raccolte dal sacerdote salesiano Giovanni Battista Lemoyne
(Giovanni Battista LEMOYNE voll. I-IX, Angelo AMADEI vol. X, Eugenio CERIA voll. XI-XIX, Indice anonimo dei voll. I-VIII e Indice dei voll. I-XIX a cura di Ernesto FOGLIO)
CAPO I. Ribellione e fedeltà. 5
CAPO II. Giovani ricoverati nel vizio di Valdocco - Padre, salvatemi - Un garzone caffettiere insidiato - D. Bosco alla cerca pe' suoi merlotti - La Provvidenza non manca mai - Contravveleni - Il sermoncino serale ed i quesiti - Le Quarant'ore e le scuole di canto - Una strana comparsa sul teatrino - Amore, umiltà e vigilanza. 6
CAPO III. Visita di senatori all'Oratorio - Dialogo - Lettera a Don Bosco dal Ministero degli Interni - Siccardi prepara la legge sulle Immunità Ecclesiastiche - Mons. Fransoni a Pianezza e visita di D. Bosco - L'Arcivescovo lo consiglia a d istituire una Congregazione Religiosa. 9
CAPO IV. Buona riuscita dei giovani dell'Oratorio festivo - D. Bosco fa il catechismo in mezzo ad un campo, e stupore di alcuni Inglesi - Prudenza di D. Bosco nell'andare a visitare gli Oratorii - Il Marchese di Cavour insegna il catechismo - Due altri celebri catechisti - Relazioni amichevoli tra l'Abate Rosmini e D. Bosco - Progetto da D. Bosco presentato a Rosmini. 13
CAPO V. Tornata del Senato a pro dell'Oratorio - Discussione - Favorevole deliberazione. 17
CAPO VI. Una festa disgustosa dello Statuto - Il Parlamento approva la legge Siccardi - Mons. Fransoni rientra in Torino Dolorosa settimana santa - La Comunione Pasquale negli Oratorii festivi - Ricordi ai giovani - L'esempio dei figli converte i padri - Insulti all'Arcivescovo - Il Senato e l'abolizione delle Immunità Ecclesiastiche - Ritorno di Pio IX a Roma - Una trama sventata contro la vita del Papa - Accademia nell'Oratorio in onore di Pio IX. 20
CAPO VII. Mons. Fransoni prigioniero in Cittadella - Visite dei giovani dell'Oratorio all'Arcivescovo - Sottoscrizione per un pastorale - Mons. Fransoni e D. Bosco a Pianezza - Una nuova società di apostolato fra il clero - Fondazione delle conferenze di S. Vincenzo de' Paoli in Torino - D. Bosco e le Conferenze. 23
CAPO VIII. Feste e canzoni nell'Oratorio - Decadimento delle antiche Maestranze - Società operaie irreligiose - Società di mutuo soccorso fondata da D. Bosco - Suo regolamento - Guerra contro questa Società - Bene da essa prodotto e seme gettato - Le classi operaie: aspirazioni, miserie, seduzioni, e azione cattolica. 26
CAPO IX. Un regalo del Papa ai giovani degli Oratorii - La festa delle Corone - Articolo di un giornale cattolico - Lettera del Cardinale Antonelli - Indulgenze. 30
CAPO X. Morte del Cav. Di Santarosa - Espulsione dei Serviti Monsignor Fransoni a Fenestrelle - Condanna di altri Vescovi - Perquisizioni agli Oblati e tumulti popolari D. Bosco e gli Oblati - Dimostrazione contro l'Oratorio sventata - Restituzione ai Serviti della roba tolta dal fisco - Turpe eresia di D. Grignaschi - D. Bosco lo visita nelle carceri d'Ivrea. 34
CAPO XI. D. Bosco e il Conte di Cavour - Un'induzione - Mons. Fransoni in esiglio e visita di D. Bosco - I segretarii del Conte. 37
CAPO XII. Esercizii spirituali a Giaveno - Lettera di D. Bosco al Teol. Borel - Amorevolezza di D. Bosco per gli esercitandi - Il mercante e le scimmie - Le prediche di D. Bosco - Visita alla Sacra di S. Michele - Il ritorno a Torino - Guarigione di una febbre ostinata - Minacce contro i giovani dell'Oratorio e perdono. 39
CAPO XIII. Compra del campo dei sogni - Trattative con Rosmini per un imprestito e disegno di una fabbrica in Valdocco - Don Bosco per la seconda volta a Stresa - A Castelnuovo - Indulgenze per la Cappella dei Becchi - Lettera di D. Bosco al Teol. Borel - Cagliero Giovanni incontra D. Bosco. 43
CAPO XIV. L'Arcivescovo permette la vestizione clericale dei primi quattro studenti dell'Oratorio - Rua Michele allievo delle scuole di latinità - Il Can. Gastaldi prima dì ascriversi tra i Rosminiani raccomanda l'Oratorio a sua madre - MANIERA FACILE PER IMPARARE LA STORIA SACRA, AD USO DEL POPOLO CRISTIANO. 48
CAPO XV. D. Bosco modello di amor figliale - L'onomastico della madre - Umiltà di mamma Margherita e sua semplicità - Accoglienza alle persone distinte - Riconoscenza ai benefattori - Spirito di povertà e di giustizia. 50
CAPO XVI. D. Bosco e l'assistenza agli infermi ed ai moribondi - Mirabile conversione di un ateo - Altra conversione di un seccarlo - Un brutto impiccio colle sétte. 53
CAPO XVII. Pia Unione provvisoria di laici cattolici per impedire i progressi dell'empietà - D. Bosco predica il giubileo a Milano - Fatti edificanti - Conferenza annuale in ringraziamento a Maria SS. Immacolata - La Madonna di Rimini. 58
CAPO XVIII. Spirito di penitenza - Raccomandazioni ai giovani - Testimonii continui della vita di D. Bosco - Il suo riposo e il suo cibo - L'Abate Stellardi e il Can. Ronzino alla mensa di D. Bosco - Sue distrazioni - Il firmamento in una notte serena. 62
CAPO XIX. Come D. Bosco tenesse rigorosamente in freno tutti i suoi sensi - Mortificazione nel parlare, nell'ascoltare, nel lavorare - Magnifico elogio di Don Bosco scritto da Mons. Cagliero - Penitenze straordinarie e segrete di D. Bosco - Non le permette a' suoi alunni - Sue dolorose e continue malattie. 68
CAPO XX. La Fede cattolica assalita dai Valdesi e difesa da D. Bosco - Seconda edizione del Giovane Provveduto e FONDAMENTI DELLA CATTOLICA RELIGIONE - Un libraio valdese - Una sentinella vigilante - Costruzione di un tempio valdese in Torino - AVVISI AI CATTOLICI -Accanimento dei settarii contro l'insegnamento della Teologia - Nepomuceno Nuytz - Vestizione clericale dei primi quattro alunni dell'Oratorio - Ritiratezza ed eroismo di Mamma Margherita - Due lettere di un antico allievo - Indulgenze. 72
CAPO XXI. Il Signor Pinardi propone a D. Bosco la compra della sua casa in Valdocco - Imprestito dell'abate Rosmini a Don Bosco - Visibile tratto della Divina Provvidenza - Contratto e compra della casa - Riconoscenza a Rosmini. 78
CAPO XXII. I finanzieri del secolo - D. Bosco e la banca della Divina Provvidenza - Progetto della Chiesa di S. Francesco di Sales - Il Carnovale in Valdocco - Catechismi della Quaresima - D. Bosco all'Oratorio di S. Luigi - Disegni dei Deputati contro gli Ordini religiosi e la legge della Manomorta - Gli scavi per le fondamenta della nuova chiesa. 82
CAPO XXIII. D. Bosco chiede oblazioni ai benefattori per la costruzione della nuova chiesa - Risposta dell'abate Rosmini Don Bosco a Biella e suo incontro col Padre Goggia - Ad Oropa - Lettere incoraggianti dei Vescovi La festa in Valdocco di S. Giovanni e di S. Luigi - D. Bosco a S. Ignazio e a Lanzo: sue previsioni. 86
CAPO XXIV. Altre pratiche di Don Bosco per aver sussidii - Generosa promessa del Re - Benedizione e collocamento della pietra fondamentale della chiesa - Discorso del P. Barrera - Feste, dialogo e nuova predizione - Don Bosco e gli Ebrei. 90
CAPO XXV. Giovanni Cagliero - Impressioni e giudizii del giovane Turchi accettato nell'Oratorio - La Commemorazione di tutti i defunti a Castelnuovo - Cagliero è condotto da D. Bosco in Valdocco - Sua testimonianza della povertà della casa e della bontà e Zelo di D. Bosco - Cagliero e Rua a scuola - Scritture di locazione d'opera per gli artigiani. 94
CAPO XXVI. La Compagnia di S. Luigi - Conferenze - Meraviglie di D. Bosco - Predice l'avvenire della Casa di Valdocco e degli altri Oratorii festivi - Annunzia la morte vicina di alcuni giovani e una guarigione insperata - Svela lo stato delle coscienze - Il dono delle lagrime. 98
CAPO XXVII. Articolo di Goffredo Casalis - Sintomi di malcontento negli Oratorii - Insolenza perdonata - Irragionevole pretesa Lettera del Teol. Borel a D. Ponte - Risposta - La festa dell'Immacolata - Il primo decennio. 101
CAPO XXVIII. Deficienza di mezzi per l'erezione della chiesa - Circolare del Vescovo di Biella - Generose sovvenzioni del Re - La prima grande lotteria. 104
CAPO XXIX. Il primo refettorio dei giovani - Sistema mutato nella distribuzione del cibo - Varie classi di giovani - Il primo regolamento interno: i dormitorii - Due lettere per accettazioni di giovani - Paterna tolleranza - Cagliero incomincia lo studio della musica - Tenerezza materna - Margherita e gli infermi. 109
CAPO XXX. Apostasie - Predica sulla Verginità di Maria SS. - Zelo e carità di D. Bosco per gli ingannati dagli eretici - Dispute coi partigiani de' Valdesi e co' loro ministri - Un perfido sermone; l'aquila e la volpe - Il giubileo nell'Oratorio di S. Francesco di Sales - Costruzioni de' Valdesi intorno al loro tempio. 113
CAPO XXXI. Doni per la lotteria - In cerca di un locale per l'esposizione -Largizione del Re - Esposizione dei premi per la lotteria -Condono delle spese di posta - L'estimo dei doni - Apertura dell'esposizione - Il Conte di Cavour - Una disgrazia. 116
CAPO XXXII. Una spina per D. Bosco - La passione fa velo all'intelletto - Saggia osservazione del Teol. Leonardo Murialdo -Lettera di D. Cafasso a D. Ponte - Assemblea maligna e tempestosa - Defezione e guerra dichiarata - Insulti, fermezza e pazienza. 120
CAPO XXXIII. Tranelli degli avversari di D. Bosco - Pranzi e merende a ufo - Effetti delle mormorazioni - L'Arcivescovo e la patente a D. Bosco di Capo Direttore dei tre Oratori -Lettera laudativa di Mons. Fransoni al Direttore dell'Oratoria di Vanchiglia - D. Bosco congeda i perturbatori - Nuove industrie e nuovi catechisti - Riconciliazione. - Una scatola di zolfanelli. 123
CAPO XXXIV. Scoppio della polveriera - Eroismo del Sergente Sacchi - Il cappello di D. Bosco - Visibile protezione di Maria Fatti diversi - Una colomba - Una trave infuocata - Il giovanetto Gabriele Fassio - Il Pater ed Ave a San Luigi -Guasti nell'Oratorio - Valdocco, luogo di rifugio - Sovvenzioni - Un'immagine commemorativa - D. Bosco e la Piccola Casa della Divina Provvidenza. 127
CAPO XXXV. Il mese di maggio nell'Oratorio - Lettera di D. Bosco al Vescovo di Biella - I Vescovi e la Lotteria Saggio di studio dato dai giovani delle scuole serali Elogio dell'Armonia - Approvazione dell'Abate Aporti - Giudizio sull'opera di D. Bosco di un emigrato politico. 132
CAPO XXXVI. Carità di D. Bosco verso i poverelli - Alcune testimonianze Gli emigrati politici - Il giocoliere - Francesco Crispi - Altri profughi beneficati - Inganno non riuscito -Beneficenza spirituale. 135
CAPO XXXVII. Desiderio di convertire il mondo - Spirito di vita religiosa insinuato nei giovani - La nuova chiesa di S. Francesco di Sales è terminata - Benedizione di un tabernacolo e di una campana - I Vescovi di Vercelli e d'Ivrea non possono intervenire alla dedicazione della chiesa - Invito e risposta del Sindaco, del Vicesindaco e dei Professore Baruffi - Poesia - D. Bosco nostro Re. 138
CAPO XXXVIII. Benedizione della Chiesa di S. Francesco di Sales - Prima Messa - Le funzioni della sera - Ringraziamenti Musica e poesia - Il giornale “La Patria”. 144
CAPO XXXIX. Nuovi ordinamenti della chiesa e dell'Ospizio - D. Bosco e il SS. Sacramento - Le Chiese - La musica sacra. Le solennità - Il servizio all'altare - La Santa Messa La preparazione ed il ringraziamento - Le sacre cerimonie - La Comunione e la visita in chiesa - Unione con Dio. 147
CAPO XL. Festa solenne in onore di S. Luigi - Nota buffa e caso doloroso - Lettere dei Vescovi per la Lotteria - Il Vescovo di Fossano all'Oratorio - Discorso memorabile del Vescovo di Biella - Estrazione della Lotteria - Mons. Fransoni si congratula con D. Bosco. 151
CAPO XLI. Costruzione del nuovo Ospizio - Secondi esercizii spirituali a Giaveno - Un santo Artigianello - Una predica di Don Bosco e la castità - Un testimonio della vita di Doti Bosco in questi anni e della sua carità. 155
CAPO XLII. D. Bosco ai Becchi - Generosità del fratello Giuseppe e suo affetto ai giovani dell'Oratorio - Lettera di D. Bosco al Ch. Buzzetti - Vestizione clericale di Rua Michele e di Rocchietti Giuseppe - Elargizioni del Re - D. Bosco non accetta la croce di cavaliere - Il Comm. Luigi Cibrario - Le decorazioni, premio della beneficenza. 158
CAPO XLIII. Chierici che si ritirano dall'Oratorio - Previsioni avverate di D. Bosco - Sua bontà - Nuovi giovani iniziati negli studi - Accettazione memorabile e conversione di un giovane. 161
CAPO XLIV. Si continua la costruzione dell'Ospizio - Avvisi ingegnosi e salutari di D. Bosco ai muratori - Il Can. Gastaldi e suo interesse per l'Oratorio - Rovina della nuova casa - Visibile protezione del cielo - Tranquillità e rassegnazione di D. Bosco - Scuole improvvisate - Poesia. 164
CAPO XLV. Macchinazioni contro il Papa - Una grazia di Maria SS. Consolatrice - Un Ministro Protestante confuso da Don Bosco - Progetto delle Letture Cattoliche - Mons. Fransoni e Mons. Moreno - Segreti di D. Bosco per trovare il tempo a tanti suoi lavori - Ad Oropa: umiltà - Lettera del Vescovo d'Ivrea a D. Bosco e consultazioni per dare principio alle Letture Cattoliche - Due Rescritti del Papa a D. Bosco. 169
CAPO XLVI. Letture Cattoliche - Piano di associazione - Importanza di quest'Opera - Il primo fascicolo d'introduzione - Il Vescovo d'Ivrea - Incessante attività di D. Bosco - Le sue lettere - Operazioni simultanee e diverse della mente di D, Bosco - Il primo Regolamento dell'Ospizio di San Francesco di Sales. 173
CAPO XLVII. Il Sistema Preventivo - Sua applicazione - Suoi vantaggi. 177
CAPO XLVIII. Una parola sui castighi. 181
CAPO XLIX D. Bosco in mezzo ai giovani e ai popolani - Oratorii festivi - Le prime Letture Cattoliche - IL CATTOLICO ISTRUITO NELLA SUA RELIGIONE - Difficoltà della Revisione - I Valdesi e la festa dello Statuto - NOTIZIE STORICHE INTORNO AL MIRACOLO DEL SS. SACRAMENTO IN TORINO - Ristampa ordinata al Ch. Rua pel 1903 - Feste del quarto centenario del miracolo - D. Chiatellino a Borgo Cornalense. 185
CAPO L. La casa Pinardi e D. Cafasso - D. Bosco suo penitente - Sua famigliarità e unione di spirito col Direttore del Convitto Ecclesiastico - Generosità di D. Cafasso verso l'Oratorio e suoi lumi sovranaturali - Le vocazioni - Riconoscenza di D. Bosco e de' suoi giovani. 189
CAPO LI. La ripresa dei lavori per rialzare la fabbrica dalle rovine - Benefattori - Piccolo lotto - Carità di D. Bosco pel Capo-mastro - Predicazioni - Ornamenti della nuova chiesa - La nuova campana - Le Quarantore - Monsignor Artico, D. Bosco e la festa di S. Luigi. 191
CAPO LII. I Fratelli delle Scuole Cristiane assoggettati al servizio militare - Il Ministro Cibrario; Catechismo e Storia Sacra nelle scuole elementari - Distruzione di una bettola - L'Oratorio padrone del campo nemico, 194
CAPO LIII. Un padre protestante e la sua famiglia ferma nella fede - Conversione di un giovanetto valdese - Il Diodati intruso nelle scuole - D. Bosco a S. Ignazio e a Villastellone - FATTI CONTEMPORANEI ESPOSTI IN FORMA DI DIALOGO - Le ire dei protestanti - Le dispute - Seduzione e minacce - Progetti di una casa Rosminiana presso l'Oratorio. 198
CAPO LIV. Studii dei giovani nelle vacanze - Il latino della Chiesa e dei Santi Padri Letture Cattoliche - La processione della Consolata - Riduzione del numero delle feste di precetto - Preparazione alla solennità del Santo Rosario - I giovani dell'Oratorio a Morialdo - Una guarigione insperata - IL GALANTUOMO. 203
CAPO LV. Ancora le Letture Cattoliche - Semplicità di D. Bosco nello scrivere - Sua umiltà - Il Prof. Peyron e una radunanza di sacerdoti - Testimonianza dell'umiltà di D. Bosco. 207
CAPO LVI. D. Bosco e gli alunni occupano il nuovo edifizio - Temeraria ma sicura risoluzione - Istituzione dei laboratorii interni per calzolai e sarti - Primo Regolamento per i laboratorii - Padroni e operai di manifatture - Progetti di D. Bosco a beneficio della società e degli artigiani. 210
CAPO LVII. La classe degli studenti - Le scuole private dei professori D. Picco e Bonzanino - I cappotti dei militari - Nuove testimonianze delle meraviglie di D. Bosco nell'Oratorio - Gli scolari cittadini delle scuole private e D. Bosco - La festa di S. Matteo ed una sassaiuola - Influenza salutare di D. Bosco su alcuni insegnanti - Elogi meritati dagli studenti dell'Oratorio - Cordialità tra i figli del popolo e quelli dei signori. 213
CAPO LVIII. Vita intima e regime dell'Oratorio - Bontà degli alunni - D. Antonio Grella - Lettera del Card. Antonelli -Progetto di una tipografia dell'Abate Rosmini - Sacerdoti accusati di ribellione -Inaugurazione del tempio valdese - Articolo del Rogantino e predizione di D. Bosco - Un pranzo agli operai - Lettera di D. Bosco al Card. Arcivescovo di Ferrara - UNA DISPUTA TRA UN AVVOCATO E UN MINISTRO PROTESTANTE: Dramma - Le galline di Mamma Margherita. 217
CAPO LIX. Attentati - Castagne e vino avvelenato - Coltello da macellaio - Biasimevole condotta della pubblica forza - Buon ufficio di un amico - Grandine di bastonate Cagliero difensore di D. Bosco - Pericolo sulla via di Moncalieri - Cautele di Mamma Margherita - Affezione del vicinato. 223
CAPO LX. Storia di un cane. 227
CAPO LXI. D. Bosco, il magnetismo e lo spiritismo - Le sonnambule - I gabinetti magnetici - Le tavole giranti - Gli spiriti - Il diavolo -Infestazioni misteriose - Libri contro le nuove empietà. 230
APPENDICE PRIMO PIANO DI REGOLAMENTO.. 235
APPENDICE PER GLI STUDENTI. 240
I CORIFEI delle sette studiavano di stabilire uno Stato il quale non governasse più in nome di Dio, nè secondo Dio facesse le leggi, ma in nome del popolo e secondo il mutevole volere del popolo, che essi stessi colle loro arti avrebbero formolato. Volevano rovesciare a poco a poco ciò che ipocritamente avevano fino allora predicato doversi rispettare, in modo però che i popoli non se ne avvedessero, o solo allorquando già vi fossero preparati per corruzione di costumi, per errori di mente bevuti nei giornali, nei libri, nei teatri, nelle scuole, e nelle adunanze politiche. A tal fine, predicando la necessità dell'indipendenza della nazione, si facevano apostoli della libertà di pensiero, di coscienza, di religione e di stampa. Era quella libertà definita da S. Pietro: Velamen habentes malitiae libertatem[1], cioè null'altro in fondo che guerra contro tutto ciò che da lontano o da presso ricorda [2] alla superbia umana, che vi è un Dio al quale si deve assoluta obbedienza. Ed è per questo che i legislatori settari hanno proclamato e proclamano: Noi siamo la legge e sopra la legge non sta alcuno, nè Dio, nè Chiesa. Considerarono la Chiesa Cattolica come una semplice società privata, senza valore, senza diritti, senza interesse per la vita civile, separata dallo Stato e, peggio ancora, nemica da doversi combattere incessantemente. Rex sum ego! proclamò Gesù Cristo: ma essi gli rispondono. Nolumus hunc regnare super nos.
Ma vae qui condunt leges iniquas, minacciava Isaia[2]. La politica d'ogni genere, dice Bonald, si rende forte da tutto ciò che concede alla religione e si impoverisce da tutto ciò che le nega. Dove venga meno il rispetto verso il Papato, il rispetto verso il Sovrano si estingue. Il celebre Colbert nel suo testamento così parlava a Luigi XIV aizzato contro la Chiesa da perfidi consiglieri: “Non mai impunemente il figlio si rivolta contro al padre. Tutte le imprese che Ella condurrà contro il Sommo Pontefice, ricadranno sulla stessa Maestà Vostra”.
E purtroppo i reggitori dei popoli disprezzarono la Chiesa e furono avvinti dalla rivoluzione, la quale vuole la sovranità del popolo, per rendere il monarca schiavo del parlamento, il parlamento schiavo delle masse. L'ultima sua parola: Non più Dio, non più re, non più padrone. Abolizione della proprietà! Socialismo e comunismo! - La voce però e la preghiera della santa Chiesa e l'onnipotente braccio di Dio renderan vano l'insensato disegno, ma non tanto che le nazioni apostate non abbiano da pagare il fio della loro ribellione. [3] Tuttavia, come sale della terra e luce del mondo, non vi era nazione, non vi era città e quasi direi borgo, ove non fiorissero sante persone di ogni ceto, e specialmente Vescovi, sacerdoti e religiosi, i quali, mentre invocavano le divine misericordie sugli uomini, sollevavano i miserelli con opere eroiche di carità, prestavano a Dio ed alla Chiesa quel tributo di ubbidienza, che loro negavano gli insensati. Fra questi si annoverava D. Bosco. Egli si era prefisso come codice delle sue azioni il decalogo, i comandamenti della Chiesa, le obbligazioni del proprio stato, e poneva un grande studio nell'osservarle con tutta fedeltà. Era così impossessato dallo spirito di questa osservanza, che in tutto il tempo della sua vita parve non potesse fare diversamente. Non si ebbe mai a scorgere in lui, in tutto il suo insieme, difetto o trascuranza nell'adempimento de' suoi doveri come cristiano, come ecclesiastico, come capo di Comunità, come Superiore di una Congregazione; ed era osservantissimo delle regole che a questa egli aveva dato.
Nello stesso tempo provava una gran pena nel vedere come da molti fosse conculcata la divina legge, nell'udire bestemmiato il nome di Dio, di N. S. Gesù Cristo e della Beata Vergine; era profondamente amareggiato nello scorgere come l'immoralità insidiasse l'innocenza di tanti giovanetti; il suo cuore sanguinava nel sapere oltraggiato il Papa, e misconosciuti i diritti della Chiesa. E la sua obbedienza ai precetti di questa buona Madre abbracciava le prescrizioni più minute, le sacre cerimonie e rubriche, le varie risposte delle Sacre Congregazioni Romane, ed esigeva che altrettanto facessero i suoi dipendenti. Nelle stesse cose in cui era lasciata libertà d'interpretazione e di pratica, sceglieva l'opinione più conforme allo spirito della Chiesa. [4] Il Teol. Savio Ascanio affermava: “Io lo conobbi inappuntabile in tutto e non ho mai sentito nel mio cuore il menomo sospetto che egli abbia perduta l'innocenza battesimale”.
Il Teol. Reviglio appoggiò questa testimonianza: “Era in lui talmente profondo l'orrore alla colpa, che negli undici anni da me vissuti con lui non lo vidi mai commettere deliberatamente un peccato veniale”.
E D. Michele Rua non esitava nel dire: “Ho vissuto al fianco di D. Bosco per trentasette anni, e quanto più penso al suo tenor di vita, agli esempi che ci ha lasciati, agli insegnamenti che ci ha dati, tanto più cresce in me per lui la stima e la venerazione, l'opinione di santità, in modo da poter dire che la sua vita fu tutta del Signore. Mi faceva più impressione osservare D. Bosco nelle sue azioni, anche più minute, che leggere e meditare qualsiasi libro divoto”.
La stessa convinzione hanno espresso più centinaia dì coloro che abitarono dal 1846 al 1883 col caro. D. Bosco.
PROSEGUIAMO ne' nostri racconti. Mentre D. Bosco attendeva alla cultura religiosa e morale dei 700 e più giovani dell'Oratorio festivo di S. Francesco di Sales ed invigilava sui 1000 che frequentavano quelli di S. Luigi Gonzaga e dell'Angelo Custode, non perdeva di vista i poveri giovanetti del suo nascente ospizio. Anzi questi ei riguardava come la pupilla degli occhi suoi, e ne aveva quella cura, che maggiore non ne avrebbe avuta il più sollecito ed affettuoso dei padri. In quest'anno i suoi alunni erano quaranta all'incirca. Quasi di continuo scrivevano a lui parroci, parenti, o altre persone per raccomandargli qualche fanciullo. D. Bosco ascoltando tante miserie se ne sentiva commosso e temendo che per un suo rifiuto quel ragazzo andasse poi a finir male, sovente lo ospitava. Alle preghiere degli stessi giovani non poteva far resistenza.
L'Ispettore scolastico della Spezia, Sig. Bonino Alvaro, nel 1884 ci narrava il seguente grazioso fatto, del quale egli [6] fu testimone quando frequentava l'Oratorio come catechista, essendo maestro elementare municipale nel 1850.
Un padre erasi fatto protestante in Torino, per riceverei 30 danari, coi quali i nemici di Dio pagavano le apostasie. Il disgraziato pretendeva che la moglie ed il figlio facessero altrettanto, ma non ci poteva riuscire, poichè la buona donna era ferma nella religione e tenea fermo il suo piccolino. Erano Savoiardi. La povera madre piangeva e pregava. Quand'ecco, una notte il figlio ebbe un sogno. Sembravagli di essere trascinato al tempio dei Protestanti e invano dibattersi per resistere a quella violenza. Mentre però così lottava, ecco comparire un prete, liberarlo dalle male branche e condurlo con sè. Svegliatosi al mattino narrava il sogno alla mamma, la quale cercava ogni strada per allogare il figlio in qualche istituto, poichè il padre non voleva desistere dal suo perfido divisamento. Lungo la settimana si imbattè in persona che la consigliò a presentarsi a D. Bosco in Valdocco e a vedere se nell'Oratorio avesse potuto trovare un rifugio al figlio. Essa vi andò col suo ragazzo la domenica mattina e, saputo che era tempo di funzione, entrò in chiesa. Ed ecco uscire D. Bosco per celebrare. Il signor Bonino Alvaro era inginocchiato a fianco di questo fanciullo, il quale appena vide D. Bosco gridò ripetutamente quasi fuori di sè: C'est lui, maman! c'est lui même! c'est lui même! cioè il prete apparsogli in sogno. Il piccolo gridava, la mamma piangeva, e il Sig. Bonino dopo aver dato avviso che in chiesa non era luogo da gridare così, vedendo che non riusciva a quietarlo, condusse la madre e il figlio in sagrestia, ove udì la narrazione del sogno e come in D. Bosco avesse il figlio riconosciuto il prete liberatore. Intanto D. Bosco ritornava in sagrestia e non era ancora ben svestito degli abiti sacri che il fanciullo corre a stringersi alle sue ginocchia, dicendogli [7] Padre mio, salvatemi! - D. Bosco lo accettò in casa e il piccolo Savoiardo stette più anni all'Oratorio.
Quanti altri giovani pericolanti furono salvati da Don Bosco per averli incontrati egli stesso e accolti in casa sua! Un giorno entrava in un certo caffè di Torino e venne a servirlo un giovane di grazioso aspetto. Mentre il garzone versava il caffè, D. Bosco incominciò a chiedergli amorevolmente di sue notizie, e poi di interrogazione in interrogazione passò a scandagliare il suo cuore. Il giovane, vinto dalle sue maniere paterne, non ebbe segreti con lui e gli palesò interamente lo stato dell'anima sua, che era ben deplorevole. Il dialogo però era interrotto poichè il giovane di quando in quando andava a servire nuovi avventori, ma ritornava sempre a fianco di D. Bosco, ora con un pretesto, ora con un altro. D. Bosco parlava sottovoce e nessuno, neppure il padrone, si accorse di un dialogo così interessante.
D. Bosco finì con dirgli: - Chiedi licenza al tuo padrone di venire all'Oratorio e poi qualche cosa decideremo.
- Il padrone non darà mai questa licenza.
- Ma tu in questo luogo non devi più rimanere.
- Lo vedo, lo capisco; ma come fare?
- Non ne ho più: sono morti; io sono solo.
- Prendi le tue robe e più presto che puoi corri presso di me. Fa' in modo che nessuno possa accorgersi della tua intenzione; e vieni; non ti mancherà ne pane, nè tetto, nè [8] un'educazione che ti provveda un lieto avvenire. Io ti farò da padre.
D. Bosco uscì dalla bottega. L'indomani il giovanetto era fuggito e giungeva all'Oratorio colle sue povere robe sotto il braccio. Divenne un eccellente cristiano e per vari anni fu il modello degli alunni dell'Oratorio.
Ma a questi ed agli altri D. Bosco doveva pensare per mantenerli, calzarli, vestirli. Non si poteva per la condizione dei raccomandanti e dei raccomandati fare calcolo sopra l'aiuto di una pensione; e la maggior parte de' suoi ricoverati nulla o ben poco guadagnavano. Egli non aveva stipendi, e mancava di ogni altro provento. Perciò i debiti, causa eziandio gli Oratorii festivi, aumentavano a dismisura e ben sovente non avendo egli onde soddisfarli, nel tempo e nella misura che esigevano i creditori, era minacciato dal pericolo o di lasciar soffrire i suoi figliuoli o di ricondurli a chi glieli aveva affidati. Ma nè all'una nè all'altra delle due alternative il suo cuore caritatevole si poteva acconciare.
Per la qual cosa, collocando la più grande fiducia in Dio, nelle promesse della Madonna, nella certezza della propria missione, voi lo avreste veduto uscire di quando in quando lungo la settimana, portarsi ora presso questa, ora presso quell'altra persona della città, e colle maniere più umili, e col più bel garbo del mondo domandare qualche soccorso per essi. Se incontrato per via gli veniva chiesto dove andasse: Vo alla cerca pe' miei merlotti! rispondeva; e tirava innanzi.
Era questo un eroico sacrificio, del quale solo Iddio può apprezzare il valore. “Per sua stessa confessione, ci scrive Mons. Cagliero, il suo naturale era focoso ed altero, per cui non poteva soffrire resistenza, e provava in sè una lotta inesprimibile, quando doveva presentarsi a qualcuno per chiedere l'elemosina. Eppure con frequentissimi atti contrari seppe [9] vincersi in modo, da accostarsi e di buonissimo animo, non solo a chi sapeva esser disposto a dargli soccorso, ma eziandio a quei medesimi i quali conosceva esser più o meno alieni od avversi. E non ottenendo la prima volta ciò che desiderava, più e più volte si presentava con una piacevolezza che soggiogava gli animi. E questo lo posso attestare sia perchè più tardi moltissime volte lo accompagnava in queste visite, sia per le confidenze che a mia istruzione talvolta mi faceva.
“Per i suoi giovani non risparmiava nè fatiche, nè umiliazioni. Talora non trovava che buone parole; sovente incontrava mortificazioni, insulti e amare ripulse, ma tutto soffriva con gaudio senza offendersi, nè mai diminuire l'ardore della sua carità. Moltiplicava le sue lettere alle persone facoltose supplicandole per aver soccorsi, e un giorno a chi avevagli mandato un biglietto insultante, rispondeva incaricando uno de' suoi a scrivergli, e indicandogli le parole che doveva usare: - Scrivigli, disse, che se egli non vuole o non può aiutare i miei orfanelli, è padrone di farlo; ma che però l'ingiuriarmi perchè mi occupo di essi, non è cosa gradita al Signore; tuttavia presentandogli i miei rispetti, assicuralo che non conservo per ciò nessun risentimento. -Quel signore nel ricevere tal lettera si indusse a più miti consigli e da quel punto divenne amico ed ammiratore di D. Bosco”.
D. Bosco però non era importuno o molesto. Contentavasi di esporre i bisogni che avevano i suoi giovani senza precisare la somma necessaria; e lasciava che coloro i quali lo ascoltavano, tirassero essi stessi la conseguenza caritatevole e logica dal suo ragionamento. Tante volte fu chiesto della somma che occorrevagli ed egli ripeteva semplicemente il racconto già esposto, senza far caso della domanda. Questo suo metodo gli fruttava elemosine ancor maggiori di quello che potesse sperare dai più generosi. [10] Tuttavia non sempre presentavasi supplicante a qualche ricco signore; ma in casi straordinarii imponevagli amorevolmente, come uno che ha autorità di così fare, il versamento di somma cospicua, e otteneva quanto chiedeva. E anche questa fu una delle meraviglie di D. Bosco, che appariva come rappresentante di una volontà soprannaturale. A suo tempo i fatti.
Non riteneva per sè un soldo, e spesso dovette egli stesso privarsi del necessario per darlo a' suoi ricoverati. Quanto gli era dato in elemosina, tutto destinava di gran cuore per essi. L'uso che faceva dei danari era quello che si conveniva ad un abile amministratore; e quando era necessario fare delle spese, le sapeva far bene e a tempo debito. Questa era l'opinione che avevano di lui quanti lo conoscevano. “Un giorno, narrava Brosio Giuseppe, per affari di negozio mi trovava, anni dopo, in un circolo di grossi commercianti, banchieri, giornalisti, fra i quali mi parve eziandio riconoscere gli scrittori della Gazzetta del Popolo, Govean e Bottero.
Benchè avversi alla Religione e quindi nemici di D. Bosco e dell'Oratorio, udii che non si vergognavano di ripetere, che se D. Bosco fosse stato ministro, il regno sarebbe senza debiti. - Tale stima era la causa della fiducia che in lui riponevano i cittadini nel dargli le loro offerte”.
Molte volte però sembrava che i soccorsi fossero per mancare. Nel 1850, per le conseguenze della guerra e in appresso per altre sinistre vicende, quella cara famigliuola si trovò sovente nelle strettezze. Sapevasi talora che pel domani in dispensa non c'era un pane nè in casa un centesimo, ma Don Bosco non mostrò mai il menomo dubbio di restar privo di mezzi, e sempre tranquillo e sempre allegro: - Mangiate, o figliuoli, diceva loro, che ce ne sarà! - Infatti la Provvidenza Divina non lo abbandonò mai: e mentre il numero dei [11] giovani ricoverati cresceva ogni giorno più, e le condizioni dei tempi si facevano gravissime, non dovette mai allontanare dall'Oratorio neppure un ricoverato per mancanza del necessario. Fu questo un premio della sua intiera vita, che ben, si può dire non sia stata altro che un complesso di carità eroica verso il prossimo, adoperandosi egli con ogni sorta di fatiche e di sante industrie.
Ma la sollecitudine più squisita egli la usava per gli interessi dell'anima. I mezzi di pervertimento facevansi ogni giorno più incalzanti e funesti. Per la libertà di stampa si andavano a larga mano spargendo nelle officine e nelle botteghe libri e gazzette perniciosissime. Era poi frequentissimo il caso di udire padroni e domestici, negozianti e commessi, sarti e ciabattini intavolare questioni di religione e di morale, e sputare sentenze, come se fossero altrettanti dottori della Sorbona. Perciò la fede ed il buon costume erano posti al più grande cimento. Or D. Bosco, costretto ad inviare i suoi giovanetti in città per impararvi un'arte o mestiere, prendeva anzitutto minute informazioni sull'onestà degli individui, presso cui voleva affidarli, ed, occorrendo, li toglieva pur anco da un posto per consegnarli ad un altro, che gli presentasse più sicure guarentigie. Oltre di ciò andava spesso a domandare notizie al padrone sui loro portamenti, dando così a dividere come gli stesse a cuore la loro fedeltà al lavoro, e nel tempo stesso come gli premesse che i suoi cari protetti non incontrassero pericoli nè per la moralità, nè per la religione. In casa poi egli si fermava con essi il più che gli fosse possibile; in bel modo andava spiando quello che avessero udito o veduto di male nella giornata; e poi come un esperto ed amoroso medico porgeva tosto il contravveleno, per espellere dalle loro menti le mal succhiate massime, e per iscancellare dal loro cuore le cattive impressioni, che ne avevano ricevute. [12]
Già fin dal primo anno egli soleva tenere una parlatina,dopo le orazioni della sera; ma se da principio questo egli faceva di rado, e solamente nella vigilia delle feste o in occasione di qualche solennità, in quest'anno invece prese a farlo molto di spesso e pressochè tutte le sere. Nel suo discorsetto, che durava da due a tre minuti, esponeva ora un punto di dottrina, ora una verità morale, e ciò col mezzo di qualche apologo, che i giovani ascoltavano col massimo piacere. Soprattutto ci mirava a premunirli contro le insane opinioni del giorno, e contro gli errori dei protestanti, che serpeggiavano per Torino. Talora, per meglio attirare la loro attenzione e per iscolpire più profondamente nell'animo una buona massima, egli raccontava loro un fatto edificante, avvenuto nel giorno, o tolto dalla storia, o dalla vita di un santo. Altre volte, come aveva fatto e faceva eziandio cogli esterni dell'Oratorio festivo, proponeva un quesito da risolvere, od una domanda, a cui fare adeguata risposta; come per es., che cosa significassero le parole “Dio” e “Gesù Cristo”, che cosa importasse la denominazione di “Chiesa Cattolica”; che cosa significasse “Concilio perchè il Signore punisce il peccatore impenitente con pene eterne, e via dì questo tenore. Per lo più egli lasciava alcuni giorni di tempo a rispondere. La risposta facevasi sopra un biglietto portante il nome e cognome dell'autore; ed un premiuccio toccava a chi dava nel segno. In questa guisa D. Bosco faceva pensare, e intanto apriva a se stesso la via a sviluppare le più utili verità, che non si dimenticavano più. Questa piccola parlata era sempre preceduta dalla consegna degli oggetti che i giovani rinvenissero smarriti nella casa e nel cortile. D. Bosco li annunziava, e quelli cui appartenevano si presentavano a ritirarli.
Intanto alle varie pratiche, di pietà e solennità religiose che egli aveva istituite confine di promuovere la frequenza [13] alla confessione e comunione, aggiungeva ogni anno l'esposizione del SS. Sacramento, detta delle Quarant'ore; e nella piccola chiesa tettoia, messa graziosamente a festa, durava tre giorni con messa cantata, vespri e Tantum Ergo in musica e predica ogni giorno, come si usa nelle parrocchie. Era questa nuova occasione per esercitare le scuole di musica. Divideva i giovani in tre gruppi, in ognuno de' quali poneva a sostenere il canto uno de' suoi allievi già bene addestrato e conoscitore delle note. Fra questi Bellia Giacomo.
“D. Bosco, scrisse Tomatis Carlo, strimpellava sopra un meschinissimo piano per farci imparare le sue melodie e talora addestrava alquanto a suonare il violino un volonteroso di apprendere il maneggio di questo istrumento, per accompagnare qualche a solo. Un giorno nel 1850 si ispirò ad un motivo che udì suonare dalle trombe dei soldati che venivano ad esercitarsi nei pressi dell'Oratorio, e scrisse un Tantum Ergo ad una voce sola, che io conservo e che molte volte cantai, andando con lui e con altri compagni musici alle funzioni sacre celebrate in Torino, nei paesi vicini e più sovente alla Crocetta. Anche Reviglio Felice aiutava D. Bosco nel canto dal 1830 al 1856.
“Un regalo D. Bosco preparava ai suoi musici qualche tempo dopo. Egli faceva acquisto di un piccolo organo a tastiera colle canne tutte di legno, costrutto forse un due secoli prima. Era sdruscito, poco armonico, ma pur serviva per esercitar le dita del novizio suonatore. Tutti ricordano come una canna colla valvola rotta mandasse certe urla sgarbate, che provocavano nei giovani le risa più saporite. Quest'istrumento era stato collocato nella camera vicina a quella di Don Bosco, e più d'uno dei primi che lo suonarono divenne valente organista. [14]
Musica e teatro sono in correlazione e D. Bosco continuava a dare ai giovani il divertimento di gradite rappresentazioni. Escludeva però ogni azione drammatica che potesse esigere spese di vestiarii.
Questa sua esigenza cagionò alcune lepide scene, che restarono memorabili anche molti anni dopo. Avendo gli attori preparato un dramma intitolato I tre Re Magi, tennero fra di loro una piccola segreta congiura, e col pretesto di vespri solenni che dicevano doversi cantare all'Oratorio, si presentarono al Rifugio e in alcune parrocchie chiedendo in imprestito quattro piviali. Ci voleva anche un manto per Erode. Avutili facilmente, essendo andati a nome di D. Bosco, li nascosero con gelosa cura, e al momento di entrare in scena, eccoli trionfanti coi piviali sulle spalle. Superfluo descrivere le risa convulsive degli spettatori, e la ridicola, figura di que' giovani, ai quali D. Bosco faceva subito deporre quelle sacre vesti. Un'allegra ed ingenua spensieratezza era il carattere della maggior parte de' miei compagni, i quali però studiavano o lavoravano con amore. Intanto continuavano le scuole serali. D. Bosco c'insegnava l'aritmetica e la calligrafia, e la sua presenza infondeva in tutti un senso di gioia inesprimibile.
Ciò che ammiravamo in lui, in queste e in altre mille circostanze, si era come alla fermezza unisse sempre la dolcezza dei modi, la pazienza e quella illimitata longanimità colla quale superava o non creavasi ostacoli, sia nelle cose piccole come nelle cose grandi, e tutto conducesse ad esito felice. Soprattutto ci attraeva la sua umiltà.
Una sera, insegnando egli il sistema metrico e facendo calcoli sulla lavagna, per caso si sbagliò, ed in conseguenza non riusciva a condurre a termine lo scioglimento del problema. La numerosa scolaresca stava attenta e non intendeva. [15] Io, accortomi ove fosse l'errore, mi alzai e, nel modo che seppi migliore, lo corressi. Altri maestri non avrebbero gradita una simile osservazione in pubblico; ma D. Bosco accettò amorevolmente il mio avviso e da quel punto mi prese in maggior considerazione, sicchè io ne rimasi incantato.
“La sua vigilanza poi sulla nostra condotta era incessante, non soffrendo che il demonio gli rubasse le anime”.
Fin qui Carlo Tomatis. Per la disciplina in questi anni 1849, 1850 lo aiutava D. Grassini, esercitando l'ufficio di Prefetto, e venendo a dimorare all'Oratorio, allorchè D. Bosco era chiamato a predicare nelle varie parti del Piemonte.
LE FATICHE indefesse di D. Bosco facevano prendere l'Oratorio in viemmaggior considerazione. In Torino molto se ne parlava e, dimenticate le prime apprensioni, moltissimi lo stimavano e ne dicevano bene. Ognuno dai fatti lo giudicava mezzo opportunissimo per allontanare dalla porta della prigione tanti poveri giovani, rendendoli in quella vece buoni cristiani ed onesti cittadini, chè i buoni risultati erano a tutti palesi e negar non si potevano. Dalla pubblica voce, da private relazioni e poscia da un voto del Senato lo stesso Governo fu indotto ad interessarsene. In quel tempo una persona benevola, il signor Volpotto, parente di casa Gastaldi, e che teneva un posto eminente nello Stato, consigliò D. Bosco a mettere in certo qual modo l'opera dell'Oratorio sotto la protezione del Governo. D. Bosco non acconsentì, e allora quel signore a sua insaputa, ma a nome suo, inoltrò per mezzo dell'Alta Camera una petizione al Pubblico Ministero per un sussidio a vantaggio de' suoi giovani. Il Senato, prima di prendere [17] una deliberazione e raccomandare la cosa al Governo, volle attingere le più minute informazioni. Per la qual cosa nominò un'apposita Commissione coll'incarico di fare una visita all'Oratorio, informarsi e poi riferire. L'onorevole Commissione era composta di tre Senatori, che furono il conte Federigo Sclopis[3], il marchese Ignazio Pallavicini, e il conte Luigi di Collegno.
Pertanto, ad esecuzione dell'alto incarico, i tre nobili signori nel mese di gennaio del 1850 si portarono all'Oratorio in Valdocco nel pomeriggio di una festa. Erano circa le ore due, e più di 500 ragazzi nel bollore di loro ricreazione, occupati quali in uno, quali in un altro trastullo, porgevano di sè all'attento osservatore il più gradito spettacolo. Al mirar sì gran turba di giovani insieme raccolti, gli uni a correre, gli altri a saltare, questi a fare di ginnastica, quegli a camminare sulle stampelle, assistiti qua e colà da varii sacerdoti e laici, quei signori ne rimasero. Dopo alcuni istanti il conte Sclopis esclamò: - Che bello spettacolo! - Bello davvero, rispose il [18] marchese Pallavicini. - Fortunata Torino, aggiunse il Conte di Collegno, fortunata Torino se nel suo seno sorgessero parecchi di questi istituti. -Allora i nostri occhi, riprese lo Sclopis, non sarebbero così sovente offesi dall'ingrato aspetto di tanta misera gioventù, che nei giorni festivi scorrazza nelle vie e nelle piazze, crescendo nell'ignoranza e nel mai costume.
Don Bosco, che si trovava in un circolo di giovani, veduto quei signori che punto non conosceva, loro si avvicinò. Fatti i primi convenevoli, ebbe luogo un dialogo, che coll'aiuto dell'uno e dell'altro, e specialmente di Don Bosco, abbiamo potuto ricomporre, almeno nella sostanza.
Sclopis. - Stavamo osservando con istupore lo spettacolo di tanti giovani insieme raccolti in lieti trastulli, spettacolo che ci sembra più unico che raro. Sappiamo che anima di tutto questo è il Sacerdote Bosco. Vorrebbe favorire la S. V. di presentarci a lui?
D. Bosco. - Le Signorie Loro gli sono appunto presenti; il povero Don Bosco sono io. - Ciò detto li pregò che volessero degnarsi di passare innanzi, e li condusse nella sua cameretta.
Scl. - Godo assai di fare oggi sua personale conoscenza; chè per fama Don Bosco già mi era noto da lungo.
D. B. - Debbo la mia fama non ai meriti miei, ma piuttosto alla lingua de' miei giovanetti.
Pallavicini. - Sono questi giudici assai competenti e affatto veridici, giacchè ex ore infantium, come dice il profeta, perfecisti laudem.
Scl. - La notizia di quest'opera sua è testè salita alla Camera del Senato, e l'alto Consesso c'incaricò di raccogliere esatte informazioni onde riferire in proposito. Io sono il conte Sclopis, questi è il marchese Pallavicini, quegli è il conte di Collegno. [19]
D. B. - Questo povero istituto ebbe fin qui ben molte e care visite, ma questa sarà certamente annoverata tra le più preziose. Le SS. LL. domandino pure quanto occorre, che sarò lieto di soddisfarle in quanto so e posso.
Scl. - Qual è lo scopo di quest'opera sua?
D. B. - Lo scopo si è di raccogliere nei giorni festivi il maggior numero di giovani, i quali, o perchè trascurati dai parenti od abbandonati, o perchè forestieri, invece di recarsi alle sacre funzioni e al Catechismo, andrebbero girovagando e giocando per la città facendo i monelli. Qui al contrario, attirati dall'amore dei trastulli, nonchè da regalucci e da belle maniere, sono trattenuti in lieta ricreazione sotto gli occhi di vari assistenti. Intanto nel mattino vi hanno comodità di accostarsi ai Santi Sacramenti, ascoltano Messa e un breve sermone loro adattato. Nel pomeriggio poi, dopo alcune ore di onesto divertimento, si raccolgono in Cappella pel Catechismo, pel canto dei Vespri, per l'istruzione e Benedizione. In poche parole: lo scopo si è di radunare i giovani per farli onesti cittadini col renderli buoni cristiani.
Pall. - Fine nobilissimo. Egli sarebbe desiderabile che siffatti istituti si moltiplicassero in questa città.
D. B. - La Dio mercè l'anno 1847 uno consimile ne venne aperto presso la Villa Reale, il Valentino, ed un terzo fu inaugurato poc'anzi nel Borgo di Vanchiglia.
Collegno - Benissimo! Benissimo!
Scl. - Qual è il numero approssimativo dei giovani, che frequentano questo luogo?
D. B. - Sono generalmente per ogni festa un 500 e spesso di più. Quasi altrettanti si annoverano in ciascuno degli altri.
Coll. - In media sono adunque 1500 giovani abitanti in questa città, raccolti da provvida mano, e per mezzo della [20] Religione indirizzati sulla via della moralità e dell'onore. È un grande beneficio per questa metropoli; è un grande sostegno pel nostro Governo.
Pall. - Da quando Ella cominciò questa sua istituzione?
D. B. - Cominciai a raccogliere alcuni ragazzi più rozzi e bisognosi di una cura speciale sin dal 1841, e vi fui spinto dallo sperimentare che molti, sebbene un po' discoli, non erano malvagi, ma che lasciati a se stessi si davano facilmente a tristissima vita e riuscivano alla prigione.
Scl. - L'opera sua è veramente filantropica e di una grande importanza sociale. Sono opere siffatte che il Governo deve promuovere e sostenere. E per suo conforto le dico che l'Intendenza e tutta la Famiglia Reale apprezzano quest'opera e le daranno il loro appoggio.
Coll. - Quali mezzi adopera la S. V. per moralizzare e tenere in ordine sì grande moltitudine di giovani?
D. B. - L'istruzione ed una carità dolce, paziente e longanime sono gli unici mezzi. Qui l'amore prevale al bastone, anzi regna da solo.
Pall. - Avremmo bisogno che questo metodo venisse adottato in tanti altri istituti e specialmente nei penitenziali. In questo caso non occorrerebbero più tante guardie e gendarmi e, quello che val meglio, si formerebbe alla virtù il cuore di tanti rinchiusi, che do o anni ed anni di punizione n'escono peggiori di prima.
Scl. - Questi ragazzi sono essi tutti di questa città?
D. B. - No, signor Conte, ma varii sono delle parti di Biella, Vercelli, Novara e di altre province del Regno: alcuni sono di Milano e di Como e fin della Svizzera. Venuti in questa capitale per cercare lavoro, essi, perchè lontani dagli sguardi dei loro parenti, sarebbero esposti ad evidente pericolo di riuscire cattivi cristiani. [21]
Scl. - Aggiunga pure: e malvagi cittadini, e non tarderebbero a dare molto da fare alla Polizia ed allo stesso Governo.
A questo punto un giovanetto sui 12 anni venne a bussare alla porta della cameretta per fare una commissione a Don Bosco, il quale lo fece fermare. Piacque allo Sclopis la confidenza e l'ingenuità del fanciullo e lo interrogò: Come ti chiami? - Mi chiamo Giuseppe Vanzino. - Di che paese sei? - Di Varese. - Che mestiere fai? - Lo scalpellino. - Hai ancora i tuoi genitori? - Mio padre è morto. - E tua madre?
A questa domanda il buon ragazzo abbassò gli occhi, chinò la fronte e fecesi vergognoso e muto. - Dimmi, replicò lo Sclopis, hai ancora tua madre? È forse morta anch'essa?
Allora il poveretto, con voce stentata e commossa, rispose
Ciò detto diede in un pianto dirotto. A questa vista il Conte, i suoi compagni e Don Bosco furono inteneriti, ed una furtiva lagrima comparve sul loro ciglio. Dopo un istante di silenzio il buon signore riprese il discorso e disse: - Povero figlio, mi fai compassione; ma stasera dove andrai a dormire? - Finora dormiva in casa del mio padrone, rispose egli asciugandosi gli occhi, ma oggi D. Bosco mi promise di prendermi presso di sè ed annoverarmi tra i suoi ricoverati. - Come? domandò qui lo Sclopis rivolto a Don Bosco, oltre all'Oratorio festivo Ella tiene aperto eziandio un Ospizio di beneficenza?
D B - Così volle il bisogno, e presentemente ne albergo una quarantina, la maggior parte poveri orfanelli o giovanetti dei più abbandonati. E si mangiano e dormono in questa casetta, e vanno a lavorare in città, quali in una e quali in un altra bottega.
Pall - Sono questi i miracoli della carità cattolica. [22]
Coll. - Ma dove attinge Ella i mezzi per sostenere cotale ricovero? Imperocchè quaranta bocche giovanili consumano pane assai.
D. B. - Il provvedere il vitto e vestito a questi miei cari ragazzi è certamente un còmpito alquanto difficile, e che talora mi dà non poco a studiare; Imperocchè la maggior parte di essi non guadagnano ancor nulla, ed alcuni fanno un sì scarso guadagno, che non basta a calzarli e vestirli. Ma, ad onor del vero, debbo dire, che fin qui la divina Provvidenza non mi venne ancor meno; anzi ho tanta fiducia che Dio mi sarà ancor largo de' suoi favori, che desidero di avere un più vasto locale, per accrescere il numero dei miei ricoverati.
Scl. - Si potrebbe visitare l'interno della casa?
D. B. - Purchè vogliano degnarsi; la casa è tanto meschina, che temo ne sarà offeso il loro sguardo.
Giusta il loro desiderio, D. Bosco li accompagnò nel dormitorio a pian terreno, a cui si entrava per un uscio molto basso. Il Senatore Sclopis, che vi entrò pel primo, nel passarvi urtò col cappello, che rovesciato gli sarebbe caduto per terra, se il Pallavicini, a cui battè sul naso, non glielo avesse trattenuto di dietro. L'egregio Conte sorridendo disse: - Nelle sale del Re questo non mi accadde mai. - E il Marchese a sua volta soggiunse: - E a me non cadde mai un cappello sul naso.
Visitato quel sito, i tre Senatori vennero menati in cucina. La buona Margherita stava in quel momento assestando i piatti e le pentole: -Ecco mia madre, disse D. Bosco; ecco pure la madre dei nostri orfanelli.
Scl. - Da quanto pare, voi fate anche la cuciniera, non è vero, madre?
Margh. - Per guadagnare il Paradiso facciamo un po' di tutto. [23]
Scl. - Quali pietanze date ai giovanetti?
Margh. - Pane e minestra, e minestra e pane.
Scl. - E quante al vostro D. Bosco?
Margh. - Son presto contate: per lui una sola.
Scl. - È un po' troppo poco una sola; ma almeno gliela farete molto buona?
Margh. - Buonissima! S'immagini che egli mangia quasi sempre la stessa, mattino e sera, dalla domenica al giovedì.
A queste parole quei tre signori risero della miglior voglia.
Scl. - E perchè sino al giovedì, e non da una domenica all'altra?
Margh. - Perchè pel venerdì e sabato, giorni di vigilia, ne fo una di magro.
Scl. - Ho capito. Si vede che voi siete una cuciniera molto economica. Credo per altro che ai tempi nostri il vostro metodo di cucinare non farà molto progresso nel mondo.
Pall. - Non avete niuno a porgervi la mano?
Margh. - Gli altri giorni ho bensì un buon aiutante ma oggi egli ha molto da fare, e mi lasciò sola.
Pali. - E chi è dunque il vostro garzone di cucina?
Margh. - Eccolo, disse sorridendo e additando D. Bosco.
Scl. - Mi rallegro con Lei, sig. D. Bosco. Non avevo dubbio veruno che Lei fosse un buon educatore della gioventù ed anche un abile scrittore; ma ancora ignorava che se ne intendesse pure di gastronomia.
D. B. - Vorrei che Ella mi vedesse all'atto pratico, e allora soprattutto quando fo la polenta.
Tutti si misero a ridere, e salutata la buona donna uscirono di cucina.
Intanto essendo ormai tempo di terminare la ricreazione, D. Bosco ne fe' dare il segno, e i tre signori si ebbero una [24] nuova sorpresa. Questa si fu il pronto cessare di tanti giovani da ogni giuoco e trastullo, e il loro disporsi in fila, per recarsi ordinatamente in Chiesa.
I Senatori visitarono poscia le singole classi di Catechismo; indi assistettero al canto del Vespro e alla istruzione, e ricevettero coi giovani la Benedizione col SS. Sacramento, edificandoli tutti col loro divoto contegno. Usciti di Cappella, eglino si compiacquero di trattenersi ancora un po' nel cortile tra i giovani, interrogando or questo or quell'altro. - Che mestiere fai tu? domandò il Conte Sclopis ad uno di essi. - Fo il calzolaio. - Sapresti dirmi che differenza vi passa tra il calzolaio e il ciabattino? - Il ciabattino, rispose il garzoncello abbastanza istruito, è colui che cuce e rattaccona le ciabatte o le scarpe rotte; il calzolaio invece è quegli che le fa nuove. Per esempio, queste sue belle scarpe o stivali son fatti dal calzolaio. - Bravo, disse il Conte, mi hai risposto da maestro.
D. B. - Egli è difatto molto assiduo alla nostra scuola serale.
Pall. - Hanno qui luogo anche le scuole serali?
D. B. - Sì, per servirla. Le abbiamo incominciate fin dall'anno 1844 a vantaggio di quei giovani, i quali, o perchè tutto il giorno occupati nei proprii lavori, o perchè già troppo inoltrati in età, non possono frequentare le scuole comunali. Da qui ad un'ora esse incominciano in quelle camere attigue.
Pall. - Quale insegnamento abbracciano esse?
D. B. - I primi elementi di lettura e scrittura, la grammatica, la Storia Sacra e la storia patria, la geografia, l'aritmetica e il sistema metrico. Vi ha pure una classe per quelli che imparano il disegno e la lingua francese: nè vi mancano lezioni di musica vocale e istrumentale.
Pall. - E chi le presta la mano? [25]
D. B. - Quegli ecclesiastici e laici che io chiamo miei cooperatori. Quei caritatevoli mi aiutano, non in questo solo, ma in più altri bisogni. Tra l'altro essi s'impegnano nel trovare onesti padroni ai giovani, che rimangono disimpiegati, e nel provvedere di camicie, di calzatura e di decente vestito coloro che altrimenti non potrebbero più recarsi al lavoro.
Coll. - Bravi! Sono questi i benefattori dell'umanità, i benemeriti della patria.
Scl. - Signor D. Bosco, conchiuse allora il Conte Sclopis, Capo della Commissione, io non sono uso all'adulazione; ma con tutta la schiettezza del cuore le confesso, anche a nome dei miei colleghi, che noi partiamo di qui altamente soddisfatti, e come Cattolici e come cittadini e Senatori del Regno applaudiamo all'opera sua, e facciamo voti che prosperi e si diffonda.
Prima di partire il conte Sclopis trasse fuori una limosina e la diede a D. Bosco pe' suoi giovanetti più bisognosi. Tutti e tre poi da quel giorno divennero benefattori dell'opera sua.
Ma se le lodi tributate a questo Istituto erano di grande conforto per chi tanta cura se ne prendeva, doveva pur riuscire di non lieve momento il vivo interesse, che ne dimostravano i più ragguardevoli personaggi del Regno.
Dal Ministero alcuni giorni dopo D. Bosco riceveva la seguente lettera in risposta ad una sua petizione:
Regia Segreteria di Stato per gli affari dell'Interno. Divisione 5, N. 563.
Torino, addì 12 Febbraio 1850.
Ill.mo e M. R. sig. P. Col.mo,
Non mi è possibile di accedere in modo alcuno alla domanda di V. S. Ill.ma e M. R. infino alla definitiva approvazione dei Bilancio di questo Dicastero per parte del [26] Nazionale Parlamento, come avrei desiderato, per coadiuvare in tutto che io possa all'incremento di un'opera, la quale altamente onora chi con sentimenti di cristiana carità se ne faceva promotore, onde scemare il più possibile il novero di quei disgraziati, che orbati sul fiore degli anni loro di chi li informi il cuore ai veri principii di religione e civiltà, vivendo, dei tristi la vita, infestano la società col mai esempio ed a lor preparano un miserando fine. Mi riesce però soddisfacentissima cosa il poterle qui attestare la più sentita ammirazione per lo zelo indefesso ond'Ella si mostra prodiga per la pericolante e povera gioventù, la quale mi auguro Le valga almeno a confortarla e ad infonderle coraggio per continuare nell'arduo, ma filantropico intendimento.
Riservandomi di prendere in tutta la considerazione la sua domanda, tosto ottenuta l'approvazione del Bilancio del Parlamento, ho l'onore di proferirmi con ben distinta stima Di V. S. Ill.ma e M. Rev.
Devot.mo obbligat.mo Servitore
Ma più che un soccorso pecuniario a D. Bosco importava indurre il Governo a commendare l'opera sua con atto pubblico e a dimostrare la sua approvazione ed il suo interessamento. Ciò doveva, per disposizione della Divina Provvidenza, temperare a suo riguardo l'astio ingiusto e i sospetti di reazione politica, che molti nutrivano contro il clero, e servirgli di scudo nelle nuove perturbazioni che si preparavano in odio alla Chiesa.
Nei segreti consigli delle sette e del Governo si era stabilito di porre mano all'abolizione legale dell'Immunità [27] Ecclesiastica; ma prima, volendo simulare ossequio all'autorità della Chiesa, si decise di ripigliare col Pontefice le pratiche per un nuovo concordato, andate fallite nel 1848, sia per la mala fede dei commissarii piemontesi, sia per la partenza di Pio IX da Roma. Per questo fine e per ottenere che Monsignor Fransoni e Mons. Artico rinunziassero alle loro diocesi, nel novembre del 1849 il conte Giuseppe Siccardi era stato inviato a Gaeta. Ma il Papa non volle transigere nel modo che pretendeva il Governo Subalpino, benchè fosse disposto a qualche concessione; e in quanto ai due Vescovi respinse le ingiuste pretese. Il conte Siccardi allora indispettito troncò le trattative, e venne a Torino. Il Papa, perchè il Re non fosse tratto in inganno, incaricò Mons. Andrea Charvaz di assicurarlo della sua benevolenza verso di lui e d'esporgli i gravi obblighi impostigli dal suo apostolico ministero. E il Re Vittorio con una sua lettera promise al Papa che avrebbe fatti rispettare i diritti della Chiesa e protetti i due Vescovi.
Già da tempo i giornali settarii e opuscoli in gran numero lavoravano a rendere odiosi al popolo i privilegi di S. Chiesa, proponendone l'abolizione. Ed ecco, il 25 febbraio 1850, il Conte Siccardi, che aveva ricevuto il Portafoglio di Grazia e Giustizia, proporre al Parlamento l'abolizione totale delle Immunità, ossia del Foro Ecclesiastico.
Era questo il più antico di tutti i tribunali così in Piemonte come negli altri stati cattolici; aveva il fondamento in diritto e giustizia, come appare dalla S. Scrittura e dalle decisioni dei Sommi Pontefici e dei Concilii. I magistrati non erano giudicati dai magistrati, i senatori e i ministri dai senatori, i militari dai militari, il commercio e la marina da tribunali appositi? I deputati stessi, durante le sessioni del Parlamento, non potevano essere imprigionati senza l'autorizzazione della Camera. [28] Si voleva dunque l'asservimento del clero al potere civile. Intanto, in sul cominciare di quest'anno, Mons. Fransoni aveva deliberato di non più differire il suo ritorno in diocesi. I tempi si facevano sempre più incerti e difficili. Il clero cresciuto in un lungo periodo di pace, di armonia tra le due podestà, di sottomissione dei popoli alla materna autorità della Chiesa, era affatto nuovo alle lotte che si preparavano, e non trovava orientazione nel nuovo mare burrascoso in cui doveva navigare.
Il 22 gennaio pertanto l'Arcivescovo aveva mandata una lettera pastorale, dando comunicazione ai fedeli dell'indulto quaresimale, rinnovando la proibizione dei giornali licenziosi ed eretici, e annunziando il ristabilimento del Governo Pontificio. Il 25 febbraio si era mosso da Chambery, e il 26 prendeva stanza a Pianezza, dando notizia con una lettera del suo arrivo al Sovrano e aggiungendo che veniva spinto dalla voce del dovere, alla quale non poteva resistere senza grave colpa.
Il Re gli mandò varii personaggi distinti, anche ecclesiastici, perchè con varii pretesti cercassero di persuaderlo a ricondursi all'estero; ma egli con franchezza rispondeva che sarebbe rimasto.
D. Bosco a sua volta affrettavasi a recarsi a Pianezza, distante da Torino circa dieci chilometri. Era andato tutto solo e a piedi. Monsignore vedendolo gli rivolse amorevolmente, con un sorriso, queste parole - Vae homini soli! E D. Bosco con garbo senz'altra spiegazione gli rispose prontamente: - Angelis suis Deus mandavit de te, ut custodiant te in omnibus viis tuis. - Ripetute volte qui venne D. Bosco a visitarlo poichè molte cose aveva da dirgli, di molte e confidenziali lo incaricