente perchè non mancarono persone che posero nel cuore dell'esimio Prelato diffidenza verso l'Oratorio.
Il 26 maggio egli fece il solenne ingresso in Metropolitana, seguendo l'antico cerimoniale, con grande concorso di fedeli. D. Bosco gli fece presentare un indirizzo di ossequio, del quale abbiamo negli archivii la sua dedica autografa:
Nel sospirato giorno - in cui Sua Eccellenza Reverendissima [807] - Monsig. Alessandro dei Conti Riccardi di Netro Vescovo di Savona, Arcivescovo di Torino - faceva il solenne suo ingresso tra l'esultante suo popolo - I Sacerdoti i chierici, i giovani dell'Oratorio -di S. Francesco di Sales, di S. Giuseppe, di S. Luigi - del collegio di S. Filippo Neri in Lanzo - davano un tenue segno - della tenera e grande loro figliale venerazione - con queste parole: ecc.
Il giorno dopo il solenne ingresso, al quale quelli dell'Oratorio avevano preso parte, e D. Bosco e i suoi preti in rocchetto, il Servo di Dio andò in Arcivescovado, accompagnato da Don Cagliero, che ci narrò questa visita. Introdotti in sala, ecco venire Sua Eccellenza che dopo il primo saluto, li invita a sedere, prendendo posto di fronte, a non consueta distanza da D. Bosco: - Oh! esclamò fra sè D. Cagliero,
forse va male! - Monsignore infatti, senza far cenno delle feste del giorno prima e dell'indirizzo avuto dall'Oratorio, chiese senz'altro: - In che cosa posso servirla, D. Bosco?
- Vengo per raccomandare me e la mia Congregazione alla sua protezione.
- Noi faremo tutto quello che potremo per continuare a lavorare stando sempre ai suoi ordini.
- E non vogliamo mai in nessun modo mancare all'ossequio che Le dobbiamo, mentre preghiamo V. E. a credere che nostro vivo desiderio è di contentarla in tutto.
- State tranquillo, che io non vi farò la guerra!
Don Cagliero non poteva più contenersi: - Incomincia male (andava ripetendo tra sè) incomincia male! Difatti il dialogo continuò asciutto asciutto per alquanto tempo, non dando l'Arcivescovo che risposte fredde e concise.
Nel ritorno, D. Cagliero fe' notare a D. Bosco quelle parole: Non vi farò la guerra, come indizio di poco buon presagio; [808] e il Servo di Dio gli rispose semplicemente: - Oh speriamo, speriamo!
A Torino intanto rendeva più lieti que' giorni il numero dei Prelati che erano in città per conferire o ricevere la consecrazione episcopale. Mons. Savio era consecrato nella Chiesa del Corpus Domini, Mons. Galletti in quella del Cottolengo.
Don Bosco affrettossi a prestar loro il dovuto ossequio e quindi per la terza volta tornava dall'Arcivescovo. Mons. Riccardi e la sua nobile famiglia avevano molte volte beneficato l'Oratorio; e gli faceva pena quella freddezza della quale non vedeva la cagione. Monsignore aveva un'anima senza fiele e senza alterigia, ed un cuore sensibilissimo ad ogni contrasto che urtasse coi suoi affetti, non solo paterni, ma veramente materni, che egli prodigava alla sua diocesi, pronto per essa a qualunque sacrifizio. La sua sensibilità andava crescendo per il ricordo di Savona, per l'età avanzata, per gli incomodi che lo travagliavano. Quindi gli spiaceva il vedere un Istituto, che aveva amato credendolo diocesano, non dipendere direttamente da lui. L'affetto che i salesiani appartenenti alla sua diocesi portavano a D. Bosco, gli pareva una diminuzione dell'affetto a lui dovuto. Ciò andavano insinuandogli alcuni consiglieri. Un giorno mentre nella sagrestia dell'Oratorio vestiva gli abiti pontificali per dare la benedizione, e in due ali cento e più giovani vestiti da chierici erano schierati dinanzi a lui, quei signori baciandogli replicatamente la mano o la spalla ripetevano ad alta voce: - Lei, Eccellenza, Lei è il nostro papà.... non abbiamo altro padre che lei.... Oh! buon padre! - Eravamo presenti noi stessi e ne prendemmo nota. Era una lezione, certo non meritata, che si voleva dare ai Salesiani! Monsignore però non fu mai nemico dell'Oratorio, e se fra lui e D. Bosco ci furono dei contrasti, se ne deve cercare la causa in quel benedetto cuore!
Abbiamo scritto questa pagina perchè s'intenda che la [809] nuova croce destinata al Servo di Dio non era effetto di mal animo nel nuovo Superiore Ecclesiastico.
D. Bosco intanto si era nuovamente presentato all'Arcivescovo, e gli era detto che questi era occupato e non poteva riceverlo. Tornato all'Oratorio il Venerabile si affrettò a stendere e ad inviar a Sua Eccellenza il seguente memoriale, perchè potesse conoscere lo scopo della Pia Società Salesiana.
SOCIETA' DI S. FRANCESCO DI SALES.
Questa Società è composta di Sacerdoti, chierici e laici, i quali cercano la propria salvezza coll'esercitare la carità verso il prossimo:
1° col procurare la religiosa istruzione dei giovanetti più poveri e pericolanti sopratutto nei giorni festivi; come si fa nell'Oratorio di S. Giuseppe, di S. Luigi e di S. Francesco di Sales.
2° col raccogliere i più abbandonati per dar loro alloggio, vitto ed avviamento a qualche mestiere, affinchè col tempo giungano a guadagnare il pane della vita col lavoro delle proprie mani.
Se ne ricevono anche per lo studio a gratis o a modicissima pensione, purchè manifestino una condotta eminentemente buona, che è quanto dire, lascino probabilità d'inclinare allo stato ecclesiastico, come si fa nella casa detta Oratorio di S. Francesco di Sales, di S. Filippo Neri in Lanzo, di S. Carlo in Mirabello dove hanno scientifica e religiosa istruzione circa mille duecento giovinetti.
3° Col dettare esercizii, novene e catechismi, in quei luoghi dove per deficienza di mezzi materiali mancasi di predicazione.
A questa parte è pure annessa la sollecitudine di propagare buoni libri con tutti quei mezzi che il Superiore Ecclesiastico sarà per suggerire.
Per conservare l'unità di spirito e disciplina in questo genere di sacro ministero è indispensabile una Società di persone che sotto alla scorta dell'autorità ecclesiastica studino, e l'un l'altro si tramandino quelle regole di prudenza e di carità che per lo più si possono solamente dalla pratica imparare.
Questa società sebbene limitata ad alcuni ecclesiastici cominciò nell'anno 1841 a raccogliere poveri giovanetti nei giorni festivi. Mons. Fransoni fu costantemente guida e consigliere di quanto si faceva. Dopo di aver accordate parecchie facoltà riguardanti alla amministrazione dei Sacramenti ed alla predicazione, nel 1846 consigliava il Sac. Bosco a studiare modo di regolare esistenza all'amministrazione [810] degli Oratori con una Congregazione di individui che vivessero in società con regole fisse tra loro e per gli Oratori.
L'anno 1852 il medesimo Arcivescovo per mezzo del suo Vicario Generale approvava il regolamento degli Oratori e costituiva capo il Sac. Bosco con le facoltà necessarie ed opportune per queste istituzioni. Ma insisteva sempre perchè si procurasse un regolamento scritto per gli ecclesiastici già uniti in una specie di società, come si vive presentemente. Il regolamento fu scritto; ma i tempi impedirono di poter venire ad una regolare approvazione.
L'anno 1858 lo stesso Arcivescovo mi consigliò di andare a Roma a trattare la cosa in persona col Sommo Pontefice. Il Santo Padre tracciava un piano di Società religiosa, in modo che i membri in faccia alla Chiesa fossero veri religiosi, ma in faccia alle civili autorità ciascuno fosse un libero cittadino. Io ho procurato di estendere i pensieri del Santo Padre ed ho diviso ogni cosa in capitoli ed articoli che formano l'attuale regolamento. Esso fu praticato sei anni.
L'anno 1864 si faceva pervenire alla Congregazione de' Vescovi e Regolari un memoriale, le costituzioni, colle commendatizie dell'Ordinario di questa Archidiocesi, del Vescovo di Cuneo di felice memoria, di Mondovì, di Acqui, di Casale, di Susa.
Il 1° di luglio di quell'anno il regnante Pio IX per mezzo di un decreto della lodata Congregazione, commendava e lodava queste Costituzioni, costituiva il Superiore della Società e il Successore in caso di decesso. Con questo decreto si sanzionava l'esistenza della Società.
Al medesimo decreto erano annesse tredici osservazioni che furono tutte quasi letteralmente accettate e nel regolamento accomodate.
Si fece soltanto una osservazione sopra le dimissorie: perciocchè tra noi non esiste congregazione avente comunione di case il cui superiore non abbia facoltà di dare le dimissorie. Ved. annotazione a parte.
Nel mese di gennaio di quest'anno fu umiliata novella supplica al Santo Padre, col regolamento della Società, modificato secondo le
osservazioni della Congregazione dei Vescovi e Regolari. Si domandava l'approvazione definitiva della Società, o almeno la facoltà provvisoria di poter ordinare col titulo mensae communis. Il Santo Padre e la stessa Congregazione non si opposero, ma non sembravano disposti ad accordare questo secondo favore, perchè non si usa concedere tale facoltà prima che una Società sia definitivamente approvata. Sembra per altro che vi sia molta propensione da parte del Santo Padre e dei Rev.mi membri della più volte lodata Congregazione di venire ad una regolare approvazione. La Società in questo senso approvata porterebbe [811] con sè e la facoltà delle dimissorie e di poter ordinare Mulo mensae communis.
Il pensiero generale era di aspettare la venuta del novello Arcivescovo di Torino dove esiste la casa principale.
Il memoriale continuava e finiva con questi dati:
STATO ATTUALE DI QUESTA SOCIETA'.
I membri che fanno ora parte di questa Società sono circa cento tra preti, chierici e laici.
Vi sono tre case: una a Torino, l'altra a Lanzo e la terza a Mirabello. Tutte le persone insegnanti, assistenti e dirigenti queste case professano le regole della Società di S. Francesco di Sales.
Qui in Torino vi sono tre Oratori festivi; di S. Francesco di Sales in Valdocco, di S. Luigi presso al Valentino, di S. Giuseppe a S. Salvario, dove si raccolgono più migliaia di giovanetti che ne' giorni festivi vi sono trattenuti in trastulli, scuole ed istruzione religiosa.
Vi sono domande per l'apertura di varie altre case, ma prima di tutto si sta colla massima ansietà aspettando la suprema sanzione della Società per parte della S. Sede.
Qualora S. E. Rev.ma Mons. Riccardi, nostro veneratissimo Arcivescovo, potesse compiere quest'opera cominciata dal suo antecessore, io intendo che Egli sia sempre il padrone assoluto delle case e degli individui, lo scriveremo benefattore principale della Società, e fino a tanto che essa esisterà si faranno sempre speciali preghiere per colui che condusse l'opera al suo sospirato compimento.
Nonostante le accennate difficoltà il 10 marzo 1869, come vedremo, la Pia Società era da Roma approvata.
LE Letture Cattoliche continuavano la loro gloriosa missione. Sul finire del mese di maggio usciva un terzo fascicolo in omaggio a S. Pietro ed al Romano Pontefice. - S. Pietro in Roma -Dramma in tre atti, scritto pel Centenario del martirio del Principe degli Apostoli, [813] dal P. Giulio Metti, dell'Oratorio di S. Filippo Neri in Firenze. Era in versi a modo dei melodrammi del Metastasio.
Il lavoro piacque tanto che se ne fecero due edizioni, e fu recitato in più collegi con vivi applausi degli spettatori. L'autore vi stampò come prefazione una lettera indirizzata a chi lo aveva pregato di comporlo.
Direttore dell'Oratorio di S. Francesco di Sales.
Eccovi il Dramma che m'invitaste a scrivere per le vostre Letture Cattoliche. Il soggetto che mi proponeste, arduo non meno che nobilissimo, non poteva invero essere, più opportuno alla circostanza dell'anno presente, che è il centenario del martirio dei gloriosi Principi degli Apostoli, Pietro e Paolo. Quando dunque l'immortale Pontefice e Padre nostro Pio IX, che impavido siede al governo della navicella del Pescatore, nulla curando la procella che tutto mette ora sossopra il mondo, invita i Vescovi dell'Orbe Cattolico ad accorrere al suo fianco per celebrare con insolita pompa la solennità di quel giorno faustissimo; quando dugento milioni di cuori credenti, sparsi per l'universo, aspettano ansiosi che fino ad essi giunga l'eco di quelle voci autorevoli, che a loro ammaestramento e conforto suoneranno in quel dì nel Vaticano; eccomi, per l'impulso vostro, ad offrire anch'io il mio piccolo tributo di lode a San Pietro.
Io scrivo pei giovanetti, voi lo sapete; nè per questo il mio povero lavoro rimarrà scarso di frutto; che anzi spero lo produrrà duplicato. I giovanetti, quando hanno imparato a mente i miei versi, amano di recitarli agli adulti; e questi che non avrebbero la pazienza di leggerli, li ascoltano volentieri da quelle labbra innocenti, e ne sono commossi. Così han già voluto fare i giovanetti di quest'Oratorio di S. Filippo Neri; così faranno quelli del vostro Oratorio di S. Francesco di Sales; così poi cento e mille altri per tutta Italia faranno; e molti del popolo udrannosi raccontare piacevolmente l'importantissima storia degli ultimi due anni della vita di san Pietro, la quale ha pur sì stretta attinenza col domma dell'unità della Chiesa e del Primato del Romano Pontefice.
Tale appunto fu l'intendimento vostro nell'assegnarmi per tema S. Pietro in Roma: ed io mi sono ingegnato di raggiungerlo con ogni industria. Vedrete infatti come, omessa la prima venuta di S. Pietro in Roma sotto Claudio, perchè troppo distante, abbia procurato di [814] aggruppare tutti gli avvenimenti della sua seconda venuta sotto Nerone, senza dipartirmi dalla verità della storia tanto ecclesiastica che profana . In questo modo la semplice esposizione delle ultime gesta di S. Pietro in Roma servirà a confermare salutarmente nel cuore dei fedeli la storica verità: che da Antiochia si trasferì Pietro personalmente in Roma, che in Roma consumò gli anni estremi della sua vita, che in Roma sparse il sangue per Gesù Cristo, e quindi che in Roma è la sede di S. Pietro. Verità importantissima, che unita alla dommatica verità del Primato di giurisdizione da Gesù Cristo conferito a S. Pietro, rafforza nei cuori dei fedeli la riverenza obbediente al Romano Pontefice, Successore di S. Pietro, Vicario di Gesù Cristo in terra, capo e maestro di tutti i cristiani, centro dell'unità nella Cattolica Chiesa.
Troverete poi in altrettante note citati i fonti, ed anche riportati molti testi, dai quali ho imparato i fatti ed attinto i pensieri che ho esposto nella mia drammatica narrazione; lo che non mai fatto aveva nel pubblicare gli altri drammi sacri. Ma qui pure ho seguito il convoglio vostro, perchè opportunissimo; attesa la natura e l'importanza del soggetto.
Che se alcuno bramerà di conoscere con più precisione la storia degli ultimi anni di S. Pietro, potrà consultare le pregevolissime Osservazioni storico-cronologiche, pubblicate in Roma nell'anno scorso, coi tipi del Salviucci da Mons. Domenico Bartolini col titolo: Sopra l'anno LXVII dell'ora volgare, se fosse quello del martirio dei gloriosi Principi degli Apostoli S. Pietro e S. Paolo.
Se il lavoro non è riuscito in tutto conforme al vostro desiderio, attribuitelo alla mia pochezza, non già a mancanza di buon volere. In ogni modo, poichè è più vostro che mio, se varrà alcun poco a ravvivare l'amore e la divozione al glorioso Principe degli Apostoli ed al suo Successore venerando, son certo che ne sarete pago abbastanza.
Firenze, dall'Oratorio di S. Filippo Neri, 2 febbraio 1867,
Un quarto fascicolo, omaggio anch'esso alla circostanza solenne del Centenario di S. Pietro, usciva alla metà di giugno per essere distribuito nel mese di luglio: Dell'antico pellegrinaggio in Roma ai sepolcri apostolici, in occasione del 18° centenario del martirio dei Principi degli apostoli Pietro e Paolo, pel sacerdote Emilio Ruggieri. - È un libretto ricco di notizie, che accenna all'origine del danaro di S. Pietro e [815] a quella del potere temporale: “Amo, dice l'autore, che sia riverente omaggio della mia devozione all'apostolico seggio “.
Mentre D. Bosco si mostrava in questa guisa teneramente avvinto alla S. Sede Apostolica ed al Vicario di Gesù Cristo, più volte il Signore si degnava manifestare quanto gli fossero accette le preghiere e le benedizioni del Venerabile.
D. Rua, prefetto dell'Oratorio, in questo mese di maggio fu preso per diverse notti da un dolore così forte in una mano che era costretto a lasciare il letto; e non gli era possibile prendere sonno. D. Bosco, presente D. Gioachino Berto, gli diede la benedizione, pregò; quindi gli disse di fare una novena a Maria Ausiliatrice e di raccomandarsi con fede nella Santa Messa, specialmente quando innalzava l'ostia: - Abbi fede, gli disse, e non solo speranza! - Ebbene, D. Rua non aveva ancor finita la novena, che era perfettamente guarito. Così riferì e attestò lo stesso D. Rua.
Gio. Battista Revello, studente di terza ginnasiale, in data 29 maggio 1867 scriveva:
“Il 22 maggio, circa le due e ½ pomeridiane, trovandomi nella scuola, fui preso da un freddo assai forte e non ero ancora uscito di scuola, che fui assalito da un grave dolor di capo che mi durò col freddo tutta la sera. Al domani mi sentiva meglio, ma il giorno 24 circa alla stessa ora mi ritornò la febbre. Il giorno seguente fui libero, ma il giorno 26 ritornò prima il freddo e poi una terribile febbre. Il giorno 27 al mattino stavo presso l'infermeria e passò D. Bosco. Gli baciai la mano e tosto mi domandò qual male avessi. Gli risposi che mi veniva la febbre un giorno sì e un giorno no. Allora D. Bosco domandò:
- Se domani ti verrà di nuovo la febbre, me lo dirai ed io ti darò la benedizione.
Il giorno 29, spossato dalla febbre che mi era ritornata [816] il giorno precedente, aspettai D. Bosco nello stesso luogo vicino all'infermeria, il quale passando mi chiese se avessi avuto la febbre. Gli risposi di sì: - Vieni in mia camera e ti darò la benedizione; - mi disse. Andai contento, mi fece porre in ginocchio ed esso stesso si inginocchiò. Dopo aver fatto breve preghiera a Maria SS. mi pose una mano sul capo e poi mi benedisse. In quel mentre entrò nella camera un artigiano e D. Bosco a lui: - Prega anche tu per questo giovane. - Quindi disse a me: - In questi tre giorni che rimangono ancora del mese di Maria va' a recitare tre Pater, Ave, Gloria e una Salve Regina davanti al SS. Sacramento: ma fallo con gran fede.
Feci con premura quanto D. Bosco mi aveva comandato e più non ebbi nè freddo, nè febbre, nè mal di capo.
È questa una grazia operata da Maria per intercessione di D.
Bosco”. - Don Gioachino Berto, suo assistente nella camerata di San Giuseppe, fa testimonianza della verità di questa narrazione.
Da Villafranca Piemonte vennero all'Oratorio due coniugi, mandati dal ch. Pignolo del medesimo paese, portando un loro caro figliuoletto, dagli 8 ai 9 anni, malconcio nella persona e colle gambe talmente attratte che fino allora non aveva mai potuto fare un passo da sè. Messo innanzi a D. Bosco, fu benedetto da lui, che gli comandò di alzarsi in piedi e camminare. - Abbi fede in Maria, gli disse, e allunga il piede guasto! - Il fanciullo non osava, ma ubbidiente al replicato comando, sostenuto dai parenti, eseguisce, scioglie le sue gambe e poi si mette a camminare liberamente da se solo. Il padre, a quella vista, pieno di stupore grida:
- Contacc!guarda come cammina bene!
E la moglie piangendo d'allegrezza avvertiva il marito:
- Non dir così; chè non va bene! - e salutato Don Bosco lasciavano l'Oratorio con promessa di ritornare quanto prima a ringraziare la loro celeste benefattrice nella nuova [817] chiesa. Venendo dal paese avevano dovuto or uno or l'altro portare sempre in braccio il loro fanciullo: ed ora questi camminava da sè senza l'aiuto d'alcuno, e coi piedi raddrizzati. Non avendo però mai camminato, e i suoi parenti di quando in quando lo vedevano alquanto impacciato, e gli insegnavano il modo di muoversi, dicendogli: - Metti questo piede avanti, metti quell'altro.
Testimone del fatto fu il chierico Donato di Saluggia, che lo narrò a D. Berto Gioachino e a D. Angelo Savio, i quali osservarono lo stato del fanciullo prima e dopo la benedizione. Donato era nell'anticamera. Ne fa pure fede D. Rua.
Nelle nostre memorie si legge:
“1° giugno. D. Bosco disse: -Io non comprendo come andiamo avanti. Di questa settimana per grazie ricevute mi vennero parecchie migliaia di franchi.
Alla sera assistendo il solo D. Gioachino Berto alla sua cena gli raccontò: - Ieri andava per Torino ed ecco un ragazzo, sugli 8, o sui 9 anni, mi si presenta e mi dice: - Oh Don Bosco!
- Non mi conosce! Io sono colui che tanti giorni fa ella ha benedetto. Mi guardi! Io sono guarito! Ho qui dei danari da darle per parte di mia mamma. La Madonna mi ha fatta la grazia.
- Ed ora tu, gli dissi io, in riconoscenza a Maria sii fedele nell'adempimento de' tuoi doveri.
Non molto prima una sorella di questo giovanetto, molto incomodata e tormentata da dolori nella schiena, vedendo che non valevano i mezzi umani, risolvette di venire nella sagrestia dell'Oratorio a farsi benedire. Io le dissi di recitare alcune preghiere e di fare una novena a Maria Ausiliatrice.
Un giorno, passando per un viale della città, vedo una fanciulla che correndo si pianta innanzi a me gridando: - D. Bosco, non mi conosce? Io sono quella figlia che esso ha [818] benedetta il tal giorno nella sacrestia dell'Oratorio. Sappia adunque, che terminata la novena tutte le mie piaghe sparirono ed ora io sono perfettamente guarita.
„ In ultimo questa mattina, circa alle ore 10, mi condussero un ragazzo sui 5 anni così sordo che non avrebbe udito lo sparo di un cannone. Ebbene: lo benedissi, quindi battei leggermente le mani d'accanto alle sue orecchie. Il piccolino sull'istante si volse indietro e mi guardava ridendo. Quanto buona è la Madonna!”
E la Madre celeste disponeva anche che D. Bosco fosse liberato dalla più grave angustia di que' giorni. Da Roma gli giungevano lettere apportatrici di grande conforto.
Le riscrivo secondo le promisi nella mia precedente, la quale spero avrà ricevuta. Andato dal P. Angelini, cui aveva lasciati gli schiarimenti e le altre carte perchè poi mi consigliasse il da fare, mi disse: 1° che assolutamente non si doveano per ora far correre carte o difese o schiarimenti, senza prima averli comunicati o al P. Modena o al Card. Prefetto dell'Indice. Facendosi diversamente, la cosa potrebbe esser presa in mala parte e far danno; 2° che io poteva o per me o per altri ottenere dal P. Modena o dal Card. questa licenza; 3° che intanto egli credeva più importante ottenere un'altra cosa: ed è che ella nella Prefazione dell'edizione corretta non sia obbligata a dire che fa questa edizione per ordine; il che lede alquanto le convenienze. Mi consigliò ad andare perciò dal P. Modena. Ci andai e gli dissi che avendo io qualche relazione indiretta con D. Bosco per mezzo di un mio fratello etc., D. Bosco mi aveva scritto che egli doveva fare una seconda edizione (senza dire nulla che io avessi comunicazione del Voto, ecc., ma stando solo al fatto e notizia della seconda edizione) per correggere alcune cose notategli e che questo lo dovea dire nella Prefazione. -Senza nessun incarico da parte di D. Bosco, il quale è pronto a fare quello che da lui si vuole, ma per un mio pensiero, pregava il P. Modena sapermi dire qual'era la formola meno dura con cui D. Bosco doveva esprimere quest'ordine avuto.
M'accolse benissimo e mi disse che bastava il dire che... per consiglio di persone dotte e di dotti teologi egli aveva creduto dover fare un'altra edizione correggendo alcune inesattezze, accennando che ciò faceva mosso da quei consigli. [819] Mi assicurò due volte che questo bastava. Poi disse: Io posso trattare con lei come con un Procuratore di D. Bosco: potrei perciò anche comunicargli il Voto, e faccia così: Venga da me venerdì ed io le darà per iscritto quello che si desidera corretto .....
Accettai di andare. Le manderò quella carta che mi darà il P. Modena: e intanto credo farle cosa grata, prevenendola di tutto questo...
Degli schiarimenti ne parleremo altra volta.
P. S. - Federico sta benissimo e penso di dirgli le suddette cose ma forse non dirò nulla. Quanto agli schiarimenti, vedo anch'io che o in un modo o in un'altro converrà farli correre: essendo giusto che si tolgano dalle teste gli equivoci. - Ma per non far del male, invece di bene, credo ch'ella approverà che io stia ai detti consigli.
Altro foglio spediva il medesimo Padre due giorni dopo.
Spero che avrà ricevute le mie precedenti: e per mia quiete ne desidero un suo cenno, che forse è già per via. Fui dal P. Modena stamattina, trovai invece l'acclusa sua lettera in cui egli stesso di suo pugno e coi suo nome che è sulla soprascritta (e per ciò questa lettera bisognerà conservarla come documento) dice le correzioni che sole si debbono fare. Vede da ciò che non tutti gli appunti del voto sono avuti in conto.
Le mando per ora questo. Degli schiarimenti vedremo poi: e vedendo che solo i detti punti sono da emendare, pare che anche possa parer inutile dar schiarimenti su appunti non tenuti in considerazione. Del resto ella mi dica su ciò il suo sentimento.
Non vidi Federico, ma vedendolo quanto prima credo sarà bene fargli sapere ogni cosa. Tutto suo in Domino. Memento mei.
Era questa la nota scritta da Padre Modena.
Ciò che narrasi del governatore di Antiochia (battezzato col nome di Teofilo) rispetto a S. Pietro.
Tenersi più strettamente alla narrazione di S. Luca, ove parlasi della liberazione di S. Pietro dal carcere per mezzo dell'angelo. [820] Sembra gratuita l'affermazione che S. Pietro risuscitò un morto, sul quale già prima Simon Mago avea fatto inutili tentativi. Per ciò che dicesi a pag. 2 17, potrebbe nascer sospetto che la violazione di ogni divino comandamento è la trasgressione di un articolo di fede. Alla pag. 192 dee sopprimersi quel periodo: “Stimo per altro bene di dar qui di passaggio un avviso a tutti coloro che si fanno a scrivere o parlare di questo argomento, di non considerarlo come punto dogmatico e religioso, e ciò sia detto tanto pei cattolici quanto pei Protestanti.”
In quei giorni Torino era in festa. Il 30 maggio, solennità dell'Ascensione del Signore, nella cappella di Corte coll'assistenza dei Vescovi di Biella, di Mantova, di Aosta e d'Asti, l'Arcivescovo benediceva il matrimonio del Duca Amedeo d'Aosta colla principessa Maria Vittoria della Cisterna. D. Bosco a nome anche di tutti i giovani scriveva a S. A. Reale una lettera di rispettoso e affettuoso augurio, con promessa di preghiere e ringraziamenti per i benefizi ricevuti, avendone questa risposta.
Casa di S. A. R. il Duca d'Aosta - N. 239 - Risposta alla lettera di D. Bosco del 29 maggio 1867.
S. A. R. il Duca di Aosta altamente apprezzò ed in special modo aggradì le espressioni di affettuosa divozione dalla S. V. Rev. manifestate nella ricorrenza del suo matrimonio. L'Augusto Principe gliene è ben grato e la prega per bocca mia di essere suo interprete verso tutti i di lei alunni, dei sensi dell'alta sua benevolenza e gratitudine. Gradisca gli atti della mia predistinta stima.
Gran Mastro della Casa di S. A. R.
Il 30 maggio altre solennità avevano rallegrato molti cuori. Mons. Eugenio Galletti era entrato nella sua diocesi di Alba e nell'Oratorio si chiudeva il mese Mariano; e in quel giorno D. Bosco scriveva al Cav. Oreglia, prima che gli giungesse in mano quella di P. Oreglia, recante la data 29 maggio. [821]
Sabato a sera partirà il Vescovo di Mondovì per Roma; ne dia notizia ai suoi amici. Desidera di vedere anche lei; prenderà alloggio a S. Maria sopra Minerva.
Ricevuta questa lettera parli con suo fratello e poi, per diminuire a lei il disturbo, mi dica per mezzo di lui se ciò che ho mandato relativamente al Centenario di S. Pietro è presentabile: se stima di variar qualche cosa, mi dica se conviene dare altro. Noti che quanto gli ho mandato fu letto e conferito con Mons. Gastaldi, che sarà consecrato domenica prossima. Mons. Colli per Alessandria nel medesimo giorno in Novara.
Il dott. Biffi di Milano giunge in questo momento all'Oratorio; dimanda di lei e le manda saluti e segni di amicizia.
Stamattina ha celebrato messa il Vescovo di Aosta. Stassera il Vescovo di Mondovì fa la chiusa del mese di Maria.
Il resto sabato. Tutti la salutano e attendono di sue notizie. Dio ci benedica e mi creda
P.S. - L'affare della statua fu aggiustato il giorno 23, vigilia di Maria Ausiliatrice.
Le nostre Memorie dicono: “Oggi 30 maggio, giovedì, Mons. Ghilardi Vescovo di Mondovì ci diede nella Chiesa i seguenti ricordi del nostro mese di Maria:
- Promettete alla Madonna di essere sempre suoi divoti. Offritele la vostra purità, domandatele che ve la conservi, che vi dia la sua umiltà, che vi conceda di poterla imitare nella carità, nell'obbedienza e rassegnazione in tutto al divin volere. Stabilitevi qualche divozione speciale da praticare in onore e gloria sua, come sarebbe mortificare i vostri sensi col non mai guardare persone di diverso sesso, star lontani dalle occasioni, far molta preghiera. Domandatele inoltre: per voi, che vi venga ad assistere visibilmente, al punto della morte, o almeno invisibilmente, e che vi faccia piuttosto morire che aver ancora a commettere un solo peccato mortale: e per me che sia colpito dal fulmine prima che commetta ancora un sol peccato veniale deliberato. Pregatela che vi conservi la [822] fede e che faccia di tutti voi tanti S. Luigi. - Poi diede la benedizione.
In questa settimana avemmo sei Vescovi a visitarci di cui quattro ci dissero la messa della comunità.”
Mons. Ghilardi, religioso domenicano, era anche venuto per salutare D. Bosco prima di partire per Roma. Altra volta si era intrattenuto con lui sulle osservazioni al Centenario. Il Servo di Dio era pronto nella sua umiltà a correggere gli appunti che erano stati notati; ma la verità ha pure i suoi diritti. Così la pensava Monsignore di Mondovì, il quale, al pari di Mons. di Saluzzo, l'aveva consigliato a scrivere gli allegati Schiarimenti, di cui volle copia, che gli fu preparata dal chierico Giuseppe Bertello. Nel congedarsi, Mons. Ghilardi gli prometteva che avrebbe fatto ogni miglior parte presso il suo confratello Mons. Modena, Segretario della Congregazione dell'Indice, e se fosse stato necessario, avrebbe chiesto al Papa stesso la licenza di presentare gli schiarimenti.
Partito Monsignor Ghilardi da Torino, D. Bosco scriveva nuovamente a Roma.
Non parli di ritorno a Torino per questo mese. Non potrà fare pel materiale, ma farà pel morale. Parli molto col Vescovo di Mondovì, che è a Roma, martedì, convento della Minerva. Veda di mandarmi il disegno dell'Altare di S. Giuseppe. Tanti saluti a casa Bentivoglio.
Se le occorrono danari, lo dica e non le lascieremo mancare niente, sebbene siano deboli le nostre finanze.
A Roma vedrà il Teol. Fissore e il Teol. Rovetto: se loro occorresse
danaro, veda di somministrarlo. Stantechè la Marchesa V… si trova
nelle strettezze, non si potrebbe trovarle un mutuo per tempo determinato? Ci pensi un poco.
Tutte le cose vanno bene. Maria Ausiliatrice continua piucchè mai le sue meraviglie, per cui grazie a Dio le cose nostre vanno avanti con alacrità e colla massima soddisfazione. Molti saluti ai nostri noti amici. Suo fratello Giuseppe ci fa un bene, che non potrebbesi da noi ricompensare giammai, se non colle preghiere. Dio lo benedica. Amen. Torino, 2 giugno 1867.
Col buon avviamento delle suddette pratiche era finito il maggio e la Cronaca continua:
“D. Bosco durante questo mese ci onorò quasi sempre della sua presenza, specialmente nel parlare alla sera dopo le orazioni. Fra le tante cose che ci disse, voglio riferirne alcune pronunciate in tempo degli esercizi.
“- Chiunque avesse qualche imbroglio sulla coscienza, ci avvertì, non differisca più oltre. - Quindi passò a rassegna un po' per sera casi pratici, per farci vedere come dobbiamo regolarci riguardo alla frequenza della confessione e della comunione. Disse che ciascun deve stabilirsi un tempo fisso per la frequenza e per quanto è possibile non mai cambiare confessore. Svelar tutto al confessore. Che la confessione deve essere breve, sincera, non rivolgere la colpa sopra altri, ma tutta sopra a se stesso.
E sovrattutto esclamava: - Guardate di mettere sempre in pratica tutti i consigli e gli avvertimenti dati dal confessore. Allora avrete una prova, una fondata speranza che il Signore vi ha perdonato. La vostra confessione sia di 15 giorni tutt'al più, o di otto giorni; e la frequenza al SS. Sacramento sia anche di tutti i giorni, purchè lo permetta il confessore. Siate diligenti in tutte le vostre pratiche di pietà. Oh, se Savio Domenico venisse ora qui all'Oratorio e vedesse così poche comunioni quotidiane, certamente direbbe: Ma questo non è più dunque l'Oratorio dove io vissi, dove il Signore mi pose per salvarmi? Come va che ai miei tempi eravamo solo un cento cinquanta e tutti si può dire facevamo la comunione quotidiana nel mese di Maria, ad eccezione di qualcheduno, ma pochissimi; e sempre ai miei tempi in chiesa si stava così bene! E adesso? Oh quanto mi affligge simile vista! Si sta così male in chiesa! fra 800 giovani appena un 60, o 70 si accostano giornalmente al SS. Sacramento dell'Eucarestia, e solamente in questo mese! Facciamoci adunque coraggio, mettiamoci di buona volontà per non meritarci questo rimprovero. Fate tutti i giorni in tempo di ricreazione qualche visita a Gesù in Sacramento e a Maria SS. acciocchè ci aiuti a farci tutti santi”.
Dopo queste parole leggiamo una nota che comprova quanto è già detto altrove.
“Don Bosco confessando giovani di buona volontà i quali non hanno da accusare se non piccoli difetti, suole dir loro: - Quando hai solamente di queste cose, bacia la medaglia o il crocifisso, proponi di stare più attento, fa' l'atto di contrizione e senz'altro va' tranquillo a fare la Santa Comunione. [824]
Talvolta dà loro la seguente penitenza: - Dirai il Veni Sancte Spiritus a onore e gloria dello Spirito Santo, perchè ti illumini sempre nella strada del Signore che conduce a salvamento e ti aiuti a perseverare in questa fino alla morte.
Suggerisce anche il consiglio: - di domandare a Dio perdono della perdita del tempo nella vita passata e promettere d'impiegarlo tutto e sempre bene per l'avvenire”.
La Cronaca prosegue a darci il sunto brevissimo di alcune sue parlate nei mesi di maggio e di giugno che noi coordineremo alquanto collo svolgersi dei fatti.
D. Bosco disse ai giovani: - Questo mese da alcuni si fece male; da alcuni bene; e dalla maggior parte benissimo. Mettiamoci ora tutti di buon animo a terminarlo ottimamente, poichè la Madonna vuole farci molte grazie e tanto più ancora che uno di voi vuole andare in Paradiso, forse prima della metà di giugno. Preghiamo per costui, dicendo un Pater mattino e sera. Non voglio dire che chi morrà vada subito in Paradiso, ma almeno se non andrà subito, ve lo faremo andare più presto colle nostre preghiere e per i meriti che egli si acquisterà nella malattia. Pregate anche per me, per una grazia che mi riguarda, ma che ridonda tutta a vostro vantaggio.
Don Bosco alla sera dopo le orazioni disse: - Vi sono due grandi solennità nel mondo: una a Parigi e l'altra a Roma. L'una è la pubblica esposizione di Parigi, l'altra è la celebrazione del Centenario di San Pietro. L'una mostra tutto ciò che può di più grande produrre l'ingegno dell'uomo, l'altra mostra una Religione eterna, incorrotta. Ma per quanto grandi, quanto son piccole le grandezze umane in confronto delle spirituali! Basta un soffio a spegnerle.
Intanto debbo dirvi di nuovo che il colera si manifestò dapprima sul Veneto, poscia a Bergamo e a Milano: ora è giunto ad un paesello sul Canavese. È più terribile delle altre volte, poichè pochissimi sono quelli che guariscono.
Noi vogliamo essere sicuri di non cader vittime di tale sventura? Togliamo il peccato e guardiamoci di non commetterlo mai più. Allora il colera starà lontano da noi, perchè è il peccato che ci attira addosso il male del colera; è il peccato che ci attira la morte.
Parole di D. Bosco: - Osservo che ai tempi di Savio Domenico io confessava al sabato sera fino alle 11 ed al mattino anche fino alle [825] 9 ant. Ma adesso vi è solamente una porzione di giovani che viene a confessarsi, e questa è quasi sempre formata dagli stessi individui. Vi sono ancora di quelli che hanno da fare la Pasqua, tanto fra gli studenti, come fra gli artigiani. Costoro ci pensino ad aggiustar i loro conti con Dio. Ci sono poi di quelli che cercano di minchionare Don Bosco, dicendo che sono andati a confessarsi dal tale o dal tal altro, questo o quel mattino. Ma dopo uno o due giorni interrogati da me nuovamente e non ricordandosi della risposta precedente, mutano il nome del confessore, ovvero indicano un altro giorno. Vi sono eziandio di quelli che cangiano continuamente confessore, ma non si risolvono a cangiar finalmente il loro tenore di vita.
Questo è un gran danno: costoro ingannano se stessi. Fanno come un ammalato il quale cangia tutti i giorni il medico. Come possono costoro essere guariti? Il medico ha bisogno prima di conoscere la malattia e tutte le sue fasi, altrimenti s'ingannerà e vostro sarà il male e la colpa. Stabilitevi adunque un confessore, quindi manifestategli tutto il vostro interno e così al punto della morte sarete contenti.
Intanto Mons. Gastaldi era stato consecrato in Torino nella Chiesa di S. Lorenzo dall'Arcivescovo Mons. Riccardi. Il 9 giugno, festa di Pentecoste, doveva prendere possesso della sua sede; e noi possediamo in bozze la sua prima lettera pastorale ai Saluzzesi, stampata dalla nostra tipografia.
Il dì innanzi egli veniva a celebrare la S. Messa nell'Oratorio. Sotto i portici era preparato un trono, ove dopo la funzione si assise avendo ai fianchi D. Bosco; D. Francesia gli lesse e poi umiliò un suo inno stampato, che aveva questa dedica:
La vigilia del giorno - in cui S. Ecc. Rev.ma - Mons. Lorenzo Gastaldi - Vescovo di Saluzzo - si recava a consolare di sua augusta presenza - l'amatissima sua diocesi - i giovani dell'Oratorio di S. Francesco di Sales - riconoscenti ai tanti suoi lavori - ne implorano con quest'umile segno la pastorale benedizione.
Cantato l'inno dai musici, letta qualche altra poesia, Don Bosco si alzò e disse:
- Monsignore, le domando due grazie. La prima che [826] protegga sempre questa casa. La seconda che tutte le volte che verrà a Torino ci venga a visitare.
- La prima cosa la prometto di tutto cuore, poichè sapete ch'io amai sempre quest'Istituto. La seconda non posso prometterla, perchè non so se gli affari me lo permetteranno; prometto però di venire tutte le volte che potrò.
Dopo altre affettuose parole, pregato da D. Bosco, diede la sua benedizione a tutti e disse: - Benedictio Dei omnipotentis Patris et Filii, et Spiritus Sancti descendat super vos, et potissimum super hunc sacerdotem Joannem Bosco et maneat semper!
IL giorno di Pentecoste Don Bosco indirizzava una lettera a tutti i Salesiani, trattando del fine col quale dovevasi entrare nella Pia Società di. S. Francesco di Sales, ed annunziava che forse fra non molto questa sarebbe definitivamente approvata. Fra i documenti che possediamo non havvi traccia di tale assicurazione. Avendo [828] però il suo autografo la data 24 maggio, festa di Maria Ausiliatrice 1867, sembra che la festa del giorno gli avesse dato l'ispirazione di scrivere e gli abbia mostrato più viva la visione dell'avvenire. Comunque sia, egli ne fece trarre varie copie, mutando poi la data egli stesso, e scrivendovi di proprio pugno l'indirizzo a D. Bonetti ed ai miei figli di S. Francesco di Sales abitanti in Mirabello; - a D. Lemoyne ed ai miei figli di S. Francesco di Sales abitanti in Lanzo. Era pur sua la firma e il proscritto: Il Direttore legga e spieghi ove d'uopo.
Ecco la copia destinata per i Salesiani dell'Oratorio.
A D. Rua ed agli altri miei amati figli di S. Francesco
La nostra Società sarà forse tra non molto definitivamente approvata e perciò io avrei bisogno di parlare ai miei amati figli con frequenza. La qual cosa non potendo fare sempre di persona procurerò almeno di farlo per lettera.
Comincerò adunque dal dire qualche cosa intorno allo scopo generale della Società e poi passeremo a parlare altra volta delle osservanze particolari della medesima.
Primo oggetto della nostra Società è la santificazione dei suoi membri. Perciò ognuno nella sua entrata si spogli di ogni altro pensiero, di ogni altra sollecitudine. Chi ci entrasse per godere una vita tranquilla, aver comodità a proseguir gli studii, liberarsi dai comandi dei genitori, od esimersi dall'obbedienza di qualche Superiore, egli avrebbe un fine storto e non sarebbe più quel sequere me del Salvatore, giacchè seguirebbe la propria utilità temporale, non il bene dell'anima. Gli Apostoli furono lodati dal Salvatore e venne loro promesso un regno eterno, non perchè abbandonarono il mondo, ma perchè abbandonandolo si professavano pronti a seguirlo nelle tribolazioni; come avvenne di fatto, consumando la loro vita nelle fatiche, nella penitenza e nei patimenti, sostenendo in fine il martirio per la fede.
Nemmeno con buon fine entra o rimane nella Società chi è persuaso di essere necessario alla medesima. Ognuno se lo imprima bene in mente e nel cuore: cominciando dal Superiore Generale fino all'ultimo dei socii, niuno è necessario nella Società. Dio solo ne deve essere il capo, il padrone assolutamente necessario. Perciò i membri di essa devono rivolgersi al loro capo, al loro vero padrone, al rimuneratore, a Dio, e per amor di lui ognuno deve farsi inscrivere nella Società, per amor di Lui lavorare, ubbidire, abbandonare quanto si possedeva al mondo per poter dire in fine della vita al Salvatore, che abbiamo scelto [829] per modello: Ecce nos reliquimus omnia et secuti sumus te; quid ergo erit nobis?
Mentre poi diciamo che ognuno deve entrare in Società guidato dal solo desiderio di servire a Dio con maggior perfezione e di fare del bene a se stesso, s'intende fare a se stesso il vero bene, bene spirituale ed eterno. Chi si cerca una vita comoda, una vita agiata, non entra con buon fine nella nostra Società. Noi mettiamo per base la parola del Salvatore che dice: “Chi vuole essere mio discepolo, vada a vendere quanto possiede nel mondo, lo dia ai poveri e mi segua.” Ma dove andare, dove seguirlo, se non aveva un palmo di terra ove riporre lo stanco suo capo? “Chi vuol farsi mio discepolo, dice il Salvatore, mi segua colla preghiera, colla penitenza e specialmente rinneghi se stesso, tolga la croce delle quotidiane tribolazioni e mi segua. Abneget semetipsum tollat crucem suam quotidie, et sequatur me.” Ma fino a quando seguirlo? Fino alla morte e, se fosse mestieri, anche ad una morte di croce.
Ciò è quanto nella nostra Società fa colui che logora le sue forze nel sacro ministero, nell'insegnamento od altro esercizio sacerdotale, fino ad una morte eziandio violenta di carcere, di esiglio, di ferro, di acqua, di fuoco, fino a tanto che dopo aver patito, ed esser morto con Gesù Cristo sopra la terra, possa andare a godere con Lui in Cielo.
Questo sembrami il senso di quelle parole di S. Paolo che dice a tutti i cristiani: Qui vult gaudere cum Christo, oportet pati cum Christo.
Entrato un socio con queste buone disposizioni deve mostrarsi senza pretese ed accogliere con piacere qualsiasi ufficio gli possa essere affidato. Insegnamento, studio, lavoro, predicazione, confessione in chiesa, fuori di chiesa, le più basse occupazioni devono assumersi con ilarità e prontezza d'animo, perchè Dio non guarda la qualità dell'impiego, ma guarda il fine di chi lo copre. Quindi tutti gli uffizii sono egualmente nobili, perchè egualmente meritorii agli occhi di Dio.
Miei cari figliuoli, abbiate fiducia nei vostri superiori: essi devono rendere stretto conto a Dio delle vostre opere; perciò essi studiano la vostra capacità, le vostre propensioni e ne dispongono in modo compatibile colle vostre forze, ma sempre come loro sembra tornare di maggior gloria di Dio e vantaggio delle anime.
Oh! se i nostri fratelli entreranno in Società con queste disposizioni, le nostre Case diventeranno certamente un paradiso terrestre. Regnerà la pace e la concordia tra gli individui di ogni famiglia, e la carità sarà la veste quotidiana di chi comanda, l'ubbidienza ed il rispetto precederanno i passi, le opere e perfino i pensieri dei Superiori. Si avrà insomma una famiglia di fratelli intorno al loro padre, per promuovere la gloria di Dio sopra la terra, per andare poi un giorno ad amarlo e lodarlo nell'immensa gloria dei beati in Cielo. [830] Dio ricolmi voi e le vostre fatiche di benedizioni e la Grazia del Signore santifichi le vostre azioni e vi aiuti a perseverare nel bene.
Di quella medesima sera (9 giugno) il Venerabile così parlava ai giovani dell'Oratorio.
Vi è più poco tempo prima dell'esame, tanto pei chierici come pei giovani. Fatevi coraggio per fare quel che potete. Tenete sempre impresso bene nella mente, che il timor di Dio è principio di ogni sapienza: Initium sapientiae timor Domini. Volete possedere la vera sapienza? Scacciate via dal vostro cuore il peccato e le affezioni al peccato e allora possederete abbastanza di scienza per salvarvi l'anima.
In questo poco tempo che ci rimane ancora prima dell'esame, guardate di andar sovente a far visita a Gesù Sacramentato e a Maria SS. E poi volete passar bene l'esame? Raccomandatevi a Savio Domenico e state sicuri che vi aiuterà, quando facciate tutto quello che potete. Vi furono dei giovani di questa Casa i quali dicevano di non essere preparati; si raccomandarono a Savio Domenico ed ottennero un voto migliore della loro aspettazione. Insomma con questa protezione nell'esame non resterete imbrogliati. Imitate Savio nella virtù dell'obbedienza e della carità, e state tranquilli.
Vi raccomando di non studiare al mattino fuori di letto, prima della levata: per non disturbare studiate stando nel letto. Al giovedì dopo la ricreazione e così alla domenica studiate pure nel tempo libero; ma non voglio che vi occupiate sui libri in tempo di ricreazione. Dica questo perchè mi sta molto a cuore la vostra sanità, e prima del resto.
Le nostre Memorie ci dànno altre brevi parlate del Servo di Dio.
Questa sera D. Bosco trasse argomento per parlare di un suo viaggio che fece da Moncalieri a Torino. Due uomini erano con lui nel carrozzone. Uno diceva essere stato allievo dell'Oratorio, ma da molto tempo. L'altro criticava ciò che faceva D. Bosco sostenendo essere cosa inutile spendere tanti denari nella costruzione della chiesa. D. Bosco che non era stato riconosciuto da quei due, entrò in discorso e solo in ultimo vennero a conoscere chi fosse il prete che li interrogava. [831] Da questo fatto D. Bosco trasse la massima di non parlar mai male del prossimo: di parlarne bene, o di non parlarne:
“Imparate, concludeva, da Savio Domenico, da Magone, da Besucco, a fuggire le mormorazioni. Se il prossimo ha dei difetti, sappiate compatirlo. Sopportiamo a vicenda gli uni i difetti degli altri, poichè nessun di noi è perfetto
Alla sera di questo giorno così parlava:
- Oggi incominciò la novena della Madonna della Consolata: mi rincresce di non essermene ricordato prima: fate però questo fioretto durante i nove giorni: - usar molta diligenza nell'adempimento del vostro dovere nella scuola e nello studio: e specialmente nei doveri di pietà. Insomma occupare bene il tempo. Ricordatevi che citius coelum et terra perierint, quam Maria aliquem se implorantem sua ope destituat.
Domani è digiuno per quelli che hanno l'età. Agli altri consiglio qualche mortificazione.
Dopo domani avremo Mons. Galletti a dirci la S. Messa: è una persona che nei nostri paesi è tenuta per santa. Guardiamoci che non debba prenderci in cattivo concetto. Dopo la Messa farà un po' di predica.
D. Bosco in refettorio dopo pranzo così diceva, circondato dai, giovani:
- Ieri venne una madre di famiglia ad offrire cento franchi, promessi per la guarigione di suo figlio. Giorni sono si era presentata con questo suo figlio per farlo da me benedire. Gli diedi la benedizione, quindi gli dissi che facesse una novena a Maria Ausiliatrice. Appena ritornato a casa, così mi riferì la madre, il ragazzo chiese subito da mangiare. Era tisico da cinque o sei mesi, stava in questo stato colla tosse e non poteva neppur mangiare la minestra. Da quel giorno cominciò a mangiare con gusto, cessò la tosse ed ora si trova in perfetta salute.
Disse anche alla sera a tutta la comunità dopo le orazioni
- Vi lascierò un pensiero, una massima. Non guardate le cose del mondo con un canocchiale di grosse lenti, ma ad occhio nudo, perchè il canocchiale ingrandisce talmente le cose che un granello di polvere diventa una montagna. Tutte le cose del mondo insieme sono un niente. Così disse Salomone, dopo aver goduto tutti i piaceri possibili: Tutto è vanità ed afflizione di spirito. E poi guardate: queste cose del mondo dobbiamo lasciarle. Se le lasciamo adesso, il Signore [832] ci ricompenserà; se non vogliamo lasciarle adesso, dovremo lasciarle egualmente alla morte, ma senza merito.
Domani verrà fra di noi Mons. Galletti nuovo Vescovo d'Alba. Guardate di regolarvi bene, perchè è una persona santa. Tenete bene a mente quel che vi dirà dall'altare.
Giovedì, 13 giugno, era adunque aspettato nell'Oratorio Mons. Eugenio Galletti Vescovo d'Alba. Erano venute per assistere alla sua messa, molte illustri persone, sue penitenti, che, accorate di doverlo presto perdere, cercavano ansiosamente di far tesoro delle sue ultime parole. Egli, fervido predicatore, versato in molta scienza sacra, dato ad ogni opera di umile carità fino a nascondersi nel meraviglioso Ospedale del Cottolengo, da più anni ignoto al mondo ma notus coram Domino, aveva consolate, istruite, e santamente guidate alla virtù le molte famiglie di quell'Istituto a lui commesse.
Ed ora, prima di muovere verso Roma, il nuovo Prelato degnavasi visitare l'Oratorio di S. Francesco di Sales e l'amico suo D. Bosco.
Venne ricevuto dal Clero alla porta della Chiesa. Aveva l'aspetto di un santo, tutto raccolto, colle mani giunte, il capo chino, gli occhi bassi, il passo modesto. Spirava un'aria di raccoglimento, di meditazione, di mitezza.
Al fine della messa, prima della benedizione, si volse ai giovani e fra le altre cose disse:
- Il trovarmi questa mattina io in mezzo a voi, il vedervi tutti raccolti accostarvi alla Santa Comunione, produsse in me, nel mio cuore, una sensazione che io non posso esprimere. Ringraziate Iddio, ringraziate lo Spirito Santo che vi ha tolti di mezzo al mondo e vi ha posti qui ove regna lo spirito di pietà, di religione, di carità, di dolcezza, di santità. È lo Spirito Santo che qui vi ha guidati: ringraziatelo questo Spirito, che è il bacio d'amore dell'Eterno Padre coll'Eterno Figliuolo. Voi sapete che al Padre si attribuisce la [833] potenza, al Figliuolo la sapienza, allo Spirito Santo l'amore. Ditegli che venga nei vostri cuori! Voi amatelo di tutto cuore! Amate Iddio, come avete letto nel catechismo, sopra ogni cosa, pronti a morire prima di ancora offenderlo; e pronti a morire, non una volta, ma mille volte piuttostochè commettere ancora un solo peccato ad occhi aperti, sapendo di offendere questo buon Dio, questo Divino Spirito. Amatelo con tutto il cuore e fate che non si abbia a dire di voi, ciò che per umiltà diceva di sè S. Bonaventura: Son circondato dappertutto dall'amore dello Spirito Santo, ed io non lo conosco. Anche noi siamo dappertutto circondati dall'amore dello Spirito Santo che c'ispira per mezzo degli esempi dei buoni compagni, dei Sacerdoti, della Messa, delle prediche, della lettura spirituale. Guardate di corrispondere alle chiamate di questo buono Spirito, alle sue ispirazioni: allora pioveranno sopra di voi tutte le benedizioni, tutte le grazie. Ricordatevi ciò che promise al Signore quel giovanetto tenuto da voi e da me in concetto di santità, Savio Domenico, nella prima sua Comunione a sette anni: La morte ma non peccati! Se ancor noi così faremo aiutati da questo Spirito, potremo andare a ringraziarlo in cielo nella eterna beatitudine. Tenete bene impresse nel cuore queste mie parole, che son povere, è vero, ma che io a voi rivolgo con tutto l'affetto dell'anima mia.
Nel predicare teneva gli occhi chiusi o semichiusi, senza guardare qua e là, e, se talvolta li muoveva, guardava in alto. Il suo gestire era un allargare alquanto le braccia, per innalzarle or più or meno verso il cielo insieme col suo sguardo. E come terminava di esprimere un pensiero, colle mani giunte e gli occhi chiusi o semichiusi chinava il capo, quasi aspettando le ispirazioni dello Spirito Santo; quindi con fervore ricominciava.
Dopo che ebbe preso il caffè, i giovani sotto i portici gli fecero un po' di festa, e gli recitarono qualche poesia. Una di queste, letta da P. Francesia, diceva anche: [834]
Andando al gran Pontefice, |
Dirai che mille giovani |
Primo d'Europa onore. |
Aman d'amor sincero |
Parla di questi giovani, |
Lui che di Pier sul soglio |
Del loro immenso amore: |
Proclama al mondo il vero, |
Nè d'uopo fia di volgere |
Che a lui fedeli vivere |
L'arte dell'oratore, |
Vogliamo a tutte l'ore, |
Come a fanciullo ingenuo, |
E '1 resto, o sommo presule, |
Tel dica il core! |
Tel dica il core! |
- Voi avete parlato, ed una parola la dirò anch'io. Per grazia del Signore conosco essere indegno degli onori che mi fate. Tuttavia per mostrarmi grato, io vi ringrazio di tutto cuore. Di tutte le vostre lodi io sono indegnissimo. Diamo invece gloria a Dio, a Lui che ci ha fatti tanti benefizii. I vostri cuori li ho già offerti tutti a Dio questa mattina nel calice, nella messa: ciò non ostante li offrirò di nuovo domani mattina. Pregherò il Signore che conservi a lunga vita questo vostro buon Don Giovanni, che è veramente ispirato dallo Spirito Santo, perchè possa continuare a farvi del bene.
Ciò dicendo diede la benedizione e se ne partì.
La bella giornata terminava colla parola di D. Bosco dopo le orazioni:
- Domani fate un bel regalo alla Madonna!.... Un bel regalo! Regalatele un'anima del purgatorio. Fate la Comunione coll'indulgenza plenaria, e dite alla Madonna, che liberi dal purgatorio quell'anima che più le piace.
Annunziò ancora che domenica avrebbe raccontato un sogno.
La sera del 14 giugno così parlò: [835] Domani è l'ultimo giorno del tempo pasquale. Chi avesse ancora da far Pasqua, oppure l'avesse fatta ma non l'avesse fatta bene, pensi ad aggiustare le cose dell'anima sua. Raccomando poi in modo particolare a quelli che sono vicini a deliberare del loro stato, affinchè ci pensino, ne parlino al confessore e preghino: facciano delle buone opere. Satagite ut per bona opera certam vestram vocationem et electionem faciatis. Chi vuole essere certo di non sbagliar strada si scelga un confessore stabile, apra a lui tutto il suo cuore, frequenti la SS. Confessione e Comunione, sia modesto, obbediente, pensi che cosa avrebbe voluto aver fatto al punto della morte. Ciò dico tanto riguardo a colui che ora è già inoltrato nella sua carriera, quanto riguardo a colui che ancora ha da sceglierla. Se voi farete quanto vi dico, certamente il Signore vi inspirerà quello che vuole da voi.
In questi giorni il Venerabile doveva essere consolato per l'interesse che Mons. Ghilardi prendeva per le cose sue e ne ringraziava la Madonna, tanto più che le critiche ad altri fascicoli delle Letture Cattoliche, visto che non approdavano all'intento, accennavano a finire.
Ho ricevuto la carissima sua dei 2 corrente, che mi preveniva dell'arrivo di Mons. Ghilardi e di parlare con lui del noto affare. Vi andai tosto; lo trovai e parlammo. Ora tutto è combinato. Egli fu contento di sapere ch'ella avea avuta già l'autorizzazione di non accennare nulla nella Prefazione della terza edizione, che le desse aspetto di cosa comandata, gli piacque anche assai che avesse avuta ufficiale nota di quel poco che è da sopprimere o modificare, di ciò nondimeno riparlerà col Rev. Mons. Modena per tenerglielo presente.
Quanto agli Schiarimenti egli pensò che si dovessero ricopiare con poche modificazioni: ciò è già fatto: e Monsignore ha ora in mano gli Schiarimenti tali quali li desiderava. Si presenteranno confidenzialmente prima al P. Modena; e poi vedrà se ad altri: e fra loro al Cardinale Prefetto.
Quanto a Torino, ella è in piena libertà di comunicare gli Schiarimenti anche come sono e senza niuna modificazione a quelli ch'ella crederà bene. In Torino si può andare con libertà. Ben inteso che non bisogna stamparli, sarebbe grave imprudenza. Qui si userà cautela. Dice Monsignore ch'ella dovrebbe mandar qui la sua Prefazione o in manoscritto o in prova di stampa. Monsignore la farebbe leggere al P. Modena perchè veda se va bene. Così tutto sarà certo e sicuro e si farà tutto con approvazione. [836] Ella vedrà se vorrà aggiungere una lettera al P. Modena con cui accompagnare la sua Prefazione: ma il plico dee essere diretto a Monsignore, o a Federico, o a me, come crede.
La prevengo che io ho ritenuta la sua lettera al P. Modena: la quale anche Monsignore crede ora inopportuna. Basterà scrivergli colla Prefazione.
La prevengo pure che negli Schiarimenti ho tolto tutto quello che accennava all'Indice, o voto, o Relatore non parlando che di osservazioni fatte (non dicendo da chi) e di schiarimenti che si dànno.
Le scriverò poi l'esito del discorso di Monsignore con Modena, se lo saprò: ma gliene scriverà anche Monsignore e Federico.
Preverrò anche Monsignore delle censure alla Vita di S. Giuseppe. Ma la cosa non avrà seguito a quel che credo.
Nella lettera al P. Modena ella si ricordi di accennare alla bontà con cui trattò la cosa e mandò quella nota che io le comunicai; e la facoltà avuta di non accennar nella Prefazione ad altro che al dettole.
Scusi tutti questi particolari e la lettera mal scritta e in fretta .....
Federico sta bene. La riverisco. M raccomandi al Signore e mi creda, come sono, in Domino
Quasi contemporaneamente D. Bosco aveva mandato a mano una lettera al Cavaliere Oreglia.
Le scrivo poche parole per approfittare degli amici, Can. Oreglia, ecc. Ho ricevuta la sua ultima lettera. Stia certo che l'affare di San Pietro è trattato da suo fratello con maestria. Io seguo quanto mi dice e finora va bene. Intanto tutto è pronto per un'altra edizione.
La casa va bene, la Chiesa va a meraviglia e la B. Vergine ci favorisce. Continuiamo a pregare mattina e sera pel conte Vimercati, ma scriverò di questa settimana.
Vale in Domino. Ho ricevuto il disegno dell'altare e questo è necessario. Saluti i soliti amici e mi creda,
P. S. - La lettera alla Principessa Altieri parla di lei. È persona benevola; veda di parlarle. Mi ha scritto e dimanda medaglie.
Altre notizie dava al Cavaliere l'Economo dell'Oratorio. [837]
Quantunque io non avessi nemmeno la tentazione di domandare a D. Bosco di andare a Roma per le prossime feste, tuttavia D. Bosco fece scrivere a V. S. perchè trovasse un qualche bugigattolo ove riposare la notte... Nel dubbio che io possa avere la buona ventura di vederla presto, le do alcune notizie.
La statua è già collocata a suo posto sulla cupola. Boggio fece un ribasso di 1200 lire. D. Bosco cerca di farla indorare. Domandano per questo lire 2000 circa.
Il cornicione della chiesa è finito. Sono già a posto tre capitelli che fanno assai bella figura.
Tutti i giorni grande affluenza per vedere D. Bosco e la chiesa. Ieri una dama inglese aspettò molto tempo per avere un'udienza. Vi fu il barone Cavalchini, vide la chiesa e s'intrattenne molto con Don Bosco. Molti preti francesi in viaggio per Roma sono venuti a trovare D. Bosco. Io ne ho sentito uno a dire mentre usciva: -Abbiamo parlato con un altro Curato d'Ars.
Una Principessa Romana diretta per Londra, la giovane Principessa Doria, smontò a Genova e prolungò il suo viaggio di due giorni per poter venire a Torino e parlare con D. Bosco. Ha veduta la chiesa e ne fu contenta.
In pochi giorni abbiamo avuti nella casa dieci Vescovi a cui i nostri giovani fanno sempre cordiali dimostrazioni. Anche i Torinesi fanno buon viso a tanti Vescovi: pel popolo è questo un preludio di tempi migliori e credo che il popolo non s'inganni. Da Torino partì la scintilla che accese il fuoco rivoluzionario d'Italia; andrebbe bene che da Torino partisse altra scintilla che illuminasse i ciechi e li riducesse sulla buona strada.
Fra pochi giorni il Cav. Gussone mi darà il disegno del nuovo altare di fronte a quello che si eseguisce costì. Mi darà pure il disegno del tappeto che Lei da tanto tempo desidera; glielo porterò a Roma.
La Beata Vergine Ausiliatrice continua a benedirci con benedizioni speciali.
Il disegno, del quale scrive D. Savio, era per quel tappeto che una Società di Dame in Roma voleva, come abbiamo accennato, provvedere all'altar maggiore della Chiesa di Maria Ausiliatrice. Quante grazie esse avevano ricevuto da Maria Santissima! Una delle Dame, la Duchessa Isabella Caracciolo di Brianza, il 14 giugno scriveva da Roma a D. Bosco: “Quando [838] Ella fu qui, ebbi il piacere, al pari di mio marito, di baciarle la mano e di chiederle il favore di raccomandarmi al Signore ed alla Vergine SS. per ottenere la grazia di portare innanzi una buona gestazione con felice esito. Ella si compiacque accogliere la mia domanda e mi consigliò di recitare ogni giorno alcune preci a questo fine; ed io ho costantemente obbedito alla sua prescrizione. Per divina misericordia sono al nono mese e ho goduto sempre un'ottima sanità. E ora mi permetto di ricorrere di nuovo alla sua carità; perchè ogni cosa si compia, felicemente per me e per la prole.... Dacchè Ella venne qui, io pensai di fare un lavoro e di offrirlo alla sua chiesa e in tutto questo tempo, quotidianamente, mi sono occupata di un camice che manderò appena sarà finito... Ottenuta la grazia, le manderò, come Ella mi disse, una piccola offerta per la sua chiesa. Preghi per me, pel mio marito, per tutti i miei figli.... Ci benedica”.
Una grazia per lui specialissima era la conferma delle buone notizie che gli giungevano dal Vescovo di Mondovì.
Mons. Ghilardi scriveva a D. Celestino Durando il 16 giugno: -Godo che il carissimo D. Bosco sia stato contento di quanto di qui gli si scrisse. Ieri sera venne da me il Padre Modena ed abbiamo fatto lunga conferenza a suo vantaggio. Ora leggerà gli Schiarimenti e poi ne faremo un'altra. Vorrei che la consaputa prefazione D. Bosco la mandasse a me mentre sono a Roma, ma scritta con miglior carattere. Con tante cose al medesimo, sono in Gesù, Maria e Giuseppe ecc.”
Qualche giorno dopo, scrivendo allo stesso per affari di tipografia, soggiungeva: - “Dite al carissimo D. Bosco che ho rimesso al Padre Modena la nota e che presto gli scriverò ecc.”.
LA Domenica della SS. Trinità, 16 giugno, nella qual festa ventisei anni addietro Don Bosco aveva celebrata la sua prima messa, i giovani erano in aspettazione del sogno, il cui racconto era stato da lui annunziato il giorno 13. Il suo ardente desiderio era il bene del suo gregge spirituale, e sempre sua norma gli ammonimenti e le promesse del capo XXVII, v. 23-25 del libro [840] de' Proverbi: Diligenter agnosce vultum pecoris tui, tuosque greges considera: non enim habebis jugiter potestatem: sed corona tribuetur in generationem et generationem. Aperta sunt prata, et apparuerunt herbae virentes, et collecta sunt foena de montibus... Colle sue preghiere chiedeva di acquistare conoscenza esatta delle sue pecorelle, di aver la grazia di vigilarle attentamente, di assicurarne la custodia anche dopo la sua morte e di vederle provviste di facile e comodo nutrimento spirituale e materiale. Don Bosco adunque, dopo le orazioni della sera, così parlò:
In una delle ultime notti del mese di Maria, il 29 o 30 maggio, essendo in letto e non potendo dormire, pensava ai miei cari giovani e dicea fra me stesso.
- Oh se potessi sognare qualche cosa che fosse di loro profitto!
Stetti alquanto riflettendo e mi risolsi:
- Sì! adesso voglio fare un sogno per i giovani!
Ed ecco che restai addormentato. Non appena il sonno mi ebbe preso, mi trovai in una immensa pianura coperta da un numero sterminato di grosse pecore, le quali divise in gregge pascolavano in prati estesi a vista d'occhio. Volli avvicinarmi ad esse e mi diedi a cercare il pastore, meravigliandomi che vi potesse essere al mondo chi possedesse così gran numero di pecore. Cercai per breve tempo, quando mi vidi innanzi un pastore appoggiato al suo bastone. Subito mi feci ad interrogarlo e gli domandai:
- Di chi è questo gregge così numeroso?
Il pastore non mi diede risposta. Replicai la domanda ed allora mi disse:
- E perchè, gli soggiunsi, mi rispondi in questo modo?
- Ebbene: questo gregge è del suo padrone!
- Del suo padrone? Lo sapevo già questo; dissi fra me. Ma, continuai ad alta voce: Chi è questo padrone?
- Non t'infastidire, mi rispose il pastore: lo saprai.
Allora percorrendo con lui quella valle mi diedi ad esaminare il gregge e tutta quella regione per la quale questo andava vagando. La valle era in alcuni luoghi coperta di ricca verdura con alberi che stendevano larghe frondi con ombre graziose ed erbe freschissime delle quali si pascevano belle e floride pecore. In altri luoghi la pianura era sterile, arenosa, piena di sassi con spineti senza foglie, e di gramigne giallastre, e non aveva un filo d'erba fresca; eppure anche [841] qui vi erano moltissime altre pecore che pascolavano, ma d'aspetto miserabile.
Io domandava varie spiegazioni al mio condottiero intorno a questo gregge, ed egli, senza dar veruna risposta alle mie domande, mi disse:
- Tu non sei destinato per loro. A queste tu non devi pensare. Ti condurrà io a vedere il gregge del quale devi prenderti cura.
- Sono il padrone; vieni meco a guardar là, da quella parte.
E mi condusse in un altro punto della pianura dove erano migliaia e migliaia di soli agnellini. Questi erano tanto numerosi che non si potevano contare, ma così magri che a stento passeggiavano. Il prato era secco ed arido e sabbioso e non vi si scorgeva un fil d'erba fresca, un ruscello; ma solo qualche sterpo disseccato e cespugli inariditi. Ogni pascolo era stato pienamente distrutto dagli stessi agnelli.
Si vedeva a prima vista che quei poveri agnelli coperti di piaghe avevano molto sofferto e molto soffrivano ancora. Cosa strana! Ciascuno aveva due corna lunghe e grosse che gli spuntavano sulla fronte, come se fossero vecchi montoni e sulla punta delle corna avevano una appendice in forma di “S”. Meravigliato, me ne stava perplesso nel vedere quella strana appendice di genere così nuovo, e non sapeva darmi pace perchè quegli agnellini avessero già le corna così lunghe e grosse, ed avessero distrutto già così presto tutta la loro pastura.
- Come va questo? dissi al pastore. Son ancora così piccoli questi agnelli ed hanno già tali corna?
- Guarda, mi rispose; osserva.
Osservando più attentamente vidi che quegli agnelli in tutte le parti del corpo, sul dosso, sulla testa, sul muso, sulle orecchie, sul naso, sulle gambe, sulle unghie portavano stampati tanti numeri “3” in cifra.
- Ma che vuol dire ciò? esclamai. Io non capisco niente.
- Come, non capisci? disse il pastore: Ascolta adunque e saprai tutto. Questa vasta pianura è il gran mondo. I luoghi erbosi la parola di Dio e la grazia. I luoghi sterili ed aridi sono quei luoghi dove non si ascolta la parola di Dio e solo si cerca di piacere al mondo. Le pecore sono gli uomini fatti, gli agnelli sono i giovanetti e per questi Iddio ha mandato D. Bosco. Quest'angolo di pianura che tu vedi è l'Oratorio e gli agnelli ivi radunati i tuoi fanciulli. Questo luogo così arido figura lo stato di peccato. Le corna significano il disonore. La lettera “S” vuol dire scandalo. Essi col mal'esempio vanno alla rovina. Fra questi agnelli ve ne sono alcuni che hanno le corna rotte; furono scandalosi, ma ora hanno cessato di dare scandalo. Il numero “3” vuol dire che portano la pena della colpa, cioè che soffriranno tre grandi carestie; carestia spirituale, morale, materiale. 1° La carestia d'aiuti spirituali: [842] domanderanno questo aiuto e non l'avranno. 2 ° Carestia di parola di Dio. 3° Carestia di pane materiale. L'aver gli agnelli mangiato tutto, significa non rimaner più loro altro che il disonore e il numero “3”, ossia le carestie. Questo spettacolo mostra eziandio le sofferenze attuali di tanti giovani in mezzo al mondo. Nell'Oratorio anche quelli che pur ne sarebbero indegni non mancano di pane materiale.
Mentre io ascoltava ed osservava ogni cosa come smemorato, ecco nuova meraviglia. Tutti quelli agnelli cambiarono aspetto!
Alzatisi sulle gambe posteriori divennero alti e tutti presero la forma di altrettanti giovanetti. Io mi avvicinai per vedere se ne conoscessi alcuno. Erano tutti giovani dell'Oratorio. Moltissimi io non li aveva mai veduti, ma tutti si dichiaravano essere figli del nostro Oratorio. E fra quelli che non conosceva ve n'erano anche alcuni pochi che attualmente si trovano nell'Oratorio. Sono coloro che non si presentano mai a D. Bosco, che non vanno mai a prendere consiglio da lui, coloro che lo fuggono: in una parola, coloro che Don Bosco non conosce ancora! L'immensa maggioranza però degli sconosciuti era di coloro che non furono nè sono ancora nell'Oratorio.
Mentre con pena osservava quella moltitudine, colui che mi accompagnava mi prese per mano e mi disse: - Vieni con me e vedrai altre cose! - E mi condusse in un angolo rimoto della valle, circondato da collinette, cinto da una siepe di piante rigogliose, ove era un gran prato verdeggiante, il più ridente che immaginar si possa, ripieno di ogni sorta di erbe odorifere, sparso di fiori campestri, con freschi boschetti e correnti di limpide acque. Qui trovai un altro grandissimo numero di figliuoli, tutti allegri, i quali coi fiori del prato si erano formati o andavano formandosi una vaghissima veste.
- Almeno hai costoro che ti dànno grande consolazione.
- Sono quelli che si trovano in grazia di Dio.
Ah! io posso dire di non avere mai vedute cose e persone così belle e risplendenti, nè mai avrei potuto immaginare tali splendori. È inutile che mi ponga a descriverli, perchè sarebbe un guastare quello che è impossibile a dirsi senza che si veda. Erami però riserbato un spettacolo assai più sorprendente. Mentre me ne stava guardando con immenso piacere quei giovanetti e fra questi ne contemplava molti che non conosceva ancora, la mia guida mi soggiunse: - Vieni, vieni con me e ti farò vedere una cosa che ti darà un gaudio ed una consolazione maggiore. - E mi condusse in un altro prato tutto smaltato di fiori più vaghi e più odorosi dei già veduti. Aveva l'aspetto di un giardino principesco. Qui si scorgeva un numero di giovani non tanto grande, ma che erano di così straordinaria bellezza e splendore da far scomparire quelli da me ammirati poc'anzi. Alcuni di costoro sono già nell'Oratorio, altri qui verranno più tardi. [843] Mi disse il pastore:
- Costoro sono quelli che conservano il bel giglio della purità. Questi sono ancora vestiti della stola dell'innocenza.
Guardava estatico. Quasi tutti portavano in capo una corona di fiori di indescrivibile bellezza. Questi fiori erano composti di altri piccolissimi fiorellini di una gentilezza sorprendente, e i loro colori erano di una vivezza e varietà che incantava. Più di mille colori in un sol fiore, e in un sol fiore si vedevano più di mille fiori. Scendeva ai loro piedi una veste di bianchezza smagliante, anch'essa tutta intrecciata di ghirlande di fiori, simili a quelli della corona. La luce incantevole che partiva da questi fiori rivestiva tutta la persona e specchiava in essa la propria gaiezza. I fiori si riflettevano l'uno negli altri e quelli delle corone in quelli delle ghirlande, riverberando ciascuno i raggi che erano emessi dagli altri. Un raggio di un colore infrangendosi con un raggio di un altro colore formava raggi nuovi, diversi, scintillanti e quindi ad ogni raggio si riproducevano sempre nuovi raggi, sicchè io non avrei mai potuto credere esservi in paradiso un incanto così molteplice. Ciò non è tutto. I raggi e i fiori della corona degli uni si specchiavano nei fiori e nei raggi della corona di tutti gli altri: così pure le ghirlande, e la ricchezza della veste degli uni si riflettevano nelle ghirlande, nelle vesti degli altri. Gli splendori poi del viso di un giovane, rimbalzando, si fondevano con quelli del volto dei compagni e riverberando centuplicati su tutte quelle innocenti e rotonde faccine producevano tanta luce da abbarbagliare la vista ed impedire di fissarvi lo sguardo.
Così in un solo si accumulavano le bellezze di tutti i compagni con un'armonia di luce ineffabile! Era la gloria accidentale dei santi. Non vi è nessuna immagine umana per descrivere anche languidamente quanto divenisse bello ciascuno di quei giovani in mezzo a quell'oceano di splendori. Fra questi ne osservai alcuni in particolare, che adesso sono qui all'Oratorio e son certo che, se potessero vedere almeno la decima parte della loro attuale speciosità, sarebbero pronti a soffrire il fuoco, a lasciarsi tagliare a pezzi, ad andare insomma incontro a qualunque più atroce martirio, piuttosto che perderla.
Appena potei alquanto riavermi da questo celestiale spettacolo, mi volsi al duce e gli dissi:
- Ma dunque fra tanti miei giovani sono così pochi gli innocenti? Sono così pochi coloro che non han mai perduta la grazia di Dio?
- Come? Non ti pare abbastanza grande questo numero? Del resto quelli che hanno avuto la disgrazia di perdere il bel giglio della purità, e con questo l'innocenza, possono ancor seguire i loro compagni nella penitenza. Vedi là? In quel prato si ritrovano ancor molti fiori; [844] ebbene essi possono tessersi una corona e una veste bellissima e seguire ancora gli innocenti nella gloria.
- Suggeriscimi ancora qualche cosa da dire ai miei giovani! io soggiunsi allora.
- Ripeti ai tuoi giovani, che se essi conoscessero quanto è preziosa e bella agli occhi di Dio l'innocenza e la purità, sarebbero disposti a fare qualunque sacrifizio per conservarla. Di' loro che si facciano coraggio a praticare questa candida virtù, che supera le altre in bellezza e splendore. Imperocchè i casti sono quelli che crescunt tanquam lilia in conspectu Domini.
Io allora volli andare in mezzo a quei miei carissimi, così vagamente incoronati, ma inciampai nel terreno e svegliatomi mi trovai in letto.
Figliuoli miei, siete voi tutti innocenti? Forse ve ne saranno fra voi alcuni e a questi io rivolgo le mie parole. Per carità, non perdete un pregio di valore inestimabile! È una ricchezza che vale quanto vale il Paradiso quanto vale Iddio! Se aveste potuto vedere come erano belli questi giovanetti coi loro fiori. L'insieme di questo spettacolo era tale che io avrei dato qualunque cosa del mondo per godere ancora di quella vista, anzi, se fossi pittore, l'avrei per una grazia grande poter dipingere in qualche modo ciò che vidi. Se voi conosceste la bellezza di un innocente, vi assoggettereste a qualunque più penoso stento, perfino anco alla morte, per conservare il tesoro dell'innocenza.
Il numero di coloro che erano ritornati in grazia, quantunque mi abbia recato grande consolazione, tuttavia io sperava che dovesse essere assai maggiore. E restai assai meravigliato nel vedere alcuno che or qui in apparenza sembra un buon giovane e là aveva le corna lunghe e grosse .....
D. Bosco finì con una calda esortazione a coloro che hanno perduta l'innocenza, perchè si adoperino volenterosamente a riacquistare la grazia per mezzo della penitenza.
Due giorni dopo, il 18 giugno, D. Bosco risaliva alla sera sulla cattedra e dava alcune spiegazioni del sogno.
Non farebbe più d'uopo nessuna spiegazione riguardo al sogno, ma ripeterò quello che già dissi. La gran pianura è il mondo, e anche i luoghi e lo stato donde furono chiamati qui tutti i nostri giovani. Quell'angolo dove erano gli agnelli è l'Oratorio. Gli agnelli sono tutti i giovani, che furono, sono presentemente, e saranno nell'Oratorio. I tre prati in questo angolo, l'arido, il verde, il fiorito, indicano lo stato di peccato, lo stato di grazia e lo stato d'innocenza. Le corna degli agnelli sono gli scandali che si sono dati nel passato. Ve ne erano poi [845] di quelli che avevano le corna rotte e costoro furono scandalosi, ma ora cessarono dal dare scandalo. Tutte quelle cifre “3”, che si vedevano stampate su ciascuno agnello, sono, come seppi dal pastore, tre castighi che Dio manderà sui giovani: 1° Carestia d'aiuti spirituali. 2° Carestia morale, ossia mancanza d'istruzione religiosa e della parola di Dio. 3° Carestia materiale, ossia mancanza anche di vitto. I giovani risplendenti sono coloro che si trovano in grazia di Dio, e sopratutto quelli che conservano ancora l'innocenza battesimale e la bella virtù della purità. E quanta gloria li aspetta!
Mettiamoci dunque, cari giovani, coraggiosamente a praticare la virtù. Chi non è in grazia di Dio, si metta di buona voglia e quindi con tutte le sue forze e coll'aiuto di Dio perseveri sino alla morte. Che se tutti non possiamo essere in compagnia degli innocenti a far corona all'immacolato Agnello, Gesù, almeno possiamo seguirlo dopo di loro.
Uno mi domandò se era fra gli innocenti ed io gli dissi di no e che aveva le corna, ma rotte. Mi domandò ancora se aveva delle piaghe ed io gli dissi di sì.
- E che cosa significano queste piaghe? egli soggiunse.
Risposi: - Non temere. Sono rimarginate, spariranno; queste piaghe ora non sono più disonorevoli, come non sono disonorevoli le cicatrici di un combattente, il quale malgrado le tante ferite e l'incalzamento e gli sforzi del nemico, seppe vincere e riportare vittoria. Sono dunque cicatrici onorevoli!... Ma è più onorevole chi combattendo valorosamente in mezzo ai nemici non riporta nessuna ferita. La sua incolumità eccita la meraviglia di tutti.
Spiegando questo sogno, D. Bosco disse eziandio che non andrà più molto tempo che si faranno sentire questi tre mali: - Peste, fame e quindi mancanza di mezzi per farci del bene.
Soggiunse che non passeranno tre mesi che accadrà qualche cosa di particolare.
Questo sogno produsse ne' giovani l'impressione e i frutti che avevano ottenuto tante altre volte simili esposizioni.
Intanto Mons. Ghilardi a Roma aveva consegnata una lettera di D. Bosco a Mons. Berardi nella quale, dando novelle dell'Oratorio, continuava a far cenno del grande bisogno per la Pia Società di S. Francesco di Sales di avere l'approvazione della S. Sede o la facoltà delle dimissorie; e aggiungeva i più cordiali rallegramenti per le [846] voci che annunziavano come egli sarebbe ben presto nominato Cardinale.
Riabbracciai con vero piacere Mons. Vescovo di Mondovì, che mi recò la lettera di Lei dettata dal solito cordiale affetto. L'affare delle Costituzioni trovasi nello stato che le accennai, e se intorno le difficoltà delle dimissorie occorressero schiarimenti, farò sì che anche quel prelato ne tenga proposito con Mons. Svegliati.
Le rendo grazie delle preghiere che porge e fa porgere per me, ed io praticherò altrettanto perchè prosperi la sua sanità e l'utile Istituto, cui Ella attende alacremente, superando con coraggio qualsivoglia ostacolo.
Circa le voci però che sono giunte sul mio conto Le affermerò essere queste senza fondamento. Non conosco di aver merito per sì sublime dignità, e sono ben contento di vivere in abscondito apprestando alla S. Sede quei servigi che sono conformi alla mia pochezza.
Godo immensamente che l'edificio della chiesa di Maria SS. Ausiliatrice avanzi, e spero con l'aiuto di Dio che presto giunga al suo compimento. Il concorso dei fedeli che a Lei ricorrono per implorare l'aiuto della celeste Regina ne somministrerà copiosi mezzi. Sì; la Vergine darà a Lei la consolazione di vederla onorata e venerata in cotesto luogo sotto uno special titolo che infiamma tutti i credenti.
Mia madre la riverisce e si raccomanda alle sue orazioni.
Ella continui ad avermi presente nel S. Sacrificio della Messa, siccome non cesso di fare egualmente per lei, e mi creda con affettuosa stima
Di Lei, preg.mo sig. D. Giovanni,
Le premure del Vescovo di Mondovì e di Mons. Berardi erano di buon augurio a Don Bosco, il quale aveva scritto anche a vari Vescovi per avere altre lettere commendatizie per l'approvazione della Pia Società. Mons. Giacomo Jans, Vescovo d'Aosta, affrettavasi a mandargli la sua.
Augustae Praet., 20 Junii 1867.
Sanctitas Vestra saepe saepius admonuit Episcopos inimicum hominem in his luctuosis temporibus maximos facere conatus ad destruendam fidem et maxime ad corrumpendam juventutem. [847] Ad resistendum his conatibus Sacerdos Joannes Bosco Augustae Taurinorum societatem instituit ad promovenda, ad defendenda principia catholicae fidei apud plebem, et ad christianam institutionem juventutis.
Huic Societati benedixit et incrementum dedit Deus a quo omnia bona procedunt. A viginti annis et amplius admirationem bonorum omnium obtinuit, et innumeros juvenes vel retraxit a via perditionis, vel innocentes custodivit a saeculo.
Cum haec ita sint, Episcopus Augustensis ad Sanctitatis Vestrae pedes provolutus humiles suas praeces adjungit praecibus aliorum Episcoporum ut dignetur hanc Societatem S. Francisci Salesii approbare cum Regulis quibus ipsa regitur. Quae approbatio Sanctae Sedis novum stimulum dabit huic Societati et maiorem Dei gloriam procurabit.
Sanctitatis Vestrae, quam Deus diu servet incolumem.,
Obedientissimus et humillimus filius
+ JACOBUS, Episcopus Augustensis.
Questo foglio giungeva a Don Bosco nel giorno sacro a S. Luigi Gonzaga. La sera prima, 20 giugno, aveva detto alla Comunità:
Domani è la festa di S. Luigi, perciò ciascuno procuri di far qualche cosa in onore di questo caro Santo, come sarebbe una visita in chiesa, una comunione, qualche preghiera speciale, ecc., ecc. Ciascuno prometta di volerlo imitare nella virtù della modestia. Chi è innocente ha un esempio in S. Luigi: chi è peccatore può ancora imitarlo nella penitenza e con questa riacquistare la perduta virtù. Ed è appunto per questo che la Chiesa ha proposto S. Luigi come modello alla gioventù. Preghiamolo S. Luigi ad aiutarci a distaccare tutto il nostro cuore dalle cose terrene. Che cosa è che rendeva Luigi così contento e desideroso di presto morire, benedicendo Iddio e dicendo ai presenti nella sua camera che cantassero il Te Deum in ringraziamento? Il distacco del suo cuore da tutte le cose del mondo.
Pregate anche questo angelico giovane secondo le mie intenzioni.
Nello stesso giorno si avverava ciò che aveva previsto ed annunziato il 28 maggio. Scrive D. Rua nel necrologio dell'Oratorio:
Il 20 giugno 1867 moriva Garando Gio. Battista, da Ceres, in età di 71 anni. Uomo schietto e laborioso quant'altri mai. Malgrado l'avanzata sua età colle sue sollecitudini diede avviamento al laboratorio [848] dei ferrai che trovavasi nei primordi. Ubbidiente ai Superiori, amante ed amato dai suoi allievi, ricaduto durante convalescenza, munito di tutti i conforti della religione, rese la sua anima a Dio.
Omai erano imminenti le due grandi feste dell'Oratorio, che si celebravano non solo in Chiesa, ma anche al di fuori: San Luigi e S. Giovanni Battista coll'onomastico di D. Bosco, la prima colla sua bella processione, la seconda coll'accademia nel cortile, mutato quasi in ampio anfiteatro. Diremo ora della seconda, essendo stata la prima trasportata alla domenica 7 luglio.
In quella occasione molti sentivano più vivo il desiderio di avere un ritratto di D. Bosco ma i ritratti presi in Torino erano pochi e non messi in pubblico, perchè D. Bosco era a questo ancor molto riluttante. Per lo stesso motivo le fotografie di Roma non erano state mandate a Torino dal Conte Vimercati, e nell'Oratorio non se n'aveva che una copia.
Similmente da un gran numero di benefattori di varie regioni si chiedevano pur notizie della sanità di Don Bosco con quell'affetto che si nutre per un padre o per un carissimo amico, e volevano essere informati delle onoranze che gli verrebbero fatte.
.....Mi faccia la carità di tenermi ragguagliata di tutte le feste al nostro amato e venerato D. Bosco per S. Giovanni, ma me le scriva subito e non ne me le faccia sospirare…Nello stesso tempo mi faccia la relazione esatta di cosa ha detto D. Bosco, e se vi è qualche cosa da osservare sulle sue parole. Lei sa quanto io sono affezionata a questo santo Sacerdote, quanto l'apprezzo ed ammiro, per essere persuaso che tutto ciò che lo riguarda troppo m'interessa.
La lascio, M. R. Don Francesia, per scrivere due parole a D. Bosco, pregando lei a consegnarle in propria mano, così saranno anche più gradite . Stia tranquillo per le cose di Roma: la procella si va sedando da sè; la giustizia e la virtù trionfano sempre: ma il Signore permette che siamo qualche volta battuti. Il Cavaliere sta bene e saluta tutti .....
FANNY AMAT di VILLA Rios. [849]
Splendidamente adunque si celebrò l'onomastico di Don Bosco. Alla sera vi fu la dimostrazione figliale. Il poeta cesareo D. Francesia, come gli anni antecedenti, lesse una sua ode che messa in musica da D. Cagliero venne eseguita dal coro numerosissimo con accompagnamento della banda istrumentale. Si declamarono quindi molte composizioni in greco, in latino, in italiano ed in francese. Ma sopra tutto attirò l'attenzione degli spettatori un negoziante, certo signor Lanzerini, che lesse un suo componimento in dialetto bolognese. Egli veniva allora da Londra ed era già passato altra volta dall'Oratorio, andando da Bologna, sua patria, a Parigi. Molto ricco e buono, nutriva una grande affezione per D. Bosco ed era fratello del santo sacerdote Lanzerini, fondatore dell'Ospizio dell'Immacolata a Bologna per i poveri giovani abbandonati. L'anno prima, il sullodato signore, divenuto pazzo, per più mesi piangeva ed esclamava continuamente:
- Povero me! Adesso dovremo tutti morire di fame: sono ridotto alla miseria: la mia famiglia dovrà andare alle porte delle case ad accattar pane per vivere!
Era questa la sua idea fissa. Quando D. Bosco da Firenze giunse a Bologna, D. Lanzerini corse ad esporgli la disgrazia del fratello: e il Servo di Dio si recò senz'altro a visitarlo. L'infermo continuava le sue lamentele e non ascoltava nessuna parola di conforto.
- Ebbene, disse allora D. Bosco, dopo di averlo benedetto, si faccia una novena a Maria Ausiliatrice; se guarirà, farà un'offerta alla nuova chiesa di Torino.
La famiglia incominciò la novena e non era ancor terminata, quando il demente, svanito quell'incubo, si trovò così pienamente guarito, da superare le speranze di tutti.
La semplice narrazione di questo fatto fu l'argomento trattato dal signor Lanzerini, il quale faceva sicura testimonianza della grazia ricevuta, dicendo che non erasi mai sentito così bene in sanità come allora. Finiva con ringraziare [850] Maria Ausiliatrice e D. Bosco, per l'incomparabile beneficio ricevuto, protestando che ne avrebbe serbato eterna riconoscenza.
Sul fine i cori ripeterono il loro canto, e D. Bosco pronunciò poche parole di ringraziamento a tutti: ai cantori, ai musici, ai poeti e ai prosatori, a quelli che avevano fatto ed eseguito il disegno del bell'apparato, a coloro che con artistica e sorprendente luminaria accrescevano la gioia del crepuscolo, ai donatori di molteplici e ricchi regali esposti sopra un largo tavolo, ai Superiori della casa, ai benefattori e ai giovani che con molte lettere gli avevano presentato gli augurii. Questi specificati ringraziamenti li ripeteva ogni anno e talvolta erano anche personali quando assisteva alla festa qualcuno che, per dignità o benemerenza, meritavasi quel riguardo. Quella sera il Venerabile conchiudeva domandando e promettendo preghiere.
Ma le pure gioie di questo giorno facevano ricordare a D. Bosco quelle più solenni che dovevano provare a Roma tanti suoi amici per le feste centenarie di S. Pietro. Scriveva al Conte Eugenio De Maistre:
Un saluto a Lei, e a tutta la sua famiglia, caro sig. Eugenio, e ciò per augurare a tutti copiose celesti benedizioni in questo centenario, e ciò credo bene di fare per dovere e perchè non so se potrò ancora fare i medesimi augurii un altro centenario.
La contessa Caramon mi portò notizie che tutta la sua famiglia gode buona salute e che anche il sig. Francesco sembra fuori di pericolo; noi continuiamo ancora mattino e sera a raccomandarlo a Maria Ausiliatrice; speriamo che questa Madre lo vorrà restituire alla primiera sanità.
Dio benedica Lei, la signora di Lei moglie, e la sua figliuolanza e dia a tutti lunghi anni di vita felice e il santo dono della perseveranza. Amen.
Raccomando me e li miei giovanetti alla carità della sante sue preghiere, e mi professo con gratitudine nel Signore
NELL'ORATORIO risiedevano 44 chierici, che avevano terminato gli esami in Seminario il 22 giugno. Di essi 34 avevano superata con onore la prova; gli altri avevano già finito prima i corsi di Teologia, o erano infermi o dispensati per le loro occupazioni, ma coll'obbligo di presentarsi il 5 novembre per essere esaminati sui trattati [852] non esposti nel giugno. Per gli studenti del ginnasio continuavano regolarmente le scuole; e conveniva stabilire un orario per que' chierici, che non avevano incombenze speciali nella Casa. Le vacanze del Seminario duravano fino a novembre; e il 25 giugno Don Bosco tenne conferenza ai Confratelli.
In primo luogo distribuì il tempo delle vacanze dei chierici in questo modo: al mattino levata al segno consueto: quindi messa, studio, colazione e ricreazione. Dalle 9 alle 11 passeggio; ma, essendo proibito di andare in città, andranno nei dintorni, unitamente al capo della squadra e nel luogo stabilito dal Superiore. Questa passeggiata non è obbligatoria: chi volesse star a casa a studiare o leggere, è libero di farlo. Dalle II a mezzodì si farà una scuola di accessorio, di eloquenza sacra, di geografia, o di francese. Dalle due alle tre dopo pranzo è tempo libero, però in silenzio, dimodochè ciascuno possa riposare o studiare a suo piacimento. Dalle 3 alle 4 e ½ di nuovo scuola di accessorio; però a un cenno della campana si andrà in Chiesa a fare un po' di lettura spirituale che servirà anche di meditazione e di visita al SS. Sacramento, e si uscirà quando suona il termine della scuola dei giovani.
Da queste disposizioni resta dispensato chi avesse incarichi speciali che gli fossero d'impedimento.
Passando a parlare delle vacanze presso i parenti o conoscenti, D. Bosco disse:
Bisogna che ognuno di voi si risolva ad appartenere o non appartenere alla Pia Società. Quei che intendono non appartenervi, dimandino pure licenza, che io li lascio andare liberamente. Gli altri che vogliono essere della Società, non han più bisogno di domandare, perchè sono già in casa propria. La ragione per cui son contrario che si vadano a passare le vacanze altrove si è che nelle case paterne, nei paesi dove non si parla d'altro che d'interessi materiali, del negozio, del campo, della vacca, del bue, dei denari, del mangiare e bere e di altre cose ancor meno convenienti, non si può fare a meno che di perderci [853] nello spirito. Io pure andando a Castelnuovo ne sentiva detrimento, motivo per cui procurava di avere sempre insieme con me qualche giovane dell'Oratorio con cui potessi parlare di cose utili, e a tempo debito dire le orazioni, far la visita a Gesù Sacramentato, la lettura spirituale e le altre pratiche di pietà. Se io ho provato in me questo detrimento, credo che sarà lo stesso di tutti gli altri, che sono anche di carne e di ossa come sono io. Per altra parte se qualcuno abbisognasse di cambiar aria, abbiamo diversi luoghi in cui si può andare a fare le vacanze, come Lanzo, Mirabello, Trofarello.
- Ma farebbe tanto piacere, dirà alcuno, andare per qualche giorno a rivedere i luoghi della nostra infanzia, i parenti, gli amici.
A ciò rispondo: - È naturale che queste cose facciano piacere, ma a questo proposito il Redentore ci ha dato una bella lezione. Quando Maria SS. ed alcuni suoi cugini, che la Scrittura chiama suoi fratelli, ed altri suoi parenti, non potendo avvicinarsi a Lui per la turba che lo circondava gli fecero dire che la sua madre e i suoi fratelli lo cercavano per parlargli, Egli rispose: - Chi è questa mia madre? Chi sono questi miei fratelli?
Taluno forse avrà detto: - Come? Che maniera di parlare! Vorrà ora forse rinnegare i suoi parenti?
Ma il Salvatore continuava: - Tutti coloro che fanno la volontà del mio Padre Celeste costoro sono il mio padre, la mia madre e i miei fratelli. - Quindi io dico: coloro che vogliono essere della Società, qui hanno il loro padre ed i loro fratelli. Tuttavia io faccio un'eccezione. Quando i genitori cadessero in pericolosa malattia, il Superiore disporrà che il Socio possa andarli ad assistere: anzi in questo caso è un'opera doverosa di carità che si presta ai proprii parenti.
D. Bosco parlò ancora a tutta la comunità dopo le orazioni della sera.
Ieri sera, miei cari figliuoli, io mi era coricato e non potendo subito prender sonno, andava pensando alla natura ed al modo di esistere dell'anima; come fosse fatta; in che modo potesse trovarsi e parlare nell'altra vita, divisa dal corpo; come faccia a trasportarsi da un luogo ad un altro; come mai allora ci potremo conoscere gli uni e gli altri, non essendo noi dopo morte che puri spiriti. E più su di ciò pensavo, e più sembravami oscuro il mistero.
Mentre io vagava in queste e simili fantasie mi addormentai e mi sembrava di essere sulla via che conduce a * ... (e nominò la città) e che a quella volta fossi incamminato. Andai per un po' di tempo, traversai paesi a me sconosciuti, quando ad un certo tratto mi sentii chiamare per nome. Era la voce di una persona ferma sulla via. - Vieni con me, mi disse; tu potrai adesso vedere ciò che desideri. [854] Tosto obbedii. Quel tale andava colla rapidità dei pensiero ed io al pari della mia guida. Andavamo senza che i piedi nostri toccassero il suolo. Giunti in una certa regione che io non so quale fosse, la mia guida si fermò. Sovra un luogo alto ergevasi con magnificenza un palazzo di mirabile struttura. Non so dove fosse, nè su quale eminenza; non mi ricordo più se si trovasse sovra una montagna o per l'aria sulle nuvole. Era inaccessibile e non vedeasi alcuna strada per salirvi. Le sue porte erano ad un'altezza considerevole.
- Guarda! monta su in quel palazzo, mi disse la guida.
- Come ho da fare? osservava io; come fare ad arrivarvi? Qui al basso non c'è entrata, le ali non le ho.
- Entra! replicò l'altro imperiosamente. E vedendo che io non mi muoveva, disse: - Fa' come faccio io: alza le braccia con buona volontà e salirai. Vieni meco. - E, ciò dicendo levò in alto le mani allargate verso il cielo. Io pure apersi allora le braccia e mi sentii subito in un attimo sollevare per l'aria a guisa di leggiera nube. Ed eccomi sulla soglia del gran palazzo. La guida mi aveva accompagnato.
- Che cosa c'è qui dentro? le chiesi.
- Entra, visitalo e vedrai. In fondo, in una sala, troverai chi ti ammaestrerà.
La guida scomparve ed io rimasto solo e guida a me stesso, entrai nel portico, salii le scale, e fui in un appartamento veramente regale. Percorsi sale spaziose, camere ricchissime di ornamenti e lunghi corridoi. Io andava con preternaturale velocità. Ogni sala brillava con sfarzo di tesori sorprendenti, e con quella velocità percorsi tante camere che non mi fu possibile numerarle. Ma la cosa più mirabile era questa. Per correre colla rapidità del vento non muoveva i piedi, ma sospeso in aria colle gambe unite, strisciava senza fatica come sopra un cristallo, ma senza toccare il pavimento. Così passando di uno in altro appartamento, vidi finalmente in fondo ad un corridoio una porta. Entrai e mi trovai in una gran sala, sovra ogni altra magnifica. Alla sua estremità, sopra un seggiolone, scorsi maestosamente seduto un Vescovo, in atto di chi aspetta per dare udienza. Mi avvicinai con rispetto e restai preso da somma meraviglia nel riconoscere in quel prelato un mio intimo amico. Era Monsignor * ... (e ne fece il nome), Vescovo. di *.... morto due anni fa. Pareva che nulla soffrisse. Il suo aspetto era florido, affettuoso e di tale bellezza che non si può esprimere.
- Oh Monsignore! È qui lei? gli dissi con grande gioia.
- Non mi vedete? rispose il Vescovo.
- Ma come va? È ancor vivo? Non è morto?
- E se è morto, come è seduto qui, così florido e benestante? chè, per carità, se fosse ancor vivo, lo dica, altrimenti saremo nei [855] pasticci. A *... vi è già un altro Vescovo, Monsignor e come sbrigheremo quest'affare?
- State tranquillo, non datevi fastidio, chè io son morto...
- Alla buon'ora, perchè altrimenti vi era un altro al suo posto.
- Lo so. E voi D. Bosco siete morto o vivo?
- Io sono vivo: non vede che son qui in corpo ed anima?
- Qui non si può venire col corpo.
- Sembra a voi di esservi, ma non è così...
E qui io mi affrettava a parlare facendo domande su domande senza che ottenessi nessuna risposta: - Come, diceva io, può essere che io vivo sia qui con Lei che è già morto? - E aveva paura che il Vescovo sparisse; perciò presi a supplicarlo: - Monsignore, per carità non mi sfugga. Ho tante cose da sapere.
Il Vescovo vedendomi così ansioso:- Non vi affannate tanto, disse: state calmo, non dubitate, non fuggirò; parlate!
- Mi dica, Monsignore! È salvo?
- Guardatemi; osservate come son vegeto, fresco, risplendente.
Il suo aspetto mi dava veramente certa speranza che egli fosse salvo; ma di ciò non contentandomi, replicai:
- Mi dica Lei, se è salvo, sì o no?
- Sì, sono in luogo di salvamento.
- Ma è in Paradiso a godere il Signore, oppure in Purgatorio?
- Sono in luogo di salvezza, ma Dio non l'ho ancora visto ed ho bisogno che ancora preghiate per me.
- E quanto tempo avrà ancora da stare in Purgatorio?
- Guardate qui! - E mi porse una carta, soggiungendo: - Leggete!
Io presi in mano quella carta, l'osservai attentamente, ma nulla vidi di scritto e dissi: - Io non ci vedo niente.
- Guardate quello che v'è scritto: leggete!
- Ho guardato e guardo, ma non posso leggere, perchè qui sopra non è scritto niente!
- Vedo una carta a fiorami rossi, cerulei, verdi, violetti, ma di caratteri non ne veggo alcuno.
- Non vedo nè cifre nè numeri.
Il Vescovo guardò quella carta che io teneva nelle mani e poi disse: - Lo so ancor io perchè non capite; mettete la carta al rovescio. - Io esaminai il foglio con maggiore attenzione, lo rivolsi per ogni verso, ma nè al rovescio, nè al diritto potei leggere. Solamente mi parve di vedere che fra i giri e rigiri di que' disegni fiorati vi fosse il numero “2”.
Il Vescovo continuò: - Sapete perchè bisogna leggere al rovescio? [856] Perchè i giudizi del Signore sono diversi a quelli del mondo. Ciò che dagli uomini si crede sapienza è stoltezza appo Dio.
Non osai insistere per una spiegazione più chiara e dissi:
- Monsignore, procuri di non scapparmi: voglio domandare altre cose.
- Ma non mi tenga in pena; mi dica subito se mi salverò.
- Almeno mi dica se io sono o non sono in grazia di Dio.
- Ed i miei giovani si salveranno?
- Ma, di grazia, la supplico, me lo dica.
- Avete studiato Teologia e quindi potete sapere e farvi la risposta da voi stesso.
- Come? è in luogo di salvezza, e non sa queste cose?
- Ecco: il Signore le fa conoscere a chi vuole: e quando vuole che sia comunicata questa scienza, ne dà l'ordine e il permesso. Altrimenti nessuno può comunicarla a coloro che vivono ancora.
Io era agitato da viva smania di sempre chiedere e chiedeva in fretta per timore che Monsignore si ritirasse:
- Ora mi dica qualche cosa da riportare ai giovani da parte sua.
- Voi lo sapete, quanto lo so io, che cosa hanno da fare. Avete la Chiesa, il Vangelo e le altre Scritture che vi dicono tutto. Dite loro che salvino l'anima, perchè il resto a nulla giova.
- Ma lo sappiamo già che dobbiamo salvar l'anima. Ma come dobbiamo fare a salvarla? Mi dia un avviso speciale per poterla salvare, che ci faccia ricordare di lei. Io lo ripeterò ai giovani a nome suo.
- Dite loro che si facciano buoni e siano obbedienti.
- E chi non le sa queste cose?
- Dite loro che siano modesti e che preghino.
- Ma si spieghi più praticamente.
- Dite loro che si confessino sovente e facciano buone comunioni.
-Qualche cosa di più speciale ancora.
- Ve la dirò, giacchè la volete. Dite loro che hanno davanti agli occhi una nebbia e quando uno fosse giunto a veder questa nebbia è già a buon punto. Che tolgano questa nebbia, come si legge nei salmi: Nubem dissipa.
- Sono tutte le cose del mondo, che impediscono di vedere le cose celesti come sono.
- E come debbono fare a togliere questa nebbia?
- Considerino il mondo come è: mundus totus in maligno positus est; [857] e allora salveranno l'anima; non si lascino ingannare dalle apparenze del mondo. I giovani credono che i piaceri, le gioie, le amicizie del mondo possano renderli felici e quindi non aspettano che il momento di goder di questi piaceri; ma si ricordino che tutto è vanità ed afflizione di spirito. Si assuefacciano a vedere le cose del mondo non come sembrano, ma come sono.
- E questa nebbia da che cosa principalmente è prodotta?
- Siccome la virtù che splende di più in paradiso è la purità, così l'oscurità e la nebbia è prodotta principalmente dal peccato dell'immodestia e dell'impurità. È come un nero nuvolone densissimo che toglie la vista e impedisce ai giovani di vedere il precipizio al quale vanno incontro. Dite loro adunque che conservino gelosamente la virtù della purità, perchè quelli che la possederanno, florebunt sicut lilium in civitate Dei.
- E che cosa ci vuole per conservare la purità? Lo dica, che io lo annunzierò ai miei cari giovani da parte sua.
- È necessario: Ritiratezza, obbedienza, fuga dell'ozio e preghiera.
- Preghiera, fuga dell'ozio, obbedienza, ritiratezza.
- Obbedienza, ritiratezza, preghiera e fuga dell'ozio. Raccomandate loro queste cose che bastano.
Io voleva ancora domandare tante cose, ma più nessuna venivami alla memoria. Quindi appena il Vescovo ebbe finito di parlare, tutto smanioso di raccontarvi quegli avvisi, lasciai in fretta quella sala e corsi all'Oratorio. Volava colla rapidità del vento ed in un istante mi trovai alla porta dell'Oratorio. Quando fui lì mi sono arrestato e pensava: - Perchè non mi sono fermato di più col Vescovo di * ...? Avrei avuti ancora migliori schiarimenti! Ho fatto male a lasciarmi sfuggire una così bella occasione! Avrei imparato tante altre belle cose!
E subito ritornai indietro colla stessa rapidità, colla quale ero venuto e coll'ansietà di non più ritrovar Monsignore. Entrai di nuovo in quel palazzo ed in quella sala.
Ma quale cambiamento era avvenuto in quei brevi istanti! Il Vescovo, pallidissimo come cera, era steso sul letto, sembrava un cadavere; gli spuntavano sugli occhi le ultime lacrime: era in agonia. Solo ad un leggero movimento del petto scosso dagli estremi aneliti, si accorgeva che era ancor vivo. Io mi accostai a lui affannoso: - Monsignore, che cosa è avvenuto?
- Lasciatemi! mi rispose con un gemito.
- Monsignore, avrei ancora molto cose da domandare.
- Lasciatemi solo; soffro troppo.
- Ma che cosa posso fare per lei?
- Pregate e lasciatemi andare. [858]
- Dove la mano onnipotente di Dio mi conduce.
- Ma, Monsignore, la supplico, mi dica dove?
- Ma almeno mi dica; che cosa posso fare per lei? io ripeteva.
- Ancora una sola parola: Ha nessuna commissione che io possa eseguire nel mondo? Mi lascia nulla da dire al suo successore?
- Andate dall'attuale Vescovo di *… e ditegli da parte mia questo e questo.
Le cose che mi disse non fanno per voi, o miei cari giovani, e quindi le tralasciamo.
Il Vescovo proseguì ancora: - E poi dite alle tali e tali persone queste e queste altre cose segrete!
(Anche di queste commissioni D. Bosco tacque; ma così le prime come le seconde sembra che riguardassero ammonimenti e rimedii da apprestarsi per certi bisogni di quella diocesi).
- E niente altro? io continuai.
- Dite ai vostri giovani che loro io ho voluto sempre molto bene, che finchè ero in vita ho sempre pregato per loro e che anche adesso mi ricordo di loro. Ora essi preghino per me.
- Stia sicuro lo dirò e comincieremo subito a fare suffragi per lei. Ma lei appena sarà in paradiso si ricordi di noi.
Il Vescovo aveva preso intanto un aspetto ancor più sofferente. Era uno strazio il vederlo. Pativa assai! Era un'agonia delle più angosciose.
- Lasciatemi, mi disse ancora, lasciatemi che io vada dove il Signore mi chiama.
- Monsignore! Monsignore! - io andava ripetendo stretto da indicibile compassione.
- Lasciatemi! lasciatemi! - Sembrava spirasse; e una forza invisibile trasselo di là nelle stanze più interne, sicchè disparve.
Io, a tanto soffrire, spaventato e commosso mi volsi per tornare indietro, ma avendo urtato per quelle sale con un ginocchio in qualche oggetto, mi svegliai e mi trovai in mia camera e a letto.
Come vedete, o giovani, questo è un sogno come tutti gli altri sogni e per ciò che riguarda voi non ha bisogno di spiegazioni, perchè sia inteso da tutti.
D. Bosco concludeva il racconto col dire:
In questo sogno ho imparato tante cose intorno all'anima e al Purgatorio, quante e come prima non era mai arrivato a capire; e le vidi così chiare che non le dimenticherà mai più. [859]
Così finisce la narrazione delle nostre Memorie.
In due quadri distinti pare che il Venerabile abbia inteso esporre lo stato di grazia delle anime purganti e le loro sofferenze espiatorie. Egli non fece commenti sullo stato di quel buon Vescovo. Del resto da rivelazioni degnissime di fede e da attestazioni dei Santi Padri si conosce che personaggi di santità consumata, gigli di purità verginale, ricchi di meriti, operatori di miracoli, e che ora noi veneriamo sugli altari, per difetti leggerissimi, un tempo anche lungo dovettero rimanere in Purgatorio. La Giustizia Divina vuole che, prima di entrare in cielo, ognuno paghi fino all'ultimo contante i suoi debiti.
Noi che scriviamo, avendo chiesto tempo dopo a Don Bosco se avesse eseguite le commissioni ricevute da quel Vescovo, con quella confidenza della quale ci onorava, lo udimmo rispondere:
- Sì, ho eseguito fedelmente il mio mandato!
Osserveremo ancora che il raccoglitore omise una circostanza del sogno, che noi ricordiamo, forse perchè allora non ne intendeva il senso o l'importanza. D. Bosco aveva chiesto in un certo punto quanto tempo ancora avrebbe avuto da vivere e il Vescovo gli aveva presentata una carta coperta di ghirigori, intrecciati, pareva, con degli 8, ma non ebbe spiegazioni del mistero… Che indicasse il 1888?
Intanto D. Cagliero e D. Savio eran giunti a Roma il 23 giugno, accolti a festa dal Cav. Oreglia che aveva loro preparato l'alloggio. D. Cagliero aveva recato due lettere per il S. Padre; una doveva esser rimessa immediatamente, con gran segretezza, nelle sue mani. D. Cagliero non conosceva affatto il contenuto di quella così urgente, e il 25 giugno, secondo gli ordini avuti, la consegnava a Mons. Pacifici, il quale eseguì il mandato in persona e colle suggerite cautele.
Il giorno dell'ottava di S. Pietro Don Cagliero s'incontrò con Mons. Manacorda, il quale tutto commosso e spaventato [860] prese a narrargli di aver visto in Vaticano, in mezzo ai gendarmi, uno dei primi uffiziali del palazzo apostolico, che veniva condotto in carcere. E soggiungeva:
- Pio IX in questi giorni ha ricevuto un dispaccio confidenziale recato a lui direttamente. Si fanno ora perquisizioni in palazzo e fu scoperto un indegno intrico nella Tipografia Pontificia. Alcuni altri furono imprigionati. - Monsignore non sapeva altro. D. Cagliero però intese l'arcano, e poscia seppe meglio la cosa. In Vaticano si stampavano da impiegati infedeli, clandestinamente e di notte, i fogli incendiarii che dai comitati massonici si spargevano quindi a larga mano per spingere a ribellione il popolo contro il Governo Pontificio.
Il Papa aveva adunque in casa chi lo tradiva, pagato profumatamente dai settarii. Portiamo un fatto. L'Imperatrice Eugenia, moglie di Napoleone III, aveva scritto successivamente in tutta confidenza due lettere al S. Padre, e al Papa avevale recate un suo fedelissimo gentiluomo. In esse erano esposte notizie importantissime sulle trame che si ordivano contro la Chiesa; e si faceva preghiera che fossero distrutti quei fogli quanto prima: guai serii si affermava sarebbero caduti sulla scrittrice, se quella corrispondenza fosse venuta in qualche modo a notizia di Napoleone. Il Papa lesse, assicurò quel gentiluomo che nessuno avrebbe mai penetrato quel segreto, e chiuse quelle lettere in un suo forziere privato, del quale recava sempre con sè la chiave. Ed ecco dopo qualche tempo ritornare il solito messo con una terza lettera nella quale l'Imperatrice lamentavasi che non fosse stato custodito il segreto, poichè le due lettere precedenti erano passate nelle mani dell'Imperatore; ed essa dicevasi perduta per sempre, e chiedeva consiglio sul modo di regolarsi. Pio IX protestò, disse d'aver posto quelle lettere in uno scrigno di ferro, di cui esso solo teneva gelosamente le chiavi che non aveva mai date a nessuno! In prova della [861] sua affermazione andò subito ad aprire lo scrigno, ma con amarissima sua sorpresa le lettere non v'erano più! Una mano traditrice le aveva tolte e mandate a Napoleone. Pio IX impallidì, e stette qualche momento come svenuto, quindi rimase parecchi giorni in istato deplorevole di sanità. Egli stesso nel 1869 narrando quel fatto doloroso a Don Bosco, diceva: - Vedete! Vi sono dei traditori persino fra le persone che stanno attorno al Papa!
Mons. Manacorda ci confermava che Pio IX non era sicuro neppure nelle sue stanze. Una sera dopo le dieci il Pontefice lo ricevette nella sua cameretta da letto, poichè egli doveva fargli un'importantissima relazione; ma, prima che aprisse bocca, il Papa guardandosi attorno con sospetto gli disse: - Parlate piano, perchè anche qui corriamo pericolo di non essere soli. Le stesse muraglie hanno le orecchie!
Anche per tante perfidie si doveva applicare a Pio IX quel motto Crux de Cruce, perchè ben potè dire di sè più volte col salmista: “Un uomo che era in pace con me, a cui io mi confidava, il quale mangiava il mio pane, mi ha ordito un gran tradimento”. Ma caso singolare, o meglio miracolo della Provvidenza, varie volte potè anche dire: Salutem ex inimicis nostris! Taluni di quelli stessi che militavano tra i suoi avversarii, o per l'orrore che provavano di certi attentati, o per rimorsi di coscienza, o per scopo d'interesse, andavano a quando a quando nella camera di D. Bosco e gli narravano per disteso quanto mulinavasi contro il Santo Padre anche in Vaticano. Essi conoscevano la prudenza di D. Bosco e sapevano che non avrebbe mai svelati i loro nomi. Fra questi ve n'era uno, dei principali della setta, il quale ebbe poi la fortuna di morire da buon cristiano, che incontrandosi col nostro Venerabile opprimevalo, quasi diremmo, colle sue confidenze:
- In una loggia si è deciso questo; in una seconda si parlò di quest'altro; in una terza il fratello A, fece quest'odiosa [862] proposta a danno del Clero; ma il fratello B fu di parere contrario (e declinava nomi e cognomi, e titoli). Il tale che in pubblico sembra di opinioni moderate, nella loggia si manifesta tra i più arrabbiati contro la Chiesa: quell'altro invece che in città ha fama d'intransigente contro la religione, è caso raro che prenda la parola.
D. Bosco lasciava dire, studiava il fine dal quale erano mossi a parlare, confrontava i detti di uno coi detti dell'altro, e, conosciuta la verità, quand'era del caso, preavvisandoli, informava il Papa delle cose che lo riguardavano. Così il Pontefice talvolta potè guardarsi da pericoli imminenti e da qualche traditore; ma più spesso tali avvisi altro non facevano che disporre l'animo suo all'abbandono ed alla confidenza in Dio.
Forse nessuno al mondo si trovò in questi anni al corrente di certi segreti in Italia, come Don Bosco. Egli confidando, nel 1875, queste sue relazioni ad un prete di Modena, ospitato nell'Oratorio per motivo della laurea in Teologia, scherzando concludeva:
- Ella, sig. Teologo, crederà D. Bosco essere un gran framassone e andrà a diffamarmi per Modena. Ma non tema, io sono framassone a modo mio e solo in qualche circostanza. Pio IX sa abbastanza che io gli sono attaccato più che il polipo allo scoglio!
Ma torniamo al XVIII Centenario di S. Pietro. Don Cagliero era andato a Roma qualche giorno prima della festa, sapendo che avrebbe potuto udire il maestoso canto in tre cori dell'antifona Tu es Petrus et super hanc petram ecc. fino alle parole portae inferi non praevalebunt, musicato perla circostanza dal Cappellano cantore pontificio Domenico Mustafà. Don Cagliero volle prendere cognizione nel miglior modo possibile di una musica di effetto veramente meraviglioso. I cori erano formati da oltre quattrocento voci. Mercè la cortesia usatagli potè assistere alle prove, trattare col [863] Mustafà, con maestri professori e cantanti e rilevare le difficoltà non piccole che dovevano superarsi in quella esecuzione. Egli, direttore della musica nell'Oratorio, desiderava modellare su quel canto romano l'antifona Sancta Maria succurre miseris, da cantarsi nelle solennità della consecrazione della Chiesa di Maria Ausiliatrice l'anno venturo.
Don Cagliero e Don Savio poterono in posti riservati assistere alle musiche sacre e alle grandiose cerimonie. Le feste incominciarono il 28. Il numero dei forestieri si computava a 80.000. Al mattino fu esposta alla venerazione dei fedeli la cattedra di S. Pietro nella Cappella Gregoriana della Beatissima Vergine. Alla sera Pio IX pontificò i primi vespri. Il 29 incominciò colla Canonizzazione di 25 beati, il Papa lesse un'omelia in lingua latina e quindi cantò la messa solenne. Assistevano cinquanta cardinali e oltre a 450 prelati della chiesa latina e dei vari riti delle Chiese Orientali. Indescrivibile la maestà delle cerimonie, l'entusiasmo del popolo, le illuminazioni della città, e tutte le dimostrazioni civili e militari di gioia che rallegravano e inebbriavano ogni anima credente.
Mentre tutta Roma applaudiva allo spettacolo della Girandola, ossia dei fuochi artificiali al Pincio, anche Don Bosco a Torino godeva di quel trionfo papale, ma diceva in privato e ripeteva alla comunità nella stessa sera: - Adesso ci sono le rose, e di qui a tre mesi verranno le spine. - Di queste parole prese memoria D. Berto.
Nello stesso giorno erasi celebrata altresì nell'Oratorio con tutto lo splendore possibile, anche con palloni aereostatici, fuochi artificiali ed illuminazione alle finestre, la solennità del Centenario di S. Pietro. Negli anni scorsi questa festa era pur dedicata alle glorie di S. Luigi, ma nel 1867 D. Bosco la volle riservata esclusivamente al Principe degli apostoli. E per ordine suo i Collegi di Mirabello e di Lanzo avevano emulato i festeggiamenti di Valdocco. [864] In Roma per tutta l'ottava durarono le feste, che si celebrarono successivamente nelle varie basiliche e finirono nella Patriarcale Basilica Vaticana, colla beatificazione di 205 Martiri Giapponesi.
Ma lo spettacolo più sublime e più commovente era stato quello del 1° luglio. Tutti i Patriarchi e gli Arcivescovi e Vescovi presenti in Roma, non meno di 486 prelati, si erano radunati nelle grande aula sopra il portico di S. Pietro, per presentare al Papa un ammirabile indirizzo, firmato da tutti, col quale dimostravano il loro attaccamento, obbedienza al Vicario di Gesù Cristo. Alcuni di quella schiera veneranda avevano sofferto il martirio nei paesi infedeli e portavano sulle membra le prove del loro eroismo. Al primo apparire di Pio IX, tutti, come se fossero una sola persona, caddero simultaneamente in ginocchio gridando:
- Tu es Petrus! et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam et Portae inferi non praevalebunt!
Ecco la vera Chiesa! Et unam sanctam, catholicam et apostolicam Ecclesiam! Il Papa e i Vescovi erano commossi fino alle lagrime.
Mons. Gastaldi, tornato da Roma, ci narrava con entusiasmo questo fatto e finiva con dire: - I Vescovi si stringevano attorno a Pio IX, come i giovani dell'Oratorio attorno a D. Bosco!
D. Cagliero e D. Savio aspettavano di essere introdotti dal Papa. Non era cosa facile in que' giorni avere udienza, eppure ebbero la consolazione di prostrarsi ai piedi di Pio IX, che accolse i figli di D. Bosco con affetto paterno, chiese notizie del loro Superiore, parlò dell'Oratorio e ricevette con evidente piacere il foglio, del quale era latore D. Cagliero.
Più circostanze concorrono ad impedirmi di recarmi a Roma per fare ossequio al Vicario di Gesù Cristo nell'occasione del Centenario [865] di S. Pietro, di cui la Santità Vostra è Successore nel governo della
Chiesa Universale. Tuttavia come cristiano, come Sacerdote, come
rettore di case di beneficenza mi fo' il più grave ed il più sentito dovere di inviare due dei miei sacerdoti, di nome uno Angelo Savio, l'altro Cagliero Giovanni, a prostrarsi ai piedi di V. S. coi fedeli da tante part i del mondo raccolti in Roma. Essi vengono a rappresentare i sacerdoti, chierici, giovani raccolti nella casa di Valdocco in Torino,
di S. Filippo Neri in Lanzo, di S. Carlo in Mirabello, in cui esistono
mille duecento giovinetti: a nome dei sacerdoti, chierici, giovanetti che intervengono agli oratorii festivi di S. Francesco di Sales, di S. Luigi Gonzaga, di S. Giuseppe, dove intervengono più migliaia di poveri ragazzi: a nome infine di molti parroci, canonici, coadiutori, direttori di case di educazione, rettori di chiese e di molti buoni cattolici laici, le cui occupazioni o la cui condizione non consentono di portarsi personalmente a Roma.
Tutti questi si professano figli affezionatissimi di Vostra Santità, attaccatissimi alla Cattolica Religione, pronti a dare sostanze e vita per vivere e morire in quella Religione, di cui V. S. è Supremo Gerarca sopra la terra.
Credo che tornerà parimenti di non poca consolazione al paterno cuore di V. S. il sapere come i novelli Vescovi testè consacrati furono accolti nelle rispettive diocesi coi più grandi segni di stima e di venerazione. Nei tempi più felici non fu mai veduto concorso così generale delle autorità civili ed ecclesiastiche, di tutte le classi e condizioni di cittadini, trasportati di santo entusiasmo verso il novello pastore che camminava in mezzo di loro come in vero trionfo. Niuno udì una voce o vide un segno che non fosse diretto a glorificare quella memoranda giornata. Ciò dimostra quanto i nostri paesi siano cattolici, purchè sieno fatti liberi nella pratica della loro religione.
Il nemico delle anime pone ora ostacoli per impedire la ulteriore preconizzazione dei Vescovi nelle sedi vacanti. Noi preghiamo Dio che illumini gli acciecati, dia sanità e forza a V. S. perchè possa condurre l'opera santa al sospirato compimento.
Mi tornarono di vivo rincrescimento le parole stampate nel libretto Il Centenario di S. Pietro, che furono intese in un senso certamente da me non immaginato. Credo per altro che gli schiarimenti dati avranno tolto ogni equivoco intorno al mio modo di scrivere, credere ed operare, e nella prossima edizione modificherò ogni cosa senza limite e nel preciso senso indicatomi dalla Sacra Congregazione dell'Indice.
Se mai in questa singolare e straordinaria solennità fosse permesso di domandare a V. S. un favore di cosa sommamente desiderata, come si fa ad un Sovrano, io mi farei ardito di rinnovare coi più grande rispetto la domanda, che V. S. si degni di dare la sua sanzione alle Costituzioni della Congregazione di S. Francesco di Sales, con tutte [866] quelle correzioni, variazioni, aggiunte, che Vostra Santità giudicasse tornare a maggior gloria di Dio e a vantaggio delle anime.
Noi intanto continueremo in tutte le nostre case a pregare mattino e sera per Vostra Santità, affinchè Dio le doni sanità e grazia per sostenere le gravi burrasche, forse non lontane, che Dio permette che i nemici del bene sollevino contro alla Religione. È l'ultima prova; dopo sarà suo il trionfo. È tempo di unirci tutti in un cuore ed in un'anima sola per pregare Gesù Sacramentato e Maria SS. Immacolata, che sono le due ancore di salute nel sovrastante uragano.
A nome di tutti quelli che ho sopramentovati mi prostro ai piedi di V. S. per domandare la santa ed apostolica Benedizione, mentre colla più profonda gratitudine e colla massima venerazione, reputo sempre il più bel momento di mia vita quando posso professarmi,
Ubb.mo, Obbl.mo, Aff.mo figliuolo
Vedremo noi pure quali fossero le spine imminenti, l'uragano e l'ultima prova, e quindi gli splendidi trionfi che la Divina Provvidenza riserbava a Pio IX.
Don Cagliero in que' giorni aveva fatte molte visite a nome di D. Bosco e fu testimonio della venerazione che avevano per lui non solo i signori romani, ma anche molti prelati. Il Card. Patrizi, il Card. Bilio, il Card. Caterini, ed altri, instavano perchè li ricordasse al Servo di Dio, il quale, ne erano certi, avrebbe pregato per loro.
DOVE sono uomini, si troveranno sempre difetti e passioni più o meno gravi, che possono essere combattuti solo da una parola franca, ripetuta, ispirata dalla carità opportuna e importuna. “Grida, ha detto il Signore ad Isaia, non darti posa, alza la tua voce come tromba e annunzia alla Casa di Giacobbe i suoi peccati”. E la voce di Don Bosco non era mai silenziosa, per togliere dalla sua casa o impedire ciò che poteva offendere il Signore, o disgustarlo con l'ingratitudine.
Abbiamo già dato prove del suo zelo nell'avvisare coloro che erano fuori di regola, e ce ne rimangono ancora molte altre da esporre. La parlata dell'ultimo giorno di giugno aveva il detto scopo. Dopo questa, seguendo l'ordine delle nostre memorie, poniamo ordinatamente la sintesi di altre proferite nel mese di luglio frammettendo documenti della stessa data dei suoi discorsi. Qui si noti che il Nome SS. di Maria era sempre sulle sue labbra e qualunque grazia da Lei concessa egli venisse a conoscere, non mancava mai di prenderne memoria. Gli archivi posseggono più di un migliaio di questi cari autografi.
D. Bosco alla sera lamentò le poco numerose comunioni frequenti, e come per irregolare condotta siansi dovuti allontanare dalla casa anche dei chierici. Quindi proseguì: - La cagione che ai giorni nostri è così diminuito il fervore dei primi tempi dell'Oratorio, si è che io dava un premio a tutti quelli che facevano le domeniche di S. Luigi. Senza loro dir niente io li osservava, e poi una mia parola bastava per contentarli. Quando erano solo 48 tra studenti, ed artigiani e chierici, e gli studenti allora erano appena tre, solo due su 48 lasciarono di fare le loro divozioni una domenica per cagione della sanità, ma le fecero poi lungo la settimana. E adesso fa vergogna! Io dico con mio grande rossore, adesso che siamo in sì gran numero, appena un cento, o duecento si accosta ai SS. Sacramenti alla domenica: e [869] un cinquanta e anche meno negli altri giorni feriali: e poi si osserva che sono sempre i medesimi. Che cosa significa questa così grande diminuzione di fervore? Ah! io ve lo dico! Perchè non si ubbidisce solamente per fare piacere a Dio, perchè non si considera che chi ubbidisce al Superiore ubbidisce a Dio, e chi disubbidisce al Superiore disubbidisce a Dio. Alcuni ubbidiscono, ma solo per timore dei castighi; solo per paura di prendere, se studente, un cattivo voto di condotta all'esame; se artigiano, di perdere la mancia. Si ubbidisce per fini mondani e non per fini soprannaturali.
E poi il rispetto umano è quello che impedisce a tanti giovani di accostarsi ai Sacramenti; han paura di essere guardati. Essi dicono:
- Andrei a confessarmi e a comunicarmi, ma quei compagni mi guardano.
- Ma mi deridono e poi mi burlano.
- E lasciali ridere e burlare, e tu burlati di loro, riditi di loro che non vanno.
E come fare a fuggir tutte queste miserie? Bisogna sradicare un cancro pestifero che c'è nella casa ed è quello del censurare, è quello della critica sulle disposizioni che prendono i Superiori. Se per sventura questo spirito di critica regnasse nei maestri o negli assistenti, sarebbe molto dannoso dando scandalo agli altri subalterni. Si sradichi questo spirito di critica e vedremo di nuovo l'Oratorio a ritornare in sul fiore dei primi tempi.
D. Bosco disse a D. Rua: - Venne da me una signora dicendo che una sua figlia da più mesi era molto incommodata e che le era stato suggerito di fare una novena a Maria Ausiliatrice. Ora non ha ancora terminata la novena e comincia a star assai bene.
Don Bosco disse eziandio che uno al quale da due anni doleva il capo, fatta la novena, ora sta benissimo essendogli scomparso affatto quel male.
La novena che D. Bosco suol suggerire in onore di Maria Ausiliatrice consiste in dire tre Pater, Ave e Gloria a Gesù Sacramentato e tre Salve Regina alla Madonna, in chiesa, con viva fede, e colla recita della giaculatoria: Maria, Auxilium Christianorum, ora pro nobis.
Alla sera dopo cena in refettorio D. Bosco raccontò ai giovani la seguente grazia della Madonna. Erano presenti D. Rua, D. Francesia, D. Savio Ascanio e il giovane Berto. Disse D. Bosco:
- Vedi, D. Savio: là chiesa andò su tutta per mezzo di grazie fatte da Maria Ausiliatrice. Solamente questa mattina venne una signora [870] con una ragazza e dimandava di parlare a D. Bosco. Venuta in mia camera, così mi disse: “Io aveva il mio marito che da parecchi mesi era tormentato da una sciatica e avendo sentito a dire che chi si raccomandava a Maria Ausiliatrice con una novena promettendo qualche offerta avrebbe ottenuta la grazia; così io feci. Incominciai la novena e promisi, se la Madonna mi faceva la grazia, di farle un'offerta. Ora vengo a soddisfare il mio debito. Prenda questa somma, perchè il mio marito è pienamente guarito: sta perfettamente bene”. Era un'offerta di 100 lire.
Dopo le orazioni, essendo D. Bosco venuto a parlare alla comunità, disse:
- Il colera infierisce già in diverse parti d'Italia, nel Canavesano, nella Lombardia, nel Napoletano. Grazie a Dio qui in Torino non si è ancora manifestato. Nell'Oratorio io potrei abbonarvi all'assicurazione della incolumità dal male, se nessuno commettesse peccati, come già più volte vi dissi. Intanto continuerò a raccomandarvi tutti alla Madonna, affinchè ci aiuti e ci tenga lontano il colera dell'anima prima di tutto e poi il colera del corpo. Guardate anche voi di andare a dire qualche Pater e qualche Ave e Gloria avanti a Gesù Sacramentato e qualche Salve Regina alla Madonna. Se tutti d'accordo ci mettiamo a non commettere nessun peccato, io vi posso assicurare che nessuno di voi sarà preso dal colera. Preghiamo anche che il Signore tenga lontano questo flagello dai nostri parenti, amici e benefattori.
Il 4 luglio D. Bosco scrisse a Roma al Principe D. Orazio Falconieri di Carpegna:
Non so se abbia ricevuto una mia lettera che spediva a V. E. per mano privata; il committente non mi ha più detto niente ed io ne ignoro l'esito e temo non le sia giunta.
Ripeterà qui adunque che io fo' a V. E. i più vivi ringraziamenti della cortesia usatami quando fui a Roma e della carità usatami eziandio col dono di un calice per la Messa e più ancora per la caritatevole offerta che mi ha fatto sperare per continuare i lavori di questa nostra chiesa dedicata a Maria Ausiliatrice.
Per tutti questi titoli ho sempre pregato e continuo a pregare coi miei poveri giovanetti, affinchè Dio spanda copiose le sue benedizioni sopra di Lei e sopra tutta la famiglia, e dopo di essere consolato da' suoi figli e da' suoi nipoti qui in terra, possa poi un giorno essere da loro circondato a godere la gloria celeste.
Qualcheduno mi ha scritto da Roma che probabilmente V. E. debba recarsi a Parigi per l'Esposizione, e che forse passerà per Torino. [871] Se mai ciò fosse, le farei rispettosa preghiera e calda di voler onorare di sua presenza questa nostra Casa, chè ne avremo tutti la più grande consolazione.
Mentre prego Dio a concedere a Lei e a tutta la sua famiglia il prezioso dono della santa perseveranza nel bene, raccomando la povera anima mia e quella dei miei ragazzi alla carità delle divote preghiere di V. E. ed ho l'alto onore di potermi professare di V. E.
Il Principe D. Orazio conservò gelosamente questa lettera con le altre, da noi riportate, che avea ricevute da Don Bosco; e il Principe D. Guido suo figlio, senatore del regno, nel 1909 le trovava nell'archivio di famiglia chiuse in una busta colla soprascritta: - 1867: Lettere del Molto Rev. Sacerdote Don Giovanni Bosco, zelante operatore della cristiana carità, particolarmente verso i fanciulli.
Il Principe D. Guido leggendo la lettera suesposta vi appose questa nota: “Particolare significazione ha quel pensiero che parrebbe usuale, cioè che possa essere un giorno circondato in cielo da' suoi figliuoli.” Erano infatti espressioni di conforto, tutte motivate dall'esiglio del suo figlio Guido, a cui la Polizia Pontificia aveva dato lo sfratto da Roma.
Tutta l'estensione dell'augurio si rivela dai fatti che lo stesso Principe Senatore accenna in una sua memoria, trasmessaci a spiegazione della nota suddetta.
Il Principe D. Orazio Falconieri aveva due figli della prima moglie morta nel 1843. Il secondogenito, il Conte Filippo, nato un mese prima la morte della madre, era stato messo dal padre a studiare in un collegio del Belgio; ma volendo egli servire la patria sua e non lo straniero, era fuggito da Bruxelles ed era entrato nell'esercito italiano facendo la campagna del 1866. Nel 1867 egli era alla scuola militare di Pinerolo, mentre al Primogenito, principe Guido, accadeva [872] in Roma un fatto disgustoso. Negli ultimi giorni di carnevale ebbe luogo una cena da Spillmann in via Condotti, promossa dal Doria e dall'Odescalchi per stare allegri, e a cui fu solamente invitato il Principe Guido. Un brindisi venne fatto dal Conte Carlo Lovatelli e fu in onore del Re Vittorio Emanuele, dell'esercito italiano, della gran patria italiana, di Roma che dovesse modificarsi, ma senza nessuna allusione ostile al Pontefice.” Io bevvi cogli altri, scrisse il Principe, e non aprii bocca. La Polizia ebbe sentore di questa cena. Fui interrogato; e con franche dichiarazioni dissi tutto, con immensa deferenza al Capo della mia fede, ma con ischietta aspirazione di vedere fuori del mio paese il Francese e il Tedesco. Ma quando il commissario mi chiese che se non aveva fatto io il brindisi dicessi chi era stato, io mi ribellai alla proposta di essere un delatore. Giudicato colpevole si voleva che io chiedessi perdono di ciò che non avevo fatto.
La mia matrigna, essendo mio padre passato a seconde nozze, la quale aveva educato me e mio fratello uffiziale nell'esercito italiano, irritata dall'iniqua condotta di un birro del Governo Pontificio, mi incoraggiò a resistere alle inaudite pressioni che mi si facevano per ritrattare ciò che non avevo nè detto nè fatto e quindi per comodo della Polizia dichiararmi il principale colpevole; e non lo ero. Il Cardinale Francesco Pentini e Mons. Vescovo di Savona mi consigliarono pure a non dichiararmi colpevole di colpa immaginaria. Perciò non chiesi perdono e fui obbligato a partire da Roma entro 24 ore, ed io presi la via dell'esiglio”.
Alla sera dopo le orazioni D. Bosco raccomandò ai suoi figli di far bene la festa di S. Luigi, di pregarlo per i parenti, amici e benefattori, e affinchè supplichi il Signore a tenerci lontano il colera dell'anima e poi del corpo; perchè tutti i mali e tutti i flagelli il Signore li manda a cagione della malizia degli uomini. [873]
D. Bosco disse dopo le orazioni:
- Domenica faremo una bella festa, la festa di S. Luigi. Facciamo tutto quello che possiamo per farla bene per più motivi e specialmente per impedire che il colera venga ad invadere i nostri paesi.
Una cosa poi che debbo avvertire, e della quale ho già avvisati alcuni giovani e i medesimi parenti, è la seguente: quando vi vengono a trovare donne, sian pur cugine, insomma persone di diverso sesso, guardate di trattenervi con esse meno che potete. Non usate sgarbatezze, ma con belle maniere dite loro che D. Bosco vi ha dato una commissione e con questo pretesto allontanatevi. Intrattenervi con esse è tempo perduto. Qui è il posto dei giovani, dei ragazzi e non delle donne e delle ragazze: e poi siamo tutti di carne ed ossa. Mettete il fuoco vicino alla paglia e poi vedrete. Il demonio è furbo: toglie il nome di cugina, di sorella, fa astrazione dall'essere parente, e resta la persona di altro sesso. Egli è un filosofo che sa far bene le astrazioni.
Ricordatevi ancora essere solo permesso ricevere visite dalla 1 alle 2. Negli altri collegi, anche governativi, non si ammettono i parenti a vedere i giovani se non al giovedì e ad ora determinata.
Ma torniamo a parlare della festa di S. Luigi. In questa bella solennità datemi una grande consolazione. Mettetevi tutti in grazia di Dio, affinchè io possa dire al Signore nella S. Messa: - O Signore! I miei giovani sono tutti in grazia vostra! Conservatemeli tutti in questo stato! - Fate questo, o miei cari, prima pel bene della vostra anima e poi anche per dare a me questa consolazione. Ricordatevi! Io lavoro da mattino a notte pel bene delle vostre anime!
Il 6 luglio, vigilia della festa di S. Luigi nell'Oratorio, il Presidente delle Opere Pie S. Paolo scriveva una lettera a Don Bosco, che, mentre era un attestato di lode alla carità dei Servo di Dio, era pure inspirata da una ragione di economia nuova in quell'amministrazione. Essa infatti, e prima e dopo questa lettera (come usa anche oggi giorno) a' poveri parenti che a lei si rivolgono per collocare i figli nell'Oratorio o in altro Istituto di beneficenza, soleva e suol concedere caritatevolmente un centinaio di lire una volta tanto per le spese d'entrata. [874]
Per parte della signora Monge Lucia, vedova del fu dott. Germonio Luigi da Prazzo (Cuneo) vennero presentate a questa Direzione le unite carte nello scopo di ottenere un sussidio per abilitarsi alle spese necessarie, onde poter ottenere l'ammissione di due figli Giuseppe e Raimondo Germonio nell'Istituto dalla S. V. Ill.ma e M. Rev. diretto.
E' noto al sottoscritto la condizione di bisogno assoluto in cui trovasi la ricorrente per la morte del di Lei marito, ed è ben dolente che queste Opere pie non possano venire in soccorso della medesima per l'oggetto suaccennato, non essendo stati dai fondatori erogati lasciti in tale uso. Non ignorando però che la S. V. Ill.ma e Molto Reverenda per quello spirito di carità e filantropia che eminentemente lo distingue, suole non di rado ricevere gratuitamente nel di Lei stabilimento giovani che trovansi nelle circostanze in cui versano li figliuoli della Ved. Monge predetta, le rimette le carte da essa presentate, non senza fiducia che troverà Ella mezzo di soddisfare ai di Lei desideri, estendendo per tal modo la sua beneficenza ad una famiglia di civil condizione che ne è ben degna, e che per l'immatura morte del suo capo è caduta nella più desolante miseria.
Coi sensi della più sentita riconoscenza, che fin d'ora le professo, gradisca gli atti della più distinta considerazione con cui ha chi scrive l'onore di dichiararsi,
Della S. V. Ill.ma e M. Reverenda,
Il 9 luglio, martedì, D. Bosco andava a Mirabello, ove era atteso da qualche tempo e dove aveva da compiere un gran bene, come si può arguire da questa lettera.
Ai miei cari figliuoli di Mirabello.
Ho ritardato, o amati figliuoli, a farvi visita come avevo promesso, ma quello che mi rincresce si è non aver nemmeno potuto andare a fare la festa di S. Luigi. Studio ora il modo di ricompensare il ritardo [875] colla più lunga dimora tra di voi. Martedì a sera, a Dio piacendo, per l'ultimo della sera, sarò a Mirabello. Ma perchè prevenirvi? Non basta intervenire secondo il solito? No, miei cari, non basta. Ho bisogno di parlarvi in pubblico per raccontarvi alcune cose che so tornare di vostro gradimento; di parlarvi privatamente di cose niente piacevoli, ma che è necessario che sappiate; di parlarvi poi in un orecchio per rompere le corna al demonio che vorrebbe divenire maestro e padrone di taluni di voi.
Qui metto una nota, che in una visita fatta testè, ho potuto fare di alcuni, i quali hanno bisogno di essere in modo speciale prevenuti; e prego il vostro sig. Direttore a voler dir loro da parte mia, che ho grave bisogno di parlare alla loro anima, al loro cuore, alla loro coscienza, ma questo mio bisogno è solamente per far del bene alle anime loro.
Del resto io vi dico che nelle frequenti visite che vi fo' ho vedute cose che mi dànno molta consolazione, specialmente quelli che frequentano esemplarmente la S. Comunione e compiono esemplarmente i loro doveri. Ho eziandio notate le piccole negligenze di taluni, ma di questo non fo' gran caso.
In mezzo a tutto questo non datevi pena di sorta. Io vado tra voi come padre, amico e fratello; datemi solamente il cuore alcuni istanti, poi sarete tutti contenti. Contenti voi per la pace e per la grazia del Signore di cui sarà certamente arricchita l'anima vostra, contento io che avrà la grande e sospirata consolazione di vedervi tutti in amicizia con Dio Creatore.
Ma questo è tutto per l'anima, e pel corpo c'è niente? Certamente, dopo che avremo dato all'anima quanto le occorre, non lascieremo il corpo digiuno. Fin d'ora mi raccomando al sig. Prefetto che dia gli ordini opportuni per passare una bella giornata e, se il tempo lo permetterà, di fare anche tutti insieme una passeggiata.
La grazia di Nostro Signore Gesù Cristo sia sempre con voi; e la Santa Vergine vi faccia tutti ricchi della vera ricchezza, che è il santo timor di Dio. Amen.
Pregate per me che vi, sono con tutto il cuore
P.S. - Speciali saluti ai preti, maestri, assistenti ed alla famiglia Provera, specialmente al caro papà.
Il giovedì Mons. di Calabiana, nominato Arcivescovo di Milano, che non aveva ancor lasciata la sede di Casale, recavasi a passare la giornata con D. Bosco. Incontratosi con [876] lui sotto i portici, essendo presente cogli altri del Collegio Don Francesco Cerruti, gli disse scherzando: - Oh! è Lei D. Bosco che mi manda a Milano!... Eppure stavo così bene a Casale! - In fatti egli era amatissimo dal clero e dal popolo. Dopo il pranzo Don Bosco intratteneva gli alunni in ricreazione con varii giuochi e discorsi ameni, e scherzevolmente scrutava le righe delle mani che essi gli presentavano predicendo a ciascuno, fra le risa universali, con calcoli intricati, quanto ancora avesse da vivere. Ed ecco Monsignore, che fino allora aveva tenuto circolo coi Superiori e gli insegnanti, avanzarsi in mezzo ai giovani e presentare egli pure la mano aperta a D. Bosco. Il Servo di Dio prese la mano dell'Arcivescovo, la baciò e con lui si ritirava in camera.
A Torino intanto giungeva un'altra lettera commendatizia per l'approvazione della Pia Società.
Attestatio LAURENTI GASTALDI, Episcopi Salutiarum, de Instituto Sacerdotis Joannis Bosco.
Ego infra subscriptus testor: Me vel a suo primo exordio intime nosse Societatem Sacerdotum et Clericorum institutam a D. Sacerdote Joanne Bosco Augustae Taurinorum in loco vulgo dicto Valdocco, sub auspiciis S. Francisci Salesii: et semper admiratum esse pietatem, humilitatem, zelum et praesertim obedientiam erga superiorem; sedulam quoque applicationem litteris et Scientiis omnium sociorum: et constanter audivisse a bonis omnibus, sive Ecclesiasticis sive laicis, optima testimonia de hac Societate. Omnes enim asserunt eos optime mereri de Ecclesia et de civili societate, quum tot puerorum centena, imo aliqua millia, continuo in Christiana pietate, in scientiis, litteris, vel artibus recte instituant.
Et non solum socii, qui Augustae Taurinorum sub nova disciplina vivunt, sed ii etiam qui Lanceis et Mirabelli in Collegiis nuper erectis laudem obtinent, ab omnibus qui eos cognoscunt et praesertim a genitoribus qui eis filios instituendos committunt, optimorum magistrorum qui et zelo et exemplo adolescentulorum animos in christianis virtutibus efficaciter imbuunt.
Testor etiam me audivisse, sanctae memoriae Archiep. Taurin. Aloysium Fransoni, dum Lugduni in exilio dolore premebatur, affirmantem se tanquam Divinae Providentiae speciale auxilium in hac [877] Societate agnoscere, cuius ope dum Seminaria diocesana erant clausa, aliqui tamen pueri adhuc pro Ecclesiastica militia praeparabantur.
Quum itaque Societas se bene constitutam exhibeat, et iam non parva beneficia et civili Reipublicae attulerit, et ampliora se allaturam promittat, oportet concludere, Regulas, quibus efformatur eadem et stat, optimas esse: quum ab effectu de causa iudicare fas sit.
Haec omnia libentissime testor, dum ex iis omnibus quae per tot annorum cursum vidi et audivi in hac et de hac Societate nequeam quin mihi suadeam, novum ibi ab omnipotenti Deo Ecclesiae suae adiumentum parari.
Dat. Augustae Taurinorum, die 11 Julii, A. D. 1867
+ LAURENTIUS, Episcopus Salutiarum.
Nello stesso giorno da Mornese partiva una lettera per Don Bosco. Siccome molti di quegli abitanti avevano promesso a Maria Ausiliatrice il decimo dei loro raccolti, se questi fossero stati preservati dalle intemperie, D. Pestarino gli notificava che altri avevano aderito a quella proposta, e con varie notizie accennava alla salute della Maestra Maccagno, Superiora dell'Unione dell'Immacolata, dalla quale doveva germogliare l'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice.
Mi fo' premura trasmetterle nota di otto che volontariamente si presentarono a me offrendosi di pagare il decimo, perchè V. S. Car.ma li unisca agli altri qui del paese; pregando Maria SS. Ausiliatrice a volerli liberare dalle disgrazie riguardo all'anima, e per le loro campagne. Questi come gli altri primi, intenderebbero di offerire il decimo secondo il raccolto dei bachi da seta, ed alcuni fin di quest'anno, avendo in via il secondo raccolto dei bachi stessi:
Sig. D. Lorenzo Pestarino - Giuseppe Pestarino fu Antonio - Signora Ninna Ghio - Lorenzo Mazzarello fu Giuseppe Lencin - Stefano Mazzarello fu Francesco Baroni - Luigi Maglio - Giuseppe Mazzarello Volponasa - Fratelli Mazzarello col padre Biondin.
Nel tempo stesso le dò la dolorosa notizia della morte del giovane Mazzarello organista, il quale fece una morte da angelo, rassegnatissimo nel Signore; morì baciando spesso il Crocifisso Signore e nell'ultimo si accostò da sè il Crocifisso colle sue mani, e spirò subito, non avendo più forza ad alzarlo, col Crocifisso sulle labbra. [878] La Superiora dell'Istituto dell'Immacolata va molto meglio del suo braccio, e conosce già l'aiuto di Maria SS. Ausiliatrice; mi disse presentarle i suoi saluti e ringraziamenti, pregandolo continuare a far pregare presso la Madonna. Colgo l'occasione pur io di salutarlo di vero cuore raccomandandomi alle sue orazioni, chè debolmente non tralascio pregar per lei. Sono
D. Bosco ritornava a Torino il giorno 13, ove lo aspettavano D. Cagliero e D. Savio, pieni d'entusiasmo per quello che avevano visto in Roma. Da essi il Venerabile ricevette una lunga ed affettuosissima lettera di Mons. Fratejacci, stesa, a quanto pare, a più riprese.
Veneratissimo e carissimo Signore,
Non era scritto nelle mie felici avventure che io avessi a rallegrarmi con me e colla S. V. a cui mi pregio di professare la più alta stima ed affezione, sul conto delle cose fatte o da farsi in prò della cara Società di S. Francesco di Sales. Vuole Iddio che questa grand'opera, perocchè tutta sua, abbia in sè tutte le note caratteristiche ed esclusivamente proprie delle altre opere di Dio sulla terra e ciò sono le contraddizioni di molti, l'apatia e l'indifferenza di moltissimi, i quali tamquam oryx illaqueatus dormiunt somnum suum, da ultimo l'invidia livida di certuni che vedono con occhio losco tutto ciò che loro non appartiene, e come Saulle si rattristano anche fra le gioie e le glorie del pastorello vincitore di Golia. Ma dal preambolo vengo ai fatti.
Ricevetti con piacere e riconoscenza la cara sua lettera e il duplice pacco delle note stampe consegnatemi dall'Em.mo Card. Vicario il giorno dopo l'arrivo dell'ottimo Mons. Vescovo di Mondovì. Non trascurai un momento per parlar subito con sì rispettabile Prelato, e interessarlo a che, data occasione, nel suo trattenimento in Roma parlasse convenientemente col S. Padre, e col Card. Prefetto dei Vescovi e Regolari e con chi stimasse opportuno in favore dei nuovo Istituto, quasi da Dio stesso fondato in questi miseri tempi ad Ecclesiastici Ordinis decorem promovendum, come disse la Chiesa di quello istituito da S. Vincenzo de' Paoli. Il buon Prelato gradì assai le mie parole, vi corrispose con tanti ed affettuosissimi modi e promise ogni suo appoggio. Stimolai nuovamente il Vescovo di Savona a muovere l'Arcivescovo Riccardi, ed ancor questi promise ogni più energica opera. Col Card. Vicario col'Em.mo Consolini e con varii Prelati di mia relazione [879] e con moltissimi ecclesiastici che hanno influenza, feci con modi convenienti quanto io seppi senza dar vista d'alcun impegno per apparecchiar l'opinione prima di distribuire gli esemplari inviatimi delle Regole, da assoggettarsi al giudizio della S. Sede. E già io affrettava col desiderio la venuta dell'Em.mo De Angelis, e la lettera che io le aveva richiesto. Ma l'Em.mo De Angelis arrivò in Roma ed io non ebbi che molto tardi la lettera per Sua Eminenza, acclusa nella graditissima sua del dì 25 trascorso giugno, consegnatami da due cari suoi alunni D. Angelo Savio e D. Giovanni Cagliero nel giovedì seguente al Centenario di S. Pietro. Fui al momento dal Card. De Angelis, feci consegnar la lettera, ma per le tante brighe, in cui tutti gli Eminentissimi hanno dovuto trascorrere i trenta ultimi giorni fra i concistori, le processioni, le visite da fare e da ricevere ecc., ecc. ebbi in risposta che Sua Eminenza aveva piacere e desiderio di parlarmi, ma non prima di altri cinque giorni, perchè mancavagli ogni tempo. Ed oggi appunto recatomi dall'Em.mo De Angelis ho conferito più di un'ora col medesimo, dicendogli io ciò che occorreva manifestargli sull'argomento, perchè Egli vedesse netta la situazione delle cose, la figura delle persone, la temperatura atmosferica del luogo, ecc. ecc., ed ascoltando da lui tutto ciò che egli ebbe la bontà di manifestarmi. Lascio qui di riferire l'alta stima del Cardinale per D. Bosco, l'affezione cordialissima che gli professa, il gran concetto in cui ha la di Lei fondazione, sicchè ove dipendesse da Lui sarebbe già in omnibus et per omnia approvata, confermata e premunita di ogni grazia e privilegio. In ordine però alle premure da Lui già messe in opera e col Papa e col Card. Quaglia e coi suoi colleghi, senza aver bisogno delle mie preghiere, cosicchè in ogni posizione che egli aveva in mano da trattare con chiunque aveva di sua mano scritto - Bosco - per un ricordo alla sua memoria di parlar di lei in qualunque occasione, mi ha dovuto confidare che per ciò che concerne le dimissorie degli ordinandi della Società novella di S. Francesco di Sales è inutile affatto il parlarne. Il S. Padre è a ciò contrario, il Card. Quaglia e Mons. Svegliati egualmente, e secondo ogni apparenza, ed anzi certezza, la risposta della Sacra Congregazione sarà negativa. Quanto siami dispiaciuta questa notizia io non so esprimerlo a parole, e quanto siane stato dispiacente nel darmela l'Em.mo De Angelis, può Ella ben giudicarlo dall'affezione viva che l'anima a di Lei riguardo.
Però i momenti che corrono non potevano permettere migliori prognostici in tale specie di affari. In generale parlando, i Corpi Regolari d'oggi sono, salve pochissime eccezioni, in uno stato d'infermità profonda. Gli ex-frati come un diluvio inondano la terra e lasciano dopo di sè tracce che affliggono la Chiesa... Mentre dunque gli occhi di tutti sono intenti a vedere questi mali, e le comuni aspirazioni dell'Episcopato tendono a distruggere piuttosto, o riformare gli ordini [880] già esistenti, egli è ben naturale che la volontà di quelli, anche i più buoni e amanti del bene, sia meno inclinata a favorire un Ordine religioso, che ora nasce, o che almeno non vanta sì lunga vita da sorreggere il proprio nome sulla base dell'esperienza.
Ed io a questo proposito debbo aggiungere a di Lei riservatissima notizia e regola che fra le materie da discutersi nel futuro Concilio Ecumenico, intimato dal S. Padre, si novera questa principalmente degli Ordini Religiosi. E i Vescovi latini venuti in Roma, prima della loro dipartita, hanno tutti ricevuto un foglio contenente dei quesiti su cui è chiamata la loro attenzione, e richiesto il loro parere, fra i quali si legge: - Se sia espediente l'approvazione di nuovi Ordini religiosi, o non piuttosto la fusione di quelli che hanno un medesimo scopo; - notizia non ricevuta dal Card. De Angelis, ma che ho attinta da un altro fonte sicurissimo. Posti adunque tali elementi, come non vedere difficoltata e resa al momento quasi impossibile moralmente la concessione del privilegio di promuovere nella nuova Società di S. Francesco di Sales gli ordinandi senza la dimissoria dei Vescovi? Il perchè dopo esaminate parte a parte tutte queste cose, ed altre analoghe che per lettera è difficile narrare una per una, io ho formolato all'Eminentissimo De Angelis alcuni miei quesiti. E ciò sono:
1° Se sia espediente incontrare la esclusiva della piena Congregazione circa la promozione degli ordinandi senza la dimissoria dei propri Vescovi, o piuttosto ritirare ed escludere, antecedentemente al giudizio, questo punto di discussione?
2° Se sia più provvido consiglio cercare adesso quomodocumque un'approvazione della nuova Società di S. Francesco di Sales, anche senza il privilegio circa gli ordinandi, o ritirare affatto la istanza per l'approvazione e rimetterla ex integro al prossimo Concilio Ecumenico?
L'Eminentissimo circa il 1° quesito opinerebbe, ed io pienamente aderisco, essere meglio desistere affatto dal chiedere il privilegio circa gli ordinandi, che non coltivare questa domanda con certezza che sarà risposta colla negativa. Perciocchè pregiudicato che fosse questo affare dal giudizio della piena Congregazione, e come e quando potrebbe poi rivendicarsi? Ella sa che facilis descensus, sed revocare gradus ...!!! hic labor!
In quanto poi al 2° quesito Sua Eminenza nè approva, nè nega. Da un lato potrebbe sembrare troppo spinta e studiosa la premura di invocare il Concilio futuro, quasi come ricusare il giudizio, già promosso presso la S. Congregazione. Da un altro lato potrebbe riuscire naturalissimo e senza ingiuria ad alcuno la risoluzione di proporre al prossimo Concilio l'approvazione dei nuovo Istituto, stante la intimazione ora fatta ex inopinato dal S. Padre nella festa centenaria di S. Pietro. Non sarebbe questione che di modi acconci da usare nell'esporre convenientemente la domanda al S. Padre, felicitandosi col [881] medesimo e rallegrandosi della convocazione del Concilio, che tanto onore aggiungerà al suo glorioso Pontificato, e mostrandosi desideroso di tanto onore di assoggettare il novello Istituto alla disamina e giudizio, come l'ebbero varii altri Istituti e specialmente la Compagnia di Gesù, approvata sotto Paolo III nell'ultimo Concilio di Trento.
Il fine del mio lungo colloquio coll'Em.mo De Angelis fu che io le avrei scritto per ragguagliarla di tutto, che Egli le dice tante cose e le invia mille affettuosi saluti e che l'aspetta assolutamente in Fermo ai primi del prossimo agosto.
Per me ho creduto ben fatto di non muovere presso la S. Congregazione alcun passo, nè ho distribuito gli esemplari delle regole fin qui, nè li distribuirò senza aver prima un di lei cenno. Non sono questi gli affari in cui possa corrersi. È necessario invece la più grande ponderazione e prudenza per non dare passi in fallo....
Dopo ciò prendo adesso a pregare la S. V. perchè voglia avere la bontà d'indicarmi quale partito le piaccia di adottare, o di ritirare la domanda circa gli ordinandi o di ritirare tutta affatto l'istanza, ovvero di trarre innanzi le cose per ottenere l'approvazione dell'Istituto, esclusa l'ordinazione senza dimissoria dei Vescovi. Qualunque cenno mi favorirà, io tosto farò presso la S. Congregazione il da farsi, e sia pur tranquilla nella mia massima premura in fare tutto ciò che posso per servirla. Qualunque dispiacere mi costi il vedere sì subito svanita la speranza concepita di ottenere tutto secondo i desiderii per l'opera certo poderosissima del Card. De Angelis, in cui può contare la S. V. un vero amico, ne sarò ben compensato del favorevole successo delle altre cure, che di tutto l'animo sosterrò per adempiere possibilmente i santi desiderii che animano V. S. e che sebbene alquanto ritardati, o momentaneamente impediti, riusciranno però finalmente allo scopo santo e glorioso a cui sono rivolti. Deus et dies in tutte le cose; nè può fallire che la bellissima e retta opera del suo Istituto non abbia ad incontrare difficoltà perchè sempre di ragion loro sono: difficilia quae pulchria .....
Sono grato alla S. V. della conoscenza fatta dei due egregi giovani sacerdoti D. Savio e D. Cagliero, ai quali ho consegnato con piacere il mio ritratto, aggiuntone un altro esemplare da darsi a V. S.. Mi è dispiaciuto di non poter fare a questi carissimi ed esemplari sacerdoti qualche attenzione secondo i miei desideri. Ma essi avranno veduto almeno il mio animo, che se a Dio piacerà potrà in altre circostanze meglio esternarsi a loro riguardo. Beato Lei, D. Bosco, che vanta sì belle piante nel giardino da Lei coltivato. Iddio benedica il coltivatore ed il giardino, affinchè vi fioriscano in ogni tempo fiori e frutti alla Chiesa e al popolo cristiano.
Prendo parte a ringraziare colla S. V. il Signore di tanti beneficii e grazie, con cui Egli ogni giorno si manifesta in codesta sua Casa e [882] nella bella chiesa, il cui fac-simile presentatomi dal sig. Cav. Oreglia in di lei nome, ho gradito immensamente. Una bella cornice a momenti adornerà il detto disegno e sarà posto innanzi alla mia scrivania insieme col di lei ritratto per avere continua occasione di parlarne a chiunque viene in mia casa, e sono moltissimi ogni giorno che debbono venire per l'ufficio che esercito.
Se ama di aver presto li scudi 100 a me ripromessi, le raccomando di nuovo la signora, di cui le scrisse per mia commissione il Sig. Cav. Oreglia, la quale aspetta la grazia dall'orazione sua e di cotesti buoni giovanetti.
Qui acclusi troverà N. 5 biglietti vincitori nella lotteria da Lei fatta. M sono stati consegnati da signori a cui io distribuiva i biglietti nella di Lei venuta a Roma ed ora da me aspettano il premio. Gradirei che nell'inviarmelo avesse la bontà di indicarmi il premio corrispondente ad ogni numero a scanso di equivoci. Uno dei detti biglietti è del Can. Segretario del Vicariato, e i quattro altri appartengono ad altri signori e signore.
Io, grazie al Cielo, sto bene e sono a Lei ben grato, non che a codesta sua comunità, delle orazioni per me fatte e che spero sempre saranno continuate finchè Dio ascolti i miei desideri tendenti anche al bene di codesti giovinetti. Il buon priore D. Lorenzo, mio commensale, ed Agnesina, che tanta fiducia ripone nelle preghiere di V. S., le fanno a mio mezzo tanti e particolari complimenti e saluti. Debbo infine dirle tante cose a nome dell'Em.mo Card. Vicario e dei Card. Consolini, e raccomandarle sempre a nome di quest'ultimo, che prosegua a pregare e a far pregare per suo fratello Marchese Luigi Consolini. Le raccomando di nuovo a nome del Card. De Angelis che non manchi in Fermo, ove egli lo aspetta pei primi di Agosto. Da lui a voce saprà meglio tutto ciò che le ho sopra accennato.
Aspetto con ansietà una riga di riscontro per sapere come agire presso la Sacra Congregazione per non dare un passo in fallo. Ma mi scriva come prima potrà. Stia bene. Gradisca i miei sinceri auguri d'ogni contentezza e consolazione spirituale e d'ogni più felice successo alle sue sante intraprese. Mi abbia per un figlio della Casa di S. Francesco di Sales e mi creda con ogni più ossequiosa riconoscenza, affezione e stima,
Um.mo dev.mo obb.mo servo aff.mo
IL 14 luglio, alla sera, giungeva all'Oratorio un telegramma che annunziava come il Sacerdote Enrico Bonetti fosse stato colpito gravemente dal colera. L'infermo stesso aveva voluto con questo raccomandarsi alle preghiere dei suoi confratelli ed alunni. L'annunzio cagionò gran dolore a tutta la Comunità. Egli era partito da otto giorni per Chiuduno, in provincia di Bergamo, sua patria, per accorrere al letto della vecchia madre, agonizzante per lo stesso morbo che faceva strage in paese. Ma [884] quando giunse, la madre non era più e D. Enrico dovette fermarsi a confortare i suoi fratelli e congiunti. Nell'Oratorio si trepidava per lui.
D. Enrico Bonetti aveva un'affezione tenerissima per Don Bosco ed ogni suo comando era da lui considerato come manifestazione della volontà di Dio. In ricreazione egli era sempre in mezzo ai giovani per impedire qualunque disordine e la sua compagnia era da essi ricercata. Diligentissimo nelle pratiche di pietà, era un modello di operosità e di zelo. Catechismo, cerimonie, conferenze, assistenza, tutto veniva da lui disimpegnato con zelo e profitto delle anime. Nella classe di umanità, nella quale faceva scuola, era sempre salutato col più amorevole sorriso dagli scolari che lo riguardavano come un affettuoso fratello; tanto interesse egli mostrava pel loro avanzamento negli studi. A lui era pure affidata la tipografia, quando il Direttore di questa si trovava per mesi in viaggio, ed egli ne disimpegnava tutti i complicati doveri, senza trascurare i suoi propri, non badando alla sua sanità. Iscritto inoltre nella Regia Università di Torino alla facoltà di Scienze Fisiche e Matematiche, era tale il suo ingegno e il suo profitto che i professori gli portavano grande affezione e stima, dicendolo uno dei migliori del corso; e quando più non comparve alle loro lezioni, scesero essi stessi in Valdocco per averne notizie e ne appresero dolenti la morte.
Aveva celebrato la sua prima messa il giorno della Madonna del Rosario nel 1866 con tanta esultanza, da fargli dire che solo in paradiso avrebbe potuto provarne una maggiore; ed il suo contegno all'altare fece sempre testimonianza del suo raccoglimento e del suo fervore.
La domenica 14 luglio alle ore 10 egli celebrò la sua ultima messa, e fu la parrochiale, desideroso di sollevare il parroco tutto intento all'assistenza de' colerosi. Quel medesimo giorno alle 3 pomeridiane fu preso dal male. Il parroco D. Giuseppe Calvi gli amministrò tutti i sacramenti con [885] la benedizione papale. Fino all'ultimo fu in pienissima cognizione, parlando a quando a quando di D. Bosco e del caro Oratorio. Spirava mezz'ora dopo la mezzanotte, cioè nella prima ora del giorno del santo del quale portava il nome.
Nell'Oratorio gli si fecero solenni funerali e prima delle esequie D. Francesia lesse una commovente orazione, prendendo per testo: Suavis somnus operanti justitiam.
Mons. Ghilardi, che per la stampa dei suoi libri, era in continua relazione con D. Durando, gli scriveva da Roma il 29 luglio: “Quanto mi ha addolorato la infausta notizia che mi deste della morte dell'ottimo Don Bonetti e di sua madre. Io ho subito pregato per essi, e continuerò a fare lo stesso. Ma sia sempre fatta la volontà di Dio: beati mortui qui in Domino moriuntur. Sperando che il carissimo D. Bosco abbia ricevuto l'ultima mia, sono ecc. ecc.”
Un altro scritto del Vescovo, accluso in biglietto di Mons. Manacorda, temperò il dolore provato da D. Bosco per la morte di D. Bonetti.
Tutto per amor di Gesù Sacramentato.
Rev.mo ed Arcicar.mo D. Bosco,
Incaricato dal Vescovo di Mondovì Le mando le qui accluse carte. Se fossi sicuro di poter venire direttamente in Torino amerei meglio consegnargliele di propria mano; ma per non cagionare ritardo le faccio precedere. Caro D. Bosco, preghi per me, questo mi basta per assicurarmi il Paradiso, e vedere a faccia a faccia quel Dio di amore, che ora solo guardo in Sacramento coll'occhio della fede. Oh venga presto questo giorno benedetto. Allora sì che aiuterò D. Bosco!
Mi abbia nel Signore per tutto suo
Il Vescovo di Mondovì comunica al Carissimo D. Bosco le due seguenti osservazioni di Mons. Modena, e ciò mediante resta terminata la consaputa pendenza. [886] Nell'altro foglio erano le osservazioni:
Alla pag. 217 è indispensabile correggere il grave errore contenuto in quel periodo che incomincia: “La nostra fede dev'essere intera… e finisce in queste parole: Costui (cioè che commette peccato grave) trasgredisce un articolo di fede che lo fa colpevole di tutti gli altri”.
Alla pag. 192 meglio sarebbe il sopprimere tutta l'appendice, che è una superfluità in siffatta opera ascetica, ma se voglia mantenersi, correggasi l'espressione erronea e ripugnante alla sana critica ed al buon senso religioso, cioè che la venuta di S. Pietro a Roma è un fatto estraneo alla fede ed è argomento di libera discussione.
A queste due eransi ridotte le correzioni, senza altra obbligazione, e Don Bosco le eseguì fedelmente.
Così le Letture Cattoliche avevano superato una grave tempesta, destata dalla inconsulta animosità di chi aveva malamente interpretate le azioni di D. Bosco in Roma. La sua difesa aveva sortito il desiderato effetto. Mons. Gastaldi ne provò grande soddisfazione e gioia, e la manifestava al ch. Chiapale, parlandogli delle tribolazioni sofferte da D. Bosco in quel tempo e concludendo:
- Qui Pie volunt vivere in Christo Jesu, persecutionem patientur. Glie lo participi a D. Bosco a nome mio.
Così avveravasi la promessa dei Proverbi: - Ubi fuerit superbia, ibi et contumelia; ubi autem humilitas, ibi et sapientia.
Con gran cuore il Servo di Dio ringraziò la Madonna d'averlo liberato da quella angustia, che non avealo distolto dall'occuparsi continuamente delle sue Opere e dalla sua corrispondenza. Da questa emerge sempre la grande stima e confidenza che i ricorrenti avevano per lui.
Nel mese di luglio il Prefetto di Torino, Senatore Conte Torre, testimone della sua carità per gli orfani Anconitani, lo pregava a ricoverare nell'Oratorio i fratelli Condio del [887] circondario d'Ivrea. Erano figli orfani di un uffiziale, nipote di un tenente colonnello pure defunto, che si trovavano senza mezzi di fortuna.
Il Cardinale Filippo Maria Guidi, dell'Ordine de' Predicatori, ammiratore di quanto D. Bosco aveva fatto in Roma, gli raccomandava e faceva condurre in Torino un nipote del suo cameriere.
La Contessa Carolina Lützow da S. Vito scriveva in francese al Cavaliere Oreglia perchè si pregasse per l'Imperatore Massimiliano fucilato dai repubblicani a Queretaro: “Carlo ed io siamo profondamente afflitti per la morte dell'Imperatore del Messico, nel quale rimpiangiamo non solo un principe della nostra famiglia imperiale, uno degli uomini più distinti che abbiamo conosciuti, ma eziandio un amico che ci ha date numerose prove di bontà e di affabilità, prima di abbandonare l'Austria per questa funesta spedizione. Io vi prego di raccomandare alle preghiere di D. Bosco la sua anima e la disgraziata imperatrice che non è più in stato di comprendere la grandezza del suo infortunio”.
Mentre D. Bosco rispondeva a queste lettere, glie ne era recapitata una che lo riempiva d'immensa gioia.
PIO P.P. IX[27].
Diletto Figlio, saluto ed apostolica benedizione.
Abbiamo ricevuto con piacere la tua affettuosissima lettera dei 25 giugno, in cui ci annunzi la venuta a Roma di Angelo Savio e Giovanni Cagliero, sacerdoti della Società Salesiana, tuoi collaboratori [888] nel formare i giovanetti alla pietà ed alla virtù, poichè non potesti fare tu stesso il viaggio di Roma, come desideravi, e trovarti presente alle solenni feste secolari che Noi celebrammo in onore di S. Pietro e Paolo il 29 giugno prossimo passato e per la canonizzazione di varii eroi della divina nostra religione. In questa lettera, o Diletto Figlio, Ci manifesti eloquentemente la singolare pietà ed osservanza che tu e tutti i sacerdoti che ti aiutano nell'educazione della gioventù, vi gloriate di professare verso di Noi e verso questa Cattedra di S. Pietro. E questo ci tornò oltremodo gradito. Certo abbiamo appreso con immenso piacere che i Vescovi da Noi recentemente creati per coteste diocesi vacanti, siano stati ricevuti dai popoli cattolici con ogni sorta di dimostrazioni di onore, di riverenza e di santa letizia. Conoscendo intimamente la tua pietà, avevamo la certezza che tu nella nuova edizione dell'opuscolo “il Centenario di S. Pietro” avresti eseguito scrupulosamente ciò che la Nostra Congregazione dell'Indice credette di osservare. Per quel che spetta poi alle Costituzioni di cotesta Società di S. Francesco di Sales, già ti è noto essere stato questo affare affidato alla Nostra Congregazione dei Vescovi e Regolari, della cui opera ed aiuto Noi siamo soliti a servirci nel trattar simili negozii. Continua intanto con sempre maggiore alacrità nel lavorare per la cristiana educazione delle gioventù. Non cessar mai di innalzare ferventissime preci a Dio, ricco in misericordia, pel desiderato trionfo e per la pace, della Chiesa, mentre implorando tutte le grazie del Cielo ed in pegno del nostro ardente affetto, di tutto cuore impartiamo la benedizione [889] Apostolica a te, a tutti i sacerdoti della Società di S. Francesco di Sales ed a tutti i giovanetti alla medesima affidati.
Dato a Roma, presso S. Pietro, il 22 luglio 1867, dei Nostro Pontificato anno vigesimo secondo.
Il Papa gli aveva scritto come egli conoscesse intimamente la sua pietà e il suo attaccamento alla Cattedra di S. Pietro; e questo elogio non venne mai smentito. Le persecuzioni, i pericoli, le fatiche, i dolori, le contraddizioni, le calunnie, le ripulse, le amarezze, le ingratitudini degli uomini, non giunsero a diminuire per un solo istante l'affetto che Don Bosco portava alla Chiesa. Ciò si manifestò in ogni sua azione, grande o piccola che fosse, fino agli ultimi giorni della sua vita. Il 27 settembre 1909 ci scriveva da Lanzo il Sacerdote Salesiano D. Sebastiano Teobaldi:
“Mi diceva D. Giovanni Garino, di cara memoria, che il Ven. Don Bosco gli aveva suggerito di mettere nei suoi Esercizii Greci, come temi di traduzione, quei passi del Nuovo Testamento dai quali risulta il Primato di San Pietro. Infatti gli ultimi sei passi degli Esercizii Greci del buon Don Garino (passi che non c'erano nella prima edizione del 1886, ma che compaiono nella seconda del 1888 e successive della stessa opera) sono intitolati:
I) I Discepoli interrogati riferiscono le varie opinioni intorno a Gesù; il quale, udita la confessione di Pietro lo costituisce fondamento della sua Chiesa (Matt. XVI).
II) Sorta contesa fra gli Apostoli chi di loro fosse il maggiore, Gesù dà loro alcuni ammonimenti e infine dice d'aver pregato per la fede di Pietro (S. Luca XXII).
III) Gesù comparso ai discepoli che pescano sul lago di Tiberiade, interroga Pietro se lo ami. Alla triplice risposta di Pietro “io t'amo”, Gesù gli comanda di pascere i suoi agnelli e le sue pecorelle (Giov. XXI).
IV) Pietro esercita il primato conferitogli da Gesù Cristo eleggendo S. Mattia al posto lasciato vuoto da Giuda (Atti degli Apost. 1).
V) Pietro entrando con Giovanni nel tempio, guarisce coi nome di Gesù uno storpio nato (Ivi, III).
VI) Erode Agrippa uccide l'Apostolo S. Giacomo, pone Pietro in carcere, ma la Chiesa prega per Lui e nella notte viene liberato da un angelo (Ivi, XII). [890] D. Bosco comunicava notizia della lettera e della benedizione papale ai giovani, che tutti erano occupati negli esami finali. Era questo un tempo che duplicava le sue occupazioni. Restava tutte le mattine in confessionale per più ore: dava udienza a quelli che desideravano consigli particolari per le vacanze, ascoltava le relazioni dei professori, s'informava dei voti, leggeva qualche componimento, impartiva norme perchè fosse ordinata la partenza dei giovani per tanti paesi, dava disposizione per gli esercizii spirituali de' Salesiani, s'informava del come finiva l'anno scolastico ne' due suoi collegi e scriveva ove non aveva potuto fare udir la sua voce. Si aggiunga che più nobili famiglie chiedevano a lui un prete per la villeggiatura o un ripetitore pei loro figliuoli. La risposta ad una di queste richieste è indirizzata alla Contessa Callori.
Farà in modo che il prete si trovi al tempo stabilito; ma questo prete è veramente contrastato. D. Durando è legato con Casa Fassati; D. Francesia, Direttore delle scuole, non può allontanarsi da casa; D. Bonetti Enrico, pio, dotto, prudente, era fissato per questo. Ma un dispaccio da Bergamo lo chiama ad assistere sua madre colpita dal colera: va, trova morta la madre, poche ore dopo è assalito egli stesso con suo fratello: in poche ore sono ambidue cadaveri. Sit nomen Domini benedictum! Dio ce ne darà un altro, del resto andrò io stesso e farò quel che potrò.
Ieri fu condotta in mia camera una giovanetta pazza e furiosa tenuta da due uomini. Si fece una preghiera e appena ebbe la medaglia al collo si acquietò, domandando scusa e con tutto senno chiese potersi confessare e ne fu esaudita. I parenti partirono benedicendo Maria Ausiliatrice che avevano invocata.
Possibile che non si possa ottenere niente per la sua Vittoria? A forza di pregare male, che io non possa giugnere a fare almeno una giaculatoria con fervore? Fede! e continuiamo a pregare.
Ho mandato le medaglie e non so dove siano andate a terminare. Qui ce ne sono delle altre.
Preghi per me e per li miei giovanetti e mi creda con gratitudine e coi saluti a tutta la famiglia,
Agli alunni di Lanzo scriveva quest'altra lettera.
Cari figli del Collegio di Lanzo,
Ho differito finora a scrivervi, o figliuoli carissimi, perchè pensava di potervi personalmente parlare prima delle vacanze; ma ora veggo che le necessità delle occupazioni mi privano di questo piacere e mi studierò di soddisfare colla penna.
Vi dirà adunque che io vi ringrazio dell'offerta che avete fatto per la chiesa di Maria Ausiliatrice, e delle care lettere che vi siete compiaciuti di scrivermi. Voi non potete immaginarvi con quanto piacere io le abbia lette ad una ad una, e mi sembrava proprio di parlare con ciascuno di voi. Mentre leggeva, col mio cuore faceva a ciascuno la sua risposta, che non fu possibile di estendere per iscritto.
Siate persuasi, o miei cari, voi mi avete espressi tanti belli pensieri, ma questi pensieri trovarono eco nel mio cuore e spero che il vostro e il mio cuore faranno una cosa sola per amare e servire il Signore. Siate adunque benedetti e ringraziati della carità e benevolenza che mi avete mostrata. Intanto avvicinandosi le vacanze io desidero di darvi l'addio con qualche amichevole parola.
1° Per quanto vi sarà possibile, ritornate nel giorno in cui si ricominceranno le scuole, che credo sia il 16 del prossimo agosto, ad eccezione che qualche male ve lo impedisca.
2° Salutate i vostri parenti, i vostri parroci, maestri da parte mia.
3° Se incontrerete in vostra patria qualche compagno virtuoso, procurate di condurlo con voi al Collegio, ma a quelli che non vi sembrano buoni non parlate di venire in cotesto collegio.
4° Nel tempo che sarete a casa fate almeno la comunione nei giorni festivi. Lungo la settimana non tralasciate ogni mattina la vostra meditazione.
5° Ogni mattina dite un Pater ed un'Ave con Gloria Patri al SS. Sacramento per unirvi con me, che vi raccomando ogni giorno nella S. Messa, affinchè niuno di voi resti vittima del colera, che si fa terribilmente sentire in parecchi paesi a noi vicini. A proposito di questo brutto male io consiglierei che quelli che hanno il morbo in patria non ci andassero per le vacanze per non mettersi in pericolo della vita senza necessità.
Del resto, o cari figliuoli, pregate Dio per me, e preghiamo tutti l'un per l'altro, affinchè possiamo evitare l'offesa del Signore nel corso di questa vita per quindi trovarci tutti insieme un giorno a lodare, benedire e glorificare le divine misericordie in cielo. Amen.
P. S. - Evviva il Direttore, prefetto, maestri, assistenti e tutti i miei figli di Lanzo!
Il colera si estendeva in Italia e incominciava a far vittime in Roma. Il Signore G. Patrizi Montoro il 20 luglio scriveva al Cavaliere: “Dite a D. Bosco che ci raccomandi al Signore, perchè siamo nelle tribolazioni”. E D. Francesia, pur da Roma, riceveva la funesta notizia:
... Scopo principale di questa mia lettera è di raccomandare alla carità delle loro preghiere e del nostro amato e venerando D. Bosco particolarmente la povera Costanza Lepri, ottima signora che Lei ricorderà benissimo essere venuta le cento volte con una pazienza ammirabile dal Conte Vimercati per poter parlare a D. Bosco. Ebbene, questa buona signora mercoledì sera venne attaccata dal colera ed in sole 24 ore volò in seno a Dio… Quanto invidio la sorte della buona contessina Calderari; beata lei, che può rivedere quel gran Servo di Dio e trovare in lui qualche parola di conforto e d'incoraggiamento. Le dica tante cose per parte mia e le racconti pure tante e belle cose di D. Bosco, affinchè ritornando a Roma ce le possa raccontare .....
.....Colla Calderari mi mandi qualche prezioso ricordo di D. Bosco, ma non se ne dimentichi; una cosa proprio usata da lui: o la sua corona o cosa simile. Mi scriva, e se fosse possibile avere una parola di Don Bosco, quanto arriverebbe a proposito .....
La Contessa Calderari, benefattrice dell’Oratorio, appena giunta a Torino accompagnata dal Conte suo marito, era caduta gravemente inferma di uno di que' mali che hanno quasi sempre terribili conseguenze. Il Cavaliere Oreglia fu subito all'albergo offrendo i suoi preziosi servigi al Conte suo amico, che aveva bisogno di essere aiutato in una città nella quale era forestiero. Accorse pure la Duchessa B. Scotti Melzi, avvisata da D. Bosco, e, consigliatasi colla Marchesa Fassati, per mezzo di una suora di San Vincenzo de' Paoli, cercò una brava infermiera che vegliasse l'inferma di [893] notte. Da Firenze la Marchesa T. Nerli, come altre dame da Roma, scriveva al Cavaliere chiedendone affettuosamente notizie, dicendo: “Mi consola il pensare che è vicina a Don Bosco e che non le mancano per conseguenza aiuto e conforti spirituali”.
Lo stesso Cardinale Antonelli mandava un suo foglio al Cavaliere.
Mi cagionarono una viva amarezza le notizie che V. S. Ill.ma mi arrecava col suo foglio del 1° corrente, intorno la travagliata salute dell'ottima contessa Calderari. Nutro però speranza che coll'aiuto divino e con una assidua cura possa completamente riaversi. Professo intanto alla S. V. la più sincera gratitudine per l'assistenza che le prodiga, e per la parte che prende all'afflitto sig. Conte. Sono pur grato allo impareggiabile D. Bosco, che non lascia di apprestare all'inferma spirituali conforti, e lo preghi anche in mio nome di volerli raddoppiare. Qualunque cosa Ella vede sia per tornare di vantaggio alla buona contessa, non la risparmi, e mi significhi liberamente, se io potessi concorrere con l'opera mia per vedere in qualsivoglia modo affrettato il miglioramento dell'attuale di Lei stato.
Si compiaccia infine di manifestare ad essa quanto abbia io mai apprezzato il pensiero, che si ebbe in mezzo anche alla infermità, di farmi presenti gli auguri, che insieme al consorte vollero formare per ogni mia prosperità m occasione del mio onomastico.
Ne esprima loro i sentimenti dell'animo mio riconoscente, assicurandoli che non li dimentico nelle mie deboli preghiere. E mentre le affido siffatti offici, mi pregio dichiararmi con distinta stima
Sig. Federico Oreglia - Torino.
La malattia durò circa un mese e Don Bosco andò più volte a visitare l'inferma, che dalla presenza del Venerabile provava un mirabile conforto. Se era turbata, una parola di D. Bosco la rimetteva subito in calma, e la benedizione in nome di Maria Ausiliatrice, colla certa speranza di guarigione, aiutavala a superare il morbo. [894] Alla metà di settembre ella era in piena convalescenza, e col Conte aveva deciso di partire un lunedì mattina. Ma da varii giorni D. Bosco non s'era visto e non si voleva lasciar Torino prima che fosse venuto a congedarsi; la Contessa desiderava avere da lui ancora una benedizione e testificargli la sua gratitudine. D. Bosco lo seppe ed ebbe la bontà di andare la sera della domenica innanzi a salutarla. Così scriveva ella, stessa da Firenze a D. Francesia il 25 settembre.
Anche la signora Carolina Sorelli scriveva al Cavaliere da Firenze:
“La Contessa Isabella sta veramente benino ed è venuta a vedermi. Che anima cara e come corrisponde ai lumi di Dio! Il suo soggiorno a Torino le ha dato una tranquillità di spirito, vero abbandono in Dio, che, se le continua in Roma, spero migliorerà sempre più la sua malferma salute.”
La carità di D. Bosco per la Contessa Calderari accrebbe, se pur era possibile, la venerazione e l'affetto che avevano per lui la nobiltà Romana e Fiorentina.
NEGLI ultimi giorni di quell'anno scolastico Don Bosco non lasciava di ammonire i suoi cari alunni dell'Oratorio, perchè colla Comunione ben fatta ottenessero dal Signore la grazia del felice risultato dei loro esami: e si mettessero sotto la protezione della Madonna, acciocchè le vacanze recassero loro vantaggio e non danno. Si era nella novena della Madonna degli Angeli e del Soccorso. Degli avvisi da lui dati la Cronaca ci ha conservato un cenno di una sola parlata.
D. Bosco, parlando ai giovani, disse:
- Voglio dirvi che cosa il demonio pretende da voi e che cosa teme. Il demonio vuole che voi stiate in ozio e teme grandemente se vi vede [896] occupati. Il perchè è questo: se voi state oziosi, anche lui sta ozioso: che se invece state occupati, anch'esso deve lavorare e andare in giro se vuole guadagnar qualche cosa. Al contrario se state oziosi, egli dice: “Non ho più da lavorare: l'ozio fa le mie parti, ora per mezzo del giuoco, ora per mezzo delle mormorazioni, degli scandali, della bottiglia, di certi libri, ecc., ecc.”.
In privato disse poi ad alcuni singolarmente: - Abbi molta confidenza nella Madonna, e dirai durante questa novena tutti i giorni il Magnificat.
Il 28 luglio, domenica, si fece la solenne distribuzione dei premii ai giovani dell'Oratorio. La cerimonia fu presieduta da Mons. Alessandro dei Conti Riccardi di Netro, Arcivescovo di Torino. Colla recita e col canto di un'ode scritta da D. Francesia veniva manifestata la comune letizia e riconoscenza al novello pastore; il quale, compiuta la cerimonia, con grande compiacenza visitava l'Oratorio, e benchè fosse sempre fermo nella sua idea, ripeteva a D. Celestino Durando che gli era a lato:
- Da parte mia state tranquilli che non vi farò mai la guerra!
A Lanzo presiedeva alla distribuzione dei premi Mons. Lorenzo Gastaldi, Vescovo di Saluzzo, che aveva dettato gli esercizi spirituali ai preti nel Santuario di S. Ignazio.
Il lunedì mattino dopo aver nell'Oratorio fatta la predica, cantato il Te Deum e salutati i giovani che partivano, Don Bosco si recava a Bricherasio; e di là scriveva a D. Rua:
Va' a vedere sul mio tavolino e prendi il volume del Casalis dove èvvi l'articolo Luserna.
Io l'ho dimenticato: fanne un pacco e portalo alla ferrovia, se è possibile di questa sera coll'indirizzo: - Al Sac. Bosco - Bricherasio, presso il Conte Viancino.
Io sto bene e vo' scrivendo lettere per ringraziare e ricorrere.
Dio ci benedica tutti e credimi nel Signore,
Col volume richiesto D. Rua mandava al Venerabile una lettera indirizzata al Cavaliere Oreglia, per sapere quale risposta si poteva dare.
Ill.mo e Car.mo mio sig. Cavaliere,
Vengo in questo momento dalla Contessa di Camburzano, che trovai immersa nella più profonda afflizione, come Ella può immaginarsi, conoscendo come, e da quanto tempo soffra il povero Conte Vittorio suo marito. Dopo avermi parlato della sua fiducia nelle preghiere del santo Sacerdote, che Ella così degnamente avvicina, e sebbene vedendolo, or son pochi giorni, non abbia potuto udire dalla sua bocca una parola di speranza, tuttavia, avendo udito narrare un fatto di una miracolosa guarigione ottenuta per le preghiere di Lui, mi disse avere, in uno slancio di fede, scritto una nuova lettera, in cui di bel nuovo gli si raccomandava calorosamente, per ottenere questa grazia per suo marito da Maria Immacolata, aiuto dei Cristiani. Sapendo che io conosco la S. V. da molto tempo, essa mi pregò di scriverle due parole unendo le mie alle sue preghiere, onde ottenere col patrocinio della S. V. presso questo grand'uomo di Dio, il quale possiede fra i suoi figli tante anime innocenti che sono in continua comunicazione con Dio, la grazia implorata, sempre che non si opponga alla volontà del Signore Iddio: od almeno che voglia conservarlo ancora accordandogli qualche tregua ai suoi patimenti, i quali riverberano così vivi nel cuore di questa pia e santa donna. Sapendo come il Signore e la Vergine nostra Madre non disprezzino, anzi vogliano che noi insistiamo nelle nostre preghiere con perseveranza, io non potei a meno di accondiscendere al suo desiderio; e per consolarla in qualche modo delle pene continue e dolorose con cui è visitata dal Signore, io mi fo' lecito di indirizzarle questa mia lettera, nella fiducia che Ella voglia perdonarmi questo tratto di confidenza, che io uso verso la sua persona, che imparai da tanto tempo a conoscere ed apprezzare. Confido che vorrà darmi con suo comodo un cenno di riscontro, il quale se non sarà rassicurante, almeno possa tornar di qualche sollievo all'afflitta signora Contessa. Ella, buona e pia qual'è, s'investirà di leggieri del desiderio che ho di alleviarne le tribolazioni, e mi scriverà in modo che io possa far leggere ad essa la sua lettera, versando così pur Ella dal canto suo una stilla di balsamo sulle ferite di quel povero cuore.
Richiamandomi in questa guisa alla sua memoria, e raccomandandomi alle me fervide preghiere, lo mi ascrivo a sommo onore di proferirmi [898] testarle i sentimenti della mia più viva gratitudine e del più riverente ossequio con cui mi rassegno,
Um.mo Dev.mo ed Obbl.mo Servitore
Il Conte Vittorio Emanuele di Camburzano, uno dei più illustri diplomatici dell'antico Piemonte, costante nelle sue convinzioni religiose e politiche, deputato nel 1857 al Parlamento Subalpino, eloquentissimo oratore e scrittore di giornali e di opuscoli in difesa della verità e della religione, ammirato dai cattolici e dagli avversarii per la bella mente, la svariata dottrina, l'animo franco e leale, amico e grande benefattore di D. Bosco, da dieci anni era infermo per un cancro. Egli aveva sopportato la malattia con un coraggio ed una rassegnazione che possono ispirare solamente la fede cristiana, la speranza di una vita futura e l'amore al Crocifisso; ed ora era vicino a ricevere il premio. Molte volte la contessa aveva pregato D. Bosco a voce e per iscritto che intercedesse dalla Madonna la guarigione di suo marito; ma tale non era il volere di Dio, e D. Bosco non faceva promesse.
Ultimamente avendo saputo che D. Bosco era a Cuneo, la Contessa lo aveva invitato a recarsi in Fossano per visitare il Conte e per benedirlo. D. Bosco le rispose:
Questa risposta agghiacciò il cuore della Contessa che accolse con mestizia Don Bosco, lo accompagnò al letto dell'infermo e dopo cinque minuti lo lasciò solo con lui e più non si fece vedere. Troppo vivo era il suo dolore. Il Venerabile s'intrattenne col Conte, lo benedisse e gli parlò, come parlano i Santi, del paradiso.
D. Bosco adunque, ricevuta questa lettera suggerì al Cavaliere la risposta che doveva fare al Priore Majotti: che cioè ricordasse alla Contessa la bontà di Dio verso gli uomini, e la sua Provvidenza che destina ogni cosa pel nostro [899] meglio, e l'assicurasse che nell'Oratorio si pregava per lei e pel caro infermo. Ma gli scrisse pur chiaramente che la Contessa doveva lasciare ogni speranza; di fatti il Conte moriva il 16 agosto 1867.
Come abbiam visto, il Venerabile aveva notificato a Don Rua da Bricherasio: “Vo scrivendo lettere per ringraziare e per ricorrere”. Fra quelli ai quali ricorse fu Urbano Rattazzi, reggente del Ministero delle Finanze e Presidente del Consiglio dei Ministri. Si noti che D. Bosco sostenne sempre personalmente le ragioni anche de' suoi collegi in tutte le questioni che sorgevano contro di loro, in modo speciale le scolastiche e le tributarie: con ciò il buon padre toglieva dai fastidi i Direttori. Ora trattavasi del Collegio di Mirabello al quale era stata imposta, come s'è detto, la tassa di ricchezza mobile. Due mesi prima D. Bosco aveva mandato un ricorso al Ministro delle finanze, Ferrara, successo al Depretis.
Prego rispettosamente V. R. a leggere con bontà quanto espongo riguardante la Casa detta Oratorio di S. Francesco di Sales. Quattro anni or sono non potendosi più soddisfare alle molte domande che da tutte parti d'Italia si facevano affinchè fosse dato ricovero a pericolanti giovanetti, mi sono adoperato coll'aiuto di caritatevoli persone, di aprire una Casa succursale in Mirabello, paese vicino a Casale Monferrato. Ivi furono tosto accolti cento ottanta giovani, parte gratuitamente, e gli altri a modicissima ed irregolare pensione. Sebbene il personale insegnante, e assistente e dirigente, presti l'opera sua intieramente gratis, tuttavia senza caritatevole sussidio la Casa non potrebbe sussistere.
Questo Stabilimento, noto sotto il titolo di Oratorio o Piccolo Seminario di S. Carlo, non ha reddito di sorta e si regge coi più grandi sforzi miei e di altri benefattori, perciò sembra dover andare esente da ogni imposta di ricchezza mobile; come appunto va esente quello di Torino dove sono raccolti circa ottocento poveri ragazzi, e quello di Lanzo dove sono circa centocinquanta.
Ma la Commissione di Riparto per le tasse senza dir niente a me che ne sono il solo proprietario, volle a qualunque costo obbligare il Direttore locale ad un'imposta per noi impossibile. L'anno scorso essendo [900] questo caso presentato all'Eccellenza Vostra per impedire gli esecutivi da cui era in quel luogo minacciato, si veniva alla paterna deliberazione di rimborsare a Torino ciò che io era costretto a pagare ad Occimiano. Difatto mi era rilasciato un mandato di fr. 600 che ho esatto nella Tesoreria Centrale di Torino. Questa generosità mi era usata con raccomandazione di fare a suo tempo i dovuti reclami per una definitiva cessazione dell'imposta in discorso.
Ho veramente fatto il reclamo, o meglio una novella dichiarazione in tempo debito, ma la Commissione di Riparto non volle ammettere nè reclamo, nè dichiarazione, e rispose non essere possibile tale nullità di reddito, perciò stabilì doversi pagare la tassa stabilita che in quest'anno è maggiore di quella dell'anno scorso, mentre crebbero anche assai le strettezze pel maggior caro dei commestibili.
In tale stato di cose io supplico rispettosamente V. E. a nome dei giovanetti poveri ricoverati in questo Stabilimento, a voler disporre che in favore dei medesimi siano applicati quelli articoli di legge che esentano da questo tributo le case di beneficenza che non hanno reddito alcuno e che si reggono mercè la carità altrui.
Qualora poi la Commissione di Sindacato di Occimiano insistesse sopra redditi che realmente non esistono, allora io farei all'E. V. umile preghiera a voler delegare persona d'ufficio con cui io possa verificare e sapere dove si voglia appoggiare il reddito supposto.
In questo modo sarò in grado di dare, ove occorre, a chiunque quell'ampia soddisfazione dimostrando che la casa di Mirabello è in identica posizione di quelle di Lanzo e di Torino, che sono povere, e come tali intieramente dispensate da ogni imposta di ricchezza mobile.
Pieno di fiducia nella nota ed esperimentata di lei bontà, ho l'alto onore di potermi colla più sentita gratitudine professare
Non avendo forse ricevuto risposta, rinnovava la domanda a Rattazzi.
Il Sac. Bosco Giovanni espone rispettosamente all'E. V. come nell'anno scorso, per mancanza di formalità fatte in tempo debito, ha dovuto pagare un'imposta sulla ricchezza mobile intorno a materia non imponibile. La R. V. considerando la realtà del fatto e lo scopo di questa istituzione, che è di togliere i giovanetti poveri e pericolanti [901] dai pericoli, concedeva un caritatevole sussidio di fr. 600, corrispondente a quanto dovevasi pagare per la casa di Mirabello di cui appunto si trattava.
Ora l'esponente, trovandosi in caso identico per l'attuale pagamento del 2° semestre 1867, supplica affinchè dall'E. V. gli sia rinnovato il medesimo favore, assicurandola che tale beneficenza torna ad esclusivo beneficio de' più abbandonati fanciulli del povero popolo.
Noto intanto che, essendosi ora potuto in tempo debito somministrare gli opportuni schiarimenti, l'agente delle tasse ha preso ogni cosa in benevola considerazione.
Il ricorrente coi giovani beneficati, pieni di fiducia nella esperimentata di lei carità, le augura ogni celeste benedizione e si professa
La risposta del Ministro venne favorevole.
Torino, addì 10 settembre 1867.
Il Ministero della Finanza con dispaccio del 6 corrente partecipa che tenuto conto delle difficili condizioni nelle quali si trova l'Istituto diretto in questa città dal sig. D. Bosco, ed avuto anche riguardo al di lui scopo benefico, ha disposto perchè sia pagato sulla Tesoreria Provinciale di Torino un sussidio di L. 600 allo stesso sig. D. Bosco, onde abilitarlo a soddisfare le rate di imposte, tuttora dovute dal di lui Stabilimento.
Il sottoscritto pertanto, per incarico del prelodato Ministero, informa di quanto sopra il predetto sig. Sac. Bosco ad opportuna sua norma, soggiungendogli che fra breve sarà esigibile il relativo Mandato di pagamento.
Altra supplica aveva fatto pervenire al Conte Cibrario.
Alcuni anni or sono quando si dovevano mettere le fondamenta di una Chiesa di cui àvvi sommo bisogno nel quartiere di Valdocco, [902] V. E., che non mai si rifiuta ad opere di carità, accordava sul gran Magistero dell'Ordine Mauriziano un primo sussidio dando speranza di novello aiuto, qualora i lavori si fossero continuati.
Ora, grazie alla Divina Provvidenza, la costruzione è a buon punto e se V. E. mi porge la sua mano benefica sarà in quest'anno terminata.
Con questo pensiero e pieno di fiducia ricorro all'esperimentata di Lei bontà, mentre di tutto cuore prego Iddio affinchè le conceda sanità durevole e lunghi anni di vita felice, e mi professo colla più profonda gratitudine,
Che la Divina Provvidenza muovesse i cuori degli uomini ad aiutare D. Bosco era evidente, ed era un premio alla sua povertà religiosa e al suo distacco dalle cose della terra. Era volontà risoluta del Venerabile, e l'aveva stabilito per regola: - Vivendo noi di provvidenza quotidiana, la nostra Pia Società non possederà mai redditi o beni stabili, eccetto i collegi e le loro adiacenze. Se qualche benefattore ci lasciasse qualche proprietà, sarà al più presto venduta e il prezzo verrà impiegato in opere di beneficenza.
Nel Signore egli aveva una fiducia illimitata. Testificò D. Rua:
“Quando mi presentava a lui infastidito dalla moltitudine dei debiti da pagarsi, egli senza conturbarsi menomamente, mi diceva sorridendo: -Ah! uomo di poca fede! sta' tranquillo che il Signore ci aiuterà. - E all'economo ripeteva: - Ricordati che la Divina Provvidenza non ti verrà mai meno. - E quanto otteneva dai benefattori o entrava comunque in cassa, voleva che giornalmente fosse speso per i bisogni quotidiani e per pagare quella parte che si poteva dei debiti, dicendo: - Ai bisogni futuri penserà Iddio; noi dobbiamo pensare al presente.”
E Iddio ci pensava davvero, mandandogli nel modo più inaspettato e straordinario la somma della quale abbisognava, come se avesse posto un banchiere a sua disposizione. [903] Riferiva il segretario D. Gioachino Berto: - “Il Provveditore generale della Casa (Giuseppe Rossi) abbisognava credo di 5000 franchi per estinguere un debito del quale non si poteva più differire il pagamento. Io (Don Berto) mi trovava al dopo pranzo nell'anticamera: erano le tre, quando vidi entrare un uomo alto di statura, piuttosto pingue, di corporatura complessa, corrispondente alla statura. Aveva i mustacchi, aria marziale e imperiosa. Sembrava che avesse molta fretta. Mi si avvicina e mi domanda del sig. D. Bosco, e se è molto occupato e fino a che ora dà udienza.
„ Io risposi a ciascuna dimanda in modo giulivo, e guardandolo lo vidi comparire meno grave e balenargli il riso e la gioia sul volto. Dopo di esserci scambiate queste poche parole, quel signore attese ancora un poco e poi con atto d'impazienza, senza badare ad alcuni che erano in anticamera prima di lui, entra da D. Bosco, e lo interroga in modo quasi ruvido e scortese:
Intanto tira fuori il portafoglio e senza replicare altra parola, estrae da quello dei biglietti di banca e glieli getta sul tavolino. Quindi si fruga nelle saccoccie, estrae prima un secondo, poi un terzo portafoglio, e continua a deporre quasi in furia nuovi biglietti sugli altri. D. Bosco stava osservandolo in silenzio: e di quando in quando lasciava scorrere gli occhi sul tavolino; e con sua meraviglia osservava che c'erano dei biglietti da 100 fr., da 250 e da 500. Come quel Signore ebbe riposti in saccoccia i vuoti portafogli, indicando il denaro, disse a D. Bosco:
- La ringrazio infinitamente; abbia la bontà soltanto di dirmi il suo nome. [904]
- Non fa bisogno: questo è inutile: la Madonna sa tutto. La riverisco.
- Permetta almeno che l'accompagni un poco; che vada ad aprirle la porta.
- Non occorre. Lei è abbastanza occupato; attenda ai suoi affari.
- Ma perdoni, so il mio dovere; le assicuro che la mia riconoscenza......
- Basta, basta: non voglio che si muova. Lei non ha tempo da perdere. - E aperta con impeto la porta, sì ritirò in fretta.
La Contessa Viancino che era in anticamera e per cortesia aveva lasciato passare innanzi quel signore, avendolo visto così agitato, era stata ad osservare dal buco della chiave temendo qualche pericolo per D. Bosco e indecisa se dovesse chiamar gente.
Entrata essa finalmente in udienza:
- Oh D. Bosco, gli disse: ha ricevuto qualche affronto da quel signore?
- Certamente, e di quegli affronti che son pronto a riceverne uno al giorno. Osservi! - e le additò il tavolino.
Ambedue si posero allora ad enumerare i biglietti; in tutto vi erano 7500 franchi. Allora D. Bosco mandò subito a chiamare Rossi e così si potè estinguere quel debito in modo veramente provvidenziale. Quel signore era partito senza che si potesse sapere chi fosse, nè donde venisse, nè dove andasse. Ma tornò poi altre volte ed ho conosciuto che era l'Avv. Galvagno di Marene.”
Un'altra testimonianza l'abbiamo da D. Rua:
“Un giorno, del 1867 circa, D. Bosco doveva pagare una somma all'esattore di L. 300. Per dimenticanza od inavvertenza di colui che ne aveva ricevuto l'avviso, si arrivò al giorno in cui si sarebbe fatto il sequestro se non si pagava Al mattino per tempo ne fui avvisato, come Prefetto della casa. Mi [905] trovavo affatto sprovvisto di danari. Andai da D. Bosco ed egli si trovava nelle stesse condizioni mie; per soprappiù doveva lo stesso mattino allontanarsi dalla città. Pieno di fiducia in Dio mi rispose: - Va' nel tuo ufficio, chiama colui che dovrai spedire colla detta somma all'esattore, e fa' che attenda nel tuo ufficio; ed il Signore provvederà. - Sulle nove circa arriva presso D. Bosco il Cav. Carlo Occelletti, il quale gli dice:
- D. Bosco, abbiamo potuto esigere una somma. Lei non sarà mica scontento, che gliene facciamo parte?
- No, rispose D. Bosco, anzi Le sono vivamente riconoscente; ci troviamo proprio allo zero e dobbiamo stamane fare un pagamento all'esattore.
- Non è gran somma quella che ho da darle, non sono che 300 lire.
- Precisamente quello che desideriamo; V. S. è proprio l'istrumento della Provvidenza; favorisca portarle a Don Rua che le aspetta con tutta divozione.
Egli venne da me ed udito il caso pianse di contentezza. Io spedii immediatamente il giovane che teneva preparato all'uopo. Questi al ritorno ci raccontò che era stato spiccato ordine di sequestro; ma che essendo egli giunto prima che l'incaricato fosse partito, potè ancora impedire l'esecuzione”.
Altra volta, un mercoledì, pressato dal panettiere al quale doveva una rilevante somma, D. Bosco usciva di casa in cerca di danari. Un buon signore aveva una bella elemosina da portare all'Oratorio, ed era deciso di recarvisi in quel giorno della settimana, nel quale era solito a far visita a D. Bosco, cioè il sabato. Ma quel mattino sentì ad un tratto mutata la sua volontà. Un pensiero lo molestava con insistenza senza poterlo scacciare: l'Oratorio dev'essere in necessità! Quindi preso senz'altro quel danaro lo portò a D. Bosco. Non è a dirsi la reciproca meraviglia, quando s'incontrarono e ambedue si narrarono e il bisogno urgente e la volontà mutata. [906] Così aiutato ed ispirato dalla Divina Provvidenza, Don Bosco non guardava ad un'attuale scarsità di mezzi, ma andava continuamente moltiplicando le sue opere. Un cooperatore, Luigi Costamagna, mandava a D. Rua il seguente foglio:
Da Nizza Monferrato, ove attualmente mi trovo, le spedisco come è di suo desiderio la pura verità delle cose da me udite dalla bocca di quel magnanimo Apostolo e padre di tanti orfani ed abbandonati figli, cioè l'indimenticabile caro D. Bosco, di santa e veneratissima memoria.
Volgeva l'anno 1867, quand'io, reduce dal collegio di Lanzo, passava all'Oratorio per commissioni lasciatemi. Trovai il caro D. Bosco sotto i portici, e dopo un lungo ragionare mi disse: - Adesso tu vai a casa, non è vero? Ebbene portami un bel sacco di marenghi.
- Ah caro D. Bosco; se io li avessi, li recherei proprio; ma cosa vorrebbe farne di tanti marenghi?
D. Bosco col suo solito angelico ed affascinante sorriso mi disse:
- Altro che la vedo, la tocco quasi con mano.
- Ebbene, o caro Luigi, io avrei bisogno che essa gettasse marenghi.
Io saltai fuori con un ah! di meraviglia e dissi:
- Ma, caro D. Bosco, ma cosa vorrebbe poi farne di tanti danari?
Egli mi rispose: - Se la mia pompa gettasse marenghi io vorrei impiantar tante case in ogni parte del mondo per salvare tutte le anime che corrono rischio di andar perdute, massime la povera gioventù abbandonata.
Passarono gli anni ed io nel 1883 ebbi nuovamente la felice sorte di tener lunga conferenza col caro D. Bosco. Dopo vario ragionare cadde il discorso sopra le missioni, e Don Bosco mi descriveva tutte le città, i luoghi deserti, i fiumi, le vie impraticabili, i gravi pericoli, ecc., ecc. che si trovavano nella lontana America, ove Lui voleva che i suoi cari figli andassero a portare la luce del Santo Vangelo.
Io udendo ciò, ho soggiunto: - Caro Don Bosco, vedo bene che Lei sa la geografia più dei celebri professori, perchè, come ragiona, sembra proprio che venga ora di là. - Lui sorridendo mi disse: - Guarda, o Luigi, la geografia io non ho tempo a prenderla in mano; solo parlo, perchè a me sembra che sia così.
Io intanto sempre ognor più maravigliato gli dissi: - Si ricorda, caro D. Bosco, l'anno tale quando mi disse che avrebbe avuto bisogno [907] che la pompa gettasse marenghi? - Allora Lui sorridendo mi disse: Altro che mi ricordo; ma quel che non gettò essa, lo gettò la Divina Provvidenza, lo versò la nostra cara Mamma Maria SS.; chi in Lei confida non sarà deluso giammai. Le Case già si impiantano, e col tempo si impianteranno per ogni dove. È vero che Lucifero digrignerà i suoi denti e farà ogni sforzo per abbatterci ma la gran Vergine lo terrà sempre sotto il suo verginal piede, e sempre ci proteggerà.
Ecco, o rev.mo signore, la narrazione vera e genuina delle cose udite dalla bocca del Ven.mo e carissimo D. Bosco, le quali posso asserire con giuramento ove fosse il bisogno .....
COSTAMAGNA LUIGI, Cooperatore Sal.
IL Venerabile, che nel mese di luglio agli esercizi dei secolari nel Santuario di S. Ignazio aveva consolato molti penitenti, tornava da Bricherasio per andare alla villa di Trofarello, ove la prima settimana di agosto si doveva tenere un corso di esercizii spirituali per i Salesiani. Ma prima ancora di partire da Torino, rispondeva a un foglio della Madre Presidente delle Oblate di Tor de' Specchi, ripetendole una confortante promessa: [909]
Ho ricevuto la rispettabile sua lettera e la ringrazio della carità materiale e spirituale che mi ha usato in più occasioni. Il Cav. Oreglia di S. Stefano, Don Francesia si uniscono meco per rinnovare i loro ringraziamenti. Dal canto mio non mancherà ogni mattino di raccomandare nella santa Messa Lei, la sua religiosa famiglia. Stia sicura che questa risorgerà, ma prima deve essere crivellata, zappata, seminata, di poi germoglierà prodigiosamente. La nostra chiesa va avanti colla massima soddisfazione e speriamo che i lavori potranno in quest'anno essere terminati.
Dio benedica Lei, le sue fatiche, la sua famiglia, e preghi per me che le sono in G. C.
Il giorno 5 alla sera incominciarono gli esercizii. Don Bona di Brescia predicò le meditazioni e D. Bosco le istruzioni, nelle quali a quando a quando con improvvisa digressione, come un lampo, faceva risplendere le massime eterne. “Ricordo, testificò D. Dalmazzo, che tra le altre volte, parlando della comparsa che tutti dovremo fare innanzi a Cristo giudice, il singulto gli soffocò la parola e per quanto egli tentasse riprendere il filo del discorso, non gli fu possibile; e dovette scendere dalla cattedra, in mezzo alla commozione generale e al pianto di molti”.
I suoi uditori erano tutti o sacerdoti o chierici aspiranti al Sacerdozio. In un manoscritto abbiamo gli argomenti che egli trattò in questa settimana, e sono:
Il bisogno del ritiro spirituale e l'esame della propria condotta lungo l'anno.
Il Sacerdote non va nell'inferno o nel paradiso da solo, ma accompagnato sempre da anime perdute o salvate da lui.
Dignità e doveri del sacerdote.
Pensare in questi giorni a ciò che si deve fuggire, acquistare e praticare nell'avvenire. [910]
I nemici del Sacerdote. Armi per combatterli: la temperanza, la preghiera, il lavoro.
Le Istituzioni religiose nell'antica e nella nuova Legge.
Doveri, felicità e sicurezza di vita eterna per chi vive in religione.
Riservatezza nel trattare coi giovani.
Pratiche di pietà, conferenze, rendiconti, amore a nostro Signor Gesù Cristo.
Sul principio questi esercizi nella piccola cappelletta avevano l'aspetto di trattenimenti famigliari, ma non tardarono a divenire una gravissima, benchè dolce fatica, per D. Bosco. Ammirabile era la sua applicazione nell'ascoltare le confessioni de' suoi figli spirituali. I corsi di esercizi, pel numero dei socii e per la comodità di tutti, succedendosi gli uni agli altri duravano dei mesi nelle ferie autunnali; ed egli dava anche udienza a chiunque avesse voluto esporgli le proprie necessità; ed in que' giorni tra i superiori delle varie case avevano luogo lunghe ed importanti conferenze su diversi affari, alle quali il Servo di Dio presiedeva. Or bene, dopo aver passato quattro o cinque ore stancando la sua mente nello sciogliere dubbi e dare gravi disposizioni, quando gli altri radunati andavano a prendere un po' di sollievo, egli recavasi a confessare, e come aveva fatto al mattino, vi durava altrettante ore la sera con una costanza che non poteva essere che effetto della sua viva fede. E non si risparmiava, quando non era bene in salute, e nemmeno nella convalescenza di varie malattie e talvolta neppure colla febbre indosso.
Nel tempo del quale narriamo, D. Bosco poteva ancor scendere in ricreazione co' suoi preti e chierici. Avvenne un dopo pranzo che essendo egli seduto nel giardino sull'erba [911] all'ombra di folti bossi, circondato da sette od otto Salesiani, a un tratto interruppe il discorso e dando uno sguardo attorno, diceva: - Uno dei preti che sono qui presenti un giorno sarà Vescovo. - L'attenzione di tutti si volse a D. Francesia e a D. Cagliero, il quale poco dopo si alzò e salutato D. Bosco si allontanava dalla comitiva. D. Bosco con questi accenni aveva anche la mira d'incoraggiare i suoi figli a perseverare nella Pia Società, facendone intravvedere i gloriosi destini.
Gli esercizi si chiusero il 10 agosto colla professione triennale del sacerdote D. Nicolao Cibrario, e del Ch. Monateri Giuseppe; e la perpetua dei Ch. Giuseppe Daghero. Erano anche accettati alcuni che domandavano di essere ascritti.
Dopo il solenne Te Deum il Venerabile tornava a Torino, mentre D. Cagliero partiva per Castelnuovo, ove era scoppiato il colera. Il fiero morbo mieteva ogni giorno molte vittime e lo spavento rendeva difficile il trovare chi avesse cura dei malati. D. Bosco appena n'ebbe notizia, avea pensato di mandare uno de' suoi preti in soccorso del parroco e del vice-parroco, quando Don Cagliero gli si presentò. “Io' gli chiesi', scrisse lo stesso D. Cagliero, di andare ad assistere i miei compaesani, ed egli mi lasciò partire quantunque in que' giorni fossi molto occupato. Mi diede anzi una buona somma di danaro perchè mi trovassi in grado di soccorrere i bisognosi, soggiungendo: - Il Signore benedica il tuo ministero! Se poi avessi ancora bisogno di danaro, scrivimi e te ne manderò. -” La premura di D. Bosco nel soccorrere la patria in tanto frangente, lo zelo spiegato da D. Cagliero nell'assistere i colerosi e il suo coraggio nel far prendere provvedimenti igienici nelle famiglie colpite, commossero profondamente l'animo dei Castelnovesi. D. Cagliero, cessato il morbo, ebbe una medaglia in bronzo al merito civile.
Intanto Don Bona, valente predicatore apostolico, ritornato a Brescia scriveva ai giovani dell'Oratorio, ai quali anche aveva più volte predicato. [912]
Voi siete fortunati di vivere con D. Bosco, che vi fa da Padre, da Madre e da Angelo tutelare!
Voi siete veramente saggi, perchè lo consolate e lo mantenete sano e tranquillo colla vostra condotta riverente, docile ed amorevole!
Voi avete i migliori amici in codesti rev. sacerdoti e leviti, che si consacrano al vostro bene ed esercitano così un apostolato insigne ..... Deo gratias!
Voi avete un Palladio nel nuovo tempio e nella statua della Madonna, che vi guarda, vi inspira, vi consola, vi sorregge e quasi a mano vi conduce al Cielo! Io mi ricorderò sempre d'avervi veduti genuflessi sotto il portico a pregare, e sull'Ara farò voti continui per voi; e voi in carità pregate per me che vi pregio e vi amo di cuore.
Beati voi, o giovani, che avete tempo di fare bene! Servite Domino in laetitia! Salvete.
A Trofarello rimase Don Francesia in compagnia di alcuni giovani mandati da D. Bosco a far vacanza. Il giovane Fiore facendo ricreazione cadde in una profonda peschiera piena d'acqua. Il compagno Finocchio si getta dietro a lui per salvarlo e scompare. La prima volta non vi riesce. Risale a galla per respirare, e poi si tuffa di bel nuovo nell'acqua e dopo qualche istante riappare spingendo in alto il corpo del compagno che fu subito tratto fuori dagli altri. Sembrava morto; ci volle del tempo per farlo rinvenire, e fu una bella grazia di Maria Ausiliatrice. Nessuno può descrivere la desolazione e il terrore dei condiscepoli e di D. Francesia nei dolorosi momenti, e la gratitudine che dimostrarono all'invocata Madre celeste e al salvatore Finocchio, che poi entrò nell'Ordine dei Minori.
Maria SS. se liberava i suoi figli dell'Oratorio dai pericoli corporali, amava salvarli sopratutto dai pericoli dell'anima. Il Cavaliere consegnava a D. Bosco un lettera di un giovane risoluto di mettersi a far bene. Quanti, pei quali si era quasi perduta la speranza di una buona riuscita, tutti gli [913] anni, per bontà di Maria, ebbero ispirazioni salutari ed efficaci 1
Ad un giovane studente del corso di rettorica aveva recato grave danno la lettura clandestina delle opere del Leopardi, e l'estrema sua freddezza nelle pratiche di pietà aveva consigliato i Superiori a metterlo fra gli artigiani. Da due anni lavorava in tipografia, quando rientrato in se stesso, ripigliò con fervore le pratiche di pietà che aveva trascurate; e il 16 agosto scriveva al suo capo:
“L'altro dì parlai al sig. Don Bosco della mia vocazione e fra le altre cose mi disse, che se avessi continuato così per due o tre mesi, egli si sarebbe impegnato di mettermi l'abito chiericale, a patto che avessi grande confidenza in lui e gli avessi aperto interamente il mio cuore.
Sono due anni che più non apro libri di scuola per studiare, e molte materie mi sfuggirono dalla mente e voglio ripassarle, onde poter fare una buona filosofia ed essere sempre dei primi, come desidero e spero. Sono stanco della vita che fino a quest'ora ho menata; è tempo che mi scuota una volta da quella funesta tiepidezza in cui giacqui per tanto tempo: voglio mutar vita, e consecrarmi fin da quest'anno interamente al Signore e dire anch'io con San Francesco Borgia: son risoluto; ho deciso così. D. Bosco mi ha già fissato il tempo per la confessione generale. Ho bisogno di attendere all'anima mia e prepararmi bene e comincerò da quel punto ad essere tutto di Dio; io non avrò più la volontà; quella dei miei superiori è la volontà di Dio; essa sarà pure la mia.”
E mantenne coll'aiuto di Maria SS. la sua promessa. Superate molte difficoltà fu distinto dottore in belle lettere, religioso esemplare, sacerdote piissimo.
Circa la metà di agosto D. Bosco andò presso il Vescovo di Acqui Mons. Contratto, che villeggiava a Strevi; e questi volle fargli conoscere una povera infelice, madre di famiglia, la quale da oltre un anno pareva ossessa dal demonio, che [914] straziandole la persona le impediva di accostarsi ai Sacramenti della Confessione e della Comunione: perchè se tentavasi di condurvela, diveniva furiosa, bestemmiava, e urlava come una bestia. Monsignore diede a Don Bosco facoltà di esorcizzarla, ed egli coll'usata sua semplicità rispose di non crederlo necessario; che però, se era indemoniata l'avrebbe posta in tale compagnia, da obbligare il demonio a ritirarsi. Che fece? Alle persone presenti, fra cui il marito, i figli di lei, e parecchi sacerdoti, consigliò di fare tutti insieme alcune preghiere a Maria SS. Ausiliatrice; poi raccomandò di continuarle ogni giorno, ciascuno da sè, fino alla festa della Natività di Maria SS.
Ciò fatto, si disponeva alla partenza per altri luoghi, scrivendo prima alcune lettere.
Sul mio tavolino ho dimenticata una lettera alla Contessa Uguccioni a Firenze; è sigillata e francata; mandala alla posta. Finora ho potuto scrivere varie lettere, ma nemmeno un quattrino: ho però trovato un merlotto che verrà all'Oratorio. È Tornielli Onorato di anni 11, ha fatto bene la terza elementare, paga fr. 24 mensili e ne spero bene.
Di' a Ricciardi che vegli molto la ricreazione degli artigiani alla sera dopo cena. Se non basta esso, se ne aggiunga un altro.
Parto in questo momento per Alessandria, quindi a Mirabello.
Saluta tutti quelli che hanno la barba o sono imberbi; di' a Goffi che si faccia animo.
La grazia di N. S. G. C. sia con me e con tutti quelli che abitano nella nostra casa. Amen.
Alla nobile Damigella la sig. Azelia de' Marchesi Fassati
Non ho prontamente risposto alla compita di Lei lettera, ma ho immediatamente fatto quanto in essa raccomandava; e se Dio ascolta [915] le nostre preghiere, la persona per cui scriveva sarà stata benedetta dal Signore e sollevata ne' suoi bisogni.
Io sono col Vescovo di Acqui; stassera vado, si Dominus dederit, a Mirabello, donde calcolo passare per Montemagno, ma non so ancora da quale direzione; forse da Vignale; giungerà presso di Lei giovedì a sera.
Intanto dica al sig. Emanuele che stia allegro, che raccomandi a D. Durando che non profani le vacanze col fissargli molto lavoro. Faccia i miei più rispettosi saluti a papà e a Maman e augurando a tutti sanità e la benedizione del Signore, mi raccomando alle sante loro preghiere, mentre con gratitudine mi professo
Allorchè si recava a Mirabello, più volte D. Bosco saliva a Lu, accolto sempre con religioso entusiasmo dalla popolazione; ovvero si portava a Fubine per visitare un'altra famiglia dei Conti di Bricherasio.
Compiuto il suo giro fu di ritorno all'Oratorio, ove trovò una lettera indirizzata dal Conte Francesco Saverio di Collegno al Cav. Oreglia, che esponeva a D. Bosco un invito ad andare nel Belgio.
Giunto verso la metà di questo mese dalla mia escursione in Germania, Belgio e Francia, non voglio ritardare più oltre a darti notizie di tuo fratello Mons. Nunzio a Bruxelles, al quale ebbi l'onore di presentare i miei ossequi in quella città. Lo trovai in buon stato di salute; il suo aspetto, le sue maniere son veramente tali da guadagnarsi il cuore e le simpatie di quanti lo conoscono; e ciò è appunto quanto ho sentito affermarmi dai miei conoscenti nel Belgio.
Ora a proposito del Belgio vengo a manifestarti un'idea suggeritami da persone molto a me care ed interessate quanto si può alla Religione ed al benessere spirituale di quelle lontane regioni.
Essendo venuto seco loro a discorrere del nostro carissimo ed egregio D. Bosco, non che delle opere meravigliose da lui intraprese, [916] mi si disse che appunto poco tempo prima un ottimo e zelante Ecclesiastico vice parroco, mi pare, ad Anversa, aveva espresso a quelle persone il suo rincrescimento di non vedere nascere in quel paesi alcuna istituzione nel genere appunto degli Oratorii inaugurati dal rev. D. Bosco; e di dover essere testimonio dell'abbandono nel quale erano generalmente lasciati i ragazzi e giovanetti senza potervi riparare. Quelle persone perciò mi esortavano ad anima D. Bosco a fare niente meno che una gita nel Belgio, nell'occasione, se voleva, del Congresso Cattolico, che si aprirà fra non molto a Malines, od in qualunque altra epoca. Mettendosi ivi in comunicazione con quel rev. Ecclesiastico e con alcun altro, i quali bramano ardentemente di imitare il suo zelo per il bene della gioventù, potrebbe gettar le basi di quelle belle opere che va compiendo fra noi, e non è da dubitare che colla benedizione di Dio, e grazie al carattere industrioso ed intraprendente di quella nazione, il seme da lui sparso non sia per fruttare grandemente, con quel vantaggio spirituale e temporale che ognuno comprende. La circostanza del trovarsi a Bruxelles Monsignore tuo fratello tornerebbe quanto mai propizia a D. Bosco.
Che se, per procedere con maggior cautela egli volesse chiedere informazioni di quegli Ecclesiastici dei quali mi venne parlato, eccone i nomi: l'Abb. Jaspers, vice parroco alla chiesa di S. Giorgio, rue des Escrimeurs, Anvers: e l'Abb. Eugenio Jomers, addetto alla parrocchia des Minimes à Bruxelles.
Non parlo delle difficoltà che si oppongono a questa intrapresa, poichè D. Bosco trova facilmente mezzi da superarle; e chi sa se potrebbe anzi in tale occasione trovare nuovi aiuti per la sua chiesa e per le sue istituzioni. Del resto quanto mi stimerei fortunato se il mio viaggio avesse per effetto di far godere a quei paesi degli ottimi frutti dello zelo infaticabile del nostro amatissimo D. Bosco.
Non potrei sperare di avere una tua visita quandochessia a Cumiana per poter sentire alcunchè delle tante cose vedute ed udite a Roma?
P.S. - I miei figliuolini ti mandano i più affettuosi e cortesi saluti. Non dimenticarmi poi, te ne prego, presso il rev. D. Bosco, alle orazioni del quale, come pure alle tue, mi raccomando quanto se e posso.
Al Venerabile dovette sorridere la proposta venutagli dal Belgio di uscir fuori d'Italia colla sua Istituzione, e a questa domanda ancor prematura doveva rispondere affermativamente [917] nell'ultima sua malattia, l'8 dicembre 1887, promettendo i Salesiani a Liegi.
Intanto sembrava imminente la guerra a mano armata contro Roma, e il colera continuava a portare la morte in molte provincie della penisola.
Garibaldi percorreva le città vicine allo Stato Pontificio, predicando la crociata contro Roma ed annunziando altamente che alla rinfrescata si sarebbe marciato alla conquista della Capitale d'Italia. Il figlio Menotti esplorava tutta la frontiera da Terni ad Isoletta, e si recava a Napoli per dare istruzioni ai suoi volontari quivi radunati. Il Principe Gerolamo Napoleone, era in Isvizzera sotto pretesto di visitare una villa, ma in realtà per abboccarsi coi mazziniani. Il Governo di Firenze aveva ritirato la flotta che da tempo vigilava le coste dello Stato Pontificio, per impedire, dicevasi, gli sbarchi di Garibaldini. I giornali dei settarii sfidavano la Francia a far la prova di opporsi all'attentato, perchè correrebbe rischio d'incontrare una guerra coll'Italia, alleata della Prussia, la quale le offriva larghissime condizioni per la soluzione della questione romana in favore della rivoluzione. E il 20 agosto, ad Orvieto ove era accolto un grosso stuolo dei suoi volontari, Garibaldi da un balcone di una locanda bandiva la guerra contro Roma. Alle sue invettive contro i mercenarii dei preti e Napoleone, lo stuolo dei satelliti urlava: A Roma, a Roma! Fuori i preti! Morte ai preti! Morte all'Imperatore!
Don Bosco n'era impensierito. Un sabato, sul finire del mese di agosto, parlando dopo cena di questi avvenimenti coi Salesiani che aveva intorno, diceva che, umanamente parlando, egli non era sicuro, che quanto prima la rivoluzione non andasse a Roma, e ripeteva: - Se tutti i Romani fossero d'accordo nel fare ogni giorno una visita a Gesù Sacramentato la rivoluzione non solo non entrerebbe in Roma, ma riceverebbe una lezione solenne. [918] Contemporaneamente il colera accresceva la confidenza dei divoti in Maria SS. Ausiliatrice, come raccomandava D. Bosco, mentre più terribile degli anni scorsi il morbo infieriva. La statistica uffiziale, presentata alla Camera dei Deputati, registrava il numero dei comuni già infestati dal colera e il numero dei casi e quello dei morti fino al 29 giugno. Erano 479 Comuni, 37.644 casi e 18.890 morti. Un'altra statistica, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 26 luglio, recava il numero delle vittime fino al 15 dello stesso mese, in 63.375 casi e 32.074 morti. E nell'agosto, a detta della Perseveranza che allegava altre statistiche uffiziali, il morbo aveva in tre mesi tolto di vita non meno di 110.000 persone. Imperversò a Catania, ove morivano da trenta a quaranta al giorno; a Palermo, in un mese circa, vi furono più di 6000 colpiti e 2620 estinti, e la mortalità continuò in varii luoghi anche in settembre.
Ma in quell'anno come nei due precedenti, fu ammirabile il contegno dell'Episcopato, del Clero e delle milizie in sì deplorabili congiunture, cimentandosi essi ad ogni sbaraglio. L'ottuagenario Arcivescovo di Monreale Mons. d'Acquisto moriva vittima della sua carità il 18 agosto; e si mostrarono pronti a dare la vita per gli afflitti dal morbo anche i Vescovi di Messina, di Caltanisetta, di Bari, di Novara, di Genova, di Bergamo, di Brescia, d'Ivrea e di quante altre città furono colpite dal contagio. Don Bosco per parte sua accoglieva parecchi orfani da Sassari, e dal Napoletano e dieci da Tortorigi in Sicilia e da altri paesi.
Da Roma giungevano all'Oratorio notizie della morte di alcuni amici di D. Bosco, e dell'avveramento della predizione da lui fatta alla Regina Madre di Napoli.
In Roma il colera ancora si mantiene, ma dove ha infierito terribilmente è stato ad Albano, luogo di villeggiatura ove ci eravamo recati [919] per respirare aria più mite. Scoppiò così fulminante che in 24 Ore si contavano già novanta cadaveri. Il povero Marchese Serlupi è andato in paradiso, come speriamo. Altre vittime illustri pur dobbiamo deplorare, fra queste la Regina di Napoli, madre, la Principessa Colonna e finalmente il Cardinale Altieri, Vescovo di Albano, il quale, come S. Carlo Borromeo, era accorso a confortare quei poverini; e dopo quattro giorni fu attaccato dal morbo e con eroica morte se ne è volato al cielo. Non può idearsi quale spavento invase questa città: tutti fuggivano, le officine si chiudevano! Noi ritornammo in Roma e la Dio mercè e della SS. Vergine stiamo tutti bene. Quello che il carissimo D. Bosco ci dice intanto intorno allo star tranquilli confidando nella Vergine Auxilium Christianorum, ci ha molto sollevati. Questa cara nostra Madre SS. ci salverà.
Ringrazi intanto D. Bosco della sua lettera che mi ha scritto, la quale mi ha fatto un gran bene....
In un'altra lettera del 26 agosto si diceva: “In Roma siamo sempre fra i 20, e i 50 casi di colera al giorno”.
Altre notizie venivano comunicate al Cavaliere Oreglia.
…Avrà saputo il tremendo flagello che ha colpita la piccola città di Albano, non molto lontana da Frascati, per cui potrà immaginare quante agitazioni abbiamo provato per il timore che qui accadesse lo stesso; io in queste paure non mi sono portata al solito molto valorosa, ma pure le assicurazioni del Molto Rev. Don Bosco che questo malore non ci avrebbe colpiti, mi hanno molto sostenuta.
Annibale sempre tranquillissimo al solito in tutte le circostanze, non è stato malcontento di me. Ora qui da quasi quindici giorni siamo liberi da qualunque dubbio di malanno, e ripetiamo questa grazia, s'intende, dal Signore e da Maria SS. e poi dalla speciale protezione per questo paese dei SS. Rocco e Sebastiano. Ci sono le immagini di questi santi, apparsi miracolosamente da molti e molti anni, in un muro dell'antica cattedrale di Frascati. Le assicuro che fa tenerezza il vedere la fede che hanno tutti questi paesani in questi santi e il concorso continuo a visitarli.
La mia Salute va bene e migliorando sempre; nel morale poi, per divina misericordia e per l'efficacia, credo, delle loro preghiere ho guadagnato immensamente e mi pare di essere tutt'altra da quella di [920] prima. Ringrazio infinitamente tutti loro delle particolari preghiere che fanno per me, e la prego di presentare i miei più vivi ringraziamenti ed ossequi al Rev. D. Bosco, uniti a quelli di Annibale mio. Non si dimentichino per carità di pregare e raccomando pure alle loro preghiere tutti i nostri parenti ed amici in questi brutti momenti di castigo e di pene.
Annibale ha buone speranze che l'altare si finisca per la fine dei mese corrente; anzi scrisse in proposito al Cav. Marietti, ma non ha avuto risposta .....
PER scrivere queste memorie dagli ultimi due mesi del 1864 fino alla metà del 1867, ci siamo serviti degli appunti nostri, raccogliendo man mano i documenti conservati negli archivi. Ora seguiremo le note di un'altra breve Cronaca che ci lasciò D. Michele Rua, a questa intrecciando quanto incontreremo di narrazioni autentiche, [922] di testimonianze autorevoli e di altri documenti nel restante del 1867, e negli anni 1868 e 1869.
D. Rua così principia il suo scritto:
“Persuaso di far cosa che possa ridondare alla maggior gloria di Dio e a vantaggio delle anime, e dietro a consiglio di persone benevoli all'Oratorio, io Sacerdote Michele Rua intraprendo quest'oggi domenica 1° settembre a raccogliere le memorie che possono riguardare l'Oratorio e specialmente il fondatore del medesimo, Sac. Giovanni Bosco, limitandomi a farne un semplice cenno a guisa di Cronista e non già di storico. Incominciando, dico:
1° settembre: - D. Bosco parte al mattino per recarsi alla villeggiatura del celebre Teol. Margotti, redattore del giornale l'Unità Cattolica. Viene a far visita all'Oratorio un Vescovo della Cina centrale, nativo di Bologna, Minor riformato. Ricevuto cordialmente dai giovani e dalla banda musicale, mostrasi assai soddisfatto si della nuova Chiesa come delle cose dell'Oratorio.
Dopo le orazioni della sera D. Bosco ci raccontava questo esempio: - Ai tempi dell'Imperatore Teodosio, essendosi questo principe portato in Treveri, colà lo avevano seguito due giovani e fidi uffiziali. Un giorno coll'Imperatore e col popolo essi stavano nell'anfiteatro aspettando che si desse principio ai giuochi: e, o perchè fossero già stanchi di aspettare, o perchè sapessero quali giuochi si sarebbero fatti e loro non tornassero graditi, il fatto sta che essendo molto amici si intesero di uscire dalla città per fare una passeggiata nella campagna. Cammin facendo entrarono in una foresta e ben presto più non videro traccia di sentiero.
- Andiamo avanti? - L'uno disse all'altro.
E s'internarono nella selva. Ed ecco che vedono in mezzo a grossi e folti alberi alcune casupole, capanne, o spelonche che vogliansi chiamare. Era un'abitazione di eremiti. [923] Curiosi entrarono; visitano quelle stanze, osservano il rustico vestito di quei monaci, e i giacigli durissimi sui quali dormivano, e il cibo grossolano del quale si nutrivano. A primo aspetto provarono ribrezzo di quel luogo, ma non tardarono ad essere sorpresi dalla profonda pace che era scolpita sui visi austeri dei monaci. Incominciarono a dirsi sottovoce l'un l'altro: - Come son tranquilli e felici questi uomini! Eppure vivono una vita di tante privazioni! Qual mistero si nasconderà in questi luoghi? - E andando di cella in cella trovarono un libro posto sovra una rozza tavola. Lo aprono: era la vita di S. Antonio eremita. Incominciano a leggere. Il libro narrava come S. Antonio, nobile e ricco giovane, avendo udito in una predica la sentenza di G. C.: Si vis perfectus esse, vade, vendo quae habes, et da pauperibus, et habebis thesaurum in coelo: et veni, sequere me, fosse ritornato a casa e avesse venduto tutte le sue sostanze e poderi; e una parte delle somme ritratte donate ai parenti e l'altra distribuita ai poveri, andasse nel deserto per salvare l'anima sua, dando per sempre un addio al mondo.
- Fu proprio un buon uomo costui a lasciar i suoi palazzi per andar, a vivere nel deserto! esclamò un uffiziale.
- Che peccato! Un giovane di così belle qualità farsi monaco! replicò l'altro.
Avevano chiuso il libro, lo avevano deposto sulla tavola, ma vinti da curiosità lo ripresero, lo apersero di bel nuovo e lessero una parlata che S. Antonio aveva fatta ai suoi monaci per animarli a perseverare nella vita solitaria lontana dai pericoli del mondo. Leggevasi: - Il Signore dà il centuplo per uno, eziandio in questa vita a chi lascia tutto per dare onore e gloria a Lui; e poi la felicità eterna nell'altra. Il mondo è un traditore e non ci potrà mai appagare. Posto anche che il mondo ci desse quanto promette, fino a quando lo potremo godere? Per un istante! e dopo dovremo lasciar tutto egualmente e senza merito! [924]
Il Signore si era già impadronito dei cuori dei due uffiziali. Si guardarono in faccia commossi, e l'uno esclamava: - Già che è vero? Infatti abbiamo già ottenute noi quelle cariche che il nostro Imperatore ci ha promesse? E posto che le otteniamo, fino a quando le godremo? L'Imperatore ci può mandar via dal suo servizio quando a lui piace! - E presero a confrontare la loro vita tumultuosa, piena di rimorsi, di invidie, di paure, colla pace e la tranquillità di quei buoni servi di Dio fondata sulla certa speranza della vita eterna.
- Olà, disse l'uno dei due al compagno: va' dall'Imperatore e dì a lui che io mi son dato al Signore e che voglio far vita romitica per guadagnarmi il paradiso.
- Come a te il paradiso, ed a me la terra? No, no; o ambidue ritorniamo nel secolo, o ambidue qui.
Erano risoluti. Deposero le armi e vestimenta preziose e indossarono il saio dei monaci e si posero ad osservare scrupolosamente le regole di quel cenobio, nello scarso cibo di erbe selvatiche, nel dormire su duro pagliericcio, nel levarsi a pregare di notte, nel lavorare continuamente. Perseverarono e si fecero santi.
Voglio farvi qui alcune riflessioni. Se quei giovani non si fossero allontanati dagli spettacoli profani non si sarebbero fatti santi. Fuggite adunque tutti i pubblici spettacoli che non hanno il timor di Dio per regola. Per que' due ufficiali fu gran fortuna l'essersi allontanati dall'anfiteatro e, sebbene per caso fortuito, avere incontrato un buon libro. Impariamo anche noi a fuggire i cattivi compagni ed i cattivi libri ed a leggere i buoni libri e a cercare la famigliarità de' buoni compagni.”
Pei mesi di agosto e settembre un fascicolo di Letture Cattoliche, di quasi 200 pagine, narrava quali eccelse virtù adornassero: La venerabile Maria Cristina di Savoia, regina delle due Sicilie.
Pel mese di ottobre i tipografi finivano di stampare [925] un'altro opuscolo: Don Benedetto, ossia un ecclesiastico in esempio nella rivoluzione francese, del Canonico Bernardino Checucci. - In appendice: Un furto di notte: Lo stravizio mena a rovina.
D. Bosco continuava a ritenere per sè la scelta dei fascicoli da stamparsi e voleva che ne fosse sempre pronto un certo numero. Di molti egli stesso affidava l'argomento da trattarsi a dotte persone ecclesiastiche o secolari. Ed a facilitare il numero dei fascicoli necessarii, essendosi provvisto di una ricca collezione di libretti francesi, ne affidava la traduzione a varii amici volenterosi di aiutarlo.
Eccoti un libretto da tradursi dal francese. Tu certamente lo volgerai liberamente, non con stile elegante, che non è il tuo, ma con uno stile popolare classico, periodi brevi, chiaro ecc. proprio come sei solito di scrivere.
I tuoi amici ti salutano e ti attendono a farci presto una visita.
Io poi auguro ogni bene a te e a tuo padre, e mi professo di cuore nel Signore,
Allo stesso fine scriveva un'altra lettera al giovane conte Callori, col quale era in grande dimestichezza.
Questa volta non è più Cesare, ma è D. Bosco che confessa la colpa. Gira di qua, tratta di là e intanto non ho compiuto il mio dovere coll'inviare il libro che il nostro Cesare erasi offerto di tradurre per le nostre Letture cattoliche.
Ora aggiustiamo le cose in famiglia. Un fascicolo per Lei, l'altro per la damigella Gloria; e siccome io fui in ritardo per la spedizione, così ella aggiusterà o meglio compenserà il tempo perduto con una diligenza e sollecitudine speciale nell'esecuzione del lavoro. Che disinvoltura ha D. Bosco nel comandare! Fortuna che ho da fare con gente [926] docile ed obbediente; altrimenti, mi lascierebbe solo per cantare e portare la croce.
Mentre per altro mi confesso colpevole vorrei comandarle, dirà meglio vorrei raccomandarle, due cose, di cui abbiamo già qualche volta trattato. Ne’ vari compartimenti del suo tempo stabilisca di confessarsi ogni quindici giorni o una volta al mese; non ometta mai giorno senza fare un po' di lettura spirituale.
“Ma zitto: non facciamo la predica!”. Bene, terminiamo. Faccia tanti saluti a Papà e a Maman e a tutti quelli della rispettabile sua famiglia. Mi dia qualche buon consiglio; gradisca che le auguri ogni benedizione celeste e mi creda colla più sentita gratitudine
Torniamo alla cronaca di D. Rua. La sera del 2 settembre 4° giorno della novena della Natività di Maria SS.ma, Don Bosco raccontava un altro esempio:
Un giovanetto fin da piccolo aveva presa la bella abitudine di recitare tutti i giorni le sette allegrezze della Madonna. Venne in punto di morte. Agli astanti pareva che fosse entrato in agonia. Quand'ecco dopo poco tempo rinvenne di nuovo, cessò alquanto la furia del male e si mise a sorridere, guardando quelli che circondavano il suo letto. Costoro stupefatti gli domandarono che cosa significasse quel riso e da qual motivo fosse cagionato. Ed egli: - Oh! guardate! Un momento fa mi pareva di essere già morto, o che l'anima mia fosse lì lì per partire dal corpo e andare al tribunale di Dio. Quand'ecco mi si presenta una Signora regalmente vestita, tutta splendente e mi fa fermare, e mi dice:
- Che hai che sei così conturbato?
- Ah! io temo i giudizi di Dio, temo di dannarmi!
- Perchè se mi danno, perdo eternamente il Paradiso e il mio Dio. Ho paura del tremendo giudizio di Dio!
Ed ella: -Non temere, chè i miei divoti non si danneranno: tu hai recitato tutti i giorni per tanti anni le mie sette allegrezze ed io sarò la tua consolazione in morte e nel Paradiso. Non temere i giudizi di Dio, chè io stessa ti accompagnerò innanzi al giudice eterno per difenderti. Va' e di' a quanti puoi che chi sarà mio divoto e reciterà le sette [927] mie allegrezze che godo in Cielo, non si dannerà: io lo consolerò colla mia presenza in morte, al tribunale del mio Divin Figliuolo e nel Paradiso per sempre.
Domani adunque per fioretto ciascuno reciti le sette allegrezze della Madonna. Quelli poi più fervorosi guardino di dirle tutta la novena ed anche per tutta la vita. Chi non volesse praticare questa divozione ne pratichi qualche altra e per tutta la vita. Così sarete consolati dalla Madonna e in vita e in morte.
La stessa cronaca ci dà la prima notizia di un'altra importante iniziativa di D. Bosco.
“3 settembre, martedì. - D. Bosco addolorato alla vista dell'immenso male che si va facendo specialmente fra la gioventù studiosa per mezzo della lettura dei cattivi libri, formò il progetto di fare un'associazione di libri buoni e classici, stampandone uno per mese e purgandone alcuni e di altri dandone solamente squarci; e nel giorno d'oggi andò dal Prof. D. Picco Matteo, personaggio pio e molto pratico di gioventù e di libri, per maturare con lui tale progetto.
Coll'Arcivescovo di Torino, prima di ogni altro, egli già aveva progettato questa biblioteca o collana di classici italiani e lo scopo della medesima.”
In quella sera così parlava ai giovani:
Io vorrei che noi fossimo altrettanti negozianti, ma negozianti di anime; non di quei negozianti che vanno qua e là per vendere le loro merci, ma sibbene che cerchiamo di comperare la salvezza della nostra a costo di qualunque spesa.
Vorrei che foste semplici come colombe, ma prudenti come serpenti. Sapete come fa il serpente quando è inseguito e che non può più fuggire? Si ravvoltola e mette la testa in mezzo alle spire, dicendo: - Fate quel che volete del resto, purchè mi lasciate salvo il capo. - Così noi dobbiamo fuggire le occasioni e quando non si potesse altrimenti fuggire mettere anche noi nel centro di ogni pensiero ed opera la salvezza dell'anima nostra, pronti a sacrificare l'onore, la roba, la vita istessa, purchè si salvi l'anima. Se si perde l'anima tutto è perduto, al contrario se si salva l'anima tutto è salvo. Ahi se noi fossimo proprio risoluti di non voler altro che la salvezza dell'anima, il demonio sarebbe costretto a star lontano da noi. [928] Papa Clemente VII fu richiesto da Arrigo VIII più volte e per lettere e per ambasciata di un favore contrario alle leggi di Dio. Il Papa rispondeva sempre di non potere: ma pressato dalle premure del Re d'Inghilterra, dagli ambasciatori che continuamente sopraggiungevano, dalle promesse del Re che prometteva pace e felicità alla Chiesa, se fosse stato contentato nei suoi desideri, finì con rispondere cortesemente ai legati: - Dite al vostro Re che mi rincresce di non aver due anime per concedergli quel che mi domanda e mandarne una all'inferno salvando l'altra: ma ne ho una sola: perduta questa tutto è perduto.
La cronaca di D. Rua continua a darci varie altre notizie.
“4 settembre. - Durante le vacanze D. Bosco dietro vive istanze fattegli da un giovane artigiano, lo tolse dal suo mestiere e lo applicò allo studio in vista della buona condotta che teneva. Dopo qualche mese di studio questo giovane, di testa debole, sorpreso dalle tentazioni si mise: a dubitare sull'esistenza di Dio, del Paradiso, dell'inferno, ecc. e non contento di pensare così tra se stesso, diedesi a far conoscere tra i compagni i suoi dubbi, la qual cosa non poteva a meno che tornar pericolosa a chi l'udiva.
D. Bosco venne a saperlo e tosto trovò il rimedio per dissipare i suoi dubbii. Essendo venuto un benefattore del giovane per combinar con D. Bosco di applicarlo esclusivamente allo studio, D. Bosco, presente il giovane, disse che meglio era per allora non determinare ancor niente di stabile, giacchè pareva che la testa del ragazzo non potesse reggere allo studio e che vacillasse. Il giovane si accorse allora del fallo, riconobbe il male fatto nel dar retta ai dubbii che erangli venuti nella mente, e tanto più nel ripeterli ai compagni e se ne emendò, menando da allora in poi vita fervorosa.
5 settembre. - Un superiore del Seminario scrisse a D. Bosco una lettera in cui diceva che i chierici dell'Oratorio non sapevano le cerimonie e portava l'esempio di due, che al mattino avevano servito alle sacre funzioni nella Cattedrale. Bisogna notare che in tempo di vacanza i Canonici ricorrevano all'Oratorio per avere chierici, mancando i seminaristi. Don Bosco rispose essere dolente che quei chierici non sapessero le cerimonie; ma che costoro erano seminaristi, che esso ricoverava in tempo di vacanza, non avendo costoro nè casa nè [929] famiglia, nè mezzi di sussistenza; averli mandati apposta perchè credeva conoscessero le cerimonie e usanze della Cattedrale.”
In questo giorno giunse notizia al Venerabile dello stato dell'indemoniata di Acqui. Il 1° di settembre, Domenica, come aveva consigliato D. Bosco, si era tentato di farla confessare e comunicare in chiesa a porte chiuse. Il parroco della Cattedrale aveva procurato che si facesse ogni cosa secondo l'avuto suggerimento. Però erano stati tali gli urli e le convulsioni della povera donna, che fu subito ricondotta a casa, e il parroco scrisse che non credeva cosa prudente esporre quell'infelice a rinnovare simili scene dolorose nel giorno della Natività, essendochè D. Bosco aveva ingiunto ch'ella si accostasse in tal giorno ai Sacramenti, presente tutto il popolo. Avuta questa lettera, il Servo di Dio replicò che nulla si variasse di quanto aveva consigliato, ma si continuasse a pregare con fede.
Il 5, scriveva anche ad un suo prete che, andato sulle Alpi ad Usseglio, sua patria, gli aveva chiesto consiglio.
Hai fatto bene a scrivermi, così non ci saranno male intelligenze. Serviti pure della facoltà di confessare quando si presenterà il bisogno; ma appena potrai essere in libertà dalle cure domestiche, cioè sistemati gli affari della divisione, procura di portarti al tuo nido di Lanzo, dove prendendoti i dovuti riguardi potrai, spero, rimetterti in uno stato regolare di sanità.
Fa' tanti saluti al tuo parroco, digli che io lo raccomando di tutto cuore a Maria Ausiliatrice, affinchè gli ritorni la sua primiera sanità.
Dio benedica te, e ti faccia un campione per guadagnare molte anime a Dio. Saluta i tuoi parenti e credimi nel Signore,
La stessa sera diceva ai giovani:
Il Bartoli racconta, o cari figliuoli, che nel Giappone eranvi due giovinetti cristiani. In quel tempo scoppiava la persecuzione. Uno di essi disse all'altro: -Ascolta, voglio studiare un modo che piacerà anche a te, sul come diportarci in questa persecuzione.
- Studia pure qualsiasi cosa, rispose l'altro, purchè questa cosa ci affretti il giorno nel quale potremo dare il sangue per la fede.
Ma tale non era il pensiero del primo, il quale nella notte studiò il modo d'ingannare i carnefici che dovevano venire a prenderlo e così salvar la pelle. Disse tra sè: “Quando verranno i soldati dirò colla bocca che io rinuncio alla religione cristiana, ma appena siano andati via, andrò a confessarmi e tutto sarà aggiustato. Così non andrò alla morte e rimarrò cristiano come prima.”Vennero i carnefici e disse loro:
- Rinuncio alla fede cristiana.
- Bravo, gli risposero: tu l'hai pensata bene. Sei libero. Va' dove vuoi.
Appena i soldati si furono allontanati, questo sconsigliato andò subito a trovare il suo compagno e l'incontrò mentre già era condotto al martirio: -Guarda, ascolta! prese a gridargli dietro: e gli si avvicinò e gli narrò come si fosse liberato dalle mani dei persecutori. Il martire, nell'udire il compagno che consigliavalo a seguire il suo esempio, lo respinse con un urtone e gli disse: -Allontànati da me, che sei un traditore, un pessimo consigliere! - E poi voltosi ai carnefici esclamò: - Guardate: costui è un vile, disprezzatelo: ha rinunziato alla religione cristiana per conservare la vita del corpo. Va' lontano da me, vile che sei! Io non rinunzierò giammai alla santa Religione di Gesù Cristo!
Impariamo anche noi ad essere forti come lo fu quel buon compagno, a non ricevere i cattivi consigli, e ad essere pronti anche noi a sacrificare non solo l'onore e i piaceri, ma la stessa vita, piuttostochè commettere un peccato. E guardiamoci eziandio dal dare cattivi consigli: mai e poi mai rendiamoci rei di tale enormità al cospetto di Dio.
Il 6 settembre alcuni Salesiani ragionavano dopo cena con D. Bosco di due chierici dotati di bell'ingegno che, usciti dall'Oratorio, avevano deposto l'abito clericale:
- Io, diceva D. Bosco, ho loro messo davanti tutta la loro vita che poteva essere fortunata, dicendo: Se farete ciò che io vi consiglio, procederete sicuri; se no la sbaglierete. Uno di questi andò via per essere divenuto goloso: non era mai contento del cibo che gli veniva somministrato. [931]
Il chierico Alessio Felice, lo interruppe, esclamando:
- Sarebbe una gloria adesso per l'Oratorio, se si fossero fermati qui con noi questi due dottori in belle lettere.
- La gloria dell'Oratorio non deve consistere solamente nella scienza, ma in modo speciale nella pietà. Uno di mediocre ingegno, ma virtuoso ed umile, fa molto maggior bene e più grandi cose che un scienziato superbo; non è la scienza che faccia i santi, ma la virtù. Ho detto ad uno di que' imprudenti: Se vuoi andare avanti, fa' la tua confessione generale: lascia quella superbia .....
Simili espressioni gli erano famigliari: in ogni occasione raccomandava ai subalterni di essere umili.
E in quella sera diceva alla Comunità:
Il Bartoli racconta la destrezza usata da un giovane cristiano giapponese nel difendere la medaglia della Madonna, che per grande divozione portava scoperta sul petto. In quel paese, truppe comandate dai mandarini andavano attorno e se vedevano immagini o medaglie o altri oggetti di religione, avevano comandamento di distruggerle e disprezzarle. Il nostro giovanetto s'imbattè adunque in uno sbirro il quale, vista la medaglia, allungò destramente le mani per strapparla: ma il ragazzo, che pur aveva soli 12 anni, più destro di quello strinse fra le sue mani l'oggetto per lui così prezioso. Successe una lotta tra lo sbirro e il giovane: quegli per aver la medaglia e il giovane per difenderla. Lo sbirro vedendo finalmente che non riusciva a strappargliela, gli disse:
- Se non me la dai, ti prenderò il berretto.
- Prendilo finchè vuoi, rispose il giovane.
- Che importa a me? e gettò via la veste che l'altro gli strappava di dosso, mentre faceva passare destramente la medaglia da una mano, all'altra.
Intanto con un salto si era un po' discostato. Il birro gli gridò dietro: - Ti prenderò quanto hai!
Ma il giovanetto, gettata via anche la sottoveste che andò a finire ai piedi del birro, si mise a fuggire. L'altro lo inseguiva, ma la lunga veste che portano tutti da quelle parti lo imbrogliava, specialmente passando nei luoghi stretti e finì col farlo cadere lungo e disteso per terra. Il giovanetto ridendo si pose in salvo e si andò a nascondere. [932] Impariamo anche noi a vincere il rispetto umano. Non voglio già dire che' dobbiamo portare la medaglia in vista per ostentazione, ma non dobbiamo arrossire di portarla al collo, di cavarci il berretto passando davanti a qualche chiesa, o immagine della Madonna. Non dobbiamo lasciarci mai vincere dal rispetto umano.
Finisco con dire che domenica desidero prima di tutto, essendo la festa della Natività di Maria SS., che ciascuno si metta in grazia di Dio: e quelli che non hanno ancora la medaglia lo dicano e si guarderà che l'abbiano tutti. Preghiamo in questa solennità: desidero che la facciamo bene per grandi motivi. Preghiamo principalmente perchè la Madonna tenga da noi lontano il colera dell'anima e quindi quello del corpo. Preghiamo per i nostri parenti, affinchè il Signore li preservi da simile flagello.
“7 settembre. - È cosa meravigliosa (scrive D. Rua) il vedere come D. Bosco in mezzo ai gravissimi affari che lo assediano del continuo, pure rammenta e recita bellissimi tratti di autori classici Greci, Latini, Italiani, e specialmente di Dante, di cui sa e recita gli interi canti, come per sollievo e per esilarare la compagnia, servendosene pure per aver occasione di parlare dei varii vizi che dal poeta furono bellamente esposti come puniti con diverse e varie specie di pene. Interrogato che pensasse di Dante, rispose che per la poesia e per la lingua, in una parola, pel merito letterario e scientifico non puossi desiderare di più; ma che, del resto i suoi scritti furono dettati da spirito di vendetta, per biasimare e screditare quelli che avevano sostenuto le parti contrarie alla sua, levando a cielo quelli che erano stati dello stesso suo partito”.
LA vigilia della Natività di Maria Santissima, sacra anche al suo potente Patrocinio, Don Bosco riceveva altra commendatizia per l'approvazione della Pia Società.
A maggior gloria di Dio ed a chiunque spetti ci è grato di poter attestare quanto segue:
Avendo noi presa in matura considerazione, ed attinto anche notizie da pie e ragguardevoli persone, quanto si attiene all'istituzione e andamento dei così detti Oratorii e Collegi da molti anni stabiliti in Torino, ed in parecchi altri luoghi del Piemonte, dallo specchiato [934] zelo del Sac. D. Giovanni Bosco per l'istruzione ed educazione cristiana ed ecclesiastica della gioventù, segnatamente povera, orfana ed abbandonata, ci risultò che essi riuscirono dovunque a felici e consolanti successi e si ebbero generalmente per una benedizione del Signore in questi tempi sì poco secondi all'allevamento cristiano della povera gioventù ed allo svolgimento delle ecclesiastiche vocazioni.
Fra i mezzi a conseguire il santo e benefico scopo, oltre allo zelo ed alla scienza di cui va fornito il lodato istitutore D. Bosco, non dubitiamo doversi annoverare come principalissimo, quella benemerita Congregazione di giovani sacerdoti, chierici e laici che egli seppe con ottimo consiglio raccogliere e stabilire per dedicarsi a quella santa missione, con ben appropriato regolamento, che ci parve informato da spirito di cristiana sapienza ed evangelica carità.
Quindi è che Noi affrettiamo co' più sinceri voti, acciò quella benemerita Congregazione possa coll'apostolica benedizione sempre più prosperare e viemmeglio diffondersi a bene di Nostra SS. Religione, della Chiesa e del nostro Paese, di cui la cristiana ed ecclesiastica educazione della gioventù, massime delle classi povere, è il più sentito bisogno come la più cara speranza.
Novara, addì 7 settembre 1867.
+ D ANTONIO, Vescovo di Alessandria.
La sera dell'8 settembre, dopo che si era festeggiata con numerose comunioni e i soliti sacri riti la nascita di Maria SS., D. Bosco parlava sotto i portici alla comunità.
Il colera si può dire che andò a visitare tutti i paesi del Piemonte, ad eccezione di pochi: ma più o meno si fece sentire ovunque. E qui fra noi si incomincia già a manifestare in modo sensibile. Ricordiamoci che propter peccata veniunt adversa: stimulus mortis paccatum est. Quindi io vorrei che pregassimo non solamente per noi, ma anche per i nostri parenti, benefattori, compagni, amici, fratelli. Io in tutte queste settimane vi ho raccomandati al Signore ed alla Madonna, con tutti quelli che si trovano negli altri nostri collegi e con tutti quelli che si trovano a casa dei loro parenti in vacanza, affinchè la Beata Vergine ci liberi tutti da questo morbo fatale. Ma bisogna che voi mi aiutiate e che togliamo questo stimolo che è il peccato. Ed in che modo togliere questo stimolo? Chi l'ha sulla coscienza, se lo tolga con una buona confessione; e chi non l'ha, guardi di starsene lontano, affinchè io possa mettervi tutti sotto la protezione di Maria Ausiliatrice. In modo speciale guardatevi dai peccati contro la virtù della modestia.
A questo fine stabilirò domani che venga data a ciascuno una [935] medaglia di Maria Ausiliatrice, benedetta anche a questo fine, perchè ci liberi dal colera. Ciascuno se la metta al collo e reciti tutti i giorni un Pater, Ave, Gloria a Gesù Sacramentato, una Salve Regina e la giaculatoria Auxilium Christianorum, ora pro nobis, a Maria Ausiliatrice.
Il 9 riceveva notizie della donna indemoniata di Acqui.
La grazia è fatta! Dopo fieri combattimenti, minacce, percosse, svenimenti, visioni, ecc. che durarono fino alla mezzanotte ultima scorsa, soppravvenne la pace e la quiete. Stamane potè fare tranquillamente la confessione, e fu mandata alla Comunione. Ne sia ringraziato il Signore, e la potente Ausiliatrice dei Cristiani Maria SS. che fugò l'inferno, fin dal primo momento che faceva parte del giorno sacro alla felice sua nascita.
Qui acchiuso le trasmetto un vaglia di L. 25 in scioglimento del voto pel tempio che si innalza alla cara Madre nostra, d'incarico della favorita persona. Spero non sarà per dimenticare sì presto un tanto favore, e vorrà studiarsi l'anima graziata di farsi sempre più amare dalla Madre Celeste.
S'abbia la S. V. Rev. da parte di entrambi graditi i ringraziamenti dovuti, e Dio e la Santa sua Madre la rimeritino della carità in un con tutte quelle giovani anime che seppero commuovere le viscere materne dell'Immacolata Maria.
Mi affretto a darle la fausta notizia, affinchè niuna mora s'interponga tra la grazia ed il ringraziamento, tra il beneficio e l'adempimento del voto.
Si degni V. S. di avermi presente nelle sue orazioni, affinchè possa salvare la povera anima mia ed insegnare agli altri le vie del Signore.
P. BRUZZONE MATTEO, Vice Parroco.
Questa lettera con altre notizie particolareggiate, giunte contemporaneamente, non sorprese punto D. Bosco, ma gl'infuse una affettuosa giovialità, che ravvivava negli altri la confidenza in Maria.
Dopo cena, in refettorio, parlandosi di alcuni che dovevano [936] presentarsi agli esami, tra cui due preti forestieri, disse a quelli dell'Oratorio, Francesco Dalmazzo, Pietro Guidazio, Garino ed Alessio: - Domani mattina, vi raccomanderà tutti nella S. Messa al Signore. - Ed ai forestieri disse: - Se sono promossi bene, porteranno poi un mattone per la Chiesa di Maria Ausiliatrice.
- E lei? - domandò sotto voce ad un vecchio prete che gli era al fianco, ospitato per quella sera.
-Sì, sì, io pure: ci faccia conto, - sussurrò quel venerando sacerdote.
“Riguardo al mattone accadde questo fatto. Un certo D. Ghisolfi già da lungo tempo teneva infermo un braccio. Finalmente il male lo ridusse in tale stato che i medici, tenuto consulto, lo giudicarono insanabile e perciò dover amputare il braccio. Il povero Ghisolfi a tale annunzio esclamò: - Voglio prima fare ancora un esperimento, voglio raccomandarmi a D. Bosco, affinchè mi dica che cosa debbo fare in onore di Maria Ausiliatrice onde ottenere la guarigione. - Infatti mi scrisse e la risposta fu che, se fosse guarito, portasse un mattone per la Chiesa. Dopo poco tempo guariva perfettamente e mandò un mattone per ferrovia, un mattone col suo indirizzo. Pensate alla meraviglia mia quando ricevetti quell'oggetto. Appena giunto il mattone, lo feci spezzare per vedere se dentro vi fosse danaro. C'era niente. Molti erano presenti, fra i quali il ch. Dalmazzo. Credetti fosse una burla; non sapeva donde venisse: sull'indirizzo vi era solamente scritto come firma: Un povero prete.
Di lì a qualche tempo D. Ghisolfi giunse in persona all'Oratorio e dimandò se era giunto un mattone.
- Ahi è lei che ha mandato quel mattone? - gli disse D. Bosco!
- Appunto! rispose Ghisolfi. [937]
- Che Teologo preciso! - esclamai.
Ma Ghisolfi tutto sul serio rispose: - Pensava che col Signore bisognasse stare letteralmente alla promessa. - Quindi anche egli incominciò a ridere e fece un'offerta invece del mattone. Ne aveva però già fatte altre prima”.
A questo punto il Venerabile si volse con un sorriso espressivo a quei preti forestieri, i quali subito risposero:
D. Bosco aggiunge ancora: - Sono continue le grazie della Madonna! Quasi tutti i giorni mi arrivano lettere che mi annunziano grazie ricevute da Maria SS. Ausiliatrice. Ricevetti un'offerta di 24 soldi da un povero vecchio che venne in mia camera reggendosi sopra le gruccie e andò via colle gruccie in spalla.
Suonata la campana e finite le preghiere, D. Bosco saliva il pulpitino e, dopo aver accennato alla guarigione dello storpio, raccontava la storia della guarigione ottenuta ad Acqui.
Ogni giorno, miei cari figliuoli, vediamo che si operano grandi meraviglie per intercessione di Maria Ausiliatrice. Pochi giorni sono venne qui in mia camera uno storpio colle grucce e per intercessione di questa buona Madre se ne andò portandosele sopra le spalle. Ora voglio raccontarvi un altro fatto meraviglioso. Quest'oggi mi fu mandata un'offerta per la guarigione di una che credevasi indemoniata. Ciò accadde solamente ieri, giorno della Natività della Madonna. Quando andai in Acqui, quindici giorni fa, passai a Strevi. Là vi era una donna che da un anno non era più in se stessa e che credevasi indemoniata. A costei non potevasi più far capire una ragione, non più far recitare una parola di preghiera. Essa faceva tutti quegli atti che sono proprii degli ossessi. Mi fu presentata. Vi era il Vescovo con D. Pestarino di Mornese, il parroco, il domestico del Vescovo ed altre persone. Gli astanti mi domandavano che io giudicassi se quella povera creatura dovesse credersi indemoniata. Il Vescovo mi diceva: - Veda se è il caso di esorcizzarla: io gliene do la facoltà: - Esaminai da quanto tempo era travagliata in quel modo, in quali stranezze solesse cadere, ma non volli per allora pronunziar alcun giudizio. Per conoscere meglio la cosa, senza che essa se ne avvedesse, tolsi una medaglia dalla mia saccoccia, tenendola stretta e nascosta nella mano e mi [938] avvicinai a lei per vedere se avrebbe fatto qualche gesto o strepito, perchè il demonio ordinariamente non sta alla presenza di una medaglia della Madonna o di altri oggetti benedetti, senza dar segni manifesti di ripugnanza.
Ma vedendo che a nulla giovava la medaglia, ho detto a tutti che si inginocchiassero per fare una preghiera a Maria Ausiliatrice. Tutti ci inginocchiammo, il marito, i ragazzi e il Vescovo stesso. Feci anche inginocchiar l'inferma e le comandai che pregasse con noi. Mi ubbidì, pregò per un istante, ma presto cessò e non fu più possibile farle articolare una sillaba di preghiera. Quei della famiglia attestavano che da un anno circa non avevano più potuto farla pregare. Allora, essendovi ancor tutti presenti, dissi loro che ogni giorno facessero le seguenti preghiere: Tre Salve Regina a Maria Ausiliatrice e tre Pater Ave e Gloria a Gesù Sacramentato. Fissava eziandio il tempo, in cui, se fosse guarita, avrebbero mandato un'offerta alla nostra chiesa. Questo tempo era fissato fino alla Natività di Maria SS. il giorno 8 settembre che fu ieri. Aggiunsi che preparassero l'inferma a ricever i Sacramenti e che la conducessero a fare la sua confessione e comunione. Dopo esserci intesi così, ci siamo lasciati.
Dopo qualche giorno mi fu scritto come fosse impossibile far confessare quella donna, perchè prorompeva continuamente nelle più orribili bestemmie. Io risposi che di ciò non si facesse conto alcuno, ma che si seguitasse a pregare Maria e ad esortare quell'infelice a confessarsi. Così fecero.
Venuto il giorno 10 di settembre, cercarono il modo di poterla in qualche guisa disporre e preparare alla confessione. Avendo aspettata l'ora nella quale in chiesa non c'era più gran gente, ve la condussero e incominciarono ad esortarla acciocchè volesse accostarsi al tribunale di penitenza; ma ogni buona parola riusciva inutile. Essa continuava a proferir bestemmie su bestemmie. Anzi vedendo il prete che stava per comunicare, si mise a fare dei gesti, ad urlare e con tali contorcimenti che per non dare scandalo a chi fosse entrato in chiesa, si dovette ricondurla a casa.
Io avvisato, aveva dato ordine che la conducessero ai Sacramenti la mattina stessa della Natività. Alla vigilia quelli di casa dissero all'inferma: - Domani mattina bisogna che ritorniamo alla chiesa affinchè tu possa fare la tua confessione. - Giunta la notte divenne furibonda. Pareva che tutti i demonii dell'inferno fossero in lei riuniti. Appena coricata cominciò ad urlare, a zuffolare, a battere le mani, a cantare, a gridare. Emetteva ogni sorta di voci. Ora pareva un maiale, ora un leone, ora un cane, un bue, un gatto, un lupo. Ora proferiva le più abbominevoli bestemmie contro Dio, ora le più orrende imprecazioni contro gli uomini. E si alzava, ballava o faceva altri gesti ridicoli.
I parenti non le dissero più niente, ma confidando nella Madonna [939] pregavano. Spuntava l'aurora della festa e la donna con grande meraviglia di tutti si calma e domanda: - Che ora è?
- E che giorno è quest'oggi? seguita a chiedere.
- È il giorno della Natività di Maria SS. Vuoi che andiamo?
- Bisogna che andiamo in chiesa affinchè tu possa fare la confessione e la comunione! come ci ha detto D. Bosco.
- Sì, sì; andiamo pure! - rispose. Queste furono le prime parole che disse in senno dopo circa un anno di pazzia. E si confessò e si comunicò tranquillamente, come se non avesse mai patito debolezza di mente e fece il ringraziamento con edificazione di tutti quelli della famiglia. Oggi mi scrivono che è perfettamente guarita, come se non avesse avuto male alcuno.
Concludo dunque, o cari figliuoli; se la Madonna fa tanto pel corpo, credetelo pure che farà molto più per l'anima, se Le domanderemo le sue grazie. Questo fatto non l'ho raccontato perchè io creda che voi abbiate indosso il demonio, che Dio ve ne liberi, ma perchè vediate quanto dobbiamo confidare in Maria. Perciò ricorriamo a lei colla frequente giaculatoria: Auxilium Christianorum, ora pro nobis, e nei nostri bisogni temporali e spirituali, e specialmente nelle tentazioni.
Il 10 settembre il cav. Oreglia scriveva alla Presidente delle Oblate di Tor de' Specchi il fatto meraviglioso di Acqui, e conchiudeva:
“Questo è uno dei tanti fatti che ogni giorno succedono, parte sotto i nostri occhi e parte in lontani paesi, i quali ci comprovano sempre più quanto Maria gradisca di essere in questi giorni invocata col titolo di Ausiliatrice. Le elemosine che ci affluiscono da ogni parte ci sono di conforto, perchè dimostrano che Maria SS. si prende l'impegno di soccorrerci, anche nelle presenti strettezze, che sono più sensibili che mai. Siccome il tempo mi manca di riprodurre questa lettera a parecchie persone, così prego Lei a voler far conoscere la presente all'ottimo Conte Vimercati, al Padre De Lorenzi nel Collegio Romano; ed a tutti quelli ai quali crederà possa essere di consolazione il sentire le misericordie della buona nostra madre, Maria SS. Ausiliatrice. [940]
Intanto sono in grado di poterla assicurare che il Demonio, co' suoi satelliti viventi, lavora indefessamente per tentare un'invasione in Roma. Non posso nè gioverebbe dire di più, benchè molti particolari, potrei aggiungere, che però sono già comunicati a chi può averne bisogno. Queste cose le scrivo non per spaventarla, giacchè nulla si ha da temere quando Dio è con noi. Desidero piuttosto incoraggiarla a promuovere la divozione a Gesù Sacramentato ed a Maria Ausiliatrice. Se i Romani si unissero concordi a fare ogni giorno una visita al SS.mo Sacramento ed a Maria SS., è certo che sarebbe per loro questa devozione come un parafulmine, il quale se non impedisce la caduta del fulmine ne allontana certamente il danno.
Basti per oggi. Mille ossequi a Lei e a tutte le sue consorelle da parte di D. Bosco e mia, che ci raccomandiamo molto alle loro preghiere. Qui in Torino il colera è cosa di niuna importanza, almeno per ora”.
La rev.ma Madre Presidente il 15 settembre rispondeva al Cavaliere, e confortata dall'avveramento della predizione da lui esposta, ne traeva buon augurio per l'aumento del numero esiguo delle sue Oblate dicendo:
“D. Bosco mi scrisse nell'ultima lettera del 5 agosto p. p.: - Stia sicura che la sua religiosa famiglia, risorgerà; ma prima deve essere crivellata, zappata, seminata, e poi germoglierà prodigiosamente. - Io domando: devo fare o dire nulla in antecedenza? Io non desidero che il vero bene della suddetta: non sono capace di giovarle, non vorrei però nuocerle”.
La Cronaca continua, riferendo il discorso tenuto da Don Bosco la sera del 10 settembre:
Vi voglio insegnare questa sera a farvi santi o almeno beati su questa terra. Il Signore dice che ci vuole tutti santi e così pure ripete S. Paolo. In una pagina della Santa Scrittura si legge: Bonum est viro cum portaverit jugum ab adolescentia sua. [941] Dice bonum est viro, non che sarà beato, ma che è già beato in questa terra, cum portaverit jugum ab adolescentia sua, chi incomincia a darsi tutto al Signore fin dalla sua gioventù. Difatti uno che incomincia da giovane a far bene, venendo anche vecchio sarà beato, perchè non ha niente che gli rimorda la coscienza. Sarà anche povero, ma è contento perchè ha la pace del cuore. Ed è beato perchè non teme la morte. Ah se voi vedeste adesso in Torino anche quei tali che dicono di non temere il colera, che si burlano di tutto, che mangiano e che bevono! Eppure alla sera non sanno risolversi ad andare a dormire perchè temono di essere colti nella notte dal colera. Uno di costoro diceva quest'oggi ad un suo domestico: - Sta attento: accorri subito se questa notte suonerò il campanello: fa un bel dire non aver paura, ma il colera non guarda a nessuno: ha già preso il tale e il tal altro e mi rincrescerebbe di andare così come mi trovo all'altro mondo.
Non è già beato anche in questo mondo quel giovanetto obbediente, docile, mansueto, il quale se viene a morire è compianto, lodato, benedetto dal padre, dalla madre, da tutti quelli che lo conoscono? Al contrario se muore un giovane discolo, si fa poco caso della sua morte, oppure si dice: - Il Signore ha fatto bene a prenderselo, così non farà più tante birichinate. - E la madre e i fratelli diranno: - Era la nostra dannazione! - Anzi, quando costui è ancora in vita, si udrà ripetere forse dalla stessa madre: - Quel tal giovine, così buono, amato e stimato da tutti, è morto; ed il mio che non fa altro che farmi portar croci non muore mai!
E' beato il giovanetto buono nella scienza, perchè se si dànno premii sono sempre i suoi, perchè lui solo ne è degno. Così pure i genitori, se hanno da premiare un loro figliuolo, premiano sempre il più buono.
E senza andare altrove, veniamo qui fra noi. Un giovane virtuoso, ma veramente virtuoso, non è vero che è amato da tutti, che è carissimo ai Superiori, ai suoi genitori, ai suoi maestri? E si tiene anche per 20 franchi, quando ne dovesse pagare 30; e per 15 e per 12 e per 10 e per niente, quando ciò si merita? Anzi si pagano perfino i genitori perchè lo lascino qui. I Superiori sono contenti, sono felici di possederlo; se hanno qualche bel regalo da fare, lo fanno a lui; gli fanno sempre festa; e i suoi genitori restano molto consolati.
Al contrario un giovane cattivo si tiene nell'Oratorio fin tanto che si abbia un'occasione per mandarlo via e quando è scacciato, tutti dicono contenti: -Abbiamo un peso di meno. - E i compagni ripetono: - Vattene pure, così non ci disturberai più nello studio, non farai più dei cattivi discorsi, non ci contristerai più con quelle mormorazioni, non ci sarai più di noia colla tua superbia e le tue risse. - E ritornati alle loro famiglie in vacanza ripeteranno a quanti lo conoscono: - Quel tale fu scacciato dall'Oratorio. [942] Solo i buoni sono ben veduti dai loro compagni, conducono una vita tranquilla, onorata, felice a questo mondo. Venendo la morte l'accettano volentieri, perchè si sono dati al Signore fin da giovani. Invece, se la nostra vita fosse stata malvagia, sarà per noi un rimorso terribile il vedere allora come avremmo potuto essere felici in questo mondo e non lo fummo per colpa nostra: avremmo potuto farci molto bene per l'altra vita e non l'abbiamo fatto. Io che sono vecchio non posso più dire: incomincierò da giovane: il tempo passato più non ritorna. Voi che potete ancora dirlo, ditelo e fatelo, e sarete grandemente consolati al punto della morte. Buona notte.
D. Rua scrive nella Cronaca: - “II settembre. - Uscito oggi con D. Bosco, fummo due volte insultati dai monelli con parole di scherno. Don Bosco si accontentò di dare un semplice sguardo di compassione a questi giovani senza rispondere verbo. Capii però dal suo contegno che gli cagionava pena assai grave, non l'insulto ricevuto, bensì la perversità dei ragazzi e dei tempi correnti.
Gli occorse pur di leggere, come in un congresso, tenutosi in Ginevra dai rivoluzionarii, i framassoni siansi proposto l'abolizione del Papato e ciò fugli come spina al cuore; non perchè temesse della caduta del medesimo, che è incrollabile stante la promessa del Salvatore, sì bene nel vedere che figli della Chiesa proponessero di alzare le mani parricide contro il Capo della Chiesa stessa”.
D. Bosco aveva proprio una spina al cuore. L'8 settembre Garibaldi era ricevuto, con onori poco meno che da sovrano, a Ginevra, ove i radicali avevano convocato il Congresso della Pace ed eletto Garibaldi presidente onorario. Egli vi si era recato a stringere gli ultimi accordi coi Capi delle sette cosmopolite per la decisa invasione del Patrimonio di S. Pietro. Parlando colla folla che lo applaudiva, lodò i Ginevrini perchè avevano dato i primi colpi alla pestilenziale istituzione che si chiama Papato e promise loro che le forze riunite della democrazia le avrebbero dato l'ultimo crollo! Abbatteremo quell'antro dell'idolatria e della menzogna! [943] Anche la sera dell'II D. Bosco aveva la buona parola per gli allievi.
Vi voglio insegnare questa sera il metodo per potere andare ne' vostri studi e lavori, e questo metodo non sono io che lo do, ma lo dà il Signore: In malevolam animam non introibit sapientia, nec habitabit in corpore subdito peccatis. S'intende la vera sapienza, non la sapienza mondana: quella che riconosce in Dio il Creatore e padrone di tutte le cose e l'obbligo nostro strettissimo di obbedire alle sue leggi, le pene tremende minacciate ai trasgressori di queste nel tempo e nell'eternità e i premii promessi anche nella vita presente a coloro che osserveranno fedelmente i comandamenti.
Scacciate adunque dal vostro cuore l'ostacolo che impedisce alla vera scienza, quella del santo timor di Dio, di entrare in voi, perchè con questa scienza entra pure la sicurezza dell'aiuto di Dio per la felice riuscita della carriera da voi intrapresa. Questo ostacolo è il peccato.
Ma badate che il peccato non è come gli altri nemici, i quali, vinti e scacciati una volta, non ritornano più. Dobbiamo perciò vegliare per tenerlo lontano, perchè viene tamquam fur, come un ladro, quando noi dormiamo. Egli, o il demonio, se vede che lasciamo l'uscio aperto, per mezzo delle opere, per mezzo del tatto con atti cattivi, entra per la porta: entra anche per le finestre, ossia per gli occhi, cogli sguardi maliziosi, colle curiosità pericolose, con certe letture. Custodite pertanto anche le finestre, chiudetele bene.
E il peccato, il demonio, non solo entra per le finestre, ma ancora per le fessure, per i buchi, per le serrature; guardate adunque di chiudere le orecchie alle parole disoneste, ai cattivi discorsi. Chiudete anche la bocca, perchè il demonio entra anche per la bocca per mezzo delle bestemmie, dei discorsi immorali, delle mormorazioni, delle golosità. Insomma il demonio, se non vigiliamo, entra dentro di noi per mezzo di tutti i cinque sensi.....
Volete adunque andare avanti nella scienza, percorrere felicemente la carriera dei vostri studi, imparar bene i vostri mestieri? Scacciate il peccato dal vostro cuore, tenetelo da voi sempre lontano, e il Signore vi aiuterà. Quanto maggior cura metterete nel tener da voi lontano il peccato, tanto più grande sarà il profitto che farete negli studi o nella vostra professione. Buona notte.
Nello scorgere la tranquillità colla quale il Servo di Dio parlava a' suoi allievi nessuno avrebbe creduto che in quello stesso giorno egli fosse soprappensiero per altra ragione. L'arcivescovo Mons. Riccardi, ritenendo che Don Bosco desse ufficii d'insegnamento e di assistenza ai suoi chierici [944] prima che fossero capaci di sostenerli, o le prime cariche ne' collegi a chi era appena sacerdote, non approvava la disciplina e lo spirito dell'Oratorio come poco ecclesiastico, e non vedeva di buon occhio gli studii che vi si facevano, persuaso che vi si educassero preti e chierici poco istruiti. “Ma io, testificò con giuramento il professore di Morale del Convitto Ecclesiastico e del Seminario, D. Ascanio Savio, sono sempre stato convinto del contrario e una prova ne sono i sacerdoti D. Rua, Mons. Cagliero, D. Francesia, D. Cerruti, D. Durando e altri molti, tutti insigni per gradi teologici, o in filosofia, o in lettere”.
L'arcivescovo aveva pur disposto che, prima delle Sacre Ordinazioni, tutti i chierici della diocesi che avevano licenza di alloggiar fuori del Seminario dovessero entrarvi e rimanervi almeno un anno, per prepararsi collo studio e colla pietà a riceverle degnamente; e voleva applicare la stessa norma anche a quelli di Don Bosco, nella speranza che, ordinati preti, sarebbero passati all'archidiocesi.
La nascente Società Salesiana allora era semplicemente collaudata, e venendo i chierici di Don Bosco ordinati alle stesse condizioni dei chierici secolari, l'Arcivescovo faceva conto di potersene servire pei bisogni della diocesi, tanto più che questi bisogni, attesa la scarsezza del Clero, erano assai grandi. Egli era ben contento che Don Bosco allevasse giovanetti per la carriera ecclesiastica, ma non vedeva, come volendone tutti i frutti, veniva a distruggere le piante che dovevano produrli.
Mi fo' premura notificare alla S. V. molto Rev. che per i miei diocesani chierici, non permetto più che facciano scuola e ripetizioni, o sorveglino nelle camerate o siccome prefetti.
Questa misura, che si estende agli altri convitti, è per favorire e giovare i chierici nei loro studi e perchè possano così frequentare la scuola e le ripetizioni. [945] Ho pure stabilito di non dare gli Ordini Sacri se non a quelli che sono in Seminario. Questa misura le riuscirà un po' gravosa, ma tornerà di vantaggio alla Chiesa e della sua Comunità. Quanto sovra esposto mi fo' premura di notificare, onde in tempo possa provvedere a sè, ed i chierici eziandio al loro maggior vantaggio.
Il Signore le conceda ogni bene, e mi creda con tutta stima
Questa notificazione fu per D. Bosco una dolorosa sorpresa. Più volte egli si recò a parlare coll'Arcivescovo, e gli andava ripetendo: - Dunque i chierici in Seminario, i preti al convitto ecclesiastico e Don Bosco solo in mezzo a migliaia di giovani. Come posso accondiscendere ai suoi desiderii? - E l'Arcivescovo era così fermo, che Don Bosco fu costretto a dirgli: - Senta, Monsignore, Vostra Eccellenza scriva a Roma le ragioni per le quali ha emanato questi ordini, io pure esporrà a Roma il mio caso; e Roma deciderà.
- No, gli rispondeva Monsignore: questa controversia deve comporsi fra noi due; - ma invece fu una questione prolungata e spinosa.
Tutti i chierici dell'Oratorio ne furono angustiati. Quelli che non avevano intenzione di fermarsi con D. Bosco ed altri sobbillati da persone influenti abbandonarono il Servo di Dio ed entrarono nel Seminario; e gli altri che erano già legati con voti o si disponevano a farli, vedevano anch'essi oscuro l'avvenire. L'Arcivescovo non considerava come suoi diocesani soltanto quei chierici che non avevano professato, o non avevano intenzione di emettere i voti nella Società Salesiana; ma non essendo ancora la Società indipendente dall'Ordinario, egli riteneva per suoi tutti i chierici nati nell'archidiocesi. Di qui, come vedremo, le ordinazioni negate o ritardate ad alcuni dei nostri, ed anche le pressioni perchè abbandonassero l'Oratorio. [946] Noi entriamo con rincrescimento in questi particolari, ma è pur necessario per narrare tutta la vita di D. Bosco. Serva ciò di ricordo ai Confratelli che leggono, che questi volumi non sono destinati al pubblico, ma riservati ai nostri archivii; giacchè se fosse altrimenti, avremmo preferito sull'esempio di D. Bosco di tacere, piuttostochè esporre certe cose.
Mons. Riccardi intanto aveva concesso che un chierico dell'Oratorio, il quale aveva già compiuti gli studii, si presentasse alle Sacre Ordinazioni nelle tempora d'autunno.
Il sottoscritto dichiara che il chierico Racca Pietro col permesso di S. E. Rev.ma L'Arcivescovo di Torino ha fatto con regolarità gli esercizii spirituali nella casa di Trofarello in preparazione alla Sacra Ordinazione cui spera e supplica di essere ammesso. Predicatori erano lo scrivente e il sacerdote Bona Giuseppe.
PIU' delle accennate difficoltà tenevano occupati i pensieri del Venerabile le necessità morali e materiali dell'Oratorio. Fra i molti giovani da poco tempo accettati ve ne erano alcuni che erano infetti dalle magagne contratte nei loro paesi. Altri, per fortuna pochissimi, benchè da qualche tempo nella Casa, avevano dimenticati gli antichi propositi divenendo pietra d'inciampo; eran [948] di quelli che D. Bosco non conosceva. Questi si credevano che fosse per rimanere sempre occulto il loro operato: ma facevano i conti senza la Madonna e senza D. Bosco, il quale sapendo quanto fosse importante lo scoprire ogni fermento di male prima dell'anno scolastico, invitò la comunità a fare un triduo di divozione in onore della Madonna, al quale si associò egli stesso pregando continuamente per la conversione dei cattivi. Egli ripeteva con gran fervore: - Pasce haedos tuos, quos convertis in oves, et qui in judicio a sinistris erant collocandi, tua intercessione collocentur a dextris, o Maria! -.
E la sera del 14 settembre così parlava:
Quando si fa qualche novena o triduo, o durante gli esercizi spirituali, il Signore fa sempre conoscere qualcuno che non fa più per la casa, perchè è di scandalo ai compagni o immeritevole di starvi per altri motivi. Di costoro se ne sono scoperti alcuni adesso: e senza nominar qui nessuno, vi annunzio che saranno mandati via.
Passiamo ad altro. D. B... ha perduto un suo fratello, assassinato con due coltellate. Vi fu letta da D. Rua la lettera con la quale Don B... narrava il doloroso accidente e questo ha fatto piangere molti. Il fratello di D. B... va all'osteria con alcuni amici e dopo avere amichevolmente mangiato e bevuto, uno di essi ruppe un bicchiere. Di qui un diverbio perchè nessuno voleva pagarlo.
- Ebbene lo pagherò io, gridò il fratello di D. B... volgendosi verso colui che credevasi causa di quella rottura, ma tu mi sborserai ciò che spendo.
- lo? gridò l'altro altetto pel vino; e senz'altro gli vibra due colpi di coltello che gli tagliarono un'arteria nel collo.
E l'infelice cadde a terra esclamando: - Ahi! che son morto!
Il feritore fuggì; tutti coloro che erano nell'osteria si avvicinarono al ferito prestandogli quelle cure che sapevano, ma in dieci minuti era cadavere. Egli chiedeva del confessore, che non potè giungere a tempo, e moriva dicendo: -Gesù, Giuseppe, Maria vi dono il mio cuore e l'anima mia. - In certi luoghi e in certe compagnie si capita male.
Domani si dirà il Rosario per lui, e chi può fare la Comunione la faccia. Intanto speriamo che il Signore gli abbia perdonato, quantunque non abbia potuto confessarsi.
E' qui il caso di darvi un avviso. Se vi avvenisse di tagliarvi un'arteria, prendete subito un soldo e premetelo sopra la ferita tenendovelo fermo finchè non venga il medico. Ciò fa cessare il corso del sangue e [949] dà tempo al prete che possa giungere, coll'impedire la morte per uno o due giorni. Se si trova qualche buon medico che possa cucir bene la ferita vi è anche la speranza di guarigione.
Noi impariamo a fuggire i festini e a star preparati alla morte. Adoriamo i decreti di Dio.
Finisco col raccomandare che nel dire le orazioni alla sera ciascuno deponga ciò che avesse nelle mani e giunga le mani o le tenga raccolte sul petto, senza appoggiarsi, senza guardar qua e là e pregando bene col pronunciare distintamente le parole. Lo stesso mi raccomando che si faccia in chiesa. Quante disgrazie allontanerà da voi la preghiera ben fatta.
Ma questa parlata non fu che il preludio di un'altra più grave, che tenne la sera del giorno 16, lunedì dopo la festa del Nome SS. di Maria.
“A mali estremi, estremi rimedii” pensava il Servo di Dio, perchè il suo unico fine era la salute delle anime, e quindi guerra al peccato a qualunque costo, senza rispetti che lo rattenessero, senza curarsi dei giudizii che certi prudenti avrebbero potuto emettere sopra il suo modo di operare e di parlare. Egli era mosso dalla Fede; e se, dopo aver tentato ogni mezzo di correzione, certi giovani apparivano incorreggibili, uscì più volte con ardente zelo in tali ammonizioni, che rimasero memorabili nella sua vita. La più memoranda di tutte fu però quella della sera del 16 settembre 1867.
Calmo egli salì sulla piccola cattedra sotto i portici innanzi all'assemblea, sempre imponente, di preti, chierici, coadiutori, studenti, artigiani e famigli; tutti ricordavano ciò che aveva annunziato due giorni prima e attendevano qualche spiegazione.
Incominciò col narrare quanto il Divin Salvatore aveva fatto e patito per la salvezza delle anime, e le sue terribili minacce contro quelli che scandalizzano i pargoli: parlò di ciò che aveva fatto e faceva egli stesso eseguendo la missione affidatagli dalla Divina Misericordia, e ricordava i sudori, gli stenti, le umiliazioni, le veglie e le privazioni sofferte per [950] la salvezza eterna dei giovanetti: quindi passò a dire come nell'Oratorio vi fossero dei lupi, dei ladri, degli assassini, dei demoni venuti per sbranare, uccidere, rubare, strascinare all'inferno le anime a lui affidate. E soggiungeva:
“A costoro che cosa ho fatto di offesa o di danno che mi trattano così! non li ho amati abbastanza? non li ho tenuti come miei figliuoli? non ho dato loro quanto poteva dare? non li ho ammessi a tutte le confidenze della mia amicizia? Nel mondo che cosa potevano essi ricevere di istruzione, sostentamento, educazione, e quali speranze potevano formarsi per l'avvenire se non fossero venuti all'Oratorio?”
E passava a descrivere ad uno ad uno tutti i benefizii che avevano ricevuto, quindi proseguiva: - “Costoro credono di non essere conosciuti, ma io so chi sono e potrei nominarli in pubblico! Forse non sta bene che io li nomini, sarebbe per loro cosa troppo disonorevole, sarebbe un farli notare a dito dai compagni, ed un infligger loro un castigo spaventoso. Ma se non li nomina, non vogliate credere che D. Bosco li taccia perchè non sia pienamente informato di ogni cosa, o perchè non li conosca, o perchè abbia solo qualche vago sospetto e debba mettersi ad indovinare. Oh questo poi no! Che se io; volessi nominarli, potrei dire: - Sei tu, o A (e pronunciò nome e cognome) un lupo che ti aggiri in mezzo ai compagni e li allontani dai superiori, mettendo in ridicolo i loro avvisi. Sei tu, o B… un ladro che coi discorsi appanni il candore dell'innocenza Sei tu, C… un assassino che con certi biglietti, con certi libri, con certi nascondigli strappi dal fianco di Maria i suoi figliuoli. Sei tu, o D.... un demonio che guasti i compagni e impedisci coi tuoi scherni a costoro la frequenza dei Sacramenti”. E così di passo.
Sei furono i nominati. La sua voce era calma, spiccata. Ogni volta che pronunciava un nome si udiva un grido soffocato, o un singhiozzo, un ahi! del colpevole nominato che [951] risuonava in mezzo al cupo silenzio dei compagni esterrefatti. Sembrava il giudizio universale!
Finito che ebbe di parlare, tutti sì ritirarono senza trar fiato. Restarono solo quei sei che singhiozzavano, chi appoggiato ai pilastri, chi al muro.
Il Venerabile si fermò in mezzo al portico. I preti e i chierici facevano crocchio a qualche distanza e noi fummo fra questi, spettatori di una scena commovente. Que' sei poveretti gli si avvicinarono; ed alcuni presero le sue mani baciandole, altri si erano attaccati alla sua veste. Ei li guardò e una lagrima scorreva sulla sua guancia! Nessuno di essi parlava, e D. Bosco, detta a ciascuno una parola confidenziale di conforto, salì in camera. Il domani alcuni partirono per casa loro; qualche studente fu messo nella sezione degli artigiani; due di questi, dopo una prova, furono riamessi a continuare gli studi. Quelli che rimasero nell'Oratorio cambiarono talmente condotta da emulare i migliori, e divennero eccellenti cristiani, stimati ed onorati da tutti. Don Bosco aveva parlato in difesa degli interessi di Dio e in suo nome, e le sue parole erano state di un'efficacia singolare.
Mentre così assicurava la vita spirituale ai suoi figliuoli, provvedeva ad essi anche quella materiale. Scriveva a Sua Eccellenza il Ministro della Guerra a Firenze
I poveri giovanetti ricoverati nella casa dell'Oratorio di S. Francesco di Sales per mezzo mio ricorrono umilmente alla carità dell'E. V., come ebbero già ad esperimentare negli anni trascorsi.
Essi domandano qualche oggetto di vestiario, calzamenta, coperture da letto, comunque siasi logoro e cencioso, che per avventura esistesse fuori d'uso nei regii magazzini dello Stato. Qui ogni cencio si unisce e serve a riparare la miseria dei poveri orfanelli.
Il loro numero è di circa 850; parecchi sono stati orfani pel morbo micidiale del colera, molti furono indirizzati dalle autorità governative dei varii paesi d'Italia. Quest'anno il bisogno è in modo eccezionale sentito a motivo della cessazione dei lavori, del caro dei viveri e della grave diminuzione della privata beneficenza. [952] I giovanetti ricoverati, pieni di fiducia che il loro miserabile stato sia preso in benigna considerazione, specialmente per la prossima invernale stagione, si uniscono a me per pregare dal Cielo sopra di Lei copiose le divine benedizioni, mentre dal canto mio ho l'alto onore di potermi professare colla più sentita gratitudine
Ricorreva anche a S. E. il Ministro di Grazia e Giustizia a Firenze:
Le strettezze eccezionali in cui versano i giovanetti accolti nella casa detta Oratorio di S. Francesco di Sales mi spingono a fare umile ma calda preghiera all'E. V. affinchè loro conceda quel maggior caritatevole sussidio che sarà possibile a favore dei chierici che ivi prestano gratuitamente l'opera loro.
Essi sono in numero di 50 e prestano l'opera nella casa di Torino, in quella di Lanzo ed in quella di Mirabello col fare scuola ora diurna, ora serale, catechismi, coll'assistenza nei dormitorii, nei laboratorii e nelle passeggiate, e intanto con lodevole condotta procurano di fare i loro studi, presentandosi a tempo debito agli opportuni esami.
Per questi chierici io supplico rispettosamente l'E. V. onde si degni di prenderli in paterna considerazione e concedere loro quel maggior sussidio che alla provata di lei carità sarà beneviso, affinchè possano provvedersi di abiti, di libri, od in qualche modo aiutare lo stabilimento che loro somministra alloggio e vitto con quanto è necessario alla vita.
Pieno di speranza e di gratitudine, mi unisco a questi giovani leviti per augurarle ogni bene celeste, mentre ho l'alto onore di potermi professare
Aveva anche scritto a più benefattori, e il giorno 17 partiva per Casalmaggiore, circondario della Provincia di Cremona. Era aspettato a S. Giovanni in Croce, dove stava in [953] villeggiatura la principessa Elena Vidoni Soranzo. Di là rispondeva alla Signora Contessa Bianca Pasetti, nata dei Marchesi Villani, a Montebello Vicentino nel Veneto.
Per animarci tutti alla speranza nella potenza e nella bontà del Signore facciamo così:
1° Fino al giorno dell'Immacolata Concezione: Reciti tre Pater, Ave e Gloria al SS. Sacramento, con tre Salve Regina a Maria Ausiliatrice.
2° Io farò ogni giorno un memento speciale nella S. Messa, i miei ragazzi pregheranno meco e non meno di quattro faranno la loro comunione ogni mattina secondo questo scopo.
3° Se si otterrà qualche grazia in maniera sensibile, farà qualche oblazione per la chiesa di Maria Ausiliatrice che si sta edificando in Torino.
Se non è contrario alla maggior gloria di Dio, ho ferma fiducia che saremo esauditi. Ella poi dal canto suo parli, faccia parlare, scriva con prudenza e con bei modi, ma dicendo quanto sa per muovere il cuore del raccomandato.
Dio la benedica, preghi per la povera anima mia, e mi creda con perfetta stima.
S. Giovanni in Croce, 18 settembre 1867,
Nello stesso giorno mandava una lettera a Torino.
S. Giovanni in Croce, 18 settembre 1867.
Ti mando il certificato per Racca e spero che giungerà a tempo senza difficoltà.
Ti raccomando di dare somma sollecitudine alla spedizione dei programmi di Lanzo e di Mirabello. Per quello di Lanzo si mandi a tutti i preti di Torino di cui si ha il nome ed uno al cav. Margotti con letterina ad hoc. Per quello di Mirabello si mandi a tutti i preti che si conoscono, o dei quali si può avere il nome, delle Diocesi di Casale e Vigevano. [954] Finora denaro in isperanza, ma nella borsa niente. A venerdì a sera, si Domino placuerit. Saluta Goffi, il cavaliere, D. Francesia e Racca con tutti quelli cui parlerai di me.
Dio ci benedica tutti; prega per me che ti sono nel Signore
Da S. Giovanni in Croce egli si recava a Parma, dove visitò, come crediamo, il Vescovo per chiedere commendatizie alla Pia Società, e alcune delle principali famiglie. Di certo abbiamo soltanto quello che dicono due biglietti scritti da Parma al Cavaliere Oreglia, l'uno dal Conte Calvi, l'altro dalla Contessa sua consorte.
Ho saputo che D. Bosco, passato da Parma in uno degli scorsi giorni, ha cercato di noi che eravamo assenti.
Come io ne sono stato spiacentissimo, così son certo che anche Clotilde, quando lo saprà, sarà dolente di non essersi trovata in Parma in quella circostanza, e però prego Lei, ottimo amico, a voler esprimere allo stesso D. Bosco i sentimenti nostri di dispiacere e pregarlo caldamente in altra consimile circostanza di non dimenticarci
…Mi spiacque immensamente che D. Bosco sia passato a Parma e che avendo avuto la bontà di cercarmi, io sia stata in campagna. Se lo avessi saputo io avrei anticipato il mio ritorno in città per poterlo vedere, e ricevere con mio marito e i miei figli la sua benedizione. Lo preghi che ce la mandi, che ci sarà tanto preziosa… Prima che mia sorella parta per Parigi ad andare a fare i voti come suora di carità, io andrò a Torino ed allora spero che avrò il piacere di vedere D. Bosco.
La sera del 20 settembre D. Bosco si trovava nell'Oratorio e di qui si recava sui colli di Superga per augurare un felice onomastico al professore Don Matteo Picco, il quale in una sua graziosa villetta si riposava dalle fatiche dell'insegnamento. [955] Qui D. Bosco die' prova della prodigiosa sua forza fisica, non indebolita dalle fatiche e dalle sofferenze. Trovò che il professore invano tentava con martello e tanaglia di strappare un chiodo conficcato saldamente nel muro. Don Bosco gli disse: - Lasci stare, mi proverò io. - E con una mano lo svelse facilmente.
Il 23 si incominciava il secondo corso di esercizi spirituali a Trofarello, per i Salesiani. Predicarono D. Bosco e D. Rua; e il 27 emetteva i voti triennali il Ch. Giacomo Costamagna. Quattro altri chierici, in tempi diversi, avevano pronunciati gli stessi voti, fra i quali Pietro Guidazio e Domenico Tomatis.
In quei giorni a Trofarello si era ripetuto che miseros facit populos peccatum; e in Albano il colera era stato, come tutti asserivano, una sfolgorante manifestazione della giustizia e della misericordia di Dio. Cinquecento morti e per lo meno altrettanti colpiti, ma scampati dal morbo, avevano gettato lo sgomento in quella piccola città, nella quale pochi erano rimasti, essendo gli altri fuggiti altrove. Parecchi dei primarii cittadini e la Regina delle due Sicilie, vedova di Ferdinando II, e un suo figlio erano periti. Aveva dato occasione a questi ragionamenti una lettera scritta a D. Bosco dai Padri delle Scuole Pie. Questi da Roma solevano condurre i loro alunni a passare le vacanze autunnali in una villeggiatura nei pressi di Albano, ma al fulmineo scoppiare del morbo molti parenti dei convittori si erano affrettati a ritirarli e i pochi rimasti furono ricondotti a Roma. Si dubitava non a torto che il timore d'infezione potesse ritrarre i genitori dal mandare i figli in collegio e Don Bosco, pregatone, accondiscese a dissipare coll'autorità del suo nome ogni sgomento e la cattiva prevenzione.
Ecco infatti una sua lettera al Rettore del Collegio Nazareno per consolarlo della chiusura momentanea dell'istituto e per dare a questo novella vita con elogi ben meritati, la quale, [956] fu stampata a Roma dalla Tipografia Calasanziana, diretta da A. Ferroni, e divulgata largamente.
LETTERA DEL SAC. D. GIOVANNI Bosco
al Padre Alessandro Checcucci delle Scuole Pie
Rettore del Collegio Nazareno di Roma.
Con quanto vivi e sinceri sensi di gioia e di compiacenza visitai mesi sono il vostro Collegio Nazareno, con altrettanto e maggior dolore ho inteso la terribile sciagura che ha colpito la città d'Albano, dove il Collegio stesso erasi ridotto in quel suo magnifico locale, a temperare gli estivi calori di Roma, ed a passarvi, secondo il costume, le ferie autunnali. Non so dirvi, amico mio, come avessi ferito profondamente il cuore da sì infausta novella, anche perchè prevedevo, nella necessità in cui vi trovaste di sciogliere il Collegio, quanti mai frutti di virtù e di sapienza si sarebbero per mala ventura perduti. Ma riavutomi alquanto da quello sbigottimento, nel ripensare alle provvide istituzioni ed all'eccellente disciplina, che regolava il vostro Collegio; come pure ponendo mente alle sue gloriose tradizioni, ed alle tanto savie ed amorevoli leggi, onde era governato, sia per la parte educativa, sia per la scientifica, ebbi buone ragioni di racconsolarmi; ed al timore successe tosto la speranza di un più lieto avvenire, talchè al santo e geloso intendimento d'informare il cuore e l'ingegno dei giovanetti alla pietà ed alle lettere, nulla mi parve mancare nel vostro Convitto! Che dirò poi dei locale magnifico, spazioso, ventilato come quello che risiede in uno dei punti più elevati del centro di Roma, a cui aggiungono pregio le nuove sale, colla infermeria, e con altri utili ornamenti, onde l'avete recentemente non senza grave dispendio arricchito? Ma questo sarebbe poco, se nelle mie visite al Nazareno non avessi sopra tutto ammirato l'indole ingenua e modesta sì, ma disinvolta e festiva dei vostri alunni, di guisa che apparivano chiari sul volto di ciascheduno i benevoli affettuosi sensi di un animo sinceramente buono senza orpello e finzione. E questo cuor sulle labbra, che scorsi in tutti quei giovanetti, con tratti spontanei di candida semplicità e di tenera amorevolezza, valse a provarmi sempre meglio quanto è soave l'esercizio della virtù, se non è imposto dalla severità, ma consigliato dalla dolcezza. Anche le altre parti dell'educazione morale e civile mi parvero ottimamente ordinate. Ed a mostrarne la piena soddisfazione che ne ebbi, ed il gran piacere che ne sentì, ve ne sia buona prova il ragionarne [957] che feci con molti in Roma stessa ed anche col S. Padre che ne ebbe sincera consolazione per quell'amore che so che Egli porta al vostro Collegio. Dirà inoltre che l'insegnamento non è la parte meno considerevole dei Nazareno, avendovi trovato buoni metodi e nobili eccitamenti, e ciò che più monta, uomini molto sapienti, che fui lieto di conoscere, come fra gli altri mi piace ricordare il P. Taggiasco, il P. Farnocchia, ed il P. Rolletta, ed alcuni di chiara fama come il P. Chelini, di cui l'Università di Bologna dolora sempre la perdita, avendone ammirato il perspicace e profondo ingegno.
Vedete or dunque, amico mio, quanti giusti motivi avete di riconfortarvi dell'animo per le sciagure che incolsero al vostro Collegio nel colera d'Albano, e quanta speranza dovete nutrire che esso per sua propria virtù riprenda forza e vigore. E di ciò vi dee essere pure argomento la costante e ben meritata riputazione, che il Nazareno ha goduto fin qui, ed il gran numero degli alunni accorsivi da ogni parte d'Italia, ed i valorosi uomini che vi produsse. Molti dei quali, fatti poi segnalatissimi per alte dignità, per cospicui ufficii sostenuti, per fama di scienza e di lettere (a testimonio di preclare virtù) hanno meritato d'ornare di sè l'Aula grande del Nazareno. E ben mi sovviene che in quei cari giorni passati in Collegio, forte mi stupii nel trovare in bell'ordine disposti i ritratti di ben quaranta Cardinali, l'ultimo dei quali l'Em.mo Morichini, il cui solo nome è uno splendido elogio. Come fra gli scienziati e letterati di grido vidi, se ben mi rammento, i ritratti del Paradisi, del Verri Pietro, del Barlocci, del Labindo, di Cesare Lucchesini, di Angiolo Maria Ricci, del Senatore Patrizi, di Giovanni Marchetti e d'altri assai di chiara nominanza.
Mi persuado pertanto, come vi dicevo più sopra, che tutte quelle ragioni varranno a sgombrare dall'animo vostro ogni dolore e timore, e che, preso nuovo coraggio, proseguirete a ben meritare dell'Istituto vostro e della pubblica morale, massime in tempi sì tristi e sconsigliati, ed a corrispondere in pari tempo alle benefiche attenzioni dei Sommo Pontefice Pio IX, che vi elesse a codesto assai scabro e rilevante ufficio, e che memore di essere stato un dì alunno delle Scuole Pie, le ama e protegge, e che segnatamente al vostro Collegio ha dato in mille guise solenni testimonianze e d'animo benevolo e di sovrana clemenza. Come appunto in altri tempi onorarono il Nazareno del loro patrocinio i gloriosi Pontefici Urbano VIII, Clemente XI, Benedetto XIV, Pio VI e Pio VII e per ultimo Gregorio XVI, ciò che potei conoscere dalle iscrizioni in marmo esistenti in Collegio.
Vi prego finalmente a ricordarvi di me e del mio povero Istituto, ed a conservarmi sempre la vostra cara benevolenza.
A Trofarello veniva pur consegnata a D. Bosco una raccomandazione ordinata dal Ministero.
DEL DIRETTORE SUPERIORE D'AMMINISTRAZIONE.
Venne raccomandato a questo Ministero il giovanetto Cesare Sperta dell'età d'anni 12 da Torino, affinchè sia ricoverato in qualche stabilimento dove sia mantenuto ed avviato ad un mestiere.
Orfano della madre, e figlio di un padre che è sprovvisto d'ogni mezzo di fortuna e può appena provvedere al sostentamento di se stesso col proprio lavoro, quel ragazzo non ha chi lo nutrisca, lo sorvegli, lo educhi, ed abbandonato a lui medesimo, trovasi esposto a serio pericolo di essere strascinato inconscio sulla via del mal fare.
Se non che qui nessun Ospizio esiste, nel quale possa il Governo collocare simili disgraziati, e poichè si tratta di compiere un'opera eminentemente caritativa, il sottoscritto prega la S. V. di prendere sotto il suo patrocinio il povero Sperta e ritirarlo nella sua casa di beneficenza.
Lo scrivente coglie l'incontro per testimoniarle i sensi della distinta sua considerazione.
D. Bosco ricoverò il giovanetto, al quale il Ministero concesse 200 lire di sussidio, come appare da lettera N. 293 del sopranominato Gabinetto Particolare.
La sera del sabato 28 settembre D. Bosco tornò all'Oratorio, e delle parlate che fece nei giorni della novena della Madonna del Rosario, ci rimane quella del giorno 29.
Vi era un giovane il quale cadeva sempre nei medesimi peccati. Il suo confessore gli diede per penitenza tre Ave Maria da recitarsi tutti i giorni, finchè non fosse ritornato a confessarsi. Il giovane andò a confessarsi una seconda volta, poi una terza, una quarta ed una quinta volta e sempre coi medesimi peccati; ed il confessore gli dava sempre tre Ave Maria per penitenza. Finalmente quel giovane disse al confessore. [959]
- Ma, padre, è inutile ogni vostra cura! Io non posso!
- Non perderti di coraggio, figlio mio, rispose il confessore: continua a dire tre Ave Maria tutti i giorni, finchè tornerai a confessarti. Ora si farà la guerra tra la Madonna e il demonio, e la Madonna vincerà di certo.
Quel giovane dovette intanto partire da quel paese e fare un viaggio co' suoi genitori, e continuò sempre a dire tutti i giorni tre Ave Maria alla Madonna; ma le diceva di cuore e non cadde mai più in nessuno di quei peccati. Ritornato in patria andò di nuovo a confessarsi dal solito confessore, e gli manifestò come non avesse più nessuna di quelle colpe che era solito a commettere. Il confessore gli chiese quando avesse ricevuta tal grazia dalla Madonna, e il giovane rispose:
- Quando nel dire le tre Ave Maria incominciai a riflettere alle parole: Ora pro nobis peccatoribus. Da quell'istante cessai dalle ricadute.
Io perciò per fioretto di questa novena vi consiglio ad andare tutti i giorni spontaneamente avanti al SS. Sacramento e avanti all'altare della Madonna e recitare queste tre Ave Maria, affinchè la Madonna vi ottenga dal suo figlio Gesù Cristo di allontanare da voi e dai vostri parenti le disgrazie prima spirituali, che sono il peccato, quindi il colera: che li benedica nelle loro fatiche; che voglia sempre tener lontano da noi prima il colera dell'anima e poi quello del corpo. Pregate eziandio per i vostri benefattori e per la Santa Chiesa.
Intanto mentre i musici e altri alunni degni di premio si preparavano per la passeggiata a Castelnuovo, la chiesa di Maria Ausiliatrice continuava ad essere oggetto di nuove oblazioni. Una ricevuta autografa del Venerabile, diretta al Conte ed alla Contessa di Viancino, diceva:
Torino Valdocco Oratorio di S. Francesco di Sales.
Oltre alla somma di fr. 1000, già prima ricevuta dal benemerito sig. Conte Francesco di Viancino, ricevo oggi fr. 500 dalla pia e benemerita di lui consorte Luigia nata Sant'Albano, che essa offre per una campana da porsi sul campanile della chiesa dedicata a Maria Ausiliatrice con quella inscrizione e stemmi che ai medesimi saranno benevisi.
La S. Vergine Maria doni ai benemeriti ed insigni oblatori lunghi anni di vita felice e la bella fortuna di andare un giorno a ricevere la corona di gloria in Cielo dalle mani della comune nostra Benefattrice, di cui in modo così sensibile si professano veri devoti.
Il dì seguente scriveva al sac. Raffaello Cianetti, in Lucca.
Attesa l'età del giovanetto Chelini può soltanto essere ricevuto a Mirabello alle condizioni del programma che le mando; più tardi (a 12 compiuti) sarebbe accolto qui in Torino a più miti condizioni. Riguardo al Rettore di S. Leonardo sembra veramente che il Signore lo voglia in Paradiso. Tuttavia mettiamo la santa Vergine alla prova. Di qui fino alla festa dell'Immacolata Concezione di Maria SS. reciti un Pater, Ave, Gloria al SS. Sacramento con una Salve Regina e colla giaculatoria Maria, Auxilium Christianorum, ora Pro nobis. Io lo raccomanderà nella mia pochezza ogni giorno nella santa messa. I miei giovanetti faranno speciali preghiere. Se guarisce, faccia una offerta per continuare i lavori della chiesa. Fede nella bontà di Dio e nella potenza di Maria.
I fratelli Morelli desiderano veramente di studiare; se il tutore può portare la mesata a fr. 20 caduno, io li metto ambedue allo studio. Da che vennero qui si portarono sempre con esemplare condotta.
Dio benedica Lei, caro D. Cianetti, e benedica le sue fatiche; preghi per la povera anima mia e mi creda nel Signore
Il 6 ottobre il Venerabile era ai Becchi a celebrare la festa della Madonna del Rosario. I Castelnovesi fecero a lui ed a' suoi alunni cordialissime e festevoli accoglienze, memori dell'assistenza prestata da D. Cagliero ai colerosi.
Il Servo di Dio si intratteneva famigliarmente con tutti i suoi compaesani, specialmente coi fanciulli. Un giovane che per la prima volta incontrossi là con lui, osservatolo con viva attenzione, lasciava poi scritte le sue impressioni: “D. Bosco metteva in pratica l'avviso: Age quod agis. Era sempre fisso nella sua opera principale, non ostante le cose che teneva svariatissime per le mani: I fanciulli! Dovunque fosse un giovanetto, a qualsivoglia classe di famiglie appartenesse, lo fermava, lo interrogava, gli dava un avviso, con quella cortesia che avrebbe usata con un gran personaggio. [961]
Gli faceva una carezza, gli regalava una medaglia, e spesso lo invitava a venir con lui nell'Oratorio. Una sua parola non poteva esser mai dimenticata”.
Ma il fatto più notevole di quella festa fu l'entusiasmo e la profonda gioia riconoscente che manifestava a D. Bosco il suo Prevosto Don Antonio Cinzano, per avere ottenuto una grazia segnalatissima da Maria Ausiliatrice.
Tra i molti incommodi che travagliavano la sua cagionevole salute v'era la sordità che lo rendeva inetto agli affari più importanti della parrocchia, specialmente all'assistere gli infermi e all'ascoltare le confessioni dei fedeli. Dopo diciotto mesi di peggioramento, il malore giunse a tanto che egli non udiva più una parola pronunciata con gagliardia vicino all'orecchio e nemmeno il suono del campanone. È difficile immaginarsi qual cordoglio cagionassegli un simile stato. Il rincrescimento di non poter più compiere i suoi doveri degenerò in tetra malinconia, che finiva di rovinargli quel po' di sanità che ancor gli restava. Inutilmente aveva fatto prova dei ritrovati dell'arte medica.
Le cose erano in questo stato, quando D. Ascanio Savio, suo vice parroco, pensò di dame notizia a D. Bosco, il quale mandò a dire all'infermo che facesse una novena a Maria SS. Ausiliatrice, con promessa di un'offerta, ottenuta la guarigione. Il Prevosto accettò.
La mattina della festa degli Angioli Custodi, il 2 ottobre, quando uscì dalla Casa parrocchiale per recarsi a celebrare la Santa Messa, era afflittissimo ed aveva fatto piangere la fantesca, perchè egli credeva che questa parlasse espressamente a bassa voce per fargli dispetto, mentre invece gridava con quanto ne aveva in gola per farsi capire, sebbene inutilmente. Entrato in sagrestia disse: - Oggi voglio raccomandarmi alla mia buona madre Maria nella Santa Messa; e se, come tanti ottennero, potrò ancor io essere libero da questo mio miserabile stato, farò l'offerta per la sua Chiesa. [962] Risoluto si veste de' sacri paramenti, va all'altare e incomincia: In nomine Patris, ecc. Il giovanetto Cesare Cagliero, poi sacerdote salesiano e Procuratore Generale della Pia Società, che gli serviva la messa, sapendo che era sordo, secondo il solito rispondeva al salmo Introibo gridando a più non posso quantunque inutilmente, poichè il Prevosto era solito regolarsi dal movimento delle labbra del serviente. Ma quel mattino, D. Cinzano si ferma subito stizzito e, voltosi a Cagliero, gli dice:
- Ma, cospetto! parla più piano, mi stordisci! - e continua il salmo.
Ed ecco, mentre il giovanetto risponde più piano ma con voce ancora elevata: “Spera in Deo, quoniam adhuc confitebor illi...” si accorge che la grazia è fatta, e:
- Io odo, io odo, ripete come sbalordito a Cagliero; parla più sotto voce!
Niuno può farsi un'idea della commozione che il buon sacerdote provò nella celebrazione di quella messa memoranda; ora gli cadevano lagrime di riconoscenza, ora innalzava giaculatorie affettuose alla celeste Benefattrice. Tornato in sacrestia le sue prime parole furono:
- Io sono guarito! Maria Ausiliatrice mi ha fatto la grazia.
Uscito dalla chiesa, sembrava pazzo per la straordinaria contentezza. Chiamò subito il Vice curato, facendo una lunga e così concitata scampanellata, che sembrava volesse strappar la corda del campanello. Disceso D. Savio, gli raccontò la repentina guarigione per intercessione di Maria e disse che era suo fermo proposito di recarsi all'Oratorio di S. Francesco di Sales per ringraziarla. Il che fece quanto prima potè, con molta divozione.
Celebrata la Santa Messa, quel dì non finiva di magnificare la grande potenza di Maria e, nonostante l'avanzata età, a sfogo della sua divozione volle anche salire sulla cupola della [963] nuova Chiesa per toccare e baciare i piedi della statua della Madonna. Di là, mirando il colle di Superga, egli volse un pensiero alla sua cara parrocchia di Castelnuovo, ove aveva cominciato ad esercitare il ministero pastorale, aiutando, consigliando e sorreggendo il giovane contadinello dei Becchi, studente allora di ginnasio a Chieri; e a questo ricordo si sentì pieno di commozione vivissima.
La guarigione fu perfetta e duratura: la Madonna aveva ricompensato anche in terra tanti aiuti prestati a D. Bosco. Attestarono questo fatto D. Cesare Cagliero e D. Ascanio Savio: e lo stesso Don Antonio Cinzano amava ripeterlo frequentemente nel restante della vita.
LA festa della Madonna del Rosario, che ricordava le splendide vittorie della Madre Celeste sopra i nemici della Cristianità, era una caparra che Ella si sarebbe mossa nuovamente in aiuto della Chiesa e del Vicario di Gesù Cristo, se i fedeli fossero ricorsi a Lei con fede. Era giunto il tempo delle spine predetto da D. Bosco. I preparativi di un'invasione negli stati Pontificii erano palesemente incalzati con tutta alacrità. La setta aveva forze poderose, perchè maneggiava quelle dello Stato, risoluta di procedere a qualunque costo, finchè non fosse condotta a termine l'impresa.
Il disegno era semplice. Una sommossa in Roma aiutata dalle bande esterne di Garibaldi; l'intervento dell'esercito regio per rimettere l'ordine; un plebiscito che proclamasse l'unione di Roma al regno d'Italia. [965] Nella Federazione Italiana, scritta da Giuseppe Ferrari, si leggeva:
“La rivoluzione alle porte di Roma non è che la guerra contro Cristo e contro Cesare. Non equivoci, non incertezza e confuse dottrine semi-cattoliche, semi-cristiane, semi-pontificali. Adori pure chi vuole in casa propria i suoi idoli, i suoi penati; la religione della rivoluzione è quella che divinizza l'uomo, la sua ragione, i suoi diritti dalla chiesa disconosciuti e insultati”.
Premesso questo esordio, il Ferrari tracciava il programma dei fatti d'arme, onde Roma era cinta, per opera aperta dei Garibaldini e per opera occulta dei ministri italiani residenti in Firenze.
“1° Guerra al Pontefice, avendo l'Europa intimato a Roma una guerra di religione: nè noi potremo avanzare di un passo, senza rovesciare la croce.
2° Guerra ai Re! Imperocchè il clero per sè non ha forza, è nullo, ma può tutto ed è tutto col favore de' principi e de' monarchi; chi lavora per i Re lavora per la ristaurazione della Chiesa. Cristo, Cesare, il Papa, l'Imperatore ecco le quattro pietre sepolcrali dell'Italiana libertà.
3° L'irreligione e la legge agraria, ecco l'ultimo termine del progresso. Per irreligione intendo la progressiva propagazione della scienza, che si sostituisca alle favole del culto, alle contraddizioni fatali della metafisica....”.
Garibaldi, tornando da Ginevra, passava per Firenze e ricevute le istruzioni dal Governo e dal Comitato rivoluzionario giungeva a Sinalunga per capitanare i volontarii. Violavasi così la Convenzione, e Napoleone fece sapere al Ministro Rattazzi che avrebbe rioccupato Roma colle sue truppe, se Garibaldi pervenisse ad impossessarsi del territorio rimasto al Papa. Rattazzi promise di reprimere colla forza quell'attentato: e il 23 settembre fe' arrestare, ma con ogni riguardo, il generale; che condotto prima nella cittadella d'Alessandria e poi a Genova, il 27 fu portato a Caprera. [966] Una flotta di otto o nove legni di guerra accerchia l'isoletta per impedirgli di tornare in terra ferma, e trenta mila uomini in pieno assetto di guerra sono disposti sui confini della Toscana e dell'Umbria per tenere indietro i volontarii. A questo fine due altre navi volteggiano lungo le costiere di Civitavecchia. Con queste misure si sperava di tenere a bada la Francia, e coi tumulti della plebaglia nelle principali città del regno, promossi e repressi, si volle persuaderla che tutta la nazione parteggiava per quell'impresa.
Il 29 settembre, per gli ordini lasciati da Garibaldi, le prime squadre dei suoi giannizzeri invasero la provincia di Viterbo senza ostacolo da parte delle regie truppe, che li vedevano passare tra le loro file. Queste avanguardie erano di 50, 100, 200 combattenti, ma ben presto furono seguite da bande di 800, 1000 uomini e più. Le comandavano Deputati al parlamento, uffiziali dell'esercito regolare in congedo, e due figli di Garibaldi.
Povere borgate di frontiera! I Garibaldini ovunque entravano, vuotavano le casse comunali e governative, imponevano contribuzioni, comandavano provviste di vettovaglie, saccheggiavano i conventi e le chiese con orrendi sacrilegi e commettevano altri atti di violenza. Spezzati gli stemmi papali e i busti di Pio IX, proclamavano il Governo provvisorio sotto la dittatura di Garibaldi.
I Pontificii, che in tutto il territorio non erano più di 4000 tra le varie armi e sparsi in molti luoghi, si raggruppavano in piccole schiere, correvano ove era apparso il nemico, tre o quattro volte più numeroso di loro; lo respingevano, e tornavano alle loro stazioni per ripartire e correre a nuove difese. Dal 29 settembre al 26 ottobre quasi non passò giorno senza scaramucce e sempre nella zona dei confini, poichè gli invasori non osavano penetrare nell'interno; e quasi sempre sconfitti fuggivano a precipizio gettando via le armi e rifugiandosi dietro le regie truppe. [967] Nell'interno dello Stato Pontificio si viveva in perfetta quiete e nella provincia di Frosinone più di 1000 paesani in arme erano pronti ad unirsi ai soldati per respingere gli assalti degli invasori. Roma aveva appena forze bastevoli alla guardia in tempo di pace, ed alcune volte erano diminuite di un terzo per mandare rinforzi nelle provincie. Eppure non si vide un atto di ribellione, e circa 700 cittadini avendo chieste armi a custodia del Papa, le ebbero tosto. Tanta era la fiducia che il Governo aveva ne' 'sudditi! Lo stesso Pontefice Pio IX tutti i giorni recavasi per le vie della città in mezzo al suo popolo, riverito e benedetto dalla folla.
Con tutto ciò i giornali di Firenze annunziavano che gli Stati Pontifici erano in piena rivolta, chiamavano insorti i Garibaldini, inventavano per loro continue e strepitose vittorie, denigravano i zuavi colle calunnie più atroci, e descrivevano Roma colle vie irte di barricate difese disperatamente dagli insorti.
Sta il fatto però che fin dai primi di settembre s'era deciso di far insorgere Roma contro il Papa, per agevolare l'ingresso a Garibaldi. Capo della congiura era Francesco Cucchi, Bergamasco, deputato al Parlamento, cui era stata commessa una gran quantità di danaro che profondeva a piene mani. Astuto e prudente, aveva ai suoi cenni poco più di una decina di scherani di alto affare, parte fuorosciti, parte felloni domestici. Sotto la guida di costoro militavano i satelliti della giunta insurrezionale, ai quali si aggiunsero brigate, scelte tra la plebe viziosa, rifiuto delle prigioni.
Dei Romani se ne erano raggranellate poche centinaia, che giovavano a ricettare nelle loro case i congiurati forestieri i quali sommavano a più centinaia, quantunque accorsi alla spicciolata e forniti di legittimi passaporti. Questi con mille precauzioni si introducevano in città, e intanto distribuivano in varii punti fissati armi in gran copia, da fuoco, da taglio, da punta. Possedevano anche molte bombe [968] orsiniane, nascoste nei sotterranei, e gran copia di ordigni per scassinare le porte dei palazzi.
Ma il più ardente studio del Cucchi era posto all'opera delle mine. Con Luigi Castellano di Pavia si aggirava in ogni sotterraneo e a sangue freddo studiava i siti ove stipare le polveri. Pieno di odio satanico, cercava l'occasione per riempire di rovine e di sangue la metropoli del Cattolicismo. Era suo feroce intento di minare e far saltare in aria le residenze d'ambasciatori, i Dicasteri Pontifici, e tutte le caserme, anche quelle degli Svizzeri al Vaticano, sotto l'appartamento abitato dal S. Padre Pio IX; e qualche piazza, se ivi le truppe campeggiassero.
Infine, comprata una mezza dozzina d'artiglieri, gli unici traditori in tutta la guerra, addetti alla difesa di Castel S. Angelo, dava loro incarico di inchiodare i cannoni e d'incendiare la polveriera. Questa conteneva 16.000 chilogrammi di polvere, e, scoppiando, avrebbe avviluppato nelle rovine una compagnia di Zuavi e 300 Garibaldini prigionieri di guerra.
Contemporaneamente si sarebbero accesi trenta vulcani coinvolgendo nella strage un gran numero di povere famiglie, e la distruzione di chi sa quanti gloriosi monumenti i
In abituri fuor di mano il Cucchi faceva distribuire le paghe ai congiurati, minacciando di pugnale chiunque tradisse il segreto o si mostrasse timido nell'eseguire gli ordini. Ivi erano continue le conventicole dei caporioni, e i propositi sanguinarii. Si era deciso di aprir le carceri e liberare i malfattori, di dar l'assalto al palazzo della Pilotta e di uccidere il Ministro della guerra col suo stato maggiore e gli uffiziali radunati nel loro casino, e mettere a morte i Capi del Governo civile ovunque si trovassero. Si sarebbero anche consegnati ai sicarii il numero delle case di que' cittadini che dovevano essere uccisi. Erano risoluti di permettere il saccheggio universale con ogni violenza ed ignominia, di macellare sacerdoti e Cardinali, assalire il Vaticano e far prigioniero [969] il Papa. Si sarebbero rinnovate le orribili scene del '93 in Francia.
Questo racconto risulta dai processi che vennero fatti, ma ci contentiamo della testimonianza del generale Alfonso La Marmora, il quale colla sua Lettera Politica agli elettori di Biella pubblicata nella Gazzetta di Firenze il 29 gennaio 1868, asseriva che le ore di questa sommossa, se fosse riuscita, avrebbero fatto inorridire il mondo civile. E a questo proposito dichiarava, come avesse deplorato e deplorasse vivamente i fatti che si erano compiti riguardo lo Stato Pontificio con grande detrimento del paese, cioè dell'Unità Nazionale; e nel caso di una rivoluzione in Roma soggiungeva: - “Non è forse a temere di una lotta sanguinosa, che potrebbe terminare con qualche orrenda catastrofe e che è interesse di tutti e massime dell'Italia di evitare?”
Queste preoccupazioni erano divise anche da taluni del partito liberale al Governo, i quali conoscevano i terribili segreti della congiura. Benchè si desiderasse un'insurrezione, non si voleva un eccidio. Fra gli stessi settarii ve n'erano alcuni inorriditi di ciò che doveva succedere, i quali sebbene nascostamente per l'audacia dei partiti estremi, volevano incolume Roma senza incorrere nelle loro vendette.
Dopo le feste del Centenario di S. Pietro, quando incominciarono ad apparire i primi segni dei moti rivoluzionarii, Don Bosco n'ebbe immensa pena e pel suo affetto verso il Pontefice e l'Eterna Città, sentiva vivissimo desiderio di potere in qualche modo da loro stornare i pericoli imminenti.
Ed ecco, mentre egli predicava a Trofarello il primo corso d'esercizi spirituali, fra le altre lettere a lui dirette un giorno il postino ne portò una non affrancata, che passava il peso ordinario. Bisognava pagar la tassa e la sovratassa e quindi pensavasi di rifiutarla, quando parve meglio di rimettere anche quella a D. Bosco. D. Bosco l'ebbe e l'aperse. Era un foglio di carta grossa da impannate, in cui era esposto minutamente [970] il piano dei gravi disastri preparati a Roma dalla congiura. Non era sottoscritto, ma gli si diceva di servirsi pure di quelle manifestazioni come credesse bene, ed anche di mandarle al Papa.
Chi era lo scrivente? Nol sappiamo! Il Venerabile lesse quel foglio e inorridì rilevandone subito la gravità e i pericoli che sovrastavano a tanti suoi amici. Dopo averlo fatto copiare da persona fidata, lo distrusse; e preavvisato un suo amico di Roma gli mandò quella copia. Questi ne fece una seconda copia, e, stracciata la prima, la fece pervenire al Cardinale Antonelli e al Pontefice. Altre lettere anonime, con notizie precise, esattissime, giunsero al Servo di Dio, il quale le trasmise con prudenti precauzioni.
Mons. Berardi, per cagione del suo ufficio, avuto sentore di tale carteggio, desiderò che a lui direttamente venissero consegnati que' dispacci. Fu contentato, ed egli in gran segreto comunicavali al Governo Papale: servizio importantissimo, che gli affrettò la porpora. Il Ministro della Guerra e il Direttore della Polizia aspettavano da Monsignore giorno per giorno, con vive ansietà, nuove notificazioni; ed egli il1°' ottobre faceva scrivere a Torino:
“Roma e noi siamo tranquilli, benchè in guerra viva, giacchè mentre scrivo si combatte coi Garibaldini. Abbiamo notizie di vittorie nostre con morti e feriti e furti e altro accompagnamento solito di bande armate. Ma si sta tranquilli e fidenti come se nulla fosse, come se in Roma fosse ogni assicurazione. Il fatto è questo. La ragione del fatto a vero dire non la so, giacchè tutto è possibile. Ma si vive, come se fosse impossibile affatto ogni danno a Roma. Justus ex fide vivit; vogliamo sperare che sia questo il testo a proposito.
Le lettere anonime che arrivano in doppia copia, cioè in copia, sono ottime e preziose e desidero che continuino a venire”.
Oltre il suddetto anonimo vi era qualcun altro del [971] partito liberale, alto locato, il quale, per incarico avuto, compieva un simile ufficio.
D. Michele Rua lasciò scritto: “Io stesso per parte di D. Bosco ho avvisato parecchie volte il Santo Padre per mezzo de' suoi alti funzionarii delle congiure che si ordivano ora in una parte ed ora in un'altra, della stessa città di Roma, e fuori di essa. Senz'essere perfettamente sicuro della sorgente a cui D. Bosco attingeva tali notizie, parmi poter dire che un personaggio del Governo molto addentro nelle segrete cose della rivoluzione, veniva a quando a quando a colloquio confidenziale con D. Bosco e gli manifestava quanto si andava disponendo, espressamente perchè si prevenissero le disgrazie spaventose che minacciavano Roma. E D. Bosco con tutta premura, ora per sè, ora per mezzo mio o di altri, compieva la parte sua.”
La cosa più urgente era impedire i lavori alle mine, una delle quali si preparava sotto il Collegio Romano posto nel centro della città. A Torino si seppe e si avvertì con dispacci in cifra; ma a Roma non si volle credere. Allora si fece pervenire al Card. Antonelli una lettera anonima che descriveva nettamente la cosa; e finalmente si ordinò una diligente visita e si trovò che i settarii avevano scavato un cunicolo che traversando il Corso doveva mettere nei sotterranei del Collegio Romano in mezzo al cortile.
La Polizia intanto e i magistrati e il Comando di piazza vigilavano, e dall'II al 21 ottobre, avute sicure indicazioni, sorprendevano e sequestravano in Roma e nelle vicinanze grossi depositi di armi, buon numero di bombe orsiniane, copioso fornimento di munizioni e di vettovaglie. E quasi tutti i giorni cadevano nelle loro mani masnadieri plebei e con essi taluno dei capi, con scritture e con carte topografiche nelle quali in colore eran segnate le mine, e con somme cospicue di danaro. In via Crescenzi la gendarmeria fu a un pelo di avviluppare in una sola retata tutta la congrega principale de' [972] caporioni, sicchè i congiurati furono costretti a tramutarsi di giorno in giorno in nuovi ricoveri.
Garibaldi, non impedito dalla simulata vigilanza delle navi italiane, il 15 ottobre lasciava Caprera, e il 20 appariva in Firenze ove era accolto con feste. Alla notizia di questo ritorno si capì da tutti esser pronta una nuova spedizione negli Stati Pontifici e che le assicurazioni in contrario non erano veraci. Per questo la Francia si commosse talmente, che Napoleone, troncati gli indugi, comandò l'imbarco di due divisioni destinate alla difesa di Roma. Rattazzi, benchè avesse dato le dimissioni di Ministro, volendo prevenire l'arrivo dei Francesi e imbarazzare l'Imperatore con un fatto compiuto, mandò ordine al deputato Cucchi di insorgere ad ogni costo e subito; e promise a Garibaldi che dove riuscisse a trarre sessanta fucilate sopra Roma, l'esercito regio avrebbe francata la frontiera in suo aiuto.
Il Cucchi affrettava, come meglio potè, gli ultimi preparativi e fra le varie disposizioni ordinava di apprestare le mine sotto le caserme Serristori e Cimarra, di avvisare i traditori in Castel S. Angelo di dar fuoco alla polveriera ad un segno convenuto; di voltar le chiavi dei condotti maestri del gaz affinchè la città rimanesse al buio, e, ad accrescere la confusione, di vestire da Zuavi un certo numero di Garibaldini.
Per una possibile ritirata e per prolungare la resistenza, aveva fatto assegno di convertire in ridotti di rivoltosi diverse regioni della città dalle vie tortuose, con intrigo di vicoli e di chiassuoli, fra dieci o dodici isolati che si prestavano ad essere ostruiti con barricate.
Il 19 ottobre il Ministro della guerra era avvisato che i moti rivoluzionarii stavano per scoppiare. Il 21 si venne a sapere di un carico d'armi depositato a Villa Matteini, e fu sequestrato poche ore prima che le carabine fossero distribuite ai congiurati; sull'alba del 22 si ebbe certissima conoscenza della sommossa che doveva aver luogo alla sera. [973] Il Gen. Kanzler aveva dato ordini per la difesa: non aveva che tremila uomini, ma faceva assegnamento sulla fedeltà del popolo romano e sulla rapidità delle sue mosse per impedire le barricate. Aveva ripartito gli alloggiamenti in tutta la superficie di Roma, in guisa che ai posti strategici stazionassero i manipoli più forti. In quel giorno tutte le truppe furono ritenute in quartiere pronte a marciare. Eziandio il Cucchi era pronto, ma per fortuna la mina sotto la Cimarra non potè essere preparata e un operaio arrestato palesò l'imminente rottura dei condotti del Gazometro.
Alle 7 di sera i congiurati collocavano due barili di polvere sotto la caserma Serristori. Dato il fuoco, con orribile fragore saltò in aria un angolo dell'edifizio rimanendo schiacciati sotto le rovine ventisette Zuavi; era questo il segnale della sommossa. Tosto sbucarono a centinaia i congiurati, ma ovunque si avanzassero incontrarono grosse pattuglie di difensori. Vi furono scontri in quasi tutte le regioni della città, con morti da ambe le parti. Un'orda di prezzolati assaliva il corpo di guardia in Campidoglio e un'altra s'impadroniva dì porta S. Paolo; ma due riparti di truppa, volati al soccorso, le ponevano in fuga. Il Cucchi con ansia febbrile aspettava che scoppiasse la polveriera di Castel Sant'Angelo, ma invano perchè i traditori erano stati in tempo assicurati alla giustizia. In meno dì un'ora l'insurrezione fu repressa. Vennero arrestati più di cento sediziosi, mentre tutta la città, indignata e atterrita, applaudiva alle truppe. Così Roma era rimasta incolume.
“E Pio IX, depose D. Rua, era pieno di ammirazione per D. Bosco, che fu la sua salvezza in que' giorni”.
RITIRIAMO lo sguardo da spettacoli così contristanti e rivolgiamolo alla figura mite e soave di Don Bosco. Il suo cuore è pieno di santo conforto. In questi giorni ha ricevuto notizia di due guarigioni straordinarie ottenute per intercessione di Savio Domenico. Savio è il suo santo famigliare, il protettore domestico dell'Oratorio, il modello che propone continuamente ai suoi alunni.
Fra questi ve ne sono alcuni veramente buoni da lui accettati gratuitamente, perchè raccomandati con affettuose lettere da alunni loro compaesani che erano in vacanze. Mirabile confidenza nel buon padre, la quale si trasfondeva negli altri compagni! S'innamoravano della sua amabilità, dell'affetto [975] pronto a qualunque sacrifizio, che loro portava, e della sua umiltà che lo faceva riguardare come uno di loro. L'umiltà di Don Bosco aveva un carattere tutto proprio, semplice, dignitoso, sciolto nelle sue espressioni, perchè il suo fine era sempre il bene dei giovanetti.
Due esimi sacerdoti, antichi allievi, così scrissero della sua umiltà.
D. Ascanio Savio, professore di morale, testifica: “Se talvolta udii parlare D. Bosco del modo tenuto da lui negli anni de' suoi primi studii, non era per altro che per animare i suoi giovani a non perdere tempo e a farli intraprendenti nell'operare il bene. Ma ciò dicendo egli attribuiva sempre tutto il merito della sua riuscita alla divina Provvidenza e niente a se stesso. Ricordo che una volta mi disse: - Se il Signore non mi incamminava per questa via (cioè quella degli Oratorii) io temo che sarei stato in gran pericolo di prendere una via storta, o di venire un liberale”. Era la frase un po' variata di S. Filippo Neri: - Se il Signore non mi tiene la mano sulla testa, io mi faccio turco!
Il Can. Ballesio, parroco di Moncalieri, aggiunge:
“L'umiltà profonda che aveva nell'animo si rilevava nelle sue parole, nei suoi atti ed in tutta la sua persona, fino a dargli quell'impronta di bonomia, per cui a prima vista chi non lo conosceva ancora, rimaneva stupito di vedere sotto sì modeste e semplici parvenze Don Bosco, quell'uomo che riempiva del suo nome l'uno e l'altro mondo.
Egli riconosceva sinceramente da Dio tutto quello che era in lui di buono nell'anima e nel corpo, tenendosi obbligato di farne il miglior uso a sua gloria ed a vantaggio del prossimo. In tutte le sue opere, e specialmente nelle più gravi, dopo d'avere consultato il Signore e la sua volontà, pregava e raccomandava a noi che pregassimo. Se non gli riuscivano si umilia in cuor suo e si rassegnava alle disposizioni e permissioni di Dio. E se gli riuscivano, ne dava a Lui, alla Beata [976] Vergine, ai Santi che erano stati invocati, lodi e merito, ringraziando egli il Signore e animando noi a fare lo stesso.
Da questa grande purità d'intenzione delle sue opere e sincera umiltà proveniva quella sua calma inalterabile, il suo coraggio, la sua invitta costanza. Il Servo di Dio aveva un'abitudine che a prima vista sembra poco confacentesi all'umiltà cristiana, ed era quel suo raccontare in persona terza, dicendo D. Bosco ha fatto, D. Bosco ha detto, le cose che egli tentava o faceva per l'Oratorio e per le intraprese delle sue case. Ma per chi lo conosceva e poneva mente al Servo di Dio, al suo aspetto, alle sue espressioni, facilmente appariva che il suo raccontare era quello di un padre, di un amico, che narra le cose sue prospere ed avverse per edificazione ed istruzione e conforto de' cari suoi che prendevano parte tanto viva alle sue gioie ed ai suoi dolori; ed anche per accondiscendere alla loro figliale, affettuosa e legittima curiosità, ed insieme ricompensarli in qualche modo delle loro preghiere e dell'interessamento che prendevano alle opere del Padre loro”.
Che questa virtù fosse eroica lo testificano quanti vissero con lui. Citiamo D. Rua: “Riceveva con grande umiltà i suggerimenti de' suoi allievi e prendeva in buona parte le loro osservazioni. Ricordo come avendolo assistito io una volta a dir messa, dopo mi permisi di fargli notare qualche inesattezza che mi parve aver osservato. Egli mi ringraziò e fin d'allora in poi tenne sempre presso di sè il libro delle rubriche della Santa Messa e leggevale di tratto in tratto”.
“Desiderava, nota D. Berto, ed accettava di buon animo le osservazioni e correzioni, persino dei più infimi suoi subalterni. Più volte disse a me stesso: - Desidererei che tu osservassi quanto àvvi in me di riprovevole e me lo facessi francamente notare. - Il che io feci più volte di cose minime e scevre da ogni più lieve colpa; ed egli tuttavia non solo le [977] prendeva in benevola considerazione, ma si mostrava riconoscente come di un benefizio ricevuto”.
Talvolta, udendo fare elogi di sue virtù e di sue opere, interrompeva il discorso e diceva:
- Non facciamo torto a Dio ed a Maria SS. Se quell'affare è riuscito così bene, se le nostre opere vanno prosperando, lo dobbiamo totalmente a Dio e alla nostra buona Madre. Noi commettiamo un atto d'ingratitudine, se attribuiamo a noi la buona riuscita di qualche intrapresa e ci rendiamo indegni dell'ajuto del Signore.
Altre volte diceva e noi pure lo udimmo più volte:
- Se il Signore avesse trovato uno strumento, più disadatto di me per le sue opere, purchè disposto ad abbandonarsi intieramente alla sua Divina Provvidenza, lo avrebbe scelto in vece mia, e sarebbe stato meglio servito di quello che lo sia da me, ed avrebbe operato cose ancor più grandi di queste. Io colle mie forze, se il Signore non mi aiutava, sarei stato un povero cappellano di montagna.
Anche negli ultimi anni era udito ripetere:
- Quanti prodigi ha operato il Signore in mezzo a noi! ma quante meraviglie di più Egli avrebbe compiuto, se D. Bosco avesse avuto più fede. - E gli si riempivano gli occhi di lagrime.
Benchè il suo nome fosse venuto così celebre, consideravasi sempre come un servo inutile: e qualche volta esclamava:
- Ma chi è Don Bosco da essere così acclamato?
E persuaso di essere un povero peccatore, sospirando, diceva:
- Non vorrei che alcuno credendomi ciò che non sono, non pregasse poi per me dopo la mia morte e mi lasciasse a penare in purgatorio!
Testifica ancora D. Rua: “Se da alcuni attribuivasi a lui l'effetto meraviglioso di sue benedizioni o preghiere, egli [978] rimproveravali asserendo che solo a Maria SS., od al santo a cui si erano raccomandati, si doveva attribuire l'effetto ottenuto. L'udii io stesso talvolta raccomandarsi al Signore affinchè non lo mettesse in tali imbarazzi, di essere cioè riputato autore di tali grazie, e volentieri raccontava certi fatti in cui si era ottenuto un risultato contrario ai desiderii di chi implorava la sua benedizione.
La sua stima era tutta per gli altri; e lodavali molto volentieri; e al confronto si stimava come principiante nella vita spirituale. Appariva pure la sua umiltà dalle lodi che con tanta espansione attribuiva ai varii ordini religiosi. Parlando con noi ci esaltava i meriti e la bontà della Compagnia di Gesù, i servigi resi ad innumerevoli giovani dai Fratelli delle Scuole Cristiane, la semplicità e lo zelo de' Padri Cappuccini, e così via di seguito; e ogni qualvolta gli si presentava l'occasione, magnificava quanto meglio poteva le meraviglie apostoliche di ciascun'Ordine, ricordando i tanti Santi, dati alla Chiesa.”
D. Bonetti scrisse: - “Moltissime volte D. Bosco quando per qualche suo detto, o scritto, o fatto, riceveva da taluni osservazioni o critiche, o dettate dall'errore o da qualche mal celata passione, se non trattavasi di verità dottrinali, o del danno di un terzo, egli piegavasi con tutta prontezza e soavità nell'ingiusto rimbrotto o alla irragionevole osservazione che gli veniva fatta.
Se poi la verità e la carità obbligavano a rispondere e a disputare, egli facevalo con parole così benigne che, quasi sempre, estinguevano o calmavano il malo animo altrui e portavano la luce nelle tenebre. Non di rado assalito con villanie ed ingiurie, a voce e per iscritto, da chi erroneamente credevasi da lui offeso, o da chi era pagato per dirne o scriverne male, D. Bosco sopportava l'affronto con sentimento di grande umiltà; quindi, o rispondeva con tutta calma e dolcezza, o taceva affatto lasciando la sua causa nelle mani del Signore. [979]
Se poi le ingiurie venivangli fatte per qualche bene che operava alla maggior gloria di Dio e alla salute delle anime, egli non tralasciava punto l'opera buona, ma la proseguiva anche a costo di ricevere insulti e villanie maggiori, perchè non badava mai al proprio onore”.
E fu sempre eguale a se stesso. Attestò di lui D. Turchi: “Fu sempre umile e semplice senza smentirsi mai, quale lo conobbi nel 1851”.
E D. Piano ripeteva: “Posso attestare che perseverò mai sempre nell'esercizio di ogni virtù e non ho mai rilevato alcuna cosa che potesse menomamente offuscare l'idea di santità che io mi era formato di lui”. Lo stesso aggiunse: “Mi trovavo un giorno al Convento dei Cappuccini per una solennità a cui era presente Mons. Rosaz, Vescovo di Susa. Parlandosi di D. Bosco e delle sue opere, Monsignore uscì in queste parole: - Bisogna ben dire che D. Bosco possegga la virtù dell'umiltà in grado straordinario, se Dio volle servirsi di lui per operare cose portentose”.
E D. Francesco Dalmazzo: “Mons. Galletti, Vescovo di Alba, predicando un giorno al Cottolengo, ed altra volta gli esercizii al Clero, disse dal pergamo: - Andate nella stanza di D. Bosco e là sentirete proprio il profumo della santità”.
Dato questo nuovo tocco alla cara figura di D. Bosco, che vorremmo scolpire in queste pagine, proseguiamo il racconto.
Stava per cominciare l'anno scolastico 1867-68. In agosto tre chierici avevano conseguito in Pinerolo la patente da maestri per le scuole elementari e in settembre tre altri il diploma di professore delle tre prime classi ginnasiali nella R. Università di Torino, ed ora in ottobre quattro ottenevano in Ivrea le patenti per le classi elementari superiori. D. Bosco nell'assegnar loro e ad altri l'ufficio o la classe alla quale dovevano attendere, dando loro saggi avvisi insisteva sulla reciproca carità che non voleva fosse mai in nessun modo [980] turbata. Ammetteva che si facessero calme discussioni, ma non amava le controversie e le questioni per motivi letterarii e neppure in materia filosofica o teologica, perchè si accorgeva che ordinariamente nel calore della disputa si veniva meno alla carità.
Raccomandava poi caldamente ai Superiori, ai maestri, e ai confessori, che pregassero ogni giorno per gli alunni, per gli scolari, per i penitenti, dimostrando loro l'importanza di ottenere da Dio gli aiuti necessarii al buon riuscimento della loro missione: e se accadevano disordini in qualche collegio o in qualche scuola, se certi giovani riottosi non si acconciavano alla disciplina, soleva domandare a chi si lamentava:
- Preghi tu per i tuoi giovani?
Incominciate le scuole, l'Oratorio e i Collegi di Mirabello e di Lanzo riboccavano di alunni, come pure aveva un buon numero di convittori il maestro Miglietti nella casa della Giardiniera, della quale D. Bosco pagava l'affitto.
Degli ultimi giorni di ottobre abbiamo alcune sue lettere. Alla Contessa Callori scriveva, riconoscente, di una passeggiata che i giovani di Mirabello fecero fino alla sua villeggiatura di Vignale; e del Collegio Valsalice, fondato da un'associazione di sacerdoti torinesi il 19 ottobre 1863 in un'amena villa sul colle di Torino, per allevare i giovani delle classi agiate e di civile condizione alla religione, alle scienze ed alle carriere civili, militari e commerciali.
Le madri devono comandare; e pregare i loro figli. Perciò Ella doveva dire: Don Bosco vada, venga, stia, e D. Bosco anche un po' dolente avrebbe ubbidito. Ciò sia di regola per altra volta. - Dunque ho fatto nella mia pochezza la preghiera che mi domandava e credo buona la risoluzione di mandar Emanuele a Bressannone (Brixen). Valsalice è sempre un collegio che gode un buon nome ed io ci ho tutta la confidenza. Perciò il bimbo può andarvi con tranquillità.
I giovanetti di Mirabello furono pieni di meraviglia pel modo alla sua famiglia ordinario, con cui furono trattati. Lunghe lettere a me ed [981] ai loro parenti ecc. Tutto a maggior gloria di Dio. Io ho a tutti raccomandato che facessero tutti per Lei una volta la S. Comunione.
Deo gratias per quanto mi scrive del Prevosto di Lu. D. Spagnolini fu contentissimo della sua dimora a Vignale; ora ha fatto dimanda di andare ne' Gesuiti; ma il suo Vescovo vuole mandarlo ad una parrocchia.
Sono stati ricevuti f. 500 che Ella mandò pel libro: stia tranquilla che avanti che sia compiuta l'unità italiana (ciò sarà presto!) il libro sarà ultimato. La pazienza è una virtù, e le madri la devono sempre esercitare verso a certi figli …Il lavoro però del libro non è interrotto;
ma vien grosso più che non si calcolava.
Avrei veramente bisogno che il sig. Cesare mi potesse dare la traduzione di queste vacanze, giacchè ci sarebbe opportunità di metterla tosto alle stampe. Faccia al medesimo per me una preghiera per animarlo all'opera buona.
Scriverò al giovane Ruschino la risposta di sua lettera.
Dio ci benedica tutti e la Santa Vergine Maria protegga la Chiesa e benedica ed assista il suo Capo. Amen.
Un altra lettera indirizzata a Mons. Formica, Vescovo di Cuneo, ci ricorda le molte altre colle quali trattava dell'accettazione di giovani e delle cose che li riguardavano.
Sarà un po' difficile che il giovanetto Morroni si abitui alla disciplina di questa casa trovandosi ai 17 anni; tuttavia facciamo una prova. Si porti solamente un po' di corredo, come è qui notato, e venga dopo i Santi.
Il figliuolo della vedova Serra Rosa, può eziandio essere ricevuto, se può uniformarsi al programma che le unisco. Perchè la Casa essendo piena, dobbiamo mandare lui od un altro in sua vece al luogo ivi indicato.
Mi è grata l'occasione per augurarle ogni celeste benedizione, e mentre raccomando me e li poveri giovanetti di questa casa alla carità delle sante sue preghiere, ho l'alto onore di potermi professare
Ma le più care espressioni di affetto le manifestava ai suoi ex-allievi. Scriveva a Giovanni Turco di Montafia.
La tua lettera mi ha fatto molto piacere e mi riuscì tanto più gradita in quanto che tu mi parli dell'antica confidenza, che per D. Bosco è la cosa più cara del mondo. Posta la tua lettera sotto ad un solo punto di veduta, io ringrazio il Signore che in mezzo agli anni più difficili della tua vita, ti abbia aiutato a conservare i sani principi di religione. Si può dire che l'età calamitosa è passata; più progredirai negli anni, più svaniranno le illusioni che l'uomo si fa del mondo e si confermerà vie più in quello che mi dicesti, che solamente la religione è stabile e può in ogni tempo e in tutte le età rendere l'uomo felice nel tempo e nell'eternità.
Fatto così un po' di filosofia, ti consiglio a continuare ad occuparti nella professione di geometra in cui ti trovi, di praticare la religione, specialmente colla frequente confessione che per te è un vero balsamo, ma di adoperarti con tutti i mezzi possibili per assistere e consolare il tuo buon padre nella sua attuale vecchiaia, ecc., che, grazie a Dio, si può dire floridissima.
Pel passato ti ho sempre raccomandato al Signore nella S. Messa, e lo farò assai più volontieri ancora per l'avvenire, perchè me lo dimandi. Tu pregherai anche per me, non è vero?
Ho alcuni libri ameni da tradurre dal francese; me ne tradurresti qualcheduno? Sarebbero da stamparsi nelle Letture Cattoliche.
Avrò sempre una consolazione ogni volta che mi scriverai. Dio benedica te e tuo padre, e vi conservi ambedue ad multos annos con vita felice.
D. Francesia, D. Lazzero, Chiapale e molti altri tuoi amici ti salutano ed io ti sarò sempre nel Signore.
Lo stesso affettuoso interesse dimostrava ad un altro ex-allievo, sacerdote e dottore in belle lettere, che aveva fatto nelle vacanze un viaggio nel Veneto, e di cui avevano male informato il Venerabile.
Non ho potuto rispondere per tempo alla tua lettera; mi fa piacere il disinganno, chè tu non hai imitato il tuo compagno abbigliandoti in borghese. Così mi scrisse anche D. Apollonio. [983] Ho ricevuto l'oblazione che fai all'Oratorio e te ne ringrazio.
Intanto fatti animo. Praebe te ipsum exemplum bonorum operum. La meditazione e la visita al SS. Sacramento saranno per te due salvaguardie potentissime: approfittane.
Dio ti benedica, prega per me che ti sono,
Prendeva anche la penna in favore di due chierici la cui posizione in Seminario si era fatta difficile e nello stesso tempo dichiarava al Rettore Canonico Vogliotti di avere eseguiti, per parte sua, gli ordini dell'Arcivescovo.
Per secondare le intenzioni di S. E. Rev.ma io era appunto passato più volte presso della medesima Eccellenza Sua per parlare del ch. Cavallero; ma non essendomi riuscito, ho scritto in proposito una lettera di cui non ho potuto avere alcun riscontro. Dietro alla nota Circolare mi pensava che tali affari fossero da lui trattati direttamente. In rapporto poi al Cavallero le dirò che questi col consiglio, mi dice, del medesimo Direttore spirituale del Seminario, intendeva di deporre l'abito clericale sul principio delle vacanze.
Io l'ho consigliato a sospendere e lo ritenni meco in questo tempo. Ora non è ancora totalmente deciso pel sì o pel no. Se non àvvi difficoltà io lo terrei quest'anno meco in prova; se poi Ella mi dice divertente, io mi rimetto agli ordini di Lei, ma temo forse che si risolva ad effettuare il progetto di svestizione. Il chierico è vivacissimo, ma di moralità molto buono. La sua spina a continuare è il consiglio del Direttore spirituale suddetto.
Il Can. Ortalda mandò qui il ch. Ortalda dicendo che sarebbe poi egli stesso venuto a parlarne; non mi fu addotta altra ragione, che non poteva più andare in Seminario, perchè non poteva più essere ricevuto. Se mi usasse la cortesia di dirmi una parola per mia norma, l'avrei come vero favore. Per norma di Lei le dico che la lettera circolare di Mons. Vescovo fu letteralmente da me eseguita e della diocesi di Torino non ci sono chierici nè qui, nè a Lanzo, nè a Mirabello, ad eccezione di quelli che intendono di far parte della Società di S. Francesco di Sales, per cui la prelodata Eccellenza sua ha fatto una eccezione nella circolare a me indirizzata.
Mi farà sempre un grande benefizio quando mi dirà qualche cosa [984] che Ella giudicasse bene per la maggior gloria di Dio, ed augurandole dal cielo sanità e benedizioni mi raccomando alla carità delle sante sue preghiere e mi professo con pienezza di stima,
Di V. S. Ill.ma e M. Reverenda,
Altre lettere aveva dovuto e doveva scrivere per una lite, che da tempo gli procurava noie e disturbi non pochi. La sostenne perchè sacra è la volontà di un morente, e perchè non poteva abbandonare un sussidio che non apparteneva a lui, ma ai suoi poveri giovani. Litigò forzato, e cedette quando vide essere impossibile la vittoria del suo diritto. Quante volte dovette portare una simile croce con disturbi, spese affliggenti e gravi, e sottostare ad una prepotenza ingiusta! Veniamo al fatto.
Il teologo Vincenzo Fissore, Parroco di Scalenghe, morto nel 1866, così ricordava D. Bosco nel suo testamento:
“Art. 9 - Lego al Sac. Bosco Giovanni, fu Francesco, la mia vigna colle altre proprietà di mobili ed immobili che possedo a S. Mauro Torinese con obbligo al medesimo di dare annualmente la somma di franchi cinquanta al parroco pro tempore di Scalenghe, da erogarsi ai poveri infermi di questa parrocchia”.
Quest'articolo era chiarissimo, eppure gli eredi incominciarono una questione che durò molto tempo. Il 12 settembre proponevano a D. Bosco un accomodamento in questi termini:
“Gli eredi sono disposti a cedere dal giorno d'oggi i loro diritti sulla predetta vigna, con patto che ella dia loro la somma di lire quattromila da pagarsi nel termine di due mesi ed adempia nello stesso tempo agli obblighi che le furono imposti dal fu Teologo Vincenzo Fissore.
D. Bosco rispondeva non essere accettabile la proposta [985] per l'ultima condizione e soggiungeva: o si dimandi sentenza legale, oppure gli eredi vendano e diano quel che vogliono.
La questione era perciò deferita ai tribunali e nella comparsa del 4 aprile 1867, e in quella del 22 maggio dello stesso anno, sull'articolo di quel legato gli eredi facevano tante osservazioni e tante insinuazioni e provocavano le più subdole interrogazioni da far supporre D. Bosco, tutt'altro da quel che era D. Bosco. Dal 1850 in poi fu sempre questa l'arte per rendere nulla la pia volontà dei testatori. La lite andò perduta.
Ma ecco in quali termini Don Bosco rispondeva contro gli eredi nel corso della vertenza.
Il Sac. Bosco considerando che i sigg. oppositori non hanno risposto ad alcuna delle fatte osservazioni se non in modo evasivo; rimettendoli intieramente a quanto fu detto nella comparsa precedente: professandosi di pieno accordo intorno all'onestà ed assennatezza del T. Fissore Vincenzo testatore, ritorna a queste conclusioni:
1° Che non ha mai dimandato niente nè dimanda legalmente cosa ad alcuno, poichè la sua fiducia non comporta discussioni in faccia alle autorità legali.
2° Domanda soltanto che si facciano cessare i prolungati disturbi che gli eredi gli cagionano, mentre loro non ha mai fatto richiesta di sorta, essendosi sempre e costantemente rimesso alla loro coscienza.
3° Che sia fatto indenne circa le spese che ingiustamente se gli fanno sostenere; perciocchè non sa darsi ragione come gli eredi, dopo averlo lusingato con promesse, dopo essere andati al possesso dì ogni cosa, senza che il Sac. Bosco abbia mai fatto opposizione, ora lo vogliano ancora molestare e disturbare dalle gravi sue occupazioni pel solo gusto d'interrogarlo od invitarlo a rispondere intorno a cose, cui pei suoi doveri non può rispondere.
Di questi giorni una famiglia di buoni cristiani, desiderando acquistare la vigna di Don Fissore, ne scriveva a Don Bosco, riconoscendo in lui il diritto di proprietà. Egli rispondeva:
La Villa di S. Mauro fu lasciata a me colla fiducia di farne uso particolare secondo l’intenzione del fu teologo Fissore, [986] di Scalenghe; ma gli eredi per mancanza d'una formalità legale intaccano la validità del testamento.
La lite è vertente; io non ho mai richiesto nulla, perchè a me ne viene niente; ma essi mi fanno litigare senza perchè. Dal canto mio intendo di' lasciar tuo padre affatto libero per la coscienza, badi soltanto per la legalità. Ti dico questo, perciocchè sembra che gli eredi badino più alla legalità che alla coscienza.
In passato e più ancora adesso che mel dici, raccomanderà tuo padre e tutta la tua famiglia al Signore: come pure farò una debole preghiera a S. Giuseppe affinchè ottenga provvidenza per gli Artigianelli e per questa nostra Casa che pure versa in gravi strettezze. Dio è un buon Padre, speriamo in lui.
La Santa Vergine ci benedica e ci conservi tutti per la vita del cielo. - Amen.
E le sorti di Roma? Don Bosco aveva fatto scrivere lettere incoraggianti ai suoi amici e benefattori. Ognuno temeva e sembrava che non vi fosse più quasi speranza d'impedire che Roma fosse tolta al Papa. Quindi lettere a D. Bosco e al cav. Oreglia, che non tutte però giungevano a destinazione. Una di queste diceva:
I momenti sono gravi, dirò anzi supremi, per cui tanto più forte sia il collegamento della nostra preghiera, e con quest'arma, con questo ricorso, difendiamo la Chiesa, la Religione, il Papato, mentre altri lo difendono colla spada. Sia associazione di mezzi, di combattimento, di difesa e pugnando vinces, col combattimento si trionferà. La sua lettera, le sue espressioni ed esortazioni sono state assai valutate, come giusto mezzo a prevenire e riparare mali maggiori. Noi stiamo con tutta calma e in ottima salute, aspettando gli avvenimenti, [988] che non potranno non riuscire a trionfo della Chiesa. Di Roma, esempio di dignitoso contegno, di ossequio, di affetto, può Ella apprendere lo stato dall'Unità Cattolica, bene informata dai suoi corrispondenti. Il Santo Padre è tranquillo, sereno, e ciò inspira a tutti conforto, tutti rianima e fortifica e sarà sempre con noi, per cui restiamo sotto la sua ombra nella Rocca del Vaticano. Non è vero? Se ella proseguirà ad essere l'interprete dei pensieri di D. Bosco, l'espositore delle sue parole, farà un vero regalo .....
Se dovessero giornalmente raccogliersi in un giornale tutte le notizie che circolano, sarebbe da formarsi un volume; tante e tali sono le contraddizioni, fabbricate da un'eccessiva suscettibilità promossa dalle attuali contingenze, la cui probabilità di esistenza spira nel nascere, effetto d'immaginazione, di aspirazioni, di desiderii .....
SCIPIONE CONESTABILE DELLA STAFFA.
Il Venerabile ne'primi giorni del mese aveva detto riguardo agli affari di Roma una parola degna di nota. Una sera che si discorreva della guerra e che qualcuno esprimeva timori pei mali soprastanti a Roma, egli, con aria ridente e sicura, interrompendo disse: - Ebbene, se le occupazioni mel permettessero, vorrei recarmi a Roma e percorrendole varie contrade della città vorrei gridare ad alta voce, che tutti i cittadini stiano tranquilli, che nulla accadrà di sinistro, che confidino solamente nella protezione della Vergine Maria e del resto non temano l'invasione. - Così scrive D. Rua nella cronaca.
E l'evento dimostrò quanto bene si apponesse D. Bosco.
Il 23 ottobre Garibaldi partiva da Firenze con un treno speciale verso Temi, e andato a Scandriglia pretendeva il comando di 12.000 combattenti, ammassati colà ed a Corese, a poche miglia da Monte Rotondo, distante da Roma 30 chilometri. Il 25 assaliva con tutto il suo esercito Monte Rotondo, difeso da soli 350 uomini che resistettero per 27 ore continue: e dopo d'essere stato respinto per ben quattro volte colla perdita di un migliaio di uomini tra morti e feriti, finalmente s'impadroniva del castello. I Pontifici, stanchi ed affamati, dovettero arrendersi, essendo stato appiccato il fuoco al palazzo che serviva di ultimo loro baluardo. [989] In Roma la rivoluzione era stata battuta, ma non disarmata. Il giorno 25, avendo il Cucchi notizia che Garibaldi era a Monte Rotondo, tenne per certo che nella notte sarebbe giunto sotto le mura di Roma. Quindi in quella sera tentò di rinnovare la sommossa per facilitare l'ingresso ai sopravvenienti. Tra gli occulti ridotti degli insorti, il precipuo e più sicuro era il lanificio di Giulio Aiani in Trastevere, composto di varii corpi di fabbrica. Qui era ammucchiato un grosso deposito di armi e di bombe. I caporioni facevano assegnamento su 500 uomini, la maggior parte stranieri. Nel lanificio s'intrapresero quindi, i preparativi per uscire armati a notte oscura allo scopo di assaltare le carceri politiche a S. Michele, piombare su qualche convento e suonare le campane a martello. Dopo il combattimento per le vie, se non fosse comparso Garibaldi, dovevano celarsi in casa Aiani, e quivi, se fossero assaliti, opporre forza alla forza aiutati da numerosi complici, pronti alla riscossa nelle case attorno.
Il Magistrato regionario, benchè sospettasse, non si risolveva ad ordinare una perquisizione armata nel lanificio; quando un biglietto anonimo pervenne alla Polizia centrale la mattina stessa del 25 ottobre. “La carta era scritta in carattere già noto per altri avvisi veridici, precisi, opportuni.” Così narra la Civiltà Cattolica del 1870, voi. IX. pag. 47.
Si ordinò pertanto ad un distaccamento di gendarmi e di zuavi di fare una perquisizione nel lanificio. Vi giunsero poco dopo il mezzogiorno, mentre si trovavano in quella casa settanta cospiratori, e in quel momento si incominciava la distribuzione delle armi. Sorpresi, opposero la più viva resistenza; ma dopo un'ora di fuoco i soldati presero d'assalto la fabbrica. I Garibaldini ebbero 16 morti e 39 prigionieri; gli altri riuscirono a fuggire; e dei Pontifici tre furono feriti. Varie piccole bande furon poi arrestate, e scoperti altri depositi d'armi; Francesco Cucchi riparò a Firenze.
Intanto le truppe italiane invadevano da più parti il Territorio [990] Pontificio, occupandone alcune grosse borgate, e convergevano verso Roma per prevenire colla loro entrata i disordini, inseparabili da una rivoluzione in una città, ove come si era calunniando gridato ai quattro venti, dovevano essere accumulati odii senza numero contro il Governo del Papa. Ma il fine principale era ben altro. I comandanti settarii marciavano risoluti di proclamare la repubblica mazziniana in Campidoglio. Il Ministro Menabrea affermava poi nel Parlamento Fiorentino di tenere in mano i documenti dimostrativi della trama.
Il giorno 27, a due ore dopo mezzodì, l'esercito di Garibaldi al grido di - Viva Garibaldi! Viva Mazzini! Viva la Repubblica! - scendeva da Monte Rotondo e muoveva alla conquista di Roma, anche a costo di opporsi ai Francesi. D. Bosco aveva predetto che la rivoluzione sarebbe giunta alle porte.
E il 28, a sera, la flotta francese giungeva nelle acque di Civitavecchia, quando Garibaldi era innanzi a Roma. La città era tranquilla, senza che apparisse nessun pericolo di sommosse. Il 30 l'avanguardia degli invasori era messa in fuga a ponte Nomentano, e in Roma entravano i primi battaglioni francesi. La notte seguente, mentre Garibaldi co' suoi si ritiravano a Monte Rotondo un drappello di Zuavi, scoperto l'ultimo covo dei congiurati, presso la caserma Serristori, lo assaliva. Accolti da una scarica di fucilate che uccise il loro Capitano e due soldati, presero il posto alla baionetta. Così spegnevasi l'ultima favilla dell'insurrezione.
La guerra finì a Mentana, contrafforte di Monte Rotondo. Il 3 novembre 4900 soldati, tra Pontifici e Francesi, battevano i Garibaldini e li volgevano in fuga. L'esercito italiano, aveva ordine di rientrare nelle frontiere.
Garibaldi, arrestato dai carabinieri italiani, fu condotto onoratamente alla Spezia, e di là a Caprera.
Noi qui, a titolo di curiosità, riferiamo una visione profetica [991] stampata l'anno 1862 nel libro intitolato, il Vaticinatore, edito in Torino dalla Tipografia Italiana di F. Martinengo e Comp, notando anche come qualche ecclesiastico propendesse a crederla di D. Bosco.
Così si legge in detto libro a pag. 28:
Visione avuta in Torino da un attempato ecclesiastico d'illuminata dottrina, consumato nella virtù e nelle fatiche del sacro ministero, amareggiato pensando alla ognor crescente irreligione ed immoralità.
Trovossi il 26 luglio andante anno (1862) il medesimo Religioso trasportato in ispirito, sopra di una grande piazza che sembravagli quella del Vaticano. In mezzo di essa sorgeva un monumento di marmo bianco, di figura quadrata oblunga; su di esso stava un effigie cui da principio non poteva ben discernere, ma che poscia conobbe rappresentare l'Immacolata Concezione di M. V.
Intorno a questo monumento dimenavansi moltissimi chiassosamente! Non v'era niuno che vestiva l'abito da prete o da religioso seco loro: costoro si davano la muta a vicenda, lasciandosi adirosi, senza mai poter convenire insieme, e sparivano non avendo altro prodotto che furioso rumore.
Alcuni pochi stavano mutoli contemplando da lungi quel simulacro ed atterriti di tanto in tanto guardavano alla lotta tremenda che attorno a quel monumento si agitava, senza mai poter recar danno al medesimo. E quando gli uni stanchi e confusi cedevano il luogo agli altri e non più vi rimanevano che alcuni pochi i quali sommessamente parevano intendersela, vide alzarsi, dietro la statua di M. V. SS. Immacolata un guerriero che sin allora era stato inerte ed accennava a tutti gli affanneggiatori di venire a sè. (Conobbe il visionario l'individuo che vien chiamato il Liberatore, ma non volle nominarlo). Allora la Beata Vergine, in su l'istante, tuttochè fosse di candido e freddo marmo, pure dal suo sembiante augusto, e colle tempia cinte da un diadema, raggiava una sovrumana maestà e la sua persona atteggiata con forme divine prendeva un contegno di reina vincente e proteggitrice. Ella stendeva la sua destra al Vaticano e pareva che questo si abbassasse sotto di Lei, e colla sinistra allontanando il guerriero che era sorto in piedi, questi si rappicciniva e ponevasi boccone dietro alla grande Vergine Nazzarena, immobile sul piano del largo piedistallo su cui stava sin dal principio della visione. Il cielo, il sole, l'aere presero come a sorridere dolcissimamente. Un mirabile silenzio regnò tosto ovunque. I tumultuosi sparvero. La città respirò la quiete. I buoni che costà erano alzavano le mani a Colei, la quale è il rifugio degli afflitti; e sebbene non parlassero vedevansi tutti compresi da uguale affetto ed ammirazione e, giulivi salutandola, si ritiravano dalla piazza. [992] La conclusione ci ricorda le parole dette da D. Bosco sul finire dell'anno precedente: - Non entreranno! - Questa promessa però riguardava solamente l'invasione del 1867, perchè era ben altro il suo convincimento pel tempo avvenire, come già abbiam visto e come vedremo meglio nel corso di queste Memorie.
Ma la battaglia di Mentana fu anche un mirabile trionfo della misericordia di Dio. I feriti Garibaldini trasportati a Roma furono tanti, che non bastando gli ospedali ad accoglierli tutti agiatamente, ne furono aperti altri dalla carità romana. In tutti si facevano abbondare, non chè il necessario, persino le delizie. È difficile che la fede si spenga totalmente in un cuore italiano: i feriti accettavano volentieri, baciavano e si mettevano al collo la medaglia e lo scapolare della Madonna. Assistiti da numerosi sacerdoti, diedero segni di verace penitenza; e que' che morivano giubilavano, sentendosi sgravati del peso delle loro colpe. Pio IX alcune volte li consolò colle sue visite paterne; e nobili signori si prestarono per turno, colla più religiosa carità, sì di giorno che di notte, a tutti i più umili ufficii delle infermerie, sicchè ne stupivano gli stessi nemici dal letto del loro dolore. Fra questi infermieri vi fu il salesiano Cav. Federico Oreglia di S. Stefano, arrivato da pochi giorni a Roma.
Il 14 novembre così scriveva a Torino il fratello di lui, Padre Giuseppe.
Federico fu meco a vedere le fortificazioni che continuano e si accrescono. Egli poi condusse me a visitare l'Ospedale Garibaldino... Qui i Francesi crescono ogni giorno e si crede che cresceranno ancora.
Non si crede che siano per partire …Ora Roma ritorna in pace. Ma avemmo tre o quattro giorni cattivi, quando i Garibaldini erano alle porte e i Francesi non venivano; e si credeva che venissero invece gli Italiani. Ora, Deo gratias, tutto è qui nella quiete.... Non dobbiamo sofferto nulla in proporzione del pericolo. Avemmo, però tutti i vetri rotti dallo scoppio della mina qui presso. Anche fuori di Roma i Gesuiti non ebbero da soffrire .....
NEGLI ultimi mesi dell'anno Don Bosco aveva stabilito di far qualche viaggio. Sul finir di ottobre era a Milano, ove stette poco tempo e non sappiamo quali affari trattasse. Nel ritorno passò per Casale, ove si fermò qualche ora per trattenersi col Conte e colla Contessa Callori. Di qui scriveva al Prefetto del piccolo Seminario di Mirabello:
Ho dato corso alla lettera che riguarda al Ch. Turco indirizzando il piego al Vescovo di Casale in Crema; dopo faremo come egli scriverà. [994] Mandami al più presso informazioni di quanto fu fatto per la ricchezza mobile coi dati necessari per fare la consegna a Torino. Ho prese informazioni e mi fu assicurato che la legge ci favorisce a fare la consegna di più istituti dove àvvi l'istituto principale. Potresti mandarmi una scheda segnata, che mi servirebbe di norma. Mi dirai anche il numero dei postulanti e il numero presuntivo di tutti, e ciò per norma se debbo indirizzare altri costà o altrove. Sono a Casale di passaggio: a momenti parto per Torino.
Dio ci benedica tutti e credimi tutto aff.mo in G. C.
Il 13 novembre ripartiva da Torino per Mirabello, per aiutare i giovani di quel collegio a celebrare degnamente la festa di S. Carlo, e il 16 era di nuovo a Torino.
Qui ebbe lettere di varie benefattrici della chiesa.
Da Roma la Principessa Maria Odescalchi il 15 novembre gli spediva una somma per concorrere al pagamento dell'altare di S. Pietro.
Da Firenze la Contessa Virginia de Cambray Digny, a proposito dell'incarico assunto di raccogliere tra le madri di Firenze e delle altre città d'Italia la somma di lire 6000 per un altare da dedicarsi a S. Anna nella Chiesa di Maria SS. Ausiliatrice, gli scriveva:
Le mando la somma di lire 660. Queste unite alle 1520, già spedite, farebbero ascendere le offerte raccolte in Firenze a lire 2180. Siamo purtroppo assai lontani dalla somma totale, ma io farò nuovi sforzi, e cercherò d'interporre altre persone onde raggiungere lo scopo prefisso…
I1 nuovo gravoso incarico che mio marito credè dovere assumere in momenti oltremodo critici per salvare il nostro povero paese da più gravi sventure, è stato ed è tuttora per me motivo di grandi timori ed apprensioni, ch'ella può bene immaginare senza ch'io mi fermi a fargliene minuta descrizione. Un solo pensiero mi conforta, ed è la fiducia nella Divina Misericordia, che spero vorrà tener conto della buona intenzione, e si degnerà inspirarlo e condurlo sulla retta via. Lo raccomando quanto più so e posso alle sue preghiere, e con esso raccomando ancora i miei due figli e la figlia.
Procurerò di trovare associati alle Letture Cattoliche, la cui [995] diffusione potrebbe portare tanti buoni effetti; intanto la ringrazio dell'istruzione sugli Abissi del S. Cuore di Gesù ch'ella si compiacque inviarmi: e ch'io procurerò di considerare giornalmente onde quel Cuore Divino si degni di ispirarmi e condurmi sulla via che conduce a Lui.
Il suo nobile consorte era stato eletto ministro delle Finanze il 27 ottobre di quell'anno e durava in carica fino al 14 dicembre 1869.
Il 18, prima di partire per Lanzo, il Servo di Dio indirizzava a Roma il seguente foglio al Cavaliere.
Ho ricevuto le sue lettere e ne ho avuto piacere, ma non ho potuto rispondere prima. In casa adunque va bene ogni cosa; sanità perfetta, appetito eccellente. Vennero oltre agli 800.
Nella nuova chiesa: statua della Madonna indorata; altar maggiore terminato e collocato; pavimento incominciato. La Madonna ci aiuta in modo efficace ogni giorno. Ma i tempi rendono le offerte così piccole, che noi ci troviamo in vere strettezze.
L'altare del sig. Conte Bentivoglio è a Genova; fu già disposto per la spedizione a Torino; appena fatta la renderò avvertita.
La signora Rosa Mercurelli scrive che accetta di fare la campana più piccola, cioè quella di fr. 1000 in onore di Maria Ausiliatrice. La vada a ringraziare e le dica che giovedì, giorno della Presentazione di Maria, i nostri giovanetti faranno la Comunione con preghiere speciali secondo la pia di lei intenzione. Dica alla medesima che noi metteremo sulla campana quello stemma o quel santo o quella santa che ella giudicherà.
Le unisco lettere per la Marchesa Villarios, principessa Odescalchi, conte Vimercati. Mi rincresce molto che questo nostro caro benefattore soffra maggiormente: preghiamo e faremo speciali preghiere. Vi sarebbe da provare una cosa, ma è troppo delicato e potrebbe non poco inquietarsi. Ella sa che quando andai a Roma il caro Conte era immobile e lo fu ancora per più giorni. Insisteva che gli dicessi quale cosa poteva fare: a tal fine si pregò per tre giorni, dopo cui fu proposto di pagare il rame occorso per la cupola della nuova chiesa. - Di buon grado, egli disse, metterò il cappello alla chiesa di Maria Ausiliatrice. - Da allora incominciò tale miglioramento, che tre giorni dopo passeggiava per sua camera e venne a farmi visita nella camera che la sua carità mi aveva offerta. Contento mandò subito tremila franchi: completò parecchie altre somme, quando da Roma inviava danaro a [996] Torino per pagare debiti di maggior urgenza. Credo che in tutto siano
cinquemila franchi; ve ne mancherebbero ancora diecimila a completare la somma di fr. 15 mila, come era stato inteso. Io ho detto qualche cosa in luglio, ma egli rispose che assolutamente non poteva. Forse farà ad altro tempo; ma crederei bene per lui essere generoso colla Madonna. Ma credo ciò lo possa di troppo inquietare.
Scriverò di nuovo presto. Ha parlato col Duca Salviati? E di Vigna Pia?
Se può ci mandi danari che ci troviamo nelle massime strettezze. Da casa nostra mille saluti a Lei e a tutti i nostri amici e benefattori, cui prego da Dio ogni bene. Amen.
A Lanzo D. Bosco fu accolto con entusiasmo dagli alunni, i quali lo aspettavano ansiosamente. Avendo sempre in mira di studiare e scoprire le vocazioni allo stato ecclesiastico o religioso, bene spesso a quei giovanetti, che gli sembravano fossero chiamati al divino servizio, indirizzava qualche parola misteriosa che richiedeva spiegazione; e questa ora la dava ora la faceva indovinare, oppure inviava quei tali da qualche Superiore perchè sciogliesse loro l'enigma. Una delle frasi più comuni era questa: - Lascia che ti tagli la testa!
Anche questa sembrava oscura, ma i giovani più esperti ne capivano il senso, che era: Dammi la tua volontà! Presta obbedienza ai miei consigli! Rimani con me per dedicarti alla salute dell'anima tua e di altre nella Pia Società!
Uno di questi alunni gli aveva scritto:
La penultima volta che venne a Lanzo fra le altre cose che mi disse, dissemi pur questa: mi scriverai una lettera. Ora dunque gliela scrivo sì per il desiderio che ne ho, e sì per adempiere la mia promessa.
Se si ricorda, quando venne a Lanzo le dissi più volte che mi tagliasse la testa; so il significato di queste parole e le raccomando un'altra volta che me la tagli; sì, io voglio mettermi sotto la sua protezione. [997] Intanto la ringrazio di avermi accettato in questo Collegio, la ringrazio del bene che fece e che fa continuamente per me, ed io spero che continuerà a farmene.
Addio, Padre carissimo; spero di vederlo ancora di quest'anno e di poterle parlare liberamente.
Sono il suo aff.mo figlio in G. C.
Questo giovane, come altri che avevano scritto a Don Bosco, aspettavano la risposta, e l'ebbero e consolante, e a suo tempo produsse il frutto desiderato.
Mentre D. Bosco visitava Lanzo ove, come notava Don Rua nella Cronaca, egualmente che a Mirabello, trovò ogni cosa bene avviata, D. Francesia confermava le notizie date da D. Bosco al Cav. Oreglia:
D. Bosco, arrivato venerdì da Mirabello, lunedì alle 7 del mattino partì pel collegio di Lanzo.
L'altar maggiore è al suo posto e fa veramente bellissima figura. Il pavimento progredisce con molta sollecitudine e pare debba riuscire bello assai. Quasi metà è già fatto. L'interno della chiesa è tutto colorito e la Madonna della cupola indorata. Giovedì, se il tempo lo permette, faremo un po' di festa e ci deve venire qualche Vescovo, se non il nostro Arcivescovo, a benedire la Madonna. Fu pure già posto il para fulmine per salvaguardia Se vedrà il sig. Conte Vimercati, che non manchi di fargli tanti e tanti saluti da parte nostra .....
Il 21 D. Bosco era nell'Oratorio per una bella funzione. La statua della Madonna, torreggiante sulla cupola, quando venne collocata al suo posto era del suo colore naturale, cioè di rame. Le dodici stelle formanti corona sopra il suo capo eran disposte in modo da poter essere illuminate con fiammelle a gaz. Nel piedestallo era stata posta l'iscrizione: Angela e Benedetto, coniugi Chirio, in ossequio a Maria Ausiliatrice FF.; a ricordare il nome dei benemeriti oblatori.
Ma il bronzeo colore della figura faceva sì che a qualche distanza divenisse appena visibile, e si pensò d'indorarla. Una pia persona, già per molti titoli benemerita, s'incaricò della spesa; e l'indoratore fu G. Soave, già alunno dell'Oratorio. [998] Essendo finiti anche gli altri lavori di fregio e di ornamento, D. Bosco curò che fosse benedetta con una delle più devote solennità. L'arcivescovo Mons. Riccardi, assistito da tre canonici della Metropolitana e da molti sacerdoti, si compiacque di venire egli stesso a compiere quella sacra funzione, che ebbe luogo parte nella chiesa nuova, e parte nella piccola chiesa di S. Francesco, ove, dopo breve discorso diretto a dimostrare l'uso antico delle immagini presso il popolo Ebreo e nella Chiesa primitiva, impartivasi la benedizione col Venerabile.
Solenne fu l'istante nel quale cadde il velario che copriva la statua. La banda istrumentale salita sul culmine della cupola attaccò le note di un inno maestoso in onor di Maria, alle quali si unirono centinaia di voci cantando: - Salve, o Vergine Divina, - salve, o fonte di pietà, - Tu sei Madre, sei Regina - dell'afflitta umanità.
E continuarono fino all'ultima strofa quella laude ad essi famigliare!
La statua risplendette luminosa ai raggi del sole: e sono ormai quarantacinque anni che a quanti la contemplano da vicino e da lontano par che dica a tutti: - “Io sono quassù, per accogliere le suppliche de' miei figli; per arricchire di grazie e di benedizioni quelli che mi amano. Ego in altissimis habito, ut ditem diligentes me et thesauros eorum repleam
Con l'accennata festa aveva ricevuto una conferma l'antico sogno di D. Bosco.
Intanto era giunto a Torino l'altare del Conte Bentivoglio spedito da Roma, e D. Angelo Savio il 25 novembre ne dava notizia al Cavaliere Oreglia.
Troverà in questo foglio la distinta nota delle spese fatte per l'altare. La somma è più grossa di quanto pensava (spedizione lire 430,65). Tutto è giunto senza guasti di sorta. Si prepara per metterlo a posto. [999] Si fanno i gradini della predella che mancano e la gran mensa. Il lavoro è lodato assai non solamente da quelli della casa, ma dagli stessi artisti, tra cui il cav. Gussone Albino Ha trovato ottima scelta di marmi, precisione e finitezza di lavoro. L'alabastro del contraltare è bellissimo. Gli specchi delle lesene dei fianchi e specialmente del tabernacolo sono un capo d'opera della natura e dell'arte... Dobbiamo essere molto grati a chi ci procurò quest'altare.
Nella casa tutto va bene, D. Bosco partì stamane per Milano. Riverisca quei bravi signori Vitelleschi .....
D. Bosco adunque andava a Milano e D. Rua nota nella Cronaca: -
“Si recò a Milano alli 25 di novembre e vi si fermò tre giorni, che fu un continuo ricevere visite di persone che desideravano consolazioni, consigli, sollievo, guarigioni da infermità spirituali e corporali; impiegando il resto del tempo nel visitare nelle proprie case quelli altri infermi che erano obbligati al letto e che lo desideravano. In tutti ravvivava la divozione verso la Vergine santissima Ausiliatrice dei Cristiani”.
Della chiesa e di D. Bosco scriveva pure al Cavaliere D. Francesia il 30 novembre.
Il terzo altare, forse prima che ella sia ritornata, sarà collocato. Della Casa le posso dare buone notizie, stiamo discretamente bene: qualche raffreddore e non più... Abbiamo fatta S. Cecilia, quieti come l'olio; gran musica in chiesa e fuori, ma senza teatro.
D. Bosco, secondo il solito, è fuori di Torino per la via di Milano. Pare che là maturino grandi affari perchè in poco tempo ci andò due volte. Malgrado codesta mancanza si lavora e assai per il Signore .....
Non appena tornato da Milano, il Venerabile pensava di recarsi a Cumiana per festeggiare l'onomastico del Cav. Zaverio Collegno il 3 dicembre. Nella Cappella della villeggiatura avrebbe celebrata la S. Messa e predicato le glorie [1000] dell'Apostolo delle Indie. Il suo arrivo era sospirato come quello del più caro fra gli amici, ed egli ne dava preavviso con un biglietto.
Lunedì (2) pel convoglio delle 12 meridiane parto, si Dominus dederit per Cumiana. Se c'è il solito omnibus, non occorre niente; se non ci fosse, pregherei per qualche legnetto. Andrei anche a piedi, ma è per guadagnar tempo:
Ogni benedizione a Lei e a tutta la famiglia e mi creda nel Signore
Ogni passo di D. Bosco era notificato agli amici di Roma. Il 3 dicembre D. Francesia scriveva al Cav. Oreglia:
Don Bosco non è in casa. Andò a fare S. Francesco Zaverio col Cav. Collegno fino a Cumiana... Qualche giorno fa, D. Rua ha fatto il conto di quanto aveva speso nel corso dell'anno. Per le sole mani del Prefetto passarono 200.000 lire, senza notare quello che avrà speso Vossignoria e Don Bosco....
La Marchesa Villarios mi domanda che cosa dice D. Bosco sulle cose presenti e la posso anche un poco soddisfare. Lo sentii l'altra sera a dire che la città di Roma aveva da subire una terribile crisi, e che s'ingannavano quelli che sognano vicina la perfetta tranquillità.
D. Bosco aveva ciò detto in privato, poichè taluni affermavano che ormai era finita la questione Romana, e incominciava quella Italiana, e che la Francia avrebbe chiesto soddisfazioni al Governo di Firenze della violata convenzione del 15 settembre.
Il 4 dicembre D. Bosco si restituiva all'Oratorio. I lavori interni della Chiesa erano a buon punto, ma una sull'altra venivano presentate molte note di debiti dall'impresario e dai provveditori; e il Venerabile palesava le sue strettezze al Cavaliere, sollecitandone il ritorno: [1001]
Credo che avrà ricevute notizie dell'altare e del costo del trasporto. Da tutti è trovato un gioiello. Il cav. Gussone nel rimirarlo era affannato per invidia, vedendo che i suoi lavori scomparivano in paragone di quello.
Appena io sappia che il Conte o la Contessa Bentivoglio possano ricevere lettere, io mi farò un dovere di scrivere una lettera. Intanto li riverisca e ringrazi da parte mia, se ha comodo di poterli vedere.
Gavutti macchinista si fece male ed è all'Oratorio; il correttore andò a casa per qualche suo affare: Gallo non sa più dove rivolgersi. Dunque appena possa, venga. Studi di non fare parte odiosa nell'affare Calderari si limiti a consigliare. Raccolga molti danari, poi ritorni, chè non sappiamo più dove prenderne.
E' vero che la Madonna fa sempre la sua parte, ma in fin dell'anno tutti i provveditori domandano denaro, e noi abbiamo già due mesate da pagare al panattiere.
Legga e porti il biglietto a cotesto sig. Conte che ha già fatto e vuol fare benefizii alla casa.
Mille saluti e mille benedizioni a tutti i soliti amici .....
SE urgeva il pagamento dei debiti, non era cosa di minor importanza l'assicurare le sorti di alcuni chierici che erano tornati nell'Oratorio, perchè non avevano mezzi per entrare nel Seminario. Don Bosco intanto scriveva al Can. Vogliotti:
Le mando nota dei giovani chierici che dimandano dimorar nell'Oratorio e frequentar le scuole in Seminario. Se avesse qualche cosa da osservare in generale, o in individuo, mi farebbe piacere di significarla al latore presente, D. Cagliero Giovanni.
I giovani di questa casa dimani vorrebbero far a Lei un piccolo regalo, cioè fare tutti la S. Comunione secondo la pia di Lei intenzione, per invocare sanità e guarigione perfetta degli occhi di V. S., da cui sanno essere da molto tempo afflitta. Ma desidererebbero vivamente [1003] che venisse a celebrarvi la S. Messa; ed io a nome loro e rinnovo rispettosamente l'invito. L'ora è dalle 7 alle 7 ½, ma possiamo modificar l'ora se ciò tornasse a Lei di comodità.
Con gratitudine e stima mi professo rispettosamente
L'Arcivescovo, mentre accondiscendeva alla domanda dei chierici di poter frequentare le scuole del Seminario, ripeteva che non avrebbe mai permesso che alcuno dei chierici dell'Oratorio suoi diocesani venisse ordinato, se non si uniformava alle sue prescrizioni.
Omai era nota a parecchi la controversia tra Monsignore e D. Bosco, e personaggi assennati parteggiavano in favore dell'uno e dell'altro.
Alcuni parroci tenevano le parti di Sua Eccellenza, ed erano contrarii a che i giovanetti della loro parrocchia si facessero Salesiani e volevano che quelli, già chierici, entrassero in Seminario.
Erano fra questi il parroco di Caramagna e quello di None. Il primo, Teologo Bernardo Appendini, modello di virtù sacerdotali, credeva D. Bosco un fanatico, che trasfondesse il suo fanatismo negli altri. Era solito dire: - Coloro che si fermano con D. Bosco, o sono matti o stanno per divenir tali! - Alludeva al povero D. Fusero che era impazzito sì, ma non per fanatismo religioso. Egli non rifletteva che Don Giovanni Bonetti e D. Giacomo Costamagna, pur suoi parrocchiani, stando con Don Bosco, non avevano la testa squilibrata, come splendidamente dimostravano e dimostrarono i fatti.
Egli però aveva incominciato a giudicare più favorevolmente di Don Bosco, quando Mons. Rota, Vescovo di Guastalla, era giunto in Torino, condannato a domicilio coatto. Allorchè seppe della carità colla quale il Vescovo [1004] era stato accolto nell'Oratorio, mentre non era stato ricevuto altrove per timore di qualche molestia da parte del Governo, esclamò subito: - Ecco un uomo veramente generoso che fa il bene pel bene! Egli non ha fini secondarii; non guarda ai pericoli, ai quali può essere esposto; non teme di nulla e adempie al suo dovere con franchezza e tranquillità! Dunque Don Bosco non è quell'uomo, che mi hanno fatto supporre...
Si mise perciò di proposito ad esaminare le azioni del Servo di Dio. Il suo studio fu lungo e spassionato; tuttavia non comprese la necessità che aveva Don Bosco di ritenere i chierici volenterosi di aiutarlo; e gli parevano necessarie le disposizioni di Monsignore.
Difficile a piegarsi era anche il Teol. Abrate, pio e dottissimo parroco di None. Nelle questioni non aveva mai ceduto, e nutriva grandi pregiudizii contro l'Oratorio. Aveva mosso cielo e terra perchè il ch. Paolo Albera, suo parrocchiano, entrasse in Seminario e quando il suddetto, professore nel Collegio di Mirabello, fu vicino alle sacre ordinazioni, fece di tutto per giungere al suo intento.
Già prima Don Cagliero, essendo andato a None per una funzione in parrocchia con i musici dell'Oratorio, fin dal primo momento che s'incontrò col Teol. Abrate si accorse che non si trattava solo di Seminario, ma che il buon Parroco aveva idee gravemente erronee intorno a D. Bosco e i suoi intendimenti e la sua Istituzione. Dopo il vespro infatti, il parroco attaccò disputa con lui intorno alla Pia Società e si parlò per ben tre ore. D. Cagliero rispose alle obbiezioni con quella sodezza di ragioni che gli è propria. Don Abrate lo stava ad ascoltare, poi ribatteva, e finalmente disse: - Insomma, il Seminario è per i chierici, e là devono avere la loro istruzione: e perchè D. Bosco li tiene nel suo Oratorio? Il mio chierico Albera lo voglio per me e non per D. Bosco. -D. Cagliero gli fece osservare come fosse [1005] necessario che quel chierico stesse nell'Oratorio, almeno per insegnare ai dieci giovani da lui raccomandati, poichè, per alcuni che restavano nell'Oratorio, Don Bosco ne mandava moltissimi in tutte le diocesi del Piemonte. A questa e a molte altre ragioni addotte da D. Cagliero, D. Abrate più non rispose, e lo accompagnò coi musici alla ferrovia, ove giunto, da uomo leale, nel congedarlo gli disse:
- Le sue ragioni pesano: ci rifletterò.
Ma egli aveva fatto i suoi conti su D. Albera sacerdote. Ne conosceva la virtù, l'ingegno e la scienza, e forse desiderava averlo per coadiutore. Perciò stentava a rassegnarsi di perderlo; ed una volta, venuto a Torino, si presentava al Vicario Generale Mons. Zappata lamentandosi con calore di D. Bosco, che voleva tirare a sè giovani che erano suoi parrocchiani, venendo al caso specifico del Ch. Albera. Il Vicario lo ascoltò con tutta calma e in fine lo interrogò:
- Dica; chi ha mantenuto Albera ne' suoi collegi?
- D. Bosco, rispose il parroco.
- Or bene! proseguì il Vicario colla sua proverbiale semplicità; se D. Bosco ha dato il fieno alla capra, è giusto che ne goda il latte.
Il parroco, più che soddisfatto rimase sconcertato a questa inaspettata risposta, venne a far visita allo stesso Venerabile e incominciò l'assalto con lui sforzandosi di persuaderlo della necessità e del dovere di accondiscendere al suo desiderio. D. Bosco lo lasciò parlare senza interromperlo, e poi gli fece capire come il Vicario Mons. Zappata avesse toccato il punto fondamentale della questione.
- Ma sono miei parrocchiani! esclamò D. Abrate.
- Suoi parrocchiani! Ma se io non avessi accettati in casa coloro che ora sono maestri presso di me, se li avessi lasciati nelle loro famiglie perchè non erano miei parrocchiani, costoro sarebbero divenuti maestri di tanti altri alunni, fra cui son molti de' suoi? [1006]
Il parroco che era uomo di talento e ragionatore:
- Ebbene, rispose sorridendo, questo è un argomento che mi appaga. Basta così; lei e D. Cagliero mi hanno convinto e voglio persuadere altri miei colleghi ad aiutare Don Bosco nella sua intrapresa e a non più contraddirlo.
Da quel punto egli lasciò libero a D. Albera di rimaner Salesiano e, recatosi a Caramagna, disse a D. Appendino: - Siamo battuti! D. Bosco ha ragione: bisogna arrenderci. - E gli raccontò quanto gli era occorso col Vicario e col Servo di Dio; e i due parroci da quel punto divennero entusiasti di D. Bosco.
Qualcuno, meravigliato di questo cambiamento, ne fece parola al Venerabile e questi:
- Ringraziamo il Signore, disse, perchè prima ci costò molto l'averli avuti contrarii!
Anche l'Arcivescovo con lusinghe e con promesse aveva tentato ogni via per ridurre ai suoi voleri D. Albera, che era fermo e risoluto di non allontanarsi dal fianco di D. Bosco; e gli fece perciò intendere che non lo avrebbe ammesso alle sacre ordinazioni.
D. Bosco andò in persona per trattare con Mons. Riccardi di quell'affare. Il ch. Albera aveva emessi i voti triennali, e nondimeno non volevasi ritenere che fosse sottratto all'immediata giurisdizione diocesana. Tuttavia, dopo un lungo colloquio con Monsignore, Don Bosco concepì speranza che le difficoltà sarebbero appianate, e incaricava D. Cagliero di ultimare le pratiche.
Ma ecco come Mons. Cagliero racconta l'esito della sua missione, nel Processo Ordinario per la Causa di Beatificazione e Canonizzazione del Servo di Dio.
“Quantunque il nostro Arcivescovo non favorisse la nostra Congregazione, fu sempre da noi amato ed in particolare per me egli usava una certa deferenza che mi ispirava confidenza. Onde portatomi nel dicembre del 1867 alla sua [1007] udienza, per raccomandargli a nome di D. Bosco le ordinazioni del nostro chierico Albera Paolo, intese prima personalmente con D. Bosco, mi accorsi che Monsignore era di tutt'altro avviso, e che voleva i Chierici in Seminario e non in Valdocco; e dicendomi egli che Don Bosco voleva sottrarsi all'obbedienza del suo Superiore, io risposi:
- Monsignore, D. Bosco fino ad ora ci ha sempre insegnato ad amare ed ubbidire i nostri Superiori.
- Ma se è così, soggiunse, perchè non manda i suoi chierici in Seminario.?
- I perchè sono molti, Eccellenza. Nella totalità i chierici di D. Bosco sono poveri e non possono pagare la pensione in Seminario; e poi essi sono desiderosi di fermarsi con Don Bosco, e fanno parte della sua Congregazione Salesiana.
- Ma che Congregazione! lo non so nulla; so solo che si deve ubbidire.
- Ma, Eccellenza; la S. Sede ha già lodato e commendate le Regole o Costituzioni della nostra Pia Società, e quindi D. Bosco non agisce se non in conformità dei decreti della S. Sede.
- Ma io ne so nulla di tutto questo.
- Eppure, Eccellenza, nella sua Curia esiste copia di questo decreto fino dal 1864.
- Ma come dunque ho da fare io?
- Monsignore, ha solo da osservare se D. Bosco fa del bene o del male; se fa del bene, approvi il bene che fa; se fa del male, allora V. Eccellenza è in perfetto diritto d'impedirlo.
- Ma io voglio i miei chierici in Seminario.
- Eccellenza, dica allora che vuole la chiusura e la distruzione dell'Oratorio; senza chierici, maestri ed assistenti come farà D. Bosco a dirigere i suoi seicento e più giovani interni e migliaia di esterni?
- Lo faccia coi chierici delle altre diocesi. [1008]
- Monsignore! gli altri Vescovi allora vedendo che vostra Eccellenza ritira i suoi chierici, appoggiati alla stessa ragione, ritireranno essi pure quelli delle altre diocesi, e quindi saranno spacciati D. Bosco ed i suoi Oratorii.
A questo punto Monsignore si mise le mani in testa, dicendomi:
- Ma come debbo fare io adunque?
Risposi: - Appoggi D. Bosco nell'Opera sua ed avrà l'approvazione di tutti i buoni e la gratitudine eterna dei figli di D. Bosco”.
Fin qui Mons. Cagliero. Tuttavia D. Albera non fu ordinato che l'anno seguente.
A metà di questo dialogo l'Arcivescovo aveva preso scherzevolmente D. Cagliero per il ciuffo, dicendogli:
- Ah voi venite a farmi la predica!
- Oh no, Eccellenza, mi perdoni! gli rispose D. Cagliero; io non vengo a far prediche al mio Superiore; ma quando sento contraddire D. Bosco o disconoscere la nostra Pia Società, non posso contenermi come dovrei.
Il colloquio era durato circa tre quarti d'ora.
Don Bosco, avuta relazione dell'esito dell'ambasciata, si limitò ad osservare come l'Arcivescovo fosse strascinato dal suo troppo buon cuore a fargli opposizione. Certo il naturale di lui non era di operare con precipizio, anzi facile a cedere, mentre gli ripugnavano le misure odiose, suggeritegli col pretesto e in nome del bene della diocesi. Di qui le continue esitanze e le concessioni sue, alternate da qualche atto di malumore verso i chierici dell'Oratorio.
MONS. Modesto Contratto, Vescovo d'Acqui, decano dei Vescovi della Provincia Ecclesiastica di Torino, caduto gravemente infermo, desiderava di avere presso il suo letto D. Bosco. Questi partiva da Torino il sabato giorno 7 dicembre, ma ebbe il dolore di non trovarlo più in vita; era spirato il giorno prima in età di settant'anni. Tuttavia volle assistere ai funerali ed alla sepoltura di quel suo carissimo amico.
D. Francesia dava queste ed altre notizie a Roma: [1010]
Carissimo sig. Cav. di S. Stefano,
Mons. Modesto di Acqui è morto. D. Bosco è andato per assisterlo; ma non arrivò a tempo: da Acqui recasi a Mornese da D. Pestarino ove si farà festa per la grazia d'essere stati preservati dal colera e dalla tempesta dell'anno prossimo passato e D. Bosco riceverà una buona elemosina. Mercoledì o giovedì sarà di ritorno .....
Abbiamo fatto la festa dell'Immacolata con più di 600 comunioni. Si confessarono quasi tutti. Il demonio, come Garibaldi a Mentana, ebbe in questi giorni dai nostri piccoli una campale sconfitta. Di salute corporale stiamo pure discretamente bene, malgrado il freddo e la neve che a piccole riprese ed in poca quantità venne già di questo inverno tre volte a farci non grata sorpresa. D. Bosco vorrebbe che per guarire io tacessi. Se ho questo solo rimedio, dovrei andare in un deserto e non so se potrei contenermi. Stare, in mezzo a tanta loquace gioventù, in silenzio è veramente impossibile. Ora un esempio, ora un giuoco, ora una laude, ecc. tutto concorre a farmi tenere in moto la lingua; ed i polmoni che stanchi vorrebbero forse riposo. Ah! purchè mi possa poi riposare in Paradiso, per cui Ella e tutti lavoriamo .....
D. Bosco adunque era aspettato a Mornese. Questo paese, come tanti altri, era tristamente travagliato dalla crittogama, che da oltre venti anni divorava quasi tutto il raccolto dell'uva, che n'è la principale ricchezza. Quegli abitanti s'erano appigliati a varii rimedii per far scomparire quel malanno, ma inutilmente; quando si sparse la voce che alcuni contadini dei paesi confinanti, avendo promesso una parte del frutto dei loro vigneti per la continuazione dei lavori della Chiesa dedicata a Maria Ausiliatrice in Torino erano stati maravigliosamente favoriti, avendo raccolto uva in gran quantità. Mossi pure i Mornesini dalla speranza di migliori raccolti e insieme animati dal pensiero di concorrere ad un'opera di religione, determinarono di offrire per lo stesso scopo la decima parte delle loro vendemmie. La protezione della Santa Vergine si fe' subito palese anche fra que' devoti. Ebbero l'abbondanza de' tempi più felici ed ora [1011] si protestavano ben lieti di poter scrupolosamente offrire in generi o in danaro quanto avevano promesso.
Desideravano però di consegnare nelle mani stesse di D. Bosco le loro offerte. A D. Pestarino porgeva occasione, per invitare il Venerabile, la benedizione del maestoso edifizio a tre piani del collegio, in parte finito, e della cappella a questo attigua.
D. Bosco volentieri aderì, ma prima di lasciare Acqui scrisse varie lettere, una delle quali al Cav. Oreglia, in cui, fra altre cose, si legge un periodo diretto a togliere, nelle circostanze d'allora, cioè sullo scorcio di quell'anno 1867, ogni timore dall'animo dei suoi benefattori sulla incolumità di Roma. Pareva evidente che si macchinasse un nuovo colpo contro il territorio rimasto alla Santa Sede.
Ad Orvieto erano aperti pubblicamente i ruoli d'ingaggio per i volontarii, col soldo di due lire al giorno. Bande numerose erano concentrate in varii luoghi prossimi alle frontiere. Presso Sora, benchè sbandati, si trovavano 3000 Garibaldini. A quando a quando penetravano in qualche paese limitrofo essendo assenti le truppe, atterravano la bandiera pontificia e si ritiravano dopo aver commesso riprovevoli eccessi: nel Comune di Cervara catturarono e portarono nelle montagne tre persone esigendo pel riscatto 8000 scudi: ed accadde pure qualche scambio di fucilate coi gendarmi.
Il 2 dicembre la bandiera francese era tolta da Castel S. Angelo. Delle due divisioni imperiali, una, composta di 9500 soldati, era tornata in Francia: l'altra si era concentrati nella provincia e città di Civitavecchia.
Roma e le restanti provincie di Viterbo, Frosinone, e Velletri, erano presidiate esclusivamente da milizie pontificie. Intanto Napoleone mandava una circolare a tutte le Potenze europee, grandi e piccole, anche protestanti e scismatiche, per invitarle ad un Congresso onde comporre la questione Romana. E i giornali settarii d'Italia, i proclami del [1012] Comitato d'insurrezione, e i deputati nelle Camere riaperte il 5 dicembre invelenivano con furibonde invettive e calunnie contro il Papa ed il suo Governo, mentre facevano l'apoteosi della loro impresa, proclamando essere di loro diritto entrare nel Territorio Pontificio ed insediarsi in Roma. Da tutti questi lampi si presagiva vicino lo scoppio di nuova tempesta.
D. Bosco adunque, scriveva, colla data da Torino, per indicare il luogo ove attendeva la risposta.
Le mando la lettera del Cav. Pazzini di Bra, capo divisione alle Finanze, che scrive a sua moglie intorno alla proposizione che vorrebbe fare della cascina. Il calcolo è sbagliato da quanto mi dice sua moglie; forse andrebbe a fr. 35. Desiderano risposta in breve se affermativa, o meglio passi a Firenze al suo ritorno.
Porti questa lettera a Mons. Berardi: qui gli parlo solamente della sanità. Stia tranquillo che, se vado a Roma, ne avrò ragionevoli motivi. A chi teme di questa città dica che non ha ragione. Dica a tutti nettamente che non vi è alcun timore di sorta. Si preghi soltanto.
Il Prevosto Vic. For. di Castelnuovo d'Asti si raccomandò a Maria Ausiliatrice colla solita promessa. Guarì istantaneamente da una gravissima e totale sordità: lo stesso mi dice una signora di Savigliano. Fecero ambedue graziosa offerta.
Noi qui facciamo quanto si può. I sorci non possono scherzare sotto le unghie del gatto.
Ho già scritto ad alcune delle persone indicate, ad altre scriverò. Dica quando partirà da Roma. Riceverà presto altre lettere.
Mille saluti ai soliti amici e benefattori.
Riguardo alla principessa Odescalchi, credo che abbia dato già quattrocento scudi a Lei, e cento a me quando fui a Roma. Se vuole calcolare eziandio questi ultimi a conto dell'altare che si va terminando, resterebbero scudi 500.
D. Bosco il lunedì 9 dicembre arrivava sul colle di Mornese ricevuto al suono festivo delle campane, dal parroco, da [1013] D. Pestarino, dal Municipio e dall'intera popolazione, memore della visita ricevuta nel 1864. Il maestro comunale Ettore Ponassi, al suo primo ingresso nel paese, lo salutò colla lettura di due sonetti.
Nei tre giorni che il Venerabile rimase a Mornese fu una festa di vera gioia e di pubblica esultanza. Egli appariva profondamente commosso per la prontezza e il disinteresse con cui erano fatte le offerte e per le cristiane parole con cui erano accompagnate.
Il giorno 10 una grande assemblea radunavasi sotto i portici del collegio. Il Servo di Dio, accompagnato da D. Pestarino che l'ospitava, fu accolto con grandi applausi; e prima che gli venissero presentate le decime promesse, per mano dei bambini e delle bambine schierati in prima linea, un notabile del paese a nome di tutti diede ad alta voce ragione di quanto avveniva:
“Noi, egli prese a dire, siamo debitori di grandi cose alla santa Vergine Ausiliatrice. L'anno scorso molti di questo paese dovendo andare alla guerra si posero tutti sotto alla protezione di Maria Ausiliatrice mettendosi per lo più una medaglia al collo, andarono coraggiosamente, e dovettero affrontare i più gravi pericoli, ma niuno restò vittima di quel flagello del Signore. Inoltre nei paesi confinanti fu strage del colera, della grandine, della siccità, e noi fummo affatto risparmiati. Quasi nulla è la vendemmia dei nostri vicini, e noi siamo stati benedetti con tale abbondanza che da venti anni non si è più vista. Per questi motivi noi siamo lieti di poter manifestare in tal modo la incancellabile nostra gratitudine verso la grande Protettrice del genere umano.
Credo essere fedele interprete de' miei concittadini asserendo che quanto abbiamo fatto ora, lo faremo eziandio in avvenire, persuasi così di renderci sempre più degni delle celesti benedizioni”. [1014] D. Bosco ringraziò a nome della Madonna, benedisse la generosità dei loro cuori, promise che avrebbe pregato per loro. E D. Pestarino disponeva che tutti i doni in natura fossero venduti all'incanto e ciò si fece il giorno seguente.
In que' giorni il Servo di Dio fu continuamente occupato. Disse la messa della comunione e predicò nella chiesa parrocchiale, confessò, visitò infermi, tenne conferenza alle Figlie dell'Immacolata, diede molte udienze a chi veniva per chiedergli consiglio, distribuì immagini di S. Francesco di Sales con la scritta: Ai nostri caritatevoli oblatori, Sac. Gio. Bosco; fu a Lerma dal parroco Olivieri; ebbe lunghi colloqui alla sera con D. Pestarino su varii progetti e scrisse lettere. Una era diretta al seminarista Luigi Vacaneo, suo ex-alunno.
Ho ricevuto la tua lettera e mi hai fatto piacere a scrivermi; io non mancherò di raccomandarti al Signore nella S. Messa; prega anche tu per me.
Dio non vuole che per ora possiamo vivere sotto al medesimo tetto; chi sa che ciò avvenga in altri tempi; sia ogni cosa a sua maggior gloria.
Ti raccomando tre cose: attenzione nella meditazione del mattino; frequenza di compagni maggiormente dati alla pietà; temperanza ne' cibi.
Dio benedica te e tutti i miei figli dell'Oratorio che sono teco. Salutali da parte mia, prega per me che ti sono di cuore,
D. Bosco benedisse anche con una certa solennità l'edifizio del Collegio. Il notaio Antonio Traverso per questa occasione aveva fatto stampare e leggeva a D. Bosco alcune sue poesie al levar delle mense in una vasta sala di que' nuovi locali[28]. Quivi, per onorare il suo ospite, Don Pestarino [1015] convitava signorilmente le autorità, i parroci e i sacerdoti dei dintorni, i quali accettavano con piacere l'invito per godere degli affettuosi, ameni ed istruttivi discorsi del Servo di Dio. Egli era così esatto nelle parole e retto ne' giudizi, che le sue conclusioni erano da tutti approvate.
E precisamente ad uno di questi pranzi dati ad onore di Don Bosco a Mornese, si venne a dire come in Ovada vi fosse una ragazzina la quale affermava che a Lei era comparsa la Madonna. Questo annunzio aveva fatto molto rumore specialmente per le circostanze che lo accompagnarono. Ora tra i convitati vi era chi negava l'apparizione, chi la annoverava fra le imposture o le allucinazioni. Alcuni ne sostenevano la realtà e citavano la Salette, Lourdes ecc. A questa ragione gli oppositori rispondevano essere i francesi troppo facili a credere ed entusiasti. D. Bosco taceva. Tale era il calore della disputa che quasi nessuno mangiava. Finalmente qualcuno, accortosi del silenzio di D. Bosco, lo interpellò perchè dicesse il suo parere.
- Sì, sì, risposero tutti, D. Bosco è l'unico che possa risolvere la questione.
D. Bosco sulle prime si schermiva, ma poi disse: - Che cosa vogliono sentire da me? Se i Francesi sono troppo corrivi a credere, gl'Italiani peccano in senso contrario. Sono troppo increduli!
Tutti ammutolirono. In realtà anche molti anni dopo non si potè giudicare mai se il fatto fosse o non fosse soprannaturale, perchè da una parte vi era la malignità di chi aveva in animo di negare tutto, a qualunque costo; dall'altra certe circostanze parevano veramente meravigliose. Così diceva il P. Leoncini delle Scuole Pie, che era testimonio di ciò che accadde in Ovada, e per mezzo di un suo confratello che si trovava a Mornese conobbe le parole di D. Bosco, che furono altamente ammirate.
L'ultimo atto di D. Bosco a Mornese fu di benedire, [1016] assistito dal clero, la cappella del Collegio dedicata a Maria SS. Addolorata, di cui stava sull'altare un bellissimo quadro, e di celebrarvi la S. Messa. In una lapide, sotto il porticato presso la porta di questa, si legge:
L'anno 1867 il 13 dicembre - con solenni riti - fu dedicata questa Chiesuola - e - il Sac. Giovanni Bosco esempio singolare di carità e di zelo - vi offerse primo - l'Ostia Immacolata - invocando sul collegio -nascente - e sul popolo di Mornese - le benedizioni di Dio.
Ciò fatto ei partiva per Torino e D. Francesia il 15 dicembre scriveva al Cavaliere:
D. Bosco è arrivato assai stanco da Mornese, dove ebbe feste e danaro per la Chiesa. È leggermente incomodato e speriamo che in breve si ristorerà. E del milione di cose che ci ha a narrare di Roma quando aspetterà? Non ne teme una troppo grossa indigestione? Ce ne dica poche alla volta; è meglio per lei, più gradito anche a noi. Gesù Bambino, le cui feste Ella farà a Roma, nasca nel suo cuore con tutta l'abbondanza di grazie, come di tutto cuore le auguro.
Ma l'immenso entusiasmo che D. Bosco aveva destato in Mornese colla sua presenza, aveva urtato i nervi di qualche signorotto, pel cui zelo correvano dicerie di superstizioni fomentate, d'imposture predicate per far danari e di mene clericali per agitare le popolazioni. Vi fu pure qualche falsa delazione all'Autorità politica e perciò due mesi dopo il Sottoprefetto di Novi Ligure ordinava al Pretore di Castelletto d'Orba di fare un'inchiesta. Il Pretore, in base alle istruzioni avute da Novi, scriveva una lettera al Sindaco di Mornese:
Castelletto d'Orba, 8 febbraio 1868.
S'interessa la compiacenza di V. S. per un rapporto di codesta Giunta Municipale sulla voce pubblica che corre relativamente al sig. D. Bosco Giovanni, d'anni 46, residente a Torino, il quale si trovava costì nei giorni 9 e 10 dicembre ultimo, e predicò nella chiesa parrocchiale: quale sia stato il suo arringare, e sopra quale argomento. [1017] se abbia dato ad intendere alla popolazione che l'ascoltava che esso l'aveva salvata dalla grandine e dal colera, e che qualunque grazia avessero desiderato, esso l'avrebbe ottenuta da Cristo, e che se non avessero denari per ricompensarlo avrebbe mandato in tutte le abitazioni a raccogliere certi Mazzarello Vincenzo e Rocchetto Gastaldo, i quali prestandosi a tale ufficio avrebbero messo all'incanto diverse offerte fatte in natura, e se ne sarebbe ricavato il prodotto di lire quattro mila.
Se ciò tutto sia vero e sussista e con quali circostanze; quali siano le qualità morali, e qualità precise di detto Mazzarello Vincenzo e Gastaldo, quale il grado di fede che possono meritare nei loro detti. Di più, presso chi abbia alloggiato il sullodato D. Bosco ed a quale scopo siasi portato a Mornese, ed ogni altra cosa che del caso. Nell'attesa
Il Sindaco mandava la seguente risposta:
La Giunta Municipale di Mornese riunita nelle persone dei sottoscritti alla richiesta del sig. Pretore di Castelletto d'Orba dichiara:
Che il rev. D. Bosco Giovanni nella sua ultima gita a Mornese 9 e 10 dicembre scorso, incontrò quelle simpatie e quell'ammirazione che incontrano ovunque le persone dabbene, e che più si segnalano nella società per amore verso i poveri e verso gli orfani, tanto più che lo stesso non giungeva nuovo a Mornese, essendovi stato già un'altra volta, cioè nel 1864.
Che è falso che lo stesso D. Giovanni Bosco abbia predicato che aveva salvato questa popolazione dal colera e dalla grandine e che qualunque grazia avessero desiderato l'avrebbe ottenuta da Cristo; che è pur falso che abbia detto che se questi abitanti non aveano denari per ricompensarlo, avrebbe mandato in giro il Mazzarello Vincenzo e Gastaldo Giovanni fu Rocco, per raccogliere offerte in natura. Che sta vero che molti di questi abitanti offrirono a lui per mezzo dei loro bimbi, oggetti in natura e in denaro, ma di loro spontanea volontà e senza esservi punto eccitati da prediche di D. Bosco, nè da altri. Che è pur vero che lo stesso D. Bosco per cavare qualche partito dalle offerte in natura amò meglio farle vendere per mezzo d'un incanto, anzichè portarle via, non solo per risparmiare le spese del trasporto, ma anche per impiegarne il prodotto in opere di beneficenza. Giova osservare che tutti questi doni consistevano in qualche pane di burro, in qualche canestro d'uva, di mele ed altre frutta e poche bottiglie; [1018] e quelle in denaro a lire 500 circa date dalla carità di questi abitanti, consapevoli, come sono, che le stesse poi andavano a benefizio di orfani e di giovani poveri di questo paese presso D. Bosco ricoverati, e di una chiesa in costruzione: che ciò stante la raccolta delle lire 4000 un sogno.
Che tanto il Mazzarello Vincenzo, quanto il Gastaldo sono ottime persone e meritevoli della massima fiducia e non si prestarono che per il tempo dell'incanto.
Che lo stesso D. Bosco alloggiò presso D. Pestarino Domenico e la sua gita a Mornese ebbe per iscopo di visitare il nuovo fabbricato, in via di costruzione per opera del prelodato Sac. Pestarino, a vantaggio e ricovero della gioventù.
Che finalmente quanto venne riferito a suo carico contiene e del falso e dell'esagerato in parte, dovendosi i fatti esposti circoscrivere alle proporzioni di cui nel presente atto. D. Bosco predicò, ma sulla divozione in genere ed in ispecie sul culto che si deve a Maria Vergine, senza raccomandarsi per elemosine, nè insinuare che ne facessero con promessa alcuna che avrebbero ottenuto favori da Dio o consimili.
Tanto la prefata Giunta dichiara per essere la pura verità, ed in fede di ciò i singoli membri di essa si sottoscrivono.
PESTARINO GIUSEPPE, Assessore.
E con ciò terminava l'inchiesta.
RITORNATO da Mornese D. Bosco rimase all'Oratorio per pochi giorni e quindi se ne assentò nuovamente facendo una corsa anche a Modena. La Contessa Amalia Fulcini Giacobazzi il 19 dicembre 1867 gli scriveva da Vienna.
“Dalla sua ultima preziosissima che mi arrivò qui, rilevo che avrò probabilmente il disappunto di mancare di nuovo ad una sua visita al suo passaggio da Modena. È un [1020] vero sacrificio che offro al Signore ogni volta che ciò mi accade. Spero però in primavera, al mio ritorno in Italia, di poter ottenere la grazia di fare la sua personale conoscenza. Ho gradito immensamente l'immaginetta che Ella mi favorì...”
Don Bosco fu più volte a Modena. Un giorno mentre si intratteneva con l'Arcivescovo Monsignor Emilio Francesco Cugini per affari della sua Pia Società, Monsignore si lamentava con lui della mancanza di vocazioni in diocesi e di mezzi per promuoverle:
- Ebbene, Monsignore, ci sarebbe un mezzo facile per sopperire a questa necessità.
- E quale? rispose il Vescovo: ho pensato già per sciogliere questo problema, ma non so da che parte voltarmi.
- Svincolare i parroci dall'obbligo di dir messa pel popolo nei giorni delle feste soppresse, farle celebrare secondo l'intenzione del Vescovo ed erogarne le elemosine a benefizio delle vocazioni ecclesiastiche. È già molto tempo che avevo formato questo disegno, ma non mi era ancor venuta occasione di esternarlo.
- Ma non si può sciogliere i parroci dall'obbligo delle messe pel popolo.
- È obbligo gravissimo di coscienza!
- Oh c'è rimedio anche a questo! Chi ha determinato la legge, può toglierla. Scriva a Roma, esponga le sue necessità, chieda questo indulto che muti quell'obbligazione, e Roma qualche cosa risponderà. Ciò che domanda, non è cosa sulla quale la Chiesa manchi di potere.
- E se mi si rispondesse negativamente?
- Tentare non nocet. Faccia la prova.
L'Arcivescovo stupì di quel progetto mai pensato, esitò, ma poi scrisse e n'ebbe risposta favorevole.
Questa mutazione di fine nelle messe parrocchiali delle [1021] feste soppresse non tardò ad essere chiesta da altri Vescovi e quindi a generalizzarsi.
D.Bosco scriveva nuovamente al Cavaliere, sempre a Roma.
Dopo alcuni tafferugli nella sanità e nelle occupazioni ripiglio le cose e comincio a scrivere a Lei una lettera secondo il solito piano di progetti. Primo di tutto debbo dirle che ci troviamo in vere strettezze e fra le altre cose abbiamo due mesate di pane e le note di parecchi provveditori che hanno somministrati materiali per la chiesa. Se pertanto la Contessa Calderari anche con qualche suo sacrifizio, ci liberasse dalla nota del pavimento che volge al termine, sarebbe per noi un vero sollievo e credo anche un mezzo efficace per ottenere la continuazione della speciale protezione della Beata Vergine Maria.
Le unisco nota dei lavori che rimangono a compirsi nella chiesa. Se mai inter notos et amicos, si potessero ripartire tra tanti benefattori, la nostra chiesa sarebbe in istato da potersi aprire al divin culto pel giorno primo del prossimo maggio. Si metta all'opera.
Il sig. Focardi forse potrà assumersi qualcheduna delle cose ivi notate. A proposito di esso le noto che quando passarono qui i due suoi figli, ho loro somministrate lire 100 di cui ella può farne cenno al padre od ai figli. La principessa Polacca, molto conosciuta dal P. Delorenzi, credo che farà qualche cosa; ella si mostrò tanto benevola in beneficenza. Il sig. Conti chi sa che non faccia altrettanto. Vi è poi casa Serlupi, Cavalletti, Cappelletti, Antonelli, Sora, ecc., ecc.
A proposito di quest'ultima osservi se veramente D. Cesare debbasi licenziare; se quindi possiamo fare una proposta concreta a Don Turchi, il quale credo che accetterà; ma sarebbe necessario prima di conchiudere che esso potesse sapere quali sono i suoi oneri ed onorarii.
Vado scrivendo le lettere alle persone che mi ha accennato, specialmente alla Madre Galeffi, come vedrà qui unita. Le propongo una balaustrina.
D. Francesia mi dice che una Comunità forse si risolverà a fare oblazione di duemila scudi. Se mai ciò fosse, io sarei disposto di lasciare l'intitolazione dell'altare a loro piacimento. Vorrei che fosse qualche cosa di degno della B. V. M. ed ella potrebbe promettere a chi di ragione che io stabilirei le cose in modo che ogni giorno si faccia qualche esercizio religioso all'Altissimo per invocare le celesti benedizioni sopra gli insigni benefattori. Pregherà ogni giorno nella S. Messa affinchè l'opera buona sia compiuta.
Passi poi un giorno da Mons. Pacifici, segretario delle Lettere [1022] Latine di S. S. al Quirinale; gli dia notizia del suo raccomandato Poligari, che sta bene e va avanti nel suo mestiere. Al medesimo ho trasmesso memoria a S. S. per due croci da cavaliere, e non so se vi sia, o no, speranza: Ella dica soltanto che appartiene alla Casa e se ha comandi per D. Bosco li farà pervenire.
Se ha danari ce li mandi; se le sue faccende lo permettono venga sul principio di gennaio prossimo; ma se potesse procurare degli affari rimanga ancora.
Saluti i nostri benefattori. Tutta la Casa le augura buone feste nel Signore. Amen.
P.S. - Metta in una busta la lettera indirizzata a Madre presidente di Tor de' Specchi.
Il 21 dicembre giungeva una lettera del fratello del Cavaliere diretta a D. Francesia: “Berardi ha ricevuto una lettera della loggia: Federico starà qui fin dopo l'Epifania, sta bene; fa affari al solito ed ottimi; fra le opere sue buone, assiste e serve ai chirurgi che curano e fanno amputazioni ai poveri garibaldini feriti; qui siamo tranquilli ma ci fortifichiamo molto, segno che si temono nuovi assalti. Tante cose a Don Bosco ed ottimi auguri a Lei e a tutta la sua santa casa.”
Fra le tante relazioni di grazie concesse dalla Madonna, che arrivavano continuamente a D. Bosco, ne giungeva una da Firenze della Marchesa Enrichetta Nerli, in data 17 dicembre:
“..Le rimetto lire 100 per conto della Contessa Fauli di Faenza, la quale vuole che siano erogate nel portare a fine la cappella di Sant'Anna nella chiesa di Maria Ausiliatrice. Nell'estate decorsa, Ella si ricorderà bene, che io le scrissi supplicandola a voler pregare e far pregare pel marito di questa mia amica gravemente ammalato ed intanto essa prometteva di fare un'offerta per la sua Chiesa se otteneva la guarigione del medesimo. E la ottenne con meraviglia di .tutti, perchè tenevasi come caso disperato....” [1023]
In que' giorni, assecondando il desiderio di una buona figliuola che aspirava a far vita in religione, D. Bosco indirizzavala alla rev. Suor Eudossia, Superiora dell'Istituto delle Fedeli Compagne di Gesù in Torino, non dimenticando l'ultimazione della chiesa.
Latrice di questo biglietto è la giovane Fissore Caterina, che vorrebbe consacrarsi al Signore sotto alla materna di Lei direzione. Gode sanità, può pagarsi una discreta pensione; per la moralità possiamo stare tranquilli. Ella poi osservi quello che sembra tornare a maggior gloria di Dio.
In questa occasione auguro a Lei ed a tutte le sue religiose ed educande ogni celeste benedizione con perfetta sanità e vita felice. Con gratitudine mi professo
P.S. - Per compiere la chiesa dedicata a M. A. mancano ancora alcuni lavori; potrebbe questo Ritiro assumersene qualcheduno? Le unisco nota. Compatisca.
La notte di Natale il Venerabile celebrò le tre messe come di consueto; la prima fu cantata e colla comunione generale, le altre due lette. Nei giorni precedenti aveva provato una gran consolazione. Don Pietro Racca ordinato sacerdote il 21 dicembre, aveva celebrato il 22 nell'Oratorio con grande festa degli alunni, specialmente di quelli della sua scuola. I preti novelli venivano dopo il pranzo onorati sotto i portici con musica e qualche composizione, presente Don Bosco con altri superiori.
Il Servo di Dio aveva quindi dato licenza a D. Racca di andare a celebrare a Volvera, sua patria, ov'era aspettato con grande affetto dai suoi compaesani, che lo stimavano grandemente fin da fanciullo. Da chierico, ritornato qualche volta al paese, erasi mostrato sempre esemplarissimo. Docile, umile, obbediente, era una delizia trattare con lui. Si prestava [1024] volentieri nel fare il Catechismo ai giovanetti: li rallegrava con santi esempi e fatti edificanti, e dolcemente li attirava al bene. Portava sempre con sè la corona del Rosario che recitava il più spesso possibile. I suoi ragionamenti prediletti erano di Dio, di Maria SS., del Papa; e non lasciava mai di parlare anche dell'Oratorio e del suo caro D. Bosco, cui era tanto l'amore che portava, che quando si trovava a casa sua, gli pareva di essere sulle spine.
Questo degno figlio del Venerabile il 25 dicembre andò a celebrare per la prima volta la Messa in paese, e così scriveva il Sac. Nicolao Maria Lisa: “Oh con quanta diligenza D. Racca vi si preparò e con quanto fervore la celebrò! Tutti si fecero di lui il concetto che si ha dei santi, e tra gli altri il sig. Cav. Giuseppe Barale, notaio e segretario di questo comune, esclamò: - Che santo sacerdote deve essere questo giovane levita! - Io gli feci il discorso in quel giorno e mostrai la potenza della Madonna che seppe far svanire i timori ed i dubbii di lui ancor giovanetto, e torgli ogni ostacolo per condurlo al Sacerdozio; e dissi, infine, che era suo dovere perciò di predicare, finchè avesse vita, le glorie di Maria.”
Di ciò era ben persuaso il nostro D. Pietro, poichè fra le molte grazie che aveva da Lei ottenute ricordava quella di una felice memoria, come noi abbiamo già narrato, sul principiare de' suoi studii. Ma di un'altra recentissima doveva pur ringraziar la Madonna. Sul finire di novembre era stato avvisato dai Superiori di prepararsi a ricevere la sacra ordinazione. Doveva egli apparecchiarsi a subire l'esame richiesto, ma, stanco oltre modo per altri studii e varie occupazioni, andava dicendo: - Impossibile, impossibile che io mi prepari, quando manca il tempo! - Ma insistendo i Superiori, dovette mettersi di buona voglia a studiare un trattato. Nondimeno si avvide che colle sue forze poteva ritenere presso che nulla. Però facendosi allora la novena dell'Immacolata si rivolse a questa Vergine benedetta per averne [1025] aiuto in circostanza così critica. L'aiuto gli venne, ma non subito. Alla antivigilia dell'esame egli non era ancor preparato. Con maggior fervore torna a supplicare la sua mamma Maria perchè lo voglia aiutare: e nello stesso giorno ripiglia lo studio. Ed ecco all'istante si accorge che quanto legge lo ritiene letteralmente a memoria, sicchè si trovò così bene preparato da far meravigliare gli esaminatori. Contento della grazia ricevuta, non la seppe celare e la raccontò prima nella scuola senza nominare il favorito dalla Vergine; e poi in ricreazione non potè tacere essere lui il graziato. Egli narrò il fatto a' suoi alunni per animarli alla divozione a Maria SS. Ausiliatrice e a vie più confidare nella sua potenza.
Nella festa di S. Stefano D. Bosco scriveva alla Signora Guenzati. La lettera fu consegnata a D. Rua dal sig. Conte Giuseppe Caccia Dominioni.
L'anno sta per finire, ed io voglio darle occasione di fare un bel fioretto a Maria Ausiliatrice. Veda un po' se può farlo. Per compiere la chiesa di Maria Ausiliatrice mancano ancora i capi di lavoro a parte notati. Chi sa se V. S. con qualche suo conoscente od amico non possono assumersene qualcheduno a proprie spese? Credo che casa Caccia, casa Brambilla, casa Stanga le potranno giovare. Ad ogni modo se Ella mi dà mano, pei primi del prossimo maggio consacreremo la novella chiesa al divin culto ed avrà certamente un potente antidoto contro il colera ed alle altre disgrazie.
Auguro ogni celeste benedizione a Lei, alla sua famiglia ed ai mentovati signori ed assicurandola della più profonda mia gratitudine ho l'onore di professarmi
Nella terza festa di Natale, fra le strenne che gli giunsero dai benefattori, vi fu una generosa largizione da non dimenticarsi. [1026]
Ciò che non ho potuto fare nello scorso settembre, sempre per la stessa ragione di finanza, godo la consolazione di poterlo fare oggi 27 dicembre. Per mani del sig. Nico Michele riceverà questa mia con dentro lire cinquecento in biglietti di banca, in dono volontario per la nuova chiesa in costruzione.
Gradisca intanto la S. V. Ill.ma, da me cotanto stimata, di accettare i miei distinti saluti e mi creda sempre
P. S. - Questo dono da me fatto è di consenso della mia famiglia; così resta registrato nel libro di casa.
Per la festa di Natale e specialmente per quella di San Giovanni Evangelista, il Venerabile aveva fatto scrivere dai giovani un indirizzo di augurio e di ringraziamento al Conte Vimercati, il quale a lui rispondeva:
M. R. e mio carissimo in G. C. Don Bosco,
Io la ringrazio e ben di cuore della memoria che conserva di me, lieto perciò di poterle assicurare che io fedelmente la conservo di lei, dei santi suoi socii, e dei fortunati figli suoi, i quali ebbero la bontà di scrivermi, insieme con D. Francesia. Il Cav. Oreglia mi assicurò che avrebbe egli fatte con essi le parti mie: ad ogni modo però prego anche Lei a farmi fare buona figura, chè del resto io proprio non ho più nè lena, nè mano per iscrivere, perchè i nervi mi molestano assai frequentemente. Dio sia benedetto e ringraziato, che per tal modo mi tiene amorosamente sull'avviso della non lontana morte.
Sì, egli sia benedetto e ringraziato. Ella mi riverisca D. Francesia, e mi saluti i suoi carissimi figli che io amo teneramente in Gesù Cristo. Il Santo Padre sta ottimamente. Roma è tranquillissima e ritengo che presto saremo pienamente consolati. La mia gente di casa le bacia la mano, Le si raccomanda e l'assicura che sempre la ricorda colla maggiore e profonda devozione. Io poi in modo particolare le raccomando la miserabile anima mia.
Nè aveva dimenticato i carissimi associati alle Letture Cattoliche. A questi pel mese di novembre aveva spedito il fascicolo:
Visita al SS. Sacramento ed a Maria SS. per ciascun giorno del mese, di S. Alfonso Maria de' Liguori, preceduta dall'atto eroico di carità e da preghiere in onore dei sette dolori e delle sette allegrezze del Patriarca S. Giuseppe. - Coll'atto eroico, di carità il cristiano offre a Dio, per le anime del Purgatorio, in unione dei meriti di Gesù e di Maria, tutte le sue opere soddisfattorie e quelle da altri a lui applicate in vita, in morte e dopo la sua morte.
Pel mese di dicembre gli associati ricevevano il racconto: La famiglia di Simone il Massaio, ossia la rassegnazione nelle avversità.
E insieme D. Bosco incaricava il Galantuomo, almanacco per l'anno bisestile 1868, ad offrire a nome suo la strenna agli Associati.
di ritorno da un lungo viaggio ai benevoli suoi amici.
Deo gratias! Ed ecco la sedicesima volta che io vi rivedo, e che vi posso augurare da parte mia ogni benedizione. Oggi vorrei avere una penna valentissima per iscrivere tutto quello che mi suggerisce il cuore. Ma temo assai di non riuscirvi. Pensate se ne ho da raccontarvene, sono stato a vedere Roma, le feste del centenario dei SS. Apostoli Pietro e Paolo, il Papa! Ma come, come! dirà qualcheduno de' miei lettori, tu pure, o galantuomo, hai intrapreso un viaggio così lungo e così pericoloso? Oh bella! aveva forse da aspettare ad un altro centenario per andarvi? Forse allora non ci sarebbero più stati tanti miei amici, non ci sarebbe più stato l'adorabile Pio IX, che ne ebbe la felice inspirazione; e poi chi sa se da qui a cent'anni io avrei ancora avuto la bella compiacenza di parlarvi. Dunque, dunque io ho messo in pratica il consiglio de' miei padri: Chi ha tempo non aspetti tempo: oppure quello: Non si cerchi l'incerto domani - se quest'oggi c'è dato goder! Con buona scorta d'amici in saccoccia e con tante belle idee nella mente, me ne partii alla metà di giugno per Roma. Già tanti cercavano di dissuadermi con tanti pretesti dell'età, del colera, dei briganti, e di [1028] che so io. Io devo dirvi candidamente che non credetti un bel nulla, e la indovinai. Riguardo all'età ho poi veduto tanti più vecchi di me che non solo non erano venuti così comodi come me dal Piemonte ed in vapore, ma Vescovi venerandi dalle barbe lunghe e bianche consunti dalle fatiche apostoliche o dagli anni; eppure alla parola del Pontefice s'erano mossi dalla Cina, dal Giappone e dall'Abissinia; paesi che mi dissero lontani cinque o sei mila miglia da noi. In due giorni fui a Roma. Che magnificenza! Io entrava lento lento in quella grande città confuso alla vista di tante bellezze. La mia immaginazione era già grande, ma l'effetto fu superiore. Basti dirvi, che io credo, e creder credo il vero, che là vi si parlava ogni linguaggio, ed i preti per intendersi meglio non parlavano che il latino. Ed io che di latino non conosco che quello che ho nei vespri, oh che imbroglio! Ad un tale mi ricordo che interrogavami in questa lingua, non so che risposta diedi, ma so che rise piacevolmente sotto il labbro e se ne andò. S'accorse che non era tanto famoso. Se non isbaglio erano queste le parole che quel cotale mi indirizzò: O bone hospes, ostende mihi viam qua itur ad Quirinalem. Dio sa quante stranezze immaginai in quel punto. Ora so da un amico che queste parole volevano dire in buon volgare: O caro forestiero, mostrami, in grazia, la via che mena al Quirinale.
Non vi parlo della bontà dei cittadini; io e tutti ne fummo veramente, contenti; e ce li avevano dipinti con sì foschi colori. Ma già chi parlava così, ne era interessato. Si diceva che non v'era più posto; ed avrebbero trovato alloggio quasi quasi ad altrettanti forestieri, e notate che erano 160 mila, e concorsi da tutte le parti del globo. Che foggia di vestire, di camminare, di parlare! Erano però tutti concordi in un luogo solo; in chiesa. Che bello spettacolo sentir lodare Iddio, pregare al Sepolcro Apostolico, raccomandare Pio IX in tante lingue! Alla Basilica di S. Pietro pregai, e pregai per me, e per tutti i miei amici che siete voi, o cari miei lettori. Ma il mio cuore fu veramente colpito di contento quando vidi per la prima volta l'angelico viso di Pio IX. Non so se a tutti, ma a molti de' miei vicini cadevano le lagrime a lui davanti, pensando come tanti de' suoi figli amareggiavano quel cuore così benefico, così pietoso, così santo. Che decoro, che spettacolo poi veder a sfilare circa 500 prelati (ora ho sentito che tra Vescovi, arcivescovi e patriarchi erano 499), tutti dal volto venerando, e tutti di un cuor solo e di un'anima sola, tutti di un pensiero con Pio IX, tutti uniti in una sola fede, e di una sola legge, pronti per questa a versare il proprio sangue. E quanti avevano già dovuto patire per Dio lunghi anni di angoscioso esilio. Vidi con affettuosa soddisfazione l'animato Card. De Angelis, che colle sue virtù ci aveva edificati a Torino, vidi il buon Vescovo di Avellino, vidi tanti altri che avevano sofferto esilio, carceri ed umiliazioni. Ed ora là attorno a quella cattedra di Pietro a dire al suo Successore: Per Te, e per quello che tu approverai o condannerai [1029] saremmo pronti di sopportare di nuovo altri e più terribili dolori. So che il buon Pio provò una contentezza sensibilissima nel contemplare tanti suoi fratelli nell'Episcopato a fargli corona, e venuti ad un semplice suo invito. Potenza della Santa Fede quanto sei grande! Io sono profano alle cose poetiche, ma so distinguere quando c'è qualche bel verso; e voglio con questo dire che là in quella immensa moltitudine udii uno che sclamò:
Scrivi ancor questo: allegrati!
Io li approvai, li ritenni fedelmente alla memoria, ed a voi li ricordo credendo di farvi piacere.
Sentii pure la voce del Papa; come era sonora, piena, robusta! E pensare che quella voce era poi tanto potente e presso gli uomini e più ancora presso Dio. Tutte le bellezze di Roma le visitai studiosamente. Andai alle catacombe, andai al colosseo, santificato dal sangue di tanti martiri, e non mi ricordo di aver altra volta pianto con tanta consolazione del mio cuore. Sì, ho proprio pianto!
Visitai la casa di S. Pudente abitata da S. Pietro, come si crede, per la prima volta che fu a Roma; fui al carcere Mamertino, seconda abitazione di Pietro: bevetti alla fontana miracolosa che il medesimo santo fece scaturire per battezzare i suoi custodi; vidi il Campidoglio, la via sacra, il foro romano, i diversi tempii di Roma antica; e fu chi mi mostrò la torre dove è tradizione che Nerone fosse asceso quando diede il fuoco a Roma, accusandone poi i cristiani. Non è a dirvi quanto io fossi contento di vedere tutte queste meraviglie. Feci riverente la scala santa, vidi la culla del Signore e vidi gli ultimi segni della sua croce. Insomma provai tutte quelle dimostrazioni che un cuore cristiano può desiderare e sperare. Finalmente dovetti partire e non mi sapeva decidere. Lasciar Roma è presto detto, ma il pensiero doloroso era che non vi sarei più tornato. Visitai ancora una volta S. Pietro, baciai ossequioso il suo piede confessandomi a lui devoto ed all'angelico suo Successore e partii. Ma qual ritorno fu il mio! A quanti strapazzi non dovetti sottopormi! Con pretesti ch'io non so giustificare, quasi quasi mi soffocavano. Mi dicevano ch'io portava il colera da Roma e lo trovai ne' miei cari paesi. E più d'uno de' miei amici erasene già partito per l'eternità. Fu allora che dubitai che fosse un castigo che ci volesse mandar Iddio. È vero che anche a Roma comparve poi il morbo micidiale, ma allora non esisteva che nella mente e nella volontà di alcuni maligni. Insomma io fui al mio ritorno colpito dalla disgrazia de' miei fratelli, e pregai e prego Iddio a voler abbreviar i giorni del suo furore. E tu, caro mio lettore, difenditi quanto puoi da questo malauguratissimo ospite, e che Iddio a sè ti chiami come suole [1030] chiamare i suoi figli più cari dolcemente e coi sorriso sul volto. Termino mandandoti un tenerissimo e cordiale saluto. Iddio benedica voi e benedica pure l'affezionatissimo vostro amico
Il Galantuomo presentava al lettore poesie ed argomenti varii, fra i quali: - Gli ultimi momenti di Massimiliano Imperatore del Messico. - La Madonna di. Guadalupe. - All'amico e collega D. Enrico Bonetti. - Il Cardinale Ludovico Altieri, morto eroicamente assistendo i colerosi in Albano.
In fine il Servo di Dio faceva questa raccomandazione:
Se volete poi farmi un favore provvedetevi delle Strenne buonissime che si vanno pubblicando in Italia, quali sono il D. Mentore di Savona, il Caldeiscopio, l'Amico di casa smascherato di Torino, l'Amico di famiglia di Genova; ed altri simili di Bologna. Dell'Amico di casa puro puro, che andò a stare a Firenze, ti raccomando di guardartene come da un serpente. E se lo vedessi presso altri, avvisali di disfarsene: faresti con ciò a loro un massimo benefizio.
Ma prima di quest'avviso il Venerabile dava un consiglio a tutti. È pregio dell'opera che riportiamo anche quelle sue parole, le quali serviranno di suggello al presente volume.
Gli amici quando sono per separarsi raddoppiano i segni della benevolenza. Anche i muti, anche gli indifferenti diventano loquaci e starei per dire eloquenti. E che sarà del Galantuomo, che si trova alla fine, egli che ha sempre voglia di parlare?
Il pensiero che per un anno non potrà più nè vedervi, nè parlarvi, mi rende in questo punto eloquentissimo. Oh quante cose vi vorrei dire! Raccogliere tutto in breve non potrei, e poi io non ne sarei soddisfatto. O tutto o niente. Nè voglio già essere io a darvi i saluti e farvi i doveri della partenza. Una parola autorevole, anzi divina. Apro la Sacra Scrittura, che è il libro di Dio; e beato colui che l'ascolta e lo adempie. E per evitare la confusione comincierò a parlare:
Ai genitori. - Hai tu figliuoli? istruiscili e domali fin dalla loro puerizia (Eccl. VII, 25).
Ai figli. - In fatti, in parole, e con tutta pazienza onora il padre tuo, nè ti scordare dei gemiti di tua madre. [1031] La benedizione del padre felicita le case dei figliuoli; ma la maledizione della madre ne sradica i fondamenti (Eccl. 111, 9- 11).
Ai giovani. - Ricordati dei tuo Creatore nei giorni di tua giovinezza, innanzi che arrivi il tempo dell'afflizione (Eccl. XII, i). Quello che non radunasti in gioventù, come tel troverai in vecchiaia? (Eccl. XXV, 5)
Ai poveri. - Vale più il poco col timore di Dio, che i grandi tesori i quali non saziano. Più stimabile è il povero che cammina nella sua semplicità che il ricco di labbra perverse e stolto (Prov. XV, 16, XIX, i) .
A tutti. - Temi Dio e osserva i suoi comandamenti; perocchè questo è tutto l'uomo: e ogni cosa che si faccia la chiamerà Dio in giudizio per qualunque errore commesso, o sia ella buona, o sia ella malvagia (Eccl. XII, 12-14).
E basti perchè se volessi secondare il mio cuore, sa Iddio quando la finirei. Ma in ogni cosa ci vuole moderazione, ed io non voglio più oltre abusare della vostra bontà. Iddio vi benedica tutti, o miei cari lettori, tutti da capo a piedi, e vi dia tante consolazioni di quelle vere, quante sono le parole che leggeste in questo libretto. Vivete felici; e speriamo di rivederci di più lieto umore nell'anno 1869.
SUPPLICHE AL GRAN MAGISTERO DELL'ORDINE MAURIZIANO.
Il Sac. Bosco Giovanni, Direttore della casa detta Oratorio di San Francesco di Sales espone rispettosamente a V. E. come Egli versi in gravi strettezze e per provvedere ai bisogni dello Stabilimento, in cui vi sono circa ottocento poveri giovanetti, e per pagare alcuni debiti contratti col panattiere, e coll'impresario di un tratto di edifizio, la cui ultimazione era indispensabile pel buon andamento della casa. Sebbene dopo il trasporto della capitale sia alquanto diminuito il numero dei benefattori, tuttavia sonvi due caritatevoli Signori pronti ad offerire quattromila franchi caduno per soccorrere i poveri fanciulli ivi accolti, qualora avessero la speranza di essere fregiati della croce Mauriziana.
Uno di essi è l'Avv. Marinetti di Asti, domiciliato in Torino, procuratore capo, esercente avanti la Real Corte d'appello e tribunali. È procuratore benemerito di molte opere, tra cui l'Oratorio sopradetto; è segretario di varie opere pie, fra le altre quella di S. Anna e di San Giuseppe costituite presso al Santuario della Consolata. È d'anni 40; ammogliato senza prole.
L'altro è il Chimico, Farmacista Ghiotti Giuseppe della città di Ivrea, Capitano della Guardia Nazionale. Egli è già benemerito per aver rinunciato a vantaggio pubblico lo stipendio annesso al suo grado; [1034] ha somministrato gratuitamente medicinali, cure e fatiche ai colerosi di quella città nel 1854. Da più anni dà caritatevolmente tutti i medicinali che occorrono per un ricovero di poveri giovanetti della medesima città di Ivrea.
Questi due Signori vennero già altre volte in soccorso de' poveri ragazzi di questo Stabilimento, ed ora vista la gravità del bisogno offrono la somma accennata. Il Sottoscritto fa umile preghiera a V. E. affinchè voglia appagare il desiderio di questi due insigni benefattori, assicurandola della più sentita e durevole gratitudine da parte dei poveri ricoverati.
Questi giovanetti in gran parte sono qui indirizzati dai Sindaci, dai Prefetti e da altre Autorità Civili. Circa trenta sono tuttora nello Stabilimento inviati dai Ministeri dello Stato, cui fu sempre aperta questa casa...
Colla massima riconoscenza augura a V. E. ogni bene dal Cielo e, colla speranza di essere esaudito nella sua dimanda, si professa
Sac. Bosco GIOVANNI[29].
Credo di fare onore al merito segnando a V. E. il nome di un benemerito cittadino di questa nostra città. È questi il sig. Cornaglia Domenico di anni 60.
Colla industria di onesto negoziante egli riusciva ad aggiungere alle paterne tali sostanze da poter ora vivere signorilmente senza più esercitare commercio di sorta.
Quale zelante cittadino servì nella Guardia Nazionale per oltre 2 anni. Terminava l'onorato ed amato suo servizio col grado di capitano, e desisteva soltanto per motivo di mutazione di domicilio, come consta dall'unito attestato.
In tutta la sua vita pubblica e privata non dimenticò mai l'alto dovere dell'uomo agiato: la beneficenza.
Fra quelli che ne esperimentarono gli effetti àvvi il ricovero dei poveri giovanetti dell'Oratorio di S. Francesco di Sales.
Imperciocchè venuto a sua notizia che questo Stabilimento versava in gravi strettezze e che nella attuale fredda stagione una parte notabile di detti giovani era tutta vestita di abiti estivi, col cuore commosso largì la vistosa somma di fr. 4000 affinchè si provvedesse a simile urgenza. [1035]
In vista pertanto del suo pubblico ed onorato tenore di vita: dei servizio prestato alla patria, e delle molte sue beneficenze, qual Direttore del beneficato Stabilimento fo umile preghiere all'E. V. affinchè si degni di dare al medesimo un attestato di pubblico gradimento, impetrandogli dalla sovrana munificenza la decorazione dell'Ordine Mauriziano, di cui sono fregiati quasi tutti i suoi colleghi che conseguirono identico grado nella milizia cittadina.
Questa Sovrana disposizione sarà certamente ben accolta da tutti i buoni, e il benemerito cittadino sarà incoraggiato nel bene operare, mentre si aggiungerà un novello motivo a codesti poveri giovanetti di invocare le benedizioni del Cielo sopra la E. V. sopra l'augusta Persona del Re e sopra tutta la Reale famiglia.
Pieno di fiducia di conseguire la grazia, colla più profonda gratitudine ho l'alto onore di professarmi,
Devot.mo ed Obbl.mo Ricorrente
RIMEMBRANZA DELLA FUNZIONE PER LA PIETRA ANGOLARE
DELLA CHIESA SACRATA A MARIA AUSILIATRICE
Filotico, Benvenuto, Cratippo e Teodoro.
Filot. Bella festa è quella di quest'oggi.
Crat. Festa bellissima; io sono da molti anni in quest'Oratorio, ma festa pari non vidi mai, e difficilmente potremo farne altra simile in avvenire.
Benv. Mi presento a voi, cari amici, pieno di maraviglia; non so darmi ragione...
Benv. Non so darmi ragione di quello che ho veduto.
Teod. Chi sei tu, donde vieni, che hai veduto?
Benv. Io sono forestiere, e sono partito dalla mia patria per venire a far parte dei giovani dell'Oratorio di S. Francesco di Sales. Giunto in Torino dimando di essere qua condotto, ma appena entrato vedo [1036] vetture regalmente fornite, cavalli, staffieri, cocchieri tutti adornati con grande magnificenza. Possibile! dissi fra me, che questa sia la casa che io, povero orfanello, vengo ad abitare? Entro di poi nel recinto dell'Oratorio, vedo una moltitudine di giovanetti che van gridando inebbriati di gioia e quasi frenetici: Viva, gloria, trionfo, benevolenza da tutti e sempre. - Alzo lo sguardo verso il campanile e vedo una piccola campanella agitarsi in tutti i versi per produrre con ogni suo sforzo un armonioso scampanio. - Pel cortile musica di qua, musica di là: chi corre, chi salta, chi canta, chi suona. Che cosa è mai tutto questo?
Filot. Ecco in due parole la ragione. Oggi fu benedetta la pietra angolare della novella nostra chiesa. Sua Altezza il Principe Amedeo si degnò di venire a deporvi sopra la prima calce; Sua Eccellenza il Vescovo di Susa ne venne a fare la religiosa funzione; gli altri poi sono una schiera di nobili personaggi e d'insigni nostri Benefattori, che intervennero a fine di prestar omaggio al Figlio del Re, e nel tempo stesso rendere piú maestosa la solennità di questo bellissimo giorno.
Benv. Ora comprendo la cagione di tanta allegria; ed avete ben motivo di celebrare una gran festa. Ma, se mi permettete una osservazione, sembrami che voi l'abbiate sbagliata nella parte principale. In un giorno così solenne per fare la debita accoglienza a tanti insigni personaggi, all'Augusto Figlio del nostro Sovrano, voi avreste dovuto preparare grandi cose. Voi avreste dovuto costrurre archi trionfali, coprire di fiori le strade, inghirlandare ogni angolo di rose, ornare ogni parte di eleganti tappeti, con mille altre cose.
Teod. Hai ragione, caro Benvenuto, hai ragione, questo era nostro comune desiderio. Ma che vuoi? Poveri giovanetti, come siamo, ne fummo impediti non dalla volontà, che in noi è grande, ma dall'assoluta nostra impotenza.
Filot. A fine di ricevere degnamente questo nostro amato Principe, pochi giorni or sono ci siamo tutti radunati per trattare quanto era da farsi in un giorno cotanto solenne. Uno diceva: Se io avessi un regno vorrei offerirglielo, poichè ne è veramente degno. Optime, risposero tutti, ma, poverini, abbiamo niente. Ah, i miei compagni soggiunsero, se non abbiamo un regno da offerirgli, possiamo almeno costituirlo Re dell'Oratorio di S. Francesco di Sales. Noi fortunati! tutti esclamarono, allora cesserebbe tra noi la miseria, e vi sarebbe una festa perenne. Un terzo poi, vedendo senza fondamento le altrui proposte, conchiuse, che noi potevamo farlo Re dei nostri cuori, padrone del nostro affetto; e poichè parecchi nostri compagni sono già sotto a' suoi comandi nella milizia, offerirgli la nostra fedeltà, la nostra sollecitudine, qualora venisse il tempo in cui noi dovessimo militare nel reggimento da lui diretto.
Benv. Che risposero i tuoi compagni?
Filot. Tutti accolsero con gioia quel progetto. In quanto poi agli [1037] apparecchi del ricevimento abbiamo detto unanimi: Questi Signori vedono già cose grandi, cose magnifiche, cose maestose a casa loro, e sapranno dare benigno compatimento alla nostra impotenza; e abbiamo motivo di tanto sperare dalla generosità e dalla bontà del loro cuore.
Teod. Benissimo, approvo quanto dite. Ma intanto non dobbiamo almeno loro in qualche modo manifestare la nostra gratitudine, e rivolgere loro qualche parola di ringraziamento?
Benv. Sì, miei cari, ma prima vorrei che appagaste la mia curiosità intorno a parecchie cose riguardanti agli Oratorii ed alle cose che in essi si fanno.
Filot. Ma noi faremo esercitare di troppo la pazienza a questi amati Benefattori.
Benv. Credo che tal cosa tornerà loro eziandio di gradimento. Imperocchè siccome essi furono e sono tuttora nostri insigni Benefattori, ascolteranno con piacere l'oggetto della loro beneficenza.
Filot. Io non sono in grado di fare tanto, perchè è appena un anno dacchè sono qui. Forse Cratippo, che è de' più anziani, sarà in grado di appagarci; non è vero, Cratippo?
Crat. Se giudicate che io sia capace di tanto, volentieri mi adoprerò per appagarvi. - Dirò primieramente che gli Oratorii nella loro origine (1841) non erano altro che radunanze di giovanetti per lo più forestieri, che nei giorni festivi intervenivano in siti determinati per essere istruiti nel Catechismo. Quando poi si poterono avere locali più opportuni, allora gli Oratorii (1844) divennero luoghi in cui i giovani si radunavano per trattenersi in piacevole ed onesta ricreazione dopo avere soddisfatto ai loro religiosi doveri. Quindi giocare, ridere, saltare, correre, cantare, suonare, trombettare, battere i tamburri era il nostro trattenimento. - Poco dopo (1846) vi si aggiunse la scuola domenicale, di poi (1847) le scuole serali. - Il primo Oratorio è quello ove noi ci troviamo, detto di S. Francesco di Sales. Dopo questo se ne aprì un altro a Porta Nuova; quindi un altro più tardi in Vanchiglia, e pochi anni sono quello di S. Giuseppe a S. Salvario.
Benv. Tu mi racconti la storia degli Oratorii festivi, e questa piace assai; ma io vorrei sapere qualche cosa di questa casa. Di quale condizione sono i giovanetti accolti in questa casa? In quale cosa sono essi occupati?
Crat. Sono in grado di poterti soddisfare. Fra i giovani che frequentano gli Oratorii, ed anche di altri paesi, se ne incontrano alcuni, i quali o perchè totalmente abbandonati, o perchè poveri o scarsi di beni di fortuna li attenderebbe un tristo avvenire, se una mano benefica non prendesse di loro cura paterna, ed accoltili, loro non somministrasse quanto è necessario per la vita.
Benv. Da quanto mi dici, pare che questa casa sia destinata a poveri [1038] giovanetti, e intanto io vi vedo tutti così ben vestiti che mi sembrate tanti signorini.
Crat. Vedi, Benvenuto, attesa la festa straordinaria che oggi facciamo, ciascuno trasse fuori quanto aveva o potè avere di più bello, e così possiamo fare, se non maestosa, almeno compatibile comparsa.
Benv. Siete molti in questa casa?
Benv. Ottocento! ottocento! E come soddisfare all'appetito di tanti distruggitori di pagnottelle?
Crat. Di questo noi non ci occupiamo; ci pensi il panattiere.
Benv. Ma come far fronte alle spese che occorrono?
Crat. Da' uno sguardo a tutti questi personaggi che con bontà ci ascoltano, e tu saprai chi e come si provvede quanto occorre per vitto, vestito, ed altro che sia all'uopo.
Benv. Ma la cifra di ottocento mi sbalordisce! In qual cosa si possono mai occupare tutti questi giovani e di giorno e di notte!
Crat. È cosa facilissima occuparli di notte. Ciascuno a letto dorme il fatto suo e sta in disciplina, ordine e silenzio, sino al mattino.
Crat. Dico questo per secondare la celia che mi proponesti. Se poi vuoi sapere quali siano le nostre giornaliere occupazioni, te le dirà pure in poche parole. Essi dividonsi in due principali categorie. Una di Artigiani, l'altra di Studenti. - Gli Artigiani sono applicati ai mestieri di sarti, calzolai, ferrai, falegnami, legatori, compositori, tipografi, musici e pittori. Per esempio, queste litografie, questi dipinti sono lavoro de' nostri compagni. Questo libro è stato stampato qui, e fu legato nel nostro laboratorio.
In generale poi sono tutti studenti, perchè devono tutti frequentare la scuola serale, ma coloro che manifestano maggior ingegno e miglior condotta sogliono dai nostri superiori essere applicati esclusivamente allo studio. Per questo noi abbiamo la consolazione di avere fra i nostri compagni alcuni medici, altri notai, altri avvocati, maestri, professori, ed anche parroci.
Benv. E questa musica è tutta dei giovani di questa Casa?
Crat. Sì, i giovani che testè cantarono o suonarono sono giovani di questa Casa; anzi la stessa composizione musicale è quasi tutta roba dell'Oratorio; imperciocchè ogni giorno ad ora determinata vi è scuola apposita, e ciascuno oltre ad un mestiere od allo studio letterario, può avanzarsi nella scienza musicale.
Per questo motivo noi abbiamo il piacere di aver eziandio parecchi nostri compagni che esercitano luminose cariche civili e militari per la scienza letteraria, mentre non pochi sono addetti alla musica in vari reggimenti, nella Guardia Nazionale, nel medesimo Reggimento di S. A. il Principe Amedeo. [1039] Benv. Questo mi piace assai; così quei giovanetti che sortirono dalla natura perspicace ingegno possono coltivarlo, e non sono costretti dalla indigenza a lasciarlo inoperoso, od a fare cose contrarie alle loro propensioni. -Ma ditemi ancora una cosa: entrando qui ho veduto una chiesa bella e fatta, e tu mi hai detto che se ne vuol fare un'altra: che necessità àvvi di questo?
Crat. La ragione è semplicissima. La chiesa di cui ci siamo finora serviti era specialmente destinata ai giovanetti esterni che intervenivano nei giorni festivi. Ma pel numero ognor crescente di giovanetti accolti in questa casa, la chiesa divenne ristretta, e gli esterni ne sono quasi totalmente esclusi. Dimodochè possiamo calcolare che nemmeno un terzo dei giovani che interverrebbero possono aver posto. Quante volte si dovettero respingere schiere di giovanetti e permettere che andassero a fare i monelli nelle piazze per la sola ragione che non eravi più posto in chiesa!
Si aggiunga ancora che dalla chiesa parrocchiale di Borgo Dora fino a S. Donato esiste una moltitudine di case, e molte migliaia di abitanti, nel cui mezzo non avvi nè chiesa, nè cappella, nè poco, nè molto spaziosa: nè pe' fanciulli, nè per gli adulti che pure v'interverrebbero. Era pertanto necessaria una chiesa abbastanza spaziosa per accogliere i fanciulli, e che somministrasse anche spazio per gli adulti. A questo pubblico e grave bisogno tende a provvedere la costruzione della chiesa che forma l'oggetto della nostra festa.
Benv. Le cose così esposte mi dànno una idea giusta degli Oratorii e dello scopo della chiesa, e credo che ciò torni anche di gradimento a questi Signori, che così conoscono dove vada a terminare la loro beneficenza. Mi rincresce per altro molto di non essere un eloquente oratore od un valente poeta per improvvisare uno splendido discorso, od un sublime poema sopra quanto mi hai detto con qualche espressione di gratitudine e di ringraziamento a questi Signori.
Teod. Io pure vorrei fare altrettanto, ma appena so che in poesia la lunghezza delle linee deve essere uguale e non più; perciò a nome dei miei compagni e dei nostri amati Superiori solo dirò a S. A. il Principe Amedeo e a tutti gli altri Signori che noi fummo contentissimi di questa bella festa; che faremo una iscrizione in caratteri d'oro in cui si dica:
Tra di noi sempre sarà. [1040] A Voi poi in particolare, Altezza Reale, dico che noi Vi portiamo grande affetto, e ci avete procurato un grandissimo favore col venirci a visitare, e che ogni qualvolta avremo la bella ventura di vedervi per la città o altrove, oppure ascolteremo parlare di Voi, sarà sempre per noi oggetto di gloria, di onore, di verace compiacenza. Prima per altro che partiate da noi, permettete che a nome de' miei amati Superiori e de' miei cari compagni Vi domandi un favore; ed è che Vi degniate ancora di venire altre volte a vederci per così rinnovarci la gioia di questo bel giorno. Voi poi, Eccellenza, continuateci quella patema benevolenza che ci avete finora usato. Voi, o Signor Sindaco, che in tante guise prendeste parte al nostro bene, continuateci la vostra protezione, e procurateci il favore che la via Cottolengo venga rettificata di fronte alla novella chiesa; e noi vi accertiamo, che raddoppieremo verso di voi la profonda nostra gratitudine. Voi, signor Curato, degnatevi di considerarci sempre non solo come parrocchiani, ma come cari figli che in voi ravviseranno ognora un tenero e benevolo padre. A tutti poi ci raccomandiamo affinchè vogliate continuare ad essere, come lo foste nel passato, insigni benefattori specialmente per compiere quel santo edifizio che forma l'oggetto dell'odierna solennità. Esso è già cominciato, già sorge fuori terra, e col fatto porge egli stesso la mano ai caritatevoli perchè lo conducano a compimento. In fine mentre vi assicuriamo che rimarrà grata ed incancellabile ne' nostri cuori la memoria di questo bel giorno, unanimi preghiamo la Regina del cielo, a cui è dedicato il novello tempio, che vi ottenga dal Datore di tutti i beni vita lunga e giorni felici.
PER LA BENEDIZIONE DELLA PRIMA PIETRA DELLA CHIESA DA ERIGERSI PRESSO ALL'ORATORIODI S. FRANCESCO DI SALES IN VALDOCCO.
DISCORSO (del Can. Lorenzo Gastaldi).
Siamo creati per il cielo, fratelli miei; lassù è la nostra patria, lassù abbiamo da vivere per tutta l'eternità e da godervi quella beatitudine che è il desiderio più ardente del nostro cuore.
E la vita presente che cosa avrà mai da essere? Niente altro che un apparecchio al cielo. Guai a noi, se consideriamo il nostro vivere quaggiù [1041] sotto altro aspetto da quello in fuori d'una preparazione all'eternità del paradiso! Noi saremmo come il pellegrino, il quale ignora la strada, che sola deve condurlo al termine del suo viaggio. Epperò la nostra vita presente deve essere tutta consecrata alla gloria del sommo Iddio, il quale come è il nostro principio, così ha da essere il nostro unico fine: vale a dire, la nostra vita vuol essere santificata costantemente dalla religione.
Ma dov'è specialmente che si impara e si pratica la religione? Egli è senza dubbio in quegli edifizi, che sono destinati esclusivamente a onorare il nostro Creatore, ed i quali perciò che in essi abita il suo divin Figliuolo, con ogni buon diritto sono chiamati casa di Dio, e presentano un'immagine viva della Gerusalemme celeste. Oh! quanto egli è da desiderare, che sorgano fra noi in gran numero questi sacri edifizi, e vi sia gran numero di sacerdoti, i quali e colla parola di vita e colla virtù dei sacramenti li renda fonti inesausti di grazie divine.
Questo è il desiderio, che vive nei vostri cuori, fratelli miei, e che vi fece accorrere a questo luogo per dar mano a gettare le fondamenta della chiesa, che quivi si innalzerà a onore di Maria SS. sotto il titolo di Auxilium Christianorum.
Lasciate quindi, che io vi ragioni della necessità di erigere questo sacro edifizio, e di moltiplicare le chiese nella nostra città, e vi esponga la convenienza del luogo ove lo si innalza e le care speranze che giustamente si fondano sul titolo consolantissimo Maria Auxilium Christianorum, di cui questa chiesa sarà onorata.
Siatemi cortesi della vostra divota attenzione, ed incomincio.
Già ve lo accennai, che abbiamo bisogno di percorrere lo stadio dei nostri giorni vicini alla casa di Dio: perchè la religione oltre ad essere il nostro primo dovere è anche la prima necessità della nostra esistenza, conciossiachè noi viviamo su questa terra pel solo fine di arrivare al cielo, e l'unica via per giungere è la religione.
La religione perciò (e ciò dicendo; dico la santa religione cattolica, fuori della quale sono solamente credenze erronee, e superstizioni, non religioni), la religione, ripeto, deve dar forma a tutta la nostra vita, e da essa devono prendere la norma tutti i nostri pensieri, i nostri affetti e le nostre opere. Se nell'universo tutto è regolato, e non è cosa per quanto piccola la quale avvenga senza l'impulso di una legge o forza, quanto più l'uomo, che è come il re dell'universo, e in sè stesso racchiude un mondo più mirabile di quello che lo circonda, deve essere tutto ordinato non solo nelle potenze del corpo ma specialmente in quelle dell'anima? E donde verrà la regola e la legge che deve ordinarlo nella mente e nel cuore, non forse dal suo Creatore? Oh certo l'uomo abbisogna, in prima cosa, di conoscere il suo Dio, e di conoscerne le perfezioni, le opere, e le leggi. Egli abbisogna di adorare Iddio, di ringraziarlo, di supplicarlo, e renderselo propizio e di placarne la collera. [1042]
Ora benchè egli possa in parte fare tutte queste cose ovecchesia, non è però men vero, che egli assai difficilmente le fa quando non è dentro alla casa di Dio, e che solo nella casa di Dio egli si ammaestra a dovere in tutto ciò, che riguarda la religione, e forma il suo cuore a un vivo sentimento religioso e riceve il principale impulso agli esercizi della vita divota. E in fine solo nella casa di Dio dimora realmente il nostro divin Redentore sotto le specie eucaristiche; e solo qui egli compie il grande atto in cui sta la essenza della religione, che è il sacrificio del suo Corpo e del suo Sangue, e solo quivi egli ci porge questo suo Corpo adorabile e questo suo preziosissimo Sangue in cibo e bevanda della nostra anima.
Le chiese adunque son necessarie per apprendervi ed esercitarvi la religione. E siccome la religione per potere informare tutta la nostra vita ha da essere esercitata più spesso che sia possibile, così ci è necessario che gli edifizi consacrati a Dio sieno vicini alla nostra dimora, da potervisi recar facilmente; locchè non può ottenersi senza moltiplicare le chiese.
La operosità umana cresce ogni dì più e la gran massa dei cittadini si trova involta come in un turbine di affari, ed in un tale di agitazione giornaliera da non saper trovare che poco tempo per le necessità dell'anima. Epperò la massima parte degli abitanti d'una città ove non possa in breve spazio di ora soddisfare alle esigenze della religione, vale a dire, quando non abbia la chiesa a pochi passi dalla sua dimora, vivrà come se la sua esistenza non fosse altro che materia, e per lei tutto avesse a finir nella tomba.
Quindi è, che la necessità di abitare come in mezzo alle chiese per poter vivere una vita, che sia proprio un apparecchio al cielo, fu sempre mai sentita dai cristiani: e non appena il gran Costantino dopo avere collocata la croce in punta al suo diadema diede licenza di innalzare templi al vero Dio per tutto il romano impero, subito si videro in ogni parte sorgere a migliaia le chiese cattoliche, e tutta Europa nelle città e nelle campagne venne abbellendosi di una moltitudine senza fine di sacri edifizi con immenso guadagno delle arti e dell'industria, tutti facendo a gara di avere il più gran numero di chiese, e di averle più che gli altri, splendide e magnifiche.
E la nostra Torino non si tenne già estranea a quel movimento religioso; che anzi avendo assai presto ricevuto dentro di sè la luce divina della fede cattolica, tosto dimostrò il bisogno che la pressava di nodrire la sua fede nella santa casa di Dio, ed innalzò varie chiese al divin Salvatore, a Maria SS., a SS. Martiri Torinesi, a SS. Pietro e Paolo, a S. Stefano, S. Lorenzo, S. Agnese e S. Silvestro, di modo che a tutti i torinesi, in qualunque parte della città dimorassero, riusciva più che facile il frequentare il luogo santo, per santificarvi l'anima e sollevarla verso il cielo. Tutte queste chiese già esistevano ai tempi di S. Massimo [1043] nostro vescovo ed uno dei più celebri padri della Chiesa; eppure egli eccitava i nostri avi a fabbricarne di nuove: ed avendo alcuni torinesi corrisposto al suo invito, ed edificato una nuova basilica, egli quando la consacrò encomiò la loro generosità, nel suo pubblico sermone, proponendola quale esempio da imitarsi.
Ecco con qual mezzo, fratelli miei, Torino divenne una città così cristiana, che la fede pareva quasi radicata nel suolo, e infiltrata nelle pareti, e sparsa nell'atmosfera. I nostri maggiori non potevano uscire di casa senza trovarsi tosto innanzi a qualche santuario, il quale e colla sua presenza e col suono delle campane li invitava a pregare. Era per tutti loro cosa facilissima il cominciare e finire il dì nel tempio santo, cosa facilissima nei giorni festivi nodrirsi del pane della divina parola e dei sacramenti: imperocchè in pochi minuti essi erano nella casa di Dio, come dalla casa di Dio in pochi minuti essi erano di nuovo tra loro negozi.
Così la religione fioriva tra noi, ed insieme colla religione cresceva il buon ordine delle famiglie e la pubblica moralità; e Torino era in riputazione d'una delle città più costumate e regolate.
Nè questo ottimo spirito religioso venne meno nelle età seguenti; chè anzi quante volte si ampliò la nostra città, in proporzione dell'aggiugnersi nuove case si innalzarono nuovi templi; e spesse volte la casa di Dio sorgeva prima degli altri edifizi, ed i nuovi abitatori col prender possesso delle loro dimore già trovavano il luogo santo ove provvedere alle necessità dello spirito.
Esaminate, fratelli miei, le ampliazioni di Torino fatte sul principio del secolo passato, e le chiese di S. M. del Carmine, della Confraternita del S. Sudario, di S. Teresa, della Visitazione, di S. Croce, S. Pelagia, S. Michele, e sovratutto di S. Filippo, a tacere di quattro altre ora convertite ad uso profano, erette appunto in quell'età, vi palesano quanto i nostri maggiori sentissero il bisogno di moltiplicare le chiese a misura che si moltiplicavano le case. E ciò perchè essi illuminati dalla fede e dalla ragione capivano, che l'uomo dee vivere di sentimento religioso, e che perciò abbisogna di non avere la sua dimora lontana dalla casa di Dio.
Essi capivano ancora un'altra cosa, che non si vuole capire oggidì, la religione cioè essere la base della società civile, ed il legame che tiene uniti tra loro i cittadini e li fa membri di uno stesso corpo. Imperocchè gli uomini non sono pura materia, ma spiriti che vivono dentro a corpi: ed il legame degli spiriti è la coscienza, la quale diventa una parola senza significato quando manca la religione, e per contro cresce di forza col crescere della fede.
Anche i gentili intesero e intendono questa verità, e quindi costrussero gran numero di edifizi religiosi per rendere la vita sociale una vita di religione. L'Egitto, la Persia, l'India, la Cina ed ogni parte del mondo [1044] ancora abitata da gente idolatra, mostra una moltitudine sterminata di questi edifizi dedicati al culto delle loro divinità.
Chi visita gli avanzi di Roma pagana, sentesi preso da meraviglia nel vedere i magnifici residui di un sì gran numero di templi consacrati ai dei dell'impero, e sì vicini gli uni agli altri. Il celebre foro romano contava quasi più templi che palagi; a misura che si aggiungnevano nuovi portici, nuove basiliche, nuove terme, si erigevano nuovi templi: e questi si voleva che sorpassassero gli altri edifici in mole e ricchezza, come ne fa testimonianza il Panteon, che ancora esiste.
Troverete città senza mura, scriveva un celebre storico pagano, troverete città senza mura e senza fortezze e senza piazze e senza anfiteatri, ma città senza templi non troverete mai.
Gli antichi adunque, fossero idolatri, fossero cristiani, riguardavano gli edifizi della religione siccome il più bell'ornamento d'una città. E ne avevan ragione. Per quanto splendida possa apparire mai una città, se mancano le chiese, se la religione non fa quasi nessuna mostra di sè tra gli edifizi pubblici, vi manca la principale bellezza, vi manca ciò che dà vita all'ordine sociale. Una città che si amplifichi e ingrandisca senza costrurre nella debita proporzione delle nuove chiese egli è come se il nostro corpo si amplificasse, ma l'anima non prendesse possesso di questa aggiunta e rimanesse ristretta alle parti antiche senza vivificare le nuove.
Le vie spaziose, gli splendidi palagi, le lunghe file di magnifici portici, i giardini ameni, le piazze ampie e regolari possono dilettare gli occhi per breve tempo, ma non hanno virtù di sollevare la mente a sublimi pensieri, e molto meno di infondere nel cuore quei sentimenti di pace, di calma, di speranza e di amore, che pure formano la sua vita. Siamo esuli, fratelli miei, siamo pellegrini fuori della patria celeste; e quindi tutte le bellezze ed amenità di questo mondo, se non hanno il potere di sollevare i nostri sguardi e portare i nostri desideri verso del cielo, rimangono sempre cose di questa misera valle di esiglio, e mancano di quella nobiltà e quella sublimità, che è un elemento della vera bellezza. Egli è l'aspetto della chiesa, che risveglia in noi il sentimento della nostra dignità, e che ci fa dire con S. Paolo: noi non siamo estranei e forestieri al cielo: ma siamo concittadini degli abitatori di lassù, facciamo parte della casa di Dio. Questa è la ragione per cui nelle età passate i cristiani andavano a gara per abbellire le loro città di chiese, che erano portenti di architettura, e che, colle loro cupole ed aguglie fendendo le nubi, parevano voler portare a viva forza verso il cielo i cuori di chi le contemplava. Quest'è la ragione per cui i nostri maggiori ornavano di varie chiese le vie principali della città, fra le quali quella ove riposano le ossa dei SS. Martiri torinesi, la quale è tutta a marmi e bronzi: ed abbellivano la piazza principale colle stupende cupole di S. Lorenzo e SS. Sudario, e a breve distanza dal palazzo municipale [1045] facevano sorgere quello splendido tempio che ci ricorda il miracolo del Corpus Domini.
Se all'entrare in una città, e percorrendone le vie non si incontra alcuna immagine sacra, non si vede la casa di Dio, o assai di rado, egli non è possibile il non domandare a noi stessi: e che classe di gente abita in questi luoghi? Sanno essi di avere un'anima creata per la eternità? Sanno essi, che la religione è l'unico fondamento sicuro dei doveri, che si hanno da adempiere tra marito e moglie, tra i genitori ed i figli, tra padroni e servi, tra cittadini e cittadini? Se non lo sanno: in verità non vi ha popolo così selvatico, non tribù così aliena dal vivere civile, che non li sorpassi in ciò che forma la prima coltura dell'uomo.
E se lo sanno, come va, che non si provvedono di chiese, ove imparare, ed ove esercitare la religione? Ignorano forse, che dove mancano le chiese, tardi o tosto la Fede si estingue e la religione sparisce?
Oh faccia Dio, che ritornino e presto, quei tempi, quando una città non cresceva mai di case senza crescere anche di chiese! conciossiachè solo nella casa di Dio è la norma certa e la salvaguardia sicura dei costumi che debbono informare i cittadini. Faccia Dio, che tosto veggiamo un gran numero di chiese sorgere nelle parti nuove di questa nostra cara Torino, e sorgere le une più splendide e più sontuose delle altre, dovendo la casa di Dio vincere qualunque sia edifizio in bellezza e splendore. E frattanto ringraziamo l'Altissimo Iddio che in questa parte della città, dove in un distretto parrocchiale di 26.000 abitanti non è che una piccola chiesa, si innalzi ora questo sacro edifizio, e cooperiamo con tutta la generosità possibile, acciocchè quanto prima giunga a perfezione.
Le più gloriose reminiscenze e le più dolci speranze gli fanno corona.
Esso si eleva nella valle, che i nostri padri intitolarono degli uccisi, (vallis occisorum) perchè quivi è tradizione, che i Santi Martiri Avventore ed Ottavio sul finire del secolo III° versassero il sangue per la S. Fede cattolica. Questo è perciò un terreno cosperso del sangue dei martiri, e quindi favorito dal cielo di speciali benedizioni, come attestano i molti e veramente ammirabili istituti di carità che lo circondano, fra i quali il colosso della piccola Casa della Provvidenza, e come ci fa fede l'Oratorio qui attiguo ove sono da 700 giovani che vi ricevono educazione cristiana ed i quali salveranno almeno una parte della crescente generazione dal naufragio della incredulità e della scostumatezza.
Questa nuova chiesa inoltre porterà il titolo glorioso di Maria Auxilium Christianorum. E chi è di noi, fratelli cari, che non si senta il cuore rallegrato dalle più dolci speranze in pensare che quivi sarà uno dei luoghi, dove Maria apre i tesori delle sue misericordie? I discepoli di Gesù Cristo hanno sempre riposte le loro speranze nella protezione della Madre del loro divino Maestro, e da Lei si aspettarono e ricevettero mai sempre ogni ajuto che loro fosse necessario: e Maria mostrò [1046] sempre mai d'essere l'ajuto dei cristiani, Auxilium Christianorum.
A Maria infatti ricorreva il Pontefice S. Gregorio M. e in grazia di
Lei Roma era liberata dal flagello di orribile pestilenza. A Maria si rivolgevano i cristiani di Costantinopoli tutte le volte che ebbero a combattere coi Turchi, e sempre vinsero, finchè essi stessi non consumarono la loro ribellione contro del Vicario di G. C. A Maria pregarono i cristiani della Linguadoca guidati dal valoroso e pio Monfort contro i feroci Albigesi, e riportarono una piena vittoria. A Maria fece appello il Pontefice S. Pio V, quando i Maomettani con una flotta immensa si avanzavano furibondi contro la nostra Italia, e la vittoria delle navi cristiane fu così piena, che gran numero di bandiere turche furono offerte a Maria nella sua chiesa del Campidoglio; e d'allora in poi per decreto della S. Sede Maria venne sempre salutata Auxilium Christianorum. A Maria supplicarono i nostri padri in quei tre mesi di angoscie che durò l'assedio di Torino nel 1706, e che portentoso ajuto ne ottenessero ce lo dice la stupenda basilica di Superga, che incorona i nostri colli e la processione generale che facciamo nella Natività della B. V.
A Maria presentammo anche noi le nostre suppliche, or son quasi 30 anni, quando il morbo asiatico mietendo a centinaja e migliaja le vittime nelle città vicine, già cominciava a darci dei colpi della sua falce; e la colonna, che si ammira innanzi al Santuario della Consolazione, dice a tutti che assistenza prodigiosa ci sia stata fornita.
Però fra gli innumerevoli e soavissimi ricordi, che abbiamo dell'aiuto dato da Maria ai cristiani, ve n'è uno che sempre ci riempie di meraviglia tutte le volte che lo richiamiamo alla mente, ed è, quando il Sommo Pontefice Pio VII contro ogni aspettazione se ne ritornò a Roma a sedere sul trono di S. Pietro dopo una lunga ingiustissima prigionia.
Deh che giorni di prova e dolore furono mai quelli per i cristiani! Il Padre comune, strappato violentemente dalla sua Sede, gemeva da cinque anni sotto la tirannia di un imperatore scaltro e potente, il quale voleva costringerlo a tradire la Chiesa. Tutti pregavano la gran Donna che ha schiacciato il capo al serpente infernale di assistere il Sommo Pontefice in una lotta così terribile: e il buon Pio VII non cessava di abbandonarsi nelle mani della Regina de' Cieli, onorandola specialmente nella sua marmorea immagine del Santuario di Savona. E Maria diede nuove prove di essere il nostro ajuto. Imperocchè tutto a un tratto cadde la potenza colossale di Napoleone I, fondata com'era su l'orgoglio ed una politica di sangue, e il Vicario di G. C. in mezzo all'esultanza universale ritornò alla sua Roma: ove in rendimento di grazie alla sua celeste protettrice, decretò, che ogni anno il dì 24 maggio, anniversario di quel suo inaspettato ritorno, fosse consacrato a Maria sotto il titolo di Auxilium Christianorum.
Ma e non sono anche giorni di prova e di prova terribile i giorni presenti? [1047] Ah purtroppo Satana mentre adopera tutte le sue arti per distruggere la Chiesa e con essa sovvertire ogni ordine, è riuscito ad ingannare sì gran numero di gente, che dai più non si vede l'abisso, in cui stiamo per rovinare. Si fa guerra a Dio, al suo divin Figliuolo Gesù, alla sua Chiesa, ed al suo Vicario. Dirò meglio, si fa guerra a qualunque virtù, alla giustizia, all'umiltà, all'obbedienza, al pudore: si fa guerra a qualunque sia diritto e dovere di marito e sposa, di genitori e figli, di proprietarii ed operaj, si vuole rinnegare ogni massima, ogni principio, ogni verità. Si desidera il caos, e si vorrebbe con sacrilega ed empia baldanza disfare tutto ciò che fece il sommo Iddio per rifare ogni cosa secondo i capricci dell'orgoglio e della libidine.
Chi ci salverà? Maria, fratelli miei, la quale è sempre il nostro ajuto. Maria, che ha salvato il nostro caro ed immortale Pio IX, Maria che in questi tempi a Roma, a Parigi, alla Salette, a Vicovaro, a Rimini ed ora a Spoleto con nuovi portenti, ci invita a pregarla, essa ci salverà.
Apriamo dunque il cuore alla speranza, fratelli miei, Maria è con noi, se noi mettiamo ogni fiducia nel suo ajuto: e se Maria è con noi, noi siamo certi, che la Religione, la Chiesa, il Pontefice, e con loro l'ordine pubblico e la civile società, hanno da trionfare.
Rallegriamoci adunque, perchè questa nuova chiesa sorga a onor di Maria, e speriamo, che essa sarà di stimolo a tutti noi a tosto arricchire ed abbellire la città di nuove chiese che sono così necessarie: e che nei tempi avvenire sarà mostrata quale un monumento della protezione di Maria e della nostra costanza nella fede. Perchè si dirà: quando l'eresia voleva spegnere la fede in Torino, i Torinesi fabbricavano questa Chiesa.
LOTTERIA D'OGGETTI POSTA SOTTO LA SPECIALE PROTEZIONE
il Principe AMEDEO DI SAVOIA, Duca d'Aosta, Colonnello nel 65 reggimento fanteria,
il Principe EUGENIO DI CARIGNANO,
la Principessa MARIA ELISABETTA DI SASSONIA, Duchessa di Genova.
il Principe TOMMASO DI SAVOIA, Duca di Genova,
la Principessa MARGHERITA MARIA TERESA,
a favore degli Oratori maschili di Valdocco, di Porta Nuova e di Vanchiglia in Torino e per l'ultimazione di una chiesa in Valdocco. [1048]
Il fare ricorso alla pubblica beneficenza con Lotterie è un mezzo divenuto così frequente che noi non ci saremmo ad esso appigliati, se non fossimo in certo modo costretti da un bisogno cui non si sa come altrimenti provvedere. Noi pertanto col solo accennare questi bisogni giudichiamo di fare abbastanza manifesto il motivo di questa lotteria. Crediamo cosa nota come in Torino da parecchi anni siansi aperti Oratorii maschili nei principali quartieri della città, ove si raccoglie quel maggior numero che si può di giovanetti pericolanti. Ivi sono trattenuti con onesta e piacevole ricreazione dopo aver soddisfatto ai doveri di Religione, e si allettano con premii, con po' di ginnastica e con le scuole. Un ragguardevole numero di Sacerdoti, chierici e di pii signori vengono solleciti a prestar l'opera loro col fare il Catechismo, col vegliare che compiano i loro doveri nelle rispettive officine lungo la settimana, e collocando presso ad onesto padrone coloro che fossero disoccupati. Fra questi giovani se ne incontrano parecchi i quali sono talmente poveri ed abbandonati, che non potrebbero avviarsi ad alcun mestiere senza dar loro alloggio, vitto e vestito. A questi bisogni eccezionali provvede la casa, detta Oratorio di S. Francesco di Sales.
I giovanetti accolti in questa casa sono divisi in due categorie, studenti ed artigiani[30]. Oltre le scuole giornaliere per quelli che sono applicati allo studio, hanno eziandio luogo le scuole serali, ove sono insegnate le scienze elementari, il canto fermo, la musica vocale ed istrumentale. Queste scuole sono tanto per gli interni quanto per gli esterni. Un bisogno poi tutto particolare apparve della costruzione di una chiesa. Quella di cui si fece uso finora appena può accogliere gli allievi della casa che presentemente sono in numero di circa ottocento. Sicchè la moltitudine di giovanetti che oltre ad un migliaio interverebbero all'Oratorio di Valdocco, ne sono esclusi per mancanza di sito. A tale scopo fu iniziata la costruzione di una novella chiesa assai più spaziosa, destinata ai giovanetti esterni ed anche ad uso degli adulti. Si è già comprato il terreno, si scavarono le fondamenta e l'edifizio si avanza con alacrità all'altezza del coperto. Ma questo edifizio così ben cominciato, e di cui cotanto sentesi il bisogno, non si potrebbe terminare se la pubblica beneficenza non viene in aiuto.
Dato questo breve cenno, è facile il comprendere dove sia diretto il provento della Lotteria. Le spese dei fitti dei rispettivi locali, la manutenzione delle scuole, somministrare quanto occorre pel divin culto [1049] nelle tre Chiese, provvedere ai bisogni più urgenti di alcuni, dar pane ai ricoverati, estinguere un debito dovutosi contrarre nella costruzione di un tratto di casa, continuare l'edifizio della novella chiesa sono l'oggetto del grave dispendio cui tende a provvedere la progettata Lotteria.
Nè seppesi ideare altro mezzo più opportuno come quello che tende la mano alla grande ed alla piccola beneficenza in qualunque misura, e ci apre la via a ricorrere eziandio con fiducia tanto ai benemeriti nostri concittadini, quanto alle persone agiate che dimorano nelle altre città o paesi di provincia[31].
Diciamo di avere molta fiducia anche nella carità di quelli che abitano fuori di questa città; imperciocchè i giovanetti che ivi intervengono in parte sono di Torino, ma il maggior numero proviene dalle città e dai diversi paesi, donde recansi in questa città per cercare lavoro o per attendere allo studio. Per esempio coloro che sono accolti e dimorano attualmente nella casa annessa all'Oratorio di S. Francesco di Sales in Valdocco ascendono a circa 800, e di costoro solamente 60 sono Torinesi, gli altri provengono da altri paesi. La stessa proporzione facciasi degli Oratorii festivi, ove il numero dei giovanetti che sogliono intervenire monta a più migliaia.
Dal piano di regolamento ivi annesso ognuno può conoscere con quali mezzi e in quale misura potrà tornare a grado di concorrere ad opera che, diretta a promuovere il bene della classe più bisognosa della società, si estende a favore di chiunque ne voglia approfittare, a qualunque città, paese, o provincia egli appartenga.
Gli augusti e reali Personaggi, i cui nomi sono scritti in capo al presente programma, conosciuta l'importanza dell'opera e pienamente informati dei bisogni in cui versa la medesima, si degnarono di farsi promotori della progettata lotteria.
I membri della Commissione infra descritti confidano che sia per essere ben accolto questo loro progetto, e con tale fiducia pregano dal cielo largo guiderdone a tutti coloro che anche in piccola quantità vi vorrano prendere parte.
PIANO DI REGOLAMENTO PER LA LOTTERIA.
1° Sarà colla massima riconoscenza ricevuto qualunque oggetto d'arte, d'industria, cioè lavori di ricamo, di maglia, dipinti, litografie, fotografie, libri, drappi, tele, vestiario; si riceverà egualmente con gratitudine [1050] ogni lavoro in oro, in argento, in bronzo, in cristallo, in porcellana, e qualunque oggetto di chincaglieria.
2° Nell'atto che si consegneranno gli oggetti sarà scritta sopra un catalogo la qualità del dono e il nome del donatore, a meno che questi ami di conservare l'anonimo.
3° I membri della Commissione, i Promotori, le Promotrici sono tutti incaricati di ricevere i doni offerti per la Lotteria e si fa loro preghiera di farli pervenire al luogo della pubblica esposizione nella casa annessa all'Oratorio di S. Francesco di Sales in Valdocco in quel modo che loro tornerà di minore incomodo.
4° Il numero dei biglietti sarà proporzionato al valore degli oggetti dopo la perizia approvata dalla Prefettura della provincia di Torino.
5° Il prezzo di cadun biglietto è fissato a cent. 50; chi ne acquista una decina avrà l'undecimo gratuito.
6° I biglietti saranno spiccati da un foglio a matrice e muniti della firma di un membro della commissione, e del delegato della Prefettura.
7° Appena sarà fatta competente raccolta di oggetti si notificherà sui giornali il tempo in cui comincierà la pubblica esposizione, che durerà tre mesi dopo cui avrà luogo l'estrazione[32].
8° Si estrarranno tanti numeri quanti sono i premi a vincersi; il primo numero che si estrae dall'urna vincerà l'oggetto corrispondente segnato con N° 1°; il secondo vincerà l'oggetto segnato col N° 2°, e così successivamente.
9° I numeri vincitori saranno pubblicati dai giornali dodici giorni dopo l'estrazione, quindi si comincerà la distribuzione dei premi. I premi poi non ritirati due mesi dopo l'estrazione s'intenderanno donati a benefizio della Lotteria medesima.
Sarà quanto prima publicato il Catalogo dei benemeriti Promotori e benemerite Promotrici, cui è particolarmente raccomandata questa opera di beneficenza. [1051]
Con so permess, o pur senssa permess, |
Perchè mi tant tut'un am fa l'istess, |
Son si a fè servitor e servietin |
A nom dii nostri noi e d' nost codin. |
Ca scusa tant, me public generos, |
S'am vëdo un po genà, un po timoros, |
A l'è la prima volta ch'j eu l'onor |
D ë presenteme dnans a tanti sgnor: |
E p për la prima volta, sanne pa ? |
Podrla restè magara li ambroià. |
Dunque mi i comenssria a ciamè perdon |
Si mancheissa a la sua aspetassion; |
Ansi i prego, se am vëdeisso lì ant l'ambreui |
Ca fasso finta d'nen, ca saro un eui. |
Hisce praemissis s devo prima d' tut |
Ciamè i me sentiment tuti an agiut |
Per rangè ben mie idee an simetria |
Ant le stagere de la mente mia; |
E ca seurto ordinà an tren de viagi |
A quat a quat parei dii tre Re Magi. |
J' avrìa da conteie un bel sognet |
Ch'i j'eu fait mentre j' era cogià ant '1 let, |
Cogià ant '1 let an mentre chi dormia |
Dasendie dintra del mei chi n'avìa. |
Perchè j' eu bonna gamba per durmì, |
E i deurmo an pressa espress per durmì d' pì. |
Mi i deurmo bele al toue, i saro j' eui, |
Stermand '1 me codin sota i linseui; |
E se lor a l'an veuia d' deurmi d' pì |
Ca deurmo deo a memoria parei d' mi. |
Mentre adunque ant 'l seugn' a l'era cheuit |
L'uman gener ant so bonet da neuit, |
E as sentia mac pì d' intant in tan |
Le sciale e i ciôch a gëme da lontan, |
Sortio i me pensé: tranquii e soi |
Sensa dì niente a nsun a doi a doi; [1052] |
E d' l'imaginassion su d' la scalëtta |
S'incaminavo tuti sot brassëtta: |
Dove andeisne? ma..... a dilo an confidenssa |
Son gnanca vnu da mi a ciamè licenssa: |
E i lo savrìa ancora gnanca ades |
Si fussa nen butame a deie apres. |
El fato sta che l'ai veduie a parte |
Senssa nsun passaport e senssa carte. |
E senssa carte e passaport dco mì |
J'eu dëvuie andè apres: cosa andè a dì? |
J'eu dunque traversà ant men d'un quart d'ora |
Tuti i paiis ca j' è, peui d'autri ancóra: |
J'eu girà '1 Canadà, '1 Missipipì, |
Dova nasso i strunei bele rustì. |
J'eu visità le nivle a una pr una |
E le steile ca j' è ant '1 mond dla luna; |
E dova Giove a ten consei con Marte, |
E dova j' autri Dei gieugo le carte, |
Dova la lufia a sifia con la tera, |
E dova tutti i Dei pianto la fera. |
J'eu vëdù i fulmin ca fasia Vulcan, |
E fina Baco con soa bota an man. |
Finalment dop d'avei girà dabin |
Ant le sale, ant le coste, ant ii giardin, |
Dop d'avei traversà disset salon |
Sempre con mia sicoria an procession, |
J'eu finì per andè a fichè me nas, |
C'andviño un po sti sgnori? ant un palas: |
Ant un palas tan pien dle meravie |
Che si j' aveissa da buteme a die, |
I n'avria per fina doman matin |
E chi sa ancora si arivrìa a la fin. |
Dë meravie, d ë cose d' tute sort, |
Che mi i studiava si j' era viv o mort. |
Prima d' tut na magnifica cusifia |
(Perchè me nas l'è d' rassa pitost fifia |
E s'as trata d' quistion d' gastronomia |
A l'è soa ocupassion pi favoria), |
J'eu visità d' camrin e d' gabinet |
Tuti andorà dal paviment al tet, |
E dova l'or a l'era descrostà |
J'era d' perle d' diversa qualità. |
Son surtì da landrinta fora d' mi, |
Chërdend che tut a termineissa li. [1053] |
Quand'un, che mi i conosso ancora nen, |
Am pia per man e peui am dis: Tem nen, |
Sosì l'è niente; j' è ancor d'autre cose |
Pì stupende che coste e pì pressiose. |
|
E quindi ecco Chim treuvo ant un moment |
Dant coule stansse ant n'aut apartament. |
E sì un'auta serie d' meravie, |
E d' cose ca lan fame tan straviss |
Ch'im cherdïa franc d'esse an Paradis., |
Sofà, tremò, pitture, draperie |
Ricam, pisset, brodure, argenterie, |
Un mar d' richësse, un mar da perdme e nieme |
Che mi savia pa pì dova volteme. |
Quand chi vëdo sna taola bin guernia |
N'oget ch'a la colpì mia fantasìa; |
E a l'era nientemem che un bel tesor |
Na montagnetta tuta d' pesse d'or, |
E antorn tanti pilastri d' marenghin |
Dispost an simetrìa, ma franc da bin. |
E come i fussa ancora nen content |
Un aut montruc d'acant d' pesse da sent |
Anvlupà ant carta rossa, giauna e bianca, |
Ca iero peui nen aut che biet d' banca. |
Mi a vëde cól splendor tan bin rangià |
Sai gnanca pì mi dì cos sia restà! |
Contemplè cal baron d'or e d'argent, |
E restè un prus burè l'è sta un moment! |
Son vnu ros, giaun: peui j'eu cambià color, |
Virava i eui, j' era tut sot sor. |
Ma lon ca la stupime ancora d' pì |
A lè che col ca lavìa mname lì |
A la dime che tuti coi tesor, |
Coi biet d' banca e coule pesse d'or |
Chi steissa nen a mediteje d' pì |
Chi mii pieissa, ca l'ero tutt per mi. |
Tut per mi? j'eu crià, tant splendor! |
Che ant un moment i avìa da vnì tan sgnor? |
E im ricordo chi j' era ant un ambreui, |
Che antël seugn' i vorìa ferteme j', eui, |
Perchè antël seugn' am smiava d' sognè, |
Nen podendme persuade d' tanti dnè. |
E col tal ch'am parlava, nen content |
D'aveime fait col bel assortiment |
Sforgionandme en sacocia am ripetia, [1054] |
O tut o nen, chi mii porteissa via. |
Anlora i son butame lì a criè: |
O Don Bosc, finalment ai son i dnè, |
Ai son i dnè per, tirè su la Cesa, |
Che ades pur trop a l'è ancor gnanca mesa, |
Per mancansa d'cui là, cas fa a Turin. |
Ca manda pura an sa i so birichin |
Con d' boñe spale per ch'am dago agiut, |
Perchè mi sol i peuss pa portè tut. |
I veui chi fasso un toc d' sacrestia |
Ca sia del mond l'ottava maravia, |
N' orchestra che i cantor a sìo content |
Ca i staga d' musicant un regiment, |
Contralt, tenor, sopran e bariton |
Timbale, piat, cornet e bombardon. |
Un campanil ca s'ansa tan lontan |
Da feie vni l'invidia al dom d' Milan. |
E ansema al campanil i frabricroma |
Na cupola parei d' san Pietro a Roma, |
Anche a colt che a Soperga per '1 sagrin |
As senta a vni le boie '1 cuculin. |
Ma sì ant '1 seugn' j' avìa bel criè, |
Gnun as bogiava per vnime a giutè. |
Don Bosco ant col moment sentia pa, |
E mi trovandme là tut ambroià, |
Son pro butame a cheuie ii marenghin, |
Empiedme le sacoce e i borghiachin; |
Son ampime quatordes fassolet |
Gropandie con le liasse dii causset. |
Son ampime '1 capel..... ma im acorsìa, |
Che pì i butava e pi ai na stasìa; Fato sta che vëdend d' nen podei |
"Portè tut, i pensava d' fè parei: |
D'ambaronè lon che podia portè, |
Ciapand poc a la volta e peui tornè. |
Im buto adonque per tornemne a cà |
Con i me dnè ambroià pì che carià, |
Tut content e tranquil parei d' Batista |
E superbi e glorios dla mia conquista; |
Ma, cosa mai? an mentre i slongo '1 pè |
E chi deurvo la porta per intrè, |
A j' elo pa restaie '1 me codin |
Antërtoià ant la corda del ciochin? |
I fas n'arsaut, i dag un bel sciancon, [1055] |
I casco giù dal let a rubaton!..... |
]L'è vèi che rivà an tera i son fërmame, |
Ma intant con tut lolì son desviame, |
$ invece d' troveme i marenghin |
Son trovame mi sol con me codin!!..... |
Oh ancora a peulo poi capì '1 torment, |
L' dësgust ch'j' eu provà 'nt col brut moment! |
Pensè: con tant bsogn, con tant passiv |
E vëdse torna tuti a l'ablativ! |
E a l'efet ca la fame col maleur |
Son butame a piorè e j' eu piorà d' cheur; |
J'eu piorà tant d' cheur e tant ampess |
Che squasi squasi i pioro ancora adess. |
Perd an mes al dolor un bel pensè |
L'unic ca la poduma consolè, |
L'è '1 pensè che sti sgnor bin facilment |
A peulo rimediè a l'inconvenient, |
Fasend d' manera ch' lon chi l'ai sougnà |
A diventa na bela realtà, |
Concorrend a smaltì coi biet ch'ai resta |
Per tant chi peusso fe na bela festa, |
(Chi chërdeissa d' nen piesse d' biet apress |
Ca lasso pura i dnè ch'a fa l'istess). |
Così vedruma presto terminà |
Cost divot monument dla sua bontà, - |
Lassand peui a Maria Ausiliatriss |
C'ai compensa peui tuti an Paradis. [1056] |
ALCUNI VERBALI DELLE ADUNANZE O CONFERENZE
DELLA COMPAGNIA DEL SS. SACRAMENTO[33].
“La conferenza del SS. Sacramento radunatasi Domenica 30 aprile (1865) fu presieduta dal confratello sacerdote Bongiovanni Giuseppe, ed assistita dai confratelli: Piccinino, Bellazzi, Tricerri, Cassone, Ramognini, Biancotti, Savina, Priolo, Busso, Ravotti, Sampò, Veglio, Gallo, Spesso, Borgna, Bologna Giuseppe, Peila, Casarone, Rolla, Moresco, Lambruschini, Castelli, Vota, Musso, Villanis, Sartiero, Navoni, Pandiani, Coccero, Bertello Giuseppe (di cui è il presente verbale) e Appendino.
Il Presidente animò i Confratelli a prepararsi bene, nel giorno che ancor vi era di tempo, al mese di Maria. Disse poi che, per consiglio di D. Bosco, la miglior cosa che potessero fare i Confratelli in detto mese era la Comunione quotidiana. Procurassero pertanto tutti di farla. Disse in fine di avvertire gli altri Confratelli assenti, di andare la domenica dopo alla Conferenza, che si sarebbe distribuito un piccolo foglietto con lodi a Maria[34].
Colla solita recita della Coroncina dell'Immacolata Concezione e col bacio del Crocifisso si chiuse la seduta
“La Conferenza radunatasi Giovedì 30 agosto (1865) fu presieduta dal Sac. Bongiovanni Giuseppe (di cui è il presente verbale) ed assistita dai Confratelli ecc. Aperta la seduta colla lettura e preghiera d'introduzione si espose il verbale della seduta precedente. Il Presidente presentò i quattro Confratelli nuovi: Belfanti, Spandre[35], Montiglio e Gelmoni. Desumendo da tal presentazione argomento del discorso, il Presidente esortò i Confratelli all'assiduità nella [1057] conferenza ed alla perseveranza nella Società. Annunziò che dietro il discorso tenuto col sig. D. Bosco si sperava che il numero dei Confratelli si sarebbe probabilmente aumentato assai più dell'anno scorso, essendosi rimosse dalla Casa parecchie cause che avevano fatto scemare la Società del SS. Sacramento e del Clero negli anni scorsi. Espose l'origine della piccola Società del Clero e disse come sia viva brama del sig. D. Bosco che il Clero si mantenga sempre numeroso ed animato dallo spirito di fervore, il quale spirito si ottiene e si mantiene, per mezzo di frequenti comunioni e frequenti visite al SS. Sacramento.
Recitata la Coroncina solita dell'Immacolata Concezione e dato il bacio della croce si sciolse la seduta”.
“La Conferenza del SS. Sacramento radunatasi Giovedì 22 novembre (1865) fu presieduta dal Confratello D. Bosco e assistita dai confratelli D. Bongiovanni Giuseppe (di cui è pure il presente verbale), Re, Villanis, Montiglio, Grattarola, Tabia, Galli, Varaja, Cuffia, Tabucchi, Arato, Blovio, Corbis, Jelmone, Cinzano, Cotella, Peiretti, Pautasso, Orioli, Pedrotta, Carlino, Biancotti, Amelotti, Vota, Cuffia chier., Rissoglio, Rochetti, Piccinino, Albano, Casanova, Croce, Degiorgis, Bo, Farina, Finocchio, Belfanti, chierico Berto.
La seduta fu aperta colla lettura e preghiera d'invocazione allo Spirito Santo. Si espose il verbale della seduta precedente. Il sig. Don Bosco estemando la sua soddisfazione di trovarsi fra loro, congratulossi colla Conferenza, trovandola numerosa, ed esortò i confratelli a perseverare, facendo però consistere l'essenza della Società non solo nell'assiduo intervenire alla radunanza, come nemmeno nell'abbondanza delle Comunioni, ma nel fervore delle medesime, proponendo per esempio la divozione del giovanetto Savio Domenico, confondatore della Società dei SS. Sacramento, il quale si distingueva talmente nell'ardore divino per la S. Comunione che dimenticava spesso il cibo e la ricreazione per prolungare i fervidi suoi ringraziamenti a Gesù Sacramentato. Richiamò a tal proposito quanto si legge nella vita di questo giovanetto, che un giorno trasportato dall'estasi dell'amor divino protrasse il ringraziamento fin oltre le due pomeridiane, e lo avrebbe forse ancora prolungato, se non ne fosse stato richiamato e riscosso dalla voce del Superiore, che lo sorprese in attitudine estatica. Raccomandò inoltre, che si procurasse il bene della Conferenza non soltanto col promuovere il numero dei Confratelli, ma coll'osservanza del Regolamento, e specialmente di quell'articolo che inculca il buon esempio, affinchè ogni membro s'impegni a gareggiare e superare gli altri compagni nella pietà e nella diligenza [1058] dei proprii doveri, e non si possa dire che v'abbiano dei confratelli, che nella condotta religiosa e scolastica siano inferiori agli altri. Conchiuse raccomandandosi alle loro preghiere, assicurandoli che si sarebbe sempre ricordato della Società ogni volta che celebrerebbe i Divini Misteri.
Sì recitò la Coroncina dell'Immacolata Concezione, si diede il bacio del Crocifisso e la seduta fu sciolta.”.
REGOLE DELLA PIA SOCIETA' SALESIANA
(in lingua latina - Anno 1867).
SOCIETAS SANCTI FRANCISCI SALESII[36]
Catholicae religionis ministris persuasum semper fuit in adolescentulis bene instituendis maximam esse sollicitudinem adhibendam.
Etenim, juventute malis aut bonis moribus imbuta, bona aut mala ipsa hominum societas fiet. - Ipse Christus Dominus huius rei veritatis nobis clarum exemplum suppeditavit, praesertim quum parvulis ad se advocatis divinis manibus benediceret, atque clamaret: Sinite parvulos venire ad me.
Episcopi, quibus Spiritus Sanctus regendam dedit Ecclesiam Dei, praesertim vero Pontifices Maximi Servatoris nostri vestigia secuti, cuius vices gerunt in terris, verbis atque operibus instituta ad iuventutem christiane erudiendam spectantia alacri animo, peculiarique sollicitudine commendarunt atque eisdem sunt suffragati. Pius autem IX Pont. Max., quem diutissime Deus ad Ecclesiae gloriam incolumem ac sospitem servet, praeter indefessos labores pro adolescentulis perielitantibus perlatos, omnimodis subsidiis illis institutionibus favit, quae ad huiusmodi sacri ministerii partem spectarent.
Nostris vero temporibus longe maior urget necessitas. Nam incuria multorum parentum, abusus artis guttembergiae, haereticorum atque schismaticorum conatus ad augendos sibi sectatores necessitatem ingesserunt simul coniungendi vires ad proelianda proelia [1059] Domini sub Vexillo Vicarii Domini nostri Jesu Christi, ad tuendam fidem et tutandos bonos mores praesertim adolescentulorum, quos prae inopia deficiunt praesidia ad christianam doctrinam assequendam. Hic est finis Societatis sive Congregationis Sancti Francisci Salesii.
Iam Inde ab anno millesimo octingentesimo primo et quadragesimo Joannes Bosco sacerdos una cum aliis ecclesiasticis viris operam dabat, ut simul in unum locum Augustae Taurinorum adolescentulos derelictos et pauperes colligeret, eosque ludis exhilararet, eodem vero tempore panem divini verbi iis distribueret. Quae quidem omnia auctoritatís ecclesiasticae consensu fïebant.
Quum autem Deus exiguis hisce initiis benediceret, mirum, quantus adolescentium numerus huc libenter conveniret. Quibus quidem omnibus perpensis, anno MDCCCXLIV Aloisius Fransonius, Tauririnensis Dioecesis Archiepiscopus, passus est aedificium in formam Ecclesiae dicari[37], ibique sacra omnia peragi, quae necessaria sunt ad rite colendos dies feston, et ad adolescentulos instituendos, qui frequentiores in dies adventabant. Huc saepius Archiepiscopus ipse se contulit, ut Sacramentum Confirmationis administraret. Anno MDCCCXLVI decrevit, ut omnes, qui huic instituto interessent, ibi possent ad sanctum Eucharistiae Sacramentum admitti, praeceptum Paschatis adimplere; ut sacerdotibus liceret ibi sacrum solemne Tacere, et triduanas vel novendiales preces indicere quoties ipsis videretur. Haec omnia in Asceterio S. Francisci Salesii facta sunt usque ad annum MDCCCXI,VII. Hoc autem anno quum numerus adolescentulorum augeretur, ideoque aedes iam nequiret omnes capere, adnuente auctoritate ecclesiastica, in alia urbis regione, ad Portam Novam, alterum Asceterium adapertum fuit, eodem consilio, sub titulo S. Aloysii Gonzagae.
Quum vero et haec duo, labente tempore, satis non essent, tertium anno MDCCCXLIX in Vanchilia, eiusdem etiam urbis regione, instituebatur sub titulo Sancti Angeli Custodis.
Irrumpentibus autem iis temporum difficultatibus, quae religioni summopere adversarentur, vir amplissimus, cui dioeceseos cura erat demandata, motu proprio regulas huiusmodi Asceteriorum probavit, [1060] et Joannem Bosco sacerdotem eorumdem Rectorem constituit, quacumque facultate donatum, quae ad id necessaria atque opportuna videretur. Complures Fpiscopi easdem regulas exceperunt, atque nituntur; ut in suis quoque dioecesibus huius generis Asceteria floreant.
At praeter opinionem gravis extitit necessitas. Nonnulli adolescentes, grandiori iam aetate, nequibant satis institui christiana doctrina solis diebus festis, ac propterea oportuit scholas aperire, ubi horis tum diurnis, tum nocturnis, per hebdomadam, christiana institutione excolerentur. Quin imo ex iis complures derelicti et dura paupertate conflictati, in peculiarem domum recepti sunt, ut ibi periculis erepti religionem docerentur, et in aliquo opificio exercerentur. Quod quidem etiamnunc fit praesertim Augustae Taurinorum in aedibus quae sunt ad hospitium Asceterii S. Francisci Salesii, ubi amplius septingenti enumerantur. Anno MDCCCLXIII alia quoque domus Mirabelli, qui pagus est in agro Montis ferrati, adaperta fuit, cui titulus: Parvum Sancti Caroli Seminarium; ubi centum et quinquaginta ferme adolescentes iis regulis instituuntur, quae in Asceterio huius urbis vigent. Anno vero MDCCCLXIV apud Lanceum in agro Taurinensi nova dornus in collegii formant erecta fuit, in qua ducenti adolescentes scientia et religione instituuntur.
Nunc agitur de alia domo aperienda in loco Truffarello dicto; qui est vicus septem ab urbe millia passuum dissitus. Jamvero quum adolescentuli frequentes Asceterium diebus festis adirent, scholae diurnae et vespertinae haberentur, ac mirum in modum exceptorum numerus in dies augesceret, copiosa nimis messis Domini facta est. Quapropter ut probatae iam disciplinae unitas servaretur, a qua uberrimus fructus provenire consuevit, jam inde ab anno MDCCCXLIV nonnulli viri ecclesiastici se se simul collegerunt ut genus quoddam sôcietatis vel congregationis constituerent, alius alium exemplo atque institutione invicem adiuvantes. Nullo se voto adstrinxerunt, tantumque polliciti sunt se strenuam iis operam daturos, quae ad maiorem Dei gloriam suaeque animae utilitatem conferre viderentur. " Joannem Bosco Sacerdotem ultro sibi Praefectum adlegerunt.
Licet autem nulla vota proferrentur, actu tamen eae ferme regulae observabantur, quae hie exponuntur.
I° Huc spectat huius Congregationis finis, ut socii simul ad perfectionem christianam nitentes, quaeque charitatis opera tum spiritualia, tum corporalia erga adolescentes, praesertim si pauperes sint,
DEL VEN. D. GIOVANNI BOSCO IO6I exerceant, et in ipsam juniorum clericorum educationern incumbant. Haec autem societas constat ex ecclesiasticis, clericis atque laicis.
2° Jesus Christus coepit facere et docere, ita etiam socii incipient externarum atque internarum virtutum exercitio et scientiarum studio seipsos perficere; deinde aliorum beneficio strenuam operam dabunt.
3° Primum charitatis exercitium in hoc versabitur ut pauperes ac derelicti adolescentuli excipiantur, et sanctam catholicam religionem doceantur, praesertim vero diebus festis, quemadmodum Augu= stae Taurinorum fit in quatuor Asceteriis S. Franciscii Salesii, S. Aloysii Gonzagae, S. Angeli Custodis et S. Iosephi.
4° Saepe autem contingit, ut adolescentuli inveniantur adeo derelicti, ut, nisi in aliquod hospitium recipiantur, quaecumque cura frustra ils omnino impendatur. Quod ut fiat, maiori qua licebit sollicitudine, domus aperientur, in quibus Divina opitulante Providentia, receptaculum, victus et vestimentum iis subministrabuntur. Eodem vero tempore, quo fidei veritatibus instituentur, operam quoque alicui arti navabunt, quemadmodum nunc fit in aedibus, quae Asceterio S. Francisci Salesii adiunguntur in hac urbe.
5° Quum vero gravissimis periculis subiiciantur adolescentes, qui ecclesiastico ministerio initiari cupiunt, maximae curae húic societaai erit eos in pietate et vocatione colere, qui se studio et pietate specialiter commendabiles ostendant. In adolescentulis autem studiorum causa excipiendis ii praeferentur, qui pauperiores sint,. qui ideo curriculum studiorum alibi nequeunt explere, dummodo firmam spem vocationis ad ecclesiasticam militiam praebeant. In Asceterio Taurinensi octingenti circiter; Mirabelli centum et quinquaginta sunt; Lancei autem ducenti circiter adnumerantur, qui hoc nomine classicis, quae dicunt, studiis incumbant.
6° Quum autem necessitas catholicae religionis tutandae gravior etiam urgeat inter christianos populos, praesertim in pagis, propterea socii strenue adlaborabunt, ut homines qui potioris vitae amore per statos aliquot dies secedunt, ad pietatem confirment erigantque; ut bonos libros in vulgus spargant, omnibusque rationibus utentur quae a sedula charitate proficiscuntur; verbis denique et scriptis impietati adversentur, et haeresi, quae omnia tentat, ut in rudes ac idiotas pervadat. Huc spectant sacrae conciones, quae identidem habentur, hue triduanae et novendiales supplicationes, hue demum libri evulgati per officinam, abhinc quatuor annos institutam in Asceterio Taurinensi, qui inseribuntur Letture Cattoliche. [1062]
Huius SOCIETATIS FORMA. [N. 4]
I° Socii omnes vitam communem agunt, uno fraternae charitatis votorumque simplicium vinculo constricti, quod eos ita constringit, ut unum cor unamque animam efficiant ad Deum amandum, eique serviendum virtute obedientiae, paupertatis, morum sanctimonia, et accurata christiana vivendi ratione.
2 ° Quicumque societatem ingressus fuerit, civilia iura, etiam editis votis, non amittit, ideoque rerum suarum proprietatem servat, idemque potest in aliena bona succedere. Sed, quamdiu in societate permanserit, non potest facultates suas administrare, nisi ea ratione et mensura qua Rector in Domino bene iudicaverit.
3° Omnis fructus rerum, sive mobihum, sive immobilium, quas in societatem quis attulit, quo tempore vitam in ipsa egerit, ad eamdem pertinebit. Poterit tamen vel partim, vel etiam omnino parentibus erogare, quae extra congregationem possideat; at semper obtento Rectoris consensu.
4° Clerici et Sacerdotes, etiam postquam vota emiserint, patrimonia vel simplicia beneficia retinebunt, sed neque administrare, neque iis perfrui poterunt nisi ad Rectoris voluntatem.
5° Administratio patrimoniorum, beneficiorum et omnium, quae in societatem inferantur, ad Superiorem Generalem pertinet, qui vel ipse vel per alios ea administrabit, et douce quisquam in congregatione fuerit, annuos eorum fructus percipiet.
6° Sidem Superiori omnes sacerdotes Missarum etiam eleemosynam tradent. Caeteri vero, tum clerici, tutu laici, omnem pecuniam ei committent, quae quibusque modis ad eos perveniat, ut in commune con feratur.
7° Quaecumque sociis necessaria erunt, societas praestabit, et quod ad victum spectaverit, quod ad vestimentum et caetera, quibus in diversis vitae conditionibus opus fuerit. Quin imo, ubi iusta ratio adsit,
potest Superior pecuniam, vel aliam rem socio tribuere, quam ad maiorem Dei gloriam impendendam duxerit.
8 ° Si quis intestatus decesserit, ei succedet qui secundum leges civiles haeres constituitur.
9 ° Unusquisque votis tenetur, donec in societate remanserit. Si quis vel iusta causa, vel prudenti Superiorem iudicio, a societate discedat, a votis triennalibus poterit a Superiore Generali exsolvi. Si auteur vota erunt perpetua, facultas a Sancta Sede erit petenda. [1063]
10° Unusquisque maneat in vocatione, ad quam vocatus est, usque ad mortem. In mentem quotidie sibi revocet gravissima illa Domini Servatoris verba: Nemo mittens manum ad aratrum, et respiciens retro, aptus est regno Dei.
11° Verum tamen, si quis a societate egrediatur, nihil sibi ob tempus, quod in ea transegit poterit adrogare, neque aliud secum ferre, quam quod Generalis Superior opportunum iudicabit. Licebit autem secum res immobiles ferre, atque etiam mobiles, quarum pro= prietatem ab ingressu in societatem servaverit, at nullum neque fructum, neque eorum administrationis rationem exposcere pro tempore quo in societate permanserit, nisi cum Rectore Maiore aliquod peculiare pactum fuerit.
I ° Propheta David Deum enixe orabat, ut illum doceret eius voluntati obsequi. Servator Dominus certos nos fecit se Luc in terras descendisse, non ut faceret voluntatem suam, sed voluntatem Patrie sui, qui in coelis est. Huc spectat obedientiae votum, scilicet, ut certiores efficiamur nos sanctae Dei voluntati obtemperaturos.
2° Obedientiae votum socos ita devincit, ut iis tantum operam navent, quae cuiusque Superior fore iudicabit ad maiorem Dei gloriam, et animae suae proximique utilitatem, secundum ea, quae Lisce constitutionibus praescribuntur.
3 ° Huiusque voti observantia sub culpa non obligat, nisi in iis, quae mandatis Dei Sanctaeque Matris Ecclesiae adversentur, et cum Superior suum praeceptum Lis verbis exprimit: « In virtute sanctae obedientiae praecipio.
4° Obedientia nos certos reddit Dei voluntatem adimplere. Quapropter unusquisque proprio Superiori obediat, illumque in omnibus veluti patrem peramantem habeat, eique pareat integre, prompte, hilari animo et demisse; ea persuasione ductus in re praescripta voluntatem Superioris ipsam Dei voluntatem patefacere.
5° Nemo anxietate petendi vel recusandi afficiatur. Si quis autem cognosceret quidpiam sibi vel nocere, vel necessarium esse, reverenter id Superiori exponat, cui maxima erit cura eius necessitati consulere.
6° Maxima unicuique fiducia in Superiore sit, neque ullum cordis secretum quisquam erga illum servet. Quoties ab eo postuletur, vel ipse necessitatem agnoscat, etiam conscientiam suam ci adaperiat, quotiescumque hoc ad maiorem Dei gloriam, animaeque utilitatem conferre iudicaverit. [1064]
7°. Nemo resistendo pareat, neque verbis, neque factis, neque corde. Quo magis aliquid repugnat facienti, eo maiori merito erit in conspectu Dei si illud perficitur[38].
I° Observantia voti paupertatis in hoc praecipue consistit, ut animum ab omnibus terrestribus alienum habeat; quod nos vita quoqueversu communi ad victurn et vestimentum consequi curabimus, nec
quidpiam, nisi peculiari Superioris permissione, pro nobis retinentes. 2 ° Unusquique hoc voto tenetur cellulam suam maxima simplicitate habere, et summopere niti, ut cor virtute, non corpus vel aedium parietes exornentur.
3° Nemo, sive intra sive extra Congregationem, pecuniam apud se aut apud alios habeat quacumque de causa.
4° Si quis iter ingrediatur, vel a Superiore mittatur ad aperiendam, vel administrandam Beneficentiae Domum, vel explendam aliquam sacri ministerii partem, vel peculiaris necessitas adsit, turc Superior ea statuet, quae temporum, locorum et sociorum adiuncta postulabunt.
5° Mutuum dare, accipere, vel ea, quae sunt apud se, aut in societate elargiri, contractus inire cuiuslibet generis, absque Superioris licentia non tantum cuor externis, sed etiam cum sociis Congregationis omnino vetitum est.
I ° Qui vitam in derelictis adolescentulis sublevandis impendit, certe totis viribus niti debet, ut omnibus virtutibus exornetur. At vir-tus summopere colenda, atque quotidie prae oculis habenda, virtus angelica, virtus prae caeteris cara Filio Dei, virtus est castitatis.
2° Qui firmam spem non habet, se, Deo adiuvante, virtutem castitatis, turc dictis, turc factis, tum etiam cogitationibus posse servare, in hac societate non profiteatur; in periculo enim saepe numero versabitur. [1065]
3° Verba, oculorum, obtutus, licet indifferentes, perverse interdum ab adolescentulis excipiuntur, qui humanis cupiditatibus iam fuerunt subacti.
Quapropter maxima cura est adhibenda, quoties sermo cum. adolescentulis instituitur cuiuslibet aetatis, aut conditionis, vel quidpiam cum illis agitur.
4° Conversationes defugiantur, si hae sint eu-in personis diversi sexus, vel etiam cum ipsis secularibus, ubi haec virtus periclitari videatur.
5 ° Nemo se coriferat domum apud notos, vel amicos, absque consensu Superioris, qui, quoties fieri possit, comitem ei adiunget.
6° Ut castitatis virtus diligentissime custodiatur, haec potissimum sunt agenda, scilicet, ut quisque sancte ad Poeriitentiae et Eucharistiae Sacramenta saepe accedat, consilia confessoris sedulo exsequatur, otium defugiat, omnes corporis sensus coerceat, et moderetur, frequenter Jesum in Sacramento invisendum adeat, crebras jaculatorias preces fundat ad Mariam SS., Sanctum Franciscum Salesium, S. Aloysium Gonzagam, qui sunt huius Societatis praecipui patroni.
RELIGIOSUM SOCIETATIs REGIMEN.
1° Socii arbitrum et supremum Superiorem suum habebunt Pontificem Maximum, cui omnibus in locis, temporibus et dispositionibus suis humiliter et reverenter subiicientur. Quin imo praecipua erit cuiusque Socii sollicitudo totis viribus promovendi ac defendendi auctoritatem et observantiam Ecclesiae Catholicae legum, eiusque Supremi Antistitis, et hie in terris legislatoris et Jesu Christi Vicarii.
2° Post Romanum Pontificem tamquam Superiorem habebunt Episcopum illius Dioecesis, in qua quaeque domus est: omnesque Socii strenuam operam dabunt, ut ei in auxilium veniant, ac quantum licebit, religionis iura omnimode tueantur, illius bonum sedulo promoveant, praesertim si agatur de pauperibus adolescentulis instituendis.
3° [39] Quod vero ad Sacramentorum administrationem ac praedicationem et ad ea omnia, quae ad publicum sacri Ministerii munus attinent, tamquam Superiori subiicientur Episcopo illius Dioecesis, ubi domus est, ad quam pertinent, prout regulae Societatis patientur. [1066]
4° Quod vero ad sacros ordines spectat, socii ab Episcopo Dioecesis eos accipient, a quo sunt ordinandi juxta consuetudinem aliarum Congregationum, domorum communionem habentium, videlicet ex privilegiis Congregationum, quae tamquam Ordines Regulares habentur.
I ° Quod ad internuur attinet, tota Societas principali Domui subiicitur, cuius. regimen est in Capitulo, quod ex Rectore, Praefecto, AEconomo, spirituali Directore, seu Catechista, et tribus consiliariis constat.
2 ° Rectoris munus est socios in societatem admittendi vel non; unicuique adsignare, quae spectant sive ad spfritualia, sive ad temporalia. Nulla tamen quod ad res immobiles spectat emendi, vel vendendi ei erit facultas absque consensu Capituli.
3° Neuro, Rectore excepto et iis, qui Capftulum constituunt, potest epistolas scribere vel accipere sine Superioris permissione.
4° Rector maior in munere suo ad, duodecim annos manebit. At (quod Deus avertat) ubi gravissime officia sua negligeret, Praefectus et Director simul coniuncti possunt Capitulum et peculiarium Domuum Directores convocare, ut Rectorem efficaciter admoneant. Quod si non sufficiat, Capitulum certiorem de hac re faciat Sacram Ordinum Regularium Congregationem, cuius consilio et responsione accepta, Rector Maior deponi potest.
5° Hufusmodi Capitulum auctoritate pollet alterum Rectorem creandi.
6° Idem Rector Capitulum et peculiarium Domuum Directores semel in anno convocet, ut, societatis necessitatibus cognitis, iis consulatur, eaeque sollicitudines adhibeantur, quas tempora et loca expo' scent.
7° Capitulum ita convocatum poterit etiam eos articulos regulis addere, quos opportunos ad societatis utilitatem iudicabit, at semper eo sensu et ratione, quibus regulae iam probatae sunt. Quoties dubium exortum fuerit circa modum, quo aliquis articulus intelligi debeat, Rector Maior potest eumdem interpretari, quemadmodum ad maiorem Dei gloriam conferre et spiritui Societatis magis consentaneus videatur.
8° Ut autem casui mortis suae Rector Maior provideat, Vicarium sibi eliget ex Congregationis sociis, eiusque praenomen et nouren notabit in chartae obsignatae plagula, sub clave et omnibus occulte habitis. Fascieulo haec inscribantur: Rector temporarius. [1067]
9° Mortuo Rectore, Vicarius illius vicem geret donec successor ei creatus sit; at nullam poterit neque disciplinae, neque administrationi mutationem afferre quo ttempore societatem reget.
10° Mortuo Rectore, statim Vicarius illius mortem annuntiet omnium Domuum sociis, ut ita unusquisque maximam sollicitudinem adhibeat in iis spiritualibus auxiliis ei praebendis, quae regulae praescribunt. Deinde omnes earumdem Directores invitet ut successoris electioni interesse satagant.
DE RECTORIS MAIORIS ELECTIONE.
1° Ut quis Rector Maior eligi possit oportet, ut saltem octo annos in societate transegerit, trigesimum suae aetatis expleverit, et sociis vitae sanctimonia praefulserit. Si vero caetera, quae ad Rectorem Maiorem requiruntur, eminenti gradu in alfquo socio innotescant, Capitulum usque ad vigesimum octavum aetatem deducere potest.
2° Duplici ex causa. Rectoris Maioris seu Superforis Generalis electio fieri continget, videlicet vel ob finitunl duodecim annorum munus, aut ob Rectoris mortem.
3 ° Si Rector Maior eligendus est, eo quod duodecim annos in munere transegerit, electio sic est faciendu. Ipsemet Rector Maior, tres menses antequam sui officii tempus labatur, Capitulum Domus pricipalis convocabit, eique sui muneris finem inuninere palam faciet: cuius rei notitiam transmittet Directoribus Domorum peculiarium, eisque sociis omnibus, qui secundum constitutiones suffragium dare poterunt. Dum autem finis sui muneris diem significabit, aliam statuet diem ad sui successoris electionemn perficiendam; tempus vero electionis peragendae, si fieri potest, quindecim dierum spatimu a fine muneris sui excedere non debebit.
A die, quo suuur munus explebit, usque ad peractam eiusdem successoris electionem, Rector Maior Vicarii temporarii nomen et auctoritatem habebit; pergetque in societatis regimine et adurinistratione douce eius successor in munere suo reapse sit constitutus.
Ad electionem novi Rectoris intererunt et suffragium dabunt Vicarius Temporarius, Capitulum Domus principalis, Directores Domorum peculiarium, omnesque socii, qui iam vota perpetua emiserint. Si autem quis eorum quacumque ex causa ad praestandum suffragium advenire non poterft, ab aliis licite et valide electio flet.
4° Maioris Rectoris electio sic fiet: Omnes electores, flexis genibus ante imaginem Domini nostri J. Ch. crucifixi, divinum auxilium et superna lumina invocabunt canentes hymnum Veni, Creator Spiritus [1068] ecc. Quo finito, Rector Temporarius fratribus una simul collectes causam patefaciet propter quam cos advocavit, Ilare et distincte omnes commonebit de stricta singulorum obligatione suum dandi suffragi= illi, quem ad Dei gloriam utilitatemque animarum in societate promovendum magis idoneum in Domino iudicaverit. Postea unusquisque scribet nomen illius, in cuius favorem suffragium edere intendit, et schedulam sic exaratam in vasculo ad hoc arato secreto ponet. Qui duas de tribus votorum partibus consecutus fuerit, erit Novus Rector, sen Superior Generalis.
Sin autem ob Superiori* Generalis mortem electio esset facienda, haec regula et ordo tenetur: Mortuo Rectore Maiore, Vicarius temporarius illius mortis notitiam ad omnes Domorum peculiari= Directores per scriptum transmittet, ut spiritualia suffragia secundum constitutiones quam citissime pro defuncti anima fiant. Electio huiusmodi non ante tres, nec serins sex mensibus a Rectoris morte erit facienda. Ad hune finem Vicarius temporarius suum capitulum congregabit, eiusdemque consensu opportuniorem statuet diem ad convocandos cos, qui in illa electione suffragi= daturi sunt.
Suffragium auteur ii dabunt, qui hoc iure polleant in electione Rectoris facienda causa mortis, sicut in articulo quarto huins capitis dictum est.
Qui duas de tribus votorum partibus assecutus fuerit, erit novus Superior Generalis, cui omnes societatis sodales obedire tenentur. Peracta electione, sive haec fiat causa mortis, sive ob transactum tempus duodecim annorum, Vicarius temporarius novum electum Rectorem Maiorem citius, ut omnibus Societatis sociis patefaciat, operam dabit. Quo facto, omnis Rectoris temporarii auctoritas finem habet. Si forte Rector maior decederet, quin prius Vicarium temporarium nominasset, tune Capitulum Domus principales ipsum eligat. Ipse usque ad peractam electionem Societatem reget, facietque omnia, quae ad Vicarie temporarii munus spectant.
DE CETERIS SUPERIORIBUS. [N.11]
1° Officia ceterorum superiorum Rector, prout ferat necessitar, distribuet.
Directori tamen spirituali curie erunt novitii strenuamque operam dabit, ut illum charitatis et sollicitudinis spiritum condiscant, actuque perficiant, quo inflammari debet, qui omnem vitam suam ad animarum lucrum opat impendere.
3 ° Directoris quoque spiritualis est, Rectorem reverenter admonere [1069], quoties gravem negligentiam perspiciat in regulis Congregationis exsequendis; vel earum observantiam in allia promovendam neglexerit.
4° Praecipuum vero Directoris officium in co praesertim versatur, ut in morali omnimn sociorum vitae catione sedulo attenteque invigilet.
5° Praefectus et spiritualis Director creantur a Rectore. AEcono-mus vero et tres consiliarii pluribus suffragiis eligentur a sociis, qui iam vota perpetua emiserunt.
6° Praefectus, Rectore absente, illius vicem gerit in iis omnibus quae peculiariter illi demandata erunt.
7° Ille rationem habebit excepae et expensae pecuniae, notabit legata, donationes in dom= collatas et earum destinationem. Omnis venditio, omnesque mobilium et immobillium facultatum fructus sub Praefecti custodia et responsione erunt, a quo cuncta proficisci debent, quique rerum omnium rationem reddere tenetur,
8° Praefectus igitur est veluti centrant, a duo proficisci et ad quod referri debet excepta pecunia. Praefectua Rectore subiicitur, eique facti rationem reddet, quoties postulabitur.
9° AEconomus materialem omnem Domus processum procurabit. 10° Consiliarii omnibus deliberationibus intersunt, quae ad acceptiotnem vel remotionem alicuius socii pertinent; si agatur de contractibus rerum immobilium emptionis aut venditionis; denique aut de rebus maioris momenti, quae ad rectum Societatis generalem progressum spectant. Nisi numerus votorum favorabilium maior sit, omnes de re agenda deliberationes Rector protrahet.
11 ° Unusquisque ex Supeforibus, Rectore excepto, tres annos in munere suo manebit, ac iterum eligi poterit.
I ° Siquando singulari divinae Providentiae favore peculiaris praeter principalem domus aperiatur, ante omnia Superior Generalis quod ad spiritualia attinet et temporara ex regulis, quibus principales domus regitur, conveniet cum Episcopo Dioecesis, in qua domus est aperienda, eique in iis sacri ministerii omnibus partibus subiicietur, quas regularum Societatis observantia patiatur.
2 ° Si autem domus aperienda sit iuniorum seminarium, vel seminari= clericorum, qui grandiori jam sent aetate, tune non solum quod ad sacrum ministerium spectat, sed omnes etiam Superiori Ecclesiastico submissio praebebitur in eligenda materia, quae tradi debeat, in [1070] libris adhibendis, in disciplina atque etiam in temporali administratione iis tenebitur, quae Rector Maior constituet.
3° Socii ad recentem domm adlecti, minus duobus non sint, ex quibus unis saltem Sacerdos esse debet. Directoris nomen Superior assumet. Quaeque domus bona possidebit et administrabit, quae vel dono data, vel in societatem illata sunt, ut peculiari illi domui inservirent; at ea semper ratione a Superiore Generali descripta.
4° Peculiares domos saltem semel in anno inviset Rector, ut diligenter inquirat, an officia expleantur, quae regulae Societatis praescribunt; simulque animadvertat, an spiritualium et temporalium administratio ad propositum finem reapse spectet, ut scilicet Dei gloria et animarum salus promoveatur.
5 ° Ad Directorem autem quod attinet, ita se in cunctis gerat, ut omni temporis puncto eorum possit rationem reddere Deo et Superiori Rectori, cui se subiiciens divinam in eo voluntatem perspiciet.
6° Praecipua est eiusdem Rectoris cura in recenti quaque domo capitulum constituere, quod numero sociorum in ea habitantium congruat.
7° Ad hoc auteur capitulum constituendum conveniet Rector Superior, recents domus Director et principalis domus capitulum.
8° inter eligendos primus est Catechista, deinde vero AEconomus, tertio tandem singuli deinceps consiliari{, ubi congruat sociorum numerus iis qui stabiles ea domo immorentur.
9° Catechista spiritualia quaeque illius domus procurabit, sac quo, ties opus erit, Directorem admonebit.
10 ° Quod si ob distantiam, tempora et loca oporteat quaedam exvipere in capitilo constituendo, vel in eorum, ex quibus constat, muneribus, omni ad id auctoritate Rector Maior valebit, consentiente tamen capitilo domus principis.
11° Director neque emere, neque vendere immobilisa poterit, nisi adsit Rectoris maioris consensus; in administratione tantum quacumque auctoritate pollebit, at in iis, quae maioris momenti sint, consultius erit capitulum suum convocare, nec quidpiam deliberare nisi illius consensus habeatur.
I ° Vix quispiam societatem ingredi petierit, Director spiritualilis necessariam postulantis notitiam assequetur, quam Rectori tradet. 2° Rector autem maior eum ad acceptionem admittet, vel non, [1071] prout sibi in Domino melius judicaverit. At, ubi de illo apud Capitulum res erit, solum in societatem cooptabitur, si saltem maiorem suffragiorum partem obtinuerit.
3° Ut quisquam ad vota emittenda admittatur, necesse erit ut in annum tirocinium exerceat. At nemo ad votorum emissionem admittendus est, nisi sexdecim aetatis annos fuerit praetergressus.
4° Haec auteur vota bis per triennium repetentur. Sex autem annis transactis, facta est cuilibet en tertio quoque anno repetendi, vel perpetua faciendi, se videlicet per omnem vitam votis obligandi.
5° Ut socius Congregationi possit adscribi, praeter virtutes, quae regulis perscribuntur, debet édam anteactam vitae rationem testimonio comprobare ex quo costet:
a) Status illius liber atque de bonis moribus declaratio a proprio Episcopo exarata;
b) Illius nativitas et baptismus; c) AEre alieno non esse gravatum; d) Numquam in illum crimine inquisitum fuisse;
e) Nullo neque physico, neque morali impedimento detineri, quo irregularis fiat ad Sacerdotium ineundum;
f) Parentum consensus, saltem antequam votis se adstringat.
6° Quod ad valetudinem attinet, talis sit, ut saltem tirocini{ anno omnes Societatis regulas abaque exceptione possit observare.
7° Si quis studiorum causa societatem ingrediatur secum ferre debebit: a) Vestimenti supellectilem congruentem; b) Quingentos nummos argenteos quibus dispendia suppleantur quae pro victu et vestitu necessaria erunt anno tirocini{; c) Tercentos nummos argenteos, tirocinio peracto, antequam vota edantur.
8° Socii adiutores supellectilem tantum et tercentos nummos argenteos ingressuri conférant, quin alia obligatione divinciantur.
g° Rector aliquem poterit a conditionibus eximere quae in articulo septimo et octavo sunt, ubi iusta ratio adsit, et quaedam plus minusve late excipere.
10° Societas Divina Providentia innixa, quae iis numquam deest, qui sperant in ipsa, omnia providebit, quae cuique necessaria sunt, sive florente valetudine, sive premente morbo. Quibus tamen erga illos tantum Societas devincitur, qui jam votis se obligarunt.
II° Omnibus autem duo potissimum cordi habenda sunt: a) Attente caveat unusquisque, ne se habitudinibus cuiuscumque generis, rerum etiam per se indifferentium devinciri patiatur; cuiusque vestis, lectus et aedicula munda sint et decentia; b) At omnes sumniopere studeant affectationem et ambitionem devitare. Nihil magis sodalem religiosum exornat quam vitae sanctimonia, qua caeteris in omnibus praeluceat.
12° Quisque paratus sit, ubi opus erit, aestus, frigora, sitim, famem [1072], labores et contemptum tolerare, quoties haec omnia conferant ad mniorem Dei gloriam, spiritualem aliorum utilitatem, suaeque animae salutem.
I ° Vita activa, ad quam potissimum haec Congregatio spectat, efficit, ut socii nequeant compluribus pietatis exercitiis simul collecti operam dare. Quae quidem omnia socii suppleant bonis exemplis sibi invicem praelucendo, et perfecte generalia christiani officia adimplendo.
2 ° Singulis hebdomadis socii ad Poenitentiae Sacramentum accedant apud Confessorem a Rectore constitutum. Sacerdotes quotidie Sacrum facient: quoties autem per negotia non liceat, curent, ut sacrificio saltem intersint. Clerici et soclales adiutores faciant, ut saltem omnibus diebus festis, omnique feria V ad sanctum Eucharistiae Sacramentum accedant. Compositus corporis habitus, perspicua, religiosa, et distincta verborum pronuntiatio, quae in divinis officiis continentur, modestia domi forisque in verbis, adspectu et incessu, ita in sociis nostris praefulgere debent, ut bis potissimum a caeteris distinguantur.
3° Omnibus diebus unusquisque non minus unius horae spatio orationi vocali et mentali vacabit, nisi quisquam impediatur ob exerci. tium sacri ministerii; tune maiori, qua fieri poterit, frequentia eas per jaculatorias preces supplebit, maiorique affectus vehementia Deo
feret opera, quibus a constitutis pietatis exercitiis arcetur.
4° Quoque die Deiparae Immaculatae tertia Rosarii pars recitabi- tur, et in spirituali lectione aliquantum operae navabitur.
5° Cuiusque hebdomadae feria VI ieiunium erit in honorem Panis D. N. I. C.
6° Ultimo omnium mensium die, a temporalibus curis remotus, se quisque spiritu in se recipiet, exercitio vacabit, quod ad bene moriendum fieri solet, spiritualia et temporalia componens, tanquam mundus illi esset relinquendus, et ad aeternitatis viam adeundum.
7° Unusquisque quotannis per dies ferme decem secedet ut pietati unice operam det; quibus transactis, criminum confessione se rite abluet. Omnes, antequam in societatem cooptentur, aliquot dies in exercitiis spiritualibus impendent, seque generali confessione purgabunt.
8° Licebit autem Rectori statuere, ut ab bis pietatis exercitiis abstineatur certo quodam tempore et a certis sociis, prout opportunius in Domino iudicabit. [1073]
9° Quoties Divina Providentia socium, sive laicum, sive sacerdotem ad vitam aeternam vocaverit, totius Congregationis socii Sacrum facient, ut animas mortui suffragiis adiuventur. Qui sacerdotes non sunt, semel saltem ad id Eucharistiam accipiant.
10° Idem pietatis offfcium exercebitur, quoties alicuius socii Pater aut mater moriatur; est ea tantum domo, ubi socius moratur, qui eiusmodi infortunio fuit afflictus.
11° Mortuo Rectori bis suffragabuntur sodi, idque duplici de causa: a) Tamquam grati animi pignus ob curas et labores, quos in regenda Societate sustinuit; b) Ut a poenis Purgatorii liberetur, quae illi forsitan ob nostram causam perferendae erunt.
1° Vestimentum, quo utuntur sodi, varium erit, prout variae erunt regiones, in quibus illi commorantur.
2 ° Sacerdotes longam vestem incluent, nisi iter, vel alia iusta ratio aliter poscat.
3° Socii adiutores nigro vestimento, quantum fieri poterit, induentur. Tunica superior saltem infra genua producatur.
Antequam socus vota proferat, exercitiis spiritualibus vacabit, quae hue praesertim spectabunt, ut, quisque, quo Deus illum vocet, attente consideret, simulque materiam votorum edoceatur, quae pro
ferre velit, ubi certe cognoscat hanc esse Dei voluntatein. Peractis spiritualibus exercitiis, Capitulum habebitur, ac, si fieri potest, omnes illius domus socii convocabuntur.
Rector talari habitu et stola indutus una cum sociis omnibus genua submittet. Deinde omnes simul Spiritus Sancti lumina invocabunt alterna voce recitantes hymnum Veni, Creator Spiritus etc.
Litaniae Beatae Virginis cum versiculis Ora pro nobis etc., et cum Oremus: Concede nos etc. [1074]
In honorem S. Francisci Salesii.
V Ora pro nobis, Beate Francisce.
Deus, qui ad animarum salutem, etc.
Deinde socius, ac si plures sint, singuli, flexis genibus coram Reétore inter duos professos positi, clara et intelligibili voce hanc votorum formulam proferent:
« Fragilitate et instabilitate voluntatis meae omnino cognita, eu piens in posterom ea constanti animo perficere, quae ad maiorem Dei gloriam et animarum salutem conferre possint, ego N. N. coram te, omnipotens et sempiterne Deus, ac, licet conspectu tuo indignus, tamen tuae bonitati et infinitae misericordiae confisus, de siderio unice permotus te amandi, tibique serviendi, coram Beatissima Virgine Maria sine labe concepta, S. Francisco Salesio, omni» bosque sanctis coelorum, ex Societatis Sancti Francisci Salesii regulis facio votum castitatis, paupertatis, et obedientiae Deo, tibi qoe N. N. mi superior, ad tres annos, vel etc.
Quapropter te enixe deprecor, ut secundúm nostrae Societatis constitutiones ea mihi velis praecipere, quae tibi videantur ad maiorem Dei gloriam, maioremque animarum utilitatem conferre.
Interea, Tu, Deus bonitatis, per immensam clementiam tua: propter Jesu Christi Sanguinem pro nobis effusum, oro, ut hoc sacrificium excipias, quo gratiae agantur pro multis beneficiis mihi collatis, et pro meis peccatis expiandis. Tu in me desiderium inspirasti hoc votum emittendi, Tu quoque fac, ut possim illud acplere.
Sancta Maxia, Virgo immacolata, S. Francisce Salesi, omnes Sancti et Sanctae Dei intercedite pro me, ut Deum meum diligens, eique soli in hoc mundo serviens, ad aeterna praemia merear pervenire.
Deinde novus socius nomen suum in libro notabit, ubi hgnc etiam schedulam subscribet: Ego infrascriptus N. N. legi ac intellexi Socie» tatis S. Francisci Salesii regulas, et promitto me secundum votorum formulam nunc prolatam eas constanti animo observaturum. Augustae Taurinorum, anno N. N.
Hisce peractis recitabitur Te Deum alternis vocibus; quo finito, si Rector ad rem existimabit, brevem ad id moralem exhortationem habebit, quibus omnibus finem afferet psalmus; Laudate Dominum, omnes gertes etc. [1075]
1° Quicumque, licet in saeculo vivat, in domo sua, in sinu familiae suae ad hanc Societatem potest pertinere.
2° Hic nullo voto se adstringit, sed strenuam operam dabit, ut eas regulas, quae ipsius aetati ac conditioni congruant, actu perficiat.
3° Ut autem bonorum spirituali Societatis particeps fiat, oportet, ut saltem Rectori promittat se eam vivendi rationem servaturum, quam idem Rector ad maiorem Dei gloriam conferre censebit.
4° Si quis tamen factae promissioni desit, nulla, ne veniali quidem culpa gravatur.
NELLA FAUSTA OCCORRENZA CHE IL SACERDOTE GIOVANNI BOSCO BENEDICEVA IN MORNESE DI MONFERRATO IL COLLEGIO PESTARINO DI FRESCA EREZIONE.
SONETTO. |
Questa che vedi torreggiante mole |
Di poche lune fu mirabil'opra; |
Or tu, Padre dei pargoli, t'adopra |
Che presto alberghi giovinetta prole. |
|
Dal lezzo tolte di profane scole |
Alle vergini menti il ver si scopra; |
Lo spirto che ti muove oh tutto egli opra! |
Quello che pensa e tutto ciò che vuole! [1076] |
Le mani alzando al ciel tenere e pure |
Cento fanciulli grideran: Beato |
Chi ne circonda di cotante cure. |
|
E queste valli, e queste cime anch’esse, |
Plaudendo al nome tuo sì venerato |
Esulteranno di sì lieta messe. |
|
POLIMETRO. |
|
I. |
|
Son poche lune, io non vedea in quest'erta |
Che nuda terra, alto silenzio intorno |
Regnava, e qui sorgea ove ora seggio |
D'edera ricoperta |
E stanza al gufi al volgersi del giorno |
Una rozza magione inabitata. |
Oh portento! Ben altro ora qui veggio, |
Non più terra solinga abbandonata, |
Non quell'orror che mi pesava al cuore. |
Di fronte, ai lati, a tergo |
Tutto è pieno di vita |
E torreggiare in alto un vasto albergo |
Veggio e una Chiesa che ad amar t'invita, |
Dove tra breve in suono umile e pio |
Cento fanciulli pregheranno a Dio. |
|
II. |
|
Nè pregheranno sol, ma per lo calle |
Del ver condotti apprenderan che vano |
È l'amar questa valle, |
Donde l'uom peregrina a miglior mèta; |
Apprenderan che cosa incerta e vieta |
Non è virtude; e che lo spirto uniano, |
Fatto per miglior sede, |
Erra e si perde se non ama e crede; |
Apprenderan che invano il tristo e l'empio |
Fan degli eterni veri orribil scempio. [1077] |
III. |
In quell'età che barbara si noma, |
Quando l'Italia da straniere genti |
Era calpesta e doma, |
Solo per entro ai poveri conventi |
La Sapienza avea fidata stanza; |
Perduta ogni speranza |
Quasi parea di richiamarla a vita |
Fra quel nembo d'armati |
D'oltre monte calati |
A far rapina; eppur non fu mai visto |
In mezzo alle tenèbre |
Di quei miseri tempi assaltar Cristo; |
Or tutto si profana |
Da una ragione insana, |
Fede, scienza, virtude, e si fa guerra, |
Oso dirlo? a quel Dio che avviva e atterra. |
|
IV. |
|
O Italia, o Italia, quanto se' mutata |
Da que' dì che virtù grande ti fea; |
L'animo mio sol si conforta e bea |
D'antiche rimembranze, e la passata. |
Tu grandezza ricorda, |
Quando spingendo ai più remoti lidi |
Con mano audace inusitati pini |
Nuova gente alla fè donavi, e al mondo; |
Ma allor non eri lorda |
D'empietà, di vilezza; or fatta madre |
D'invereconda prole, ai piè strascini |
Vergognosa catena, e il già fecondo |
Tuo genio or più non vive, or mani ladre |
Sciupano i tuoi tesori, e non più donna |
N'appari tu, ma più che abbietta ancella; |
O Italia, Italia mia, non sei più quella! |
|
V. |
|
Lode a te, Generoso, a te che intento |
A riparare della patria i mali |
Tieni lo sguardo, e la robusta mole [1078] |
Inspirasti ove canto; io sopra l'ali |
Dei pensiero vagando un'altra prole |
Crescer qui veggio e non codarda. |
Oh spento Ancor non è quel foco, |
Di che fûr tanto accesi gli Avi nostri: |
Tu, ministro di Dio, tu lo dimostri |
Al secolo che corre e si fa gioco |
De' sacri unti di Dio; ma fatto scherno |
Ora l'unto di Dio di labbra impure |
Fia benedetto fra l'età future. |
|
VI. |
|
Nè tarda è l'ora, un misterioso moto |
Come turbine gira Per l'Itale contrade; ognuno il voto |
Ampio misura dell'età presente, |
E sospirando e disperando tace. |
Pace, richiede e pace |
La Patria mia, ma chi il suo voto sente? |
Scuotiti, o Italia, e m'odi: |
A Rorna, a Roma, a Roma |
Vola con Pietro, e se colà tu approdi, |
Deposta ogni tua soma, |
Di nuova luce l'intelletto adorno |
All'antico splendor farai ritorno. |
|
VII. |
|
Ben veggio, o canzon mia, |
Che se' in povero arnese, |
E tal che farti innanzi a lui non osi: |
Altri sensi, altra veste oggi vorria |
L'Uom che si onora, eppur io nulla ascosi |
Che men deforme ti rendesse; ormai |
Che far se il genio non mi fu cortese? |
Pur vanne, e di' che sotto incolte spoglie |
Schietto un omaggio e candido si accoglie. [1079] |
|
SONETTO. |
|
Il secolo che impazza audace e fello |
Strazia di Cristo la diletta sposa, |
E come fosse pari a umana cosa |
A lei da tempo preparò l'avello. |
|
Ma quando ei più raddoppia il suo flagello |
Costei si fa più forte e vigorosa, |
E quando lenta appare e neghittosa |
È il suo trionfo più onorato e bello. |
|
Guarda a quest'Uom, secolo stolto, in Lui |
Vedrai raccolta quella forza arcana |
Che mette in iscompiglio i regni bui. |
|
Forza celeste è questa e sovrumana, |
Lo disse Cristo ai messaggeri sui; |
Cessa, o secolo stolto, ogni opra è vana. |
|
A. TRAVERSO Seg. |
|
[1] Ved. Appendice I.
[2] TAVALLINI, La vita e i tempi di Giovanni Lanza, V. 1, p. 363
[3] Puf è parola piemontese che significa debiti
[4] TAVALLINI, La vita e i tempi di Giovanni Lanza, V. 1, p. 364.
[5] Traduzione: A solenne testimonianza presso i Posteri della nostra benevolenza e religione verso l'augusta Madre di Dio MARIA AUSILIATRICE, abbiamo deliberato di edificare questo tempio dalle fondamenta; addì 27 aprile dell'anno 1865, governando la Chiesa cattolica con sapienza e fortezza il Pontefice Massimo Pio IX, secondo i riti religiosi si benedisse la pietra angolare della chiesa da Giovanni Antonio Odone, Vescovo di Susa: ed Amedeo di Savoia, figlio di Vitt. Emanuele II, la collocò per la prima volta a posto in mezzo a grande apparato e numeroso concorso di popolo. Salve, o Vergine Madre, soccorri benevola a' tuoi cultori, alla tua maestà devoti, e difendili dal Cielo con efficace aiuto.
[6] Appendice II
[7] Appendice III
[8] Appendice IV
[9] Lettera 29 Aprile 1857, segnata G. Lanza
[10] Pius P. P. IX. - Dilecte Fili, Salutem et Apostolicam Benedictionem.
Deo gratias agimus, Dilecte Fili, quod fideli huic populo, quo invito tot catholicae religioni et huic sanctae Sedi injuriae illatae fuerunt, tantam suae gratiae capiam largiatur, et complura utilissima opera hic moliri ac perfici velit unde tot scandala manarunt: tibi vero et piis sacerdotibus ac sodalitatibus, quas commemoras, gratulamur ex animo, ac majora semper ominamur incrementa. Ceterum illius, qua Nos te et illas prosequimur charitate apertum habes argumentum in facilitate, qua tuis obsecundavimus praecibus, et easdem societates petitis auximus privilegiis et indulgentiarum thesauris. Avertat ab iis Deus omnes insidias inimici, omnemque vim longe repellat: vestraque opera benedictione sua augeat et faecundet. Id vobis toto pectore adprecamur, dum coelestis favoris auspicem et paternae benevolentiae Nostrae pignus universis Benedictionem Apostolicam peramanter impertimus.
Datum Romae, apud S. Petrum, die 24 Februarii 1866, Pontificatus Nostri Anno XX.
[11] Ved. Appendice V
[12] Vol. VII, pag. 89 e 580
[13] Journal de Bruxelles, del 30 giugno
[14] ...Mi venne raccomandato certo sig. Lobina Gio. Battista ex-impiegato regio, il quale essendo spoglio di mezzi di fortuna e col carico della famiglia, composta della moglie e tre figli, bramerebbe vedere i suoi due ragazzi Francesco e Pietro, il primo dell'età di 15 anni e il secondo di 13, collocati in codesto istituto.
” Lo scrivente si permette pertanto rivolgere alla S. V. detti due giovani acciò veda se è possibile accoglierli nell'Istituto da lei diretto. - Dev.mo Servitore, il Sindaco GALVAGNO ”.
[15] PIUS P. P. IX
Dilecte Fili, Salutem et Apostolicam Benedictionem. Tuas libenter accepimus litteras, quibus Nobis offerre voluisti Italiae Historiam a te pro juvenibus scriptam et istis taurinensibus typis hoc anno editam una cum volumine Inscriptionum istius Doctoris Vallaurii. Etsi vero eamdem Historiam ob gravissimas et assiduas Nostras curas et occupationes nondum legere potuerimus tamen Tuum donum Nobis fuit acceptum, ac debitas pro illo grates agimus.
Perge vero, Dilecte Fili, adolescentium tuorum animos sanctissimis divinae nostrae Religionis praeceptionibus accurate imbuere, eosque ad pietatem, morumque honestatem, omnemque virtutem sedulo conformare. Ne desinas autem ferventissimas Deo pro Ecclesiae suae sanctae triumpho preces afferre, ac potentissimum Immaculatae Deiparae Virginis Mariae patrocinium implorare.
Demum coelestium omnium munerum auspicem, et praecipuae paternae Nostrae in te caritatis pignus Apostolicam Benedictionem toto cordis affectu Tibi ipsi, dilecte Fili, peramanter impertimus.
Datum Romae, apud S. Petrum, die 21 Maii, anno 1866, Pontificatus Nostri anno vigesimo. Pius PP. IX.
[16] Ved. Vol, VII, pag. 153
[17] La somma precisa era, come abbiam visto, di L. 4265
[18] Haec valet tessera tibi et tuis
[19] Questa supplica non ottenne ciò che domandava. Il Primo Limosiniere di S. Maestà rispondeva:
Le debbo con sommo mio rincrescimento manifestare che non ho potuto assegnare alcun sussidio alla domanda di V. S. Ill.ma per li suoi giovani, sopra il fondo assegnato a questo ufficio per sussidii, e ciò per la ragione che troverà espressa sul dorso della sua domanda.
Mi conservi egualmente la sua benevolenza e gradisca li sentimenti di venerazione e di affetto con cui mi rinnovo
Sul dorso della domanda si leggeva:
Nel corrente anno 1866 essendo ridotto a circa la metà il fondo della Regia Limosina, le elemosine sono esclusivamente ristrette alle sole famiglie povere, escluso ogni pio Stabilimento, cui soleva per lo passato assegnarsi qualche sussidio in modo eccezionale.
[20] Il documento termina così: “ Ho scritto di mio proprio pugno questo racconto, affinchè se ne conservi memoria e gli si dia quella pubblicità che meglio si giudicherà per la gloria di Dio e per onore dell'augusta Regina del Cielo.
“ Da Piscina, 14 gennaio 1867. D. SPANDRE GIUSEPPE CALLISTO, Amministratore Parrocchiale.
[21] Ved. Appendice VI
[22] Bossuet
[23] Ved. Appendice VII
1 Molto Rev. Signore,
Avrei dovuto prima di oggi riscontrare la sua carissima del 22 ottobre rimessami col mezzo di quel degnissimo Monsignore che me la consegnò, ma la vita che io faccio piena di affari, i quali danneggiano fortemente la mia salute (e ciò particolarmente avvenuti nella passata settimana) mi hanno impedito fino al momento presente di compiere verso di Lei questo mio dovere di gratitudine. Io le sono tenutissimo per la sua lettera e per quel prezioso che contiene. Moltissimo ho sempre apprezzato le orazioni dei Servi di Dio e specialmente le sue e quelle dei ragazzi da lei si degnamente guidati. Il Signore mi mantenga la sua protezione, della quale pur troppo mi credo il più indegno, guardi al fine prefissomi di sacrificarmi pel suo Vicario in terra, e mi dia forza per poter vincere gli ostacoli e pazienza per poter sopportare i dispiaceri dai quali sono e sarò circondato. Seguiti Ella a pregare per me...
[24] Cfr. Atti dei Congresso, pag. 40
[25] BALAN: Storia d'Italia, vol. VII, p. 1050
[26] Ved. qual fosse il tenore letterale del periodo a pag. 653
[27] PIUS P. P. IX. - Dilecte Fili, Salutem et Apostolicam Benedictionern. Observantissimas Tuas libenter accepimus Litteras VI Kalendas huius mensis datas, quibus significas, ad nos misisse Dilectos Filios Angelum Savio, et Joannem Cagliero istius S. Francisci Salesii Societatis Sacerdotes, Tuos in adolescentibus ad pietatem virtutemque instituendis adiutores, quandoquidem haud potuisti, veluti optabas, romanum conficere iter et Romae esse die 29 proximi mensis Junii, quo secularia solemnia Beatissimorum Apostolorum Petri et Pauli triumphis sacra a Nobis concelebrata fuerunt, pluresque divinae nostrae religionis heroes Sanctorum Ordini adscripti. Eisdem autem litteris, Dilecte Fili, Tuam et omnium Sacerdotum, qui in adolescentibus pie educandis Te adiuvant, singularem erga Nos, et hanc Petri Cathedram pietatem et observantiam luculenter profiteri vehementer gloriaris. Quod quidem gratissimum Nobis fuit. Non mediocri certe voluptate novimus, Episcopos recenter a Nobis istis vacantibus sedibus praepositos, fuisse a Catholicis populis omni honoris, reverentiae ac laetitiae significatione exceptos. Cum probe riuscamus quae Tua sit pietas, certi eramus, Te in nova edictione Tui libelli inscripti: Il Centenario di s. Pietro, ea omnia sedulo exequuturum, quae Nostra Indicis Congregatio animadvertenda censuit. Quod autem attinet ad Constitutiones istius Societatis S. Francisci Salesii, probe noscis huiusmodi negotium a Nobis commissum fuisse Nostrae Congregationi negotiis Episcoporum et Regularium praepositae, cuius adjutricem operam ad has res tractandas ac noscendas adhibere solemus. Perge vero majore usque alacritate in christianam adolescentium educationem curandam incumbere. Ne desinas vero ferventissimas diviti in misericordia Deo pro optatissimo Ecclesiae suae sanctae triumpho ac pace afferre preces; ac caelestium omnium munerum auspicem, et praecipuae Nostrae in Te charitatis pignus Apostolicam Benedictionem toto cordis affectu Tibi ipsi, Dilecte Fili, omnibusque Praesbyteris istius S. Francisci Salesii Societatis et adolescentibus eidem Societati addictis peramanter impertimus.
Datum Romae, apud S. Petrum, die 22 Julii anno 1867, Pontificatus Nostri anno vigesimo secundo.
[28] Ved. Appendice, num. VIII
[29] Ambedue le suppliche sono senza data
[30] Affinchè un giovane possa essere accolto in questa casa come artigiano si ricerca: 1. che abbia dodici anni compiuti, nè oltrepassi i diciotto; 2. sia orfano di padre e di madre; 3. totalmente povero ed abbandonato. Se poi è come studente bisogna: 1. che abbia terminato lodevolmente il corso elementare e voglia percorrere le classi ginnasiali; 2 sia in modo particolare commendevole per moralità e per attitudine allo studio. Gli altri schiarimenti si dànno a parte
[31] Sua Santità Pio IX come fu informato della necessità di una Chiesa nella regione di Valdocco mando subito la graziosa oblazione di Fr. 500. - Quando poi seppe essere già iniziata e mancare i mezzi per la continuazione, consigliò una Lotteria e ne incoraggiò l'effettuazione mandando pel primo oggetti che si vedranno descritti nel catalogo che si pubblicherà più tardi.
[32] I Signori Promotori e le signore Promotrici saranno a suo tempo avvisati di quanto riguarda l'andamento della Lotteria alla loro carità raccomandata. La pubblica esposizione degli oggetti si farà nella casa dell'Oratorio di S. Francesco di Sales In Valdocco, ma per maggior comodità dei donatori gli oggetti si ricevono anche in provincia dai benemeriti signori Promotori e Promotrici, cui si fa umile preghiera di farli pervenire al luogo della pubblica esposizione, avvertendo che ove occorressero spese ne saranno rimborsati, sempre che ne diano avviso al Segretario della Commissione
[33] Son tre verbali ritrovati durante la stampa di questo volume. Appartengono al 1865 e contengono alcune preziose circostanze. I1 terzo, ad esempio, è una prova di più della stima che D. Bosco nutriva per Domenico Savio.
[34] Forse era un foglietto contenente anche la lode a Maria Ausiliatrice “ Salve, salve, pietosa Maria ”, composta dallo stesso Don Bongiovanni.
[35] Ora Vescovo di Asti.
[36] Augustae Taurinorum 1867; ex typis asceterii Salesiani
[37] Hoc tunc duabus cellis constabat, quae ad hospitium sacerdotum inservirent Rectorum Hospitii pro puellis periclitantibus quod Refugii nomine dicitur; deinde anno MDCCCXLV Asceterium in Valdoccum translatum fuit, ubi etiam nunc est.
[38] Caput de forma societatis et caput de voto paupertatis fere ad verbum excerpta fuerunt a constitutionibus Cohgregationis scholarum caritatis, quam approbavit Gregorius Papa XVI die 21 junii 1836
[39] Articuli 3 et 4 de verbo excerpti surit a constitutionibus Oblatorum B. M. V., parte 2ª, paragrapho I"; similia extant in constitutionibus Sacerdotum sub titulo Missionis et Rosminianorum.
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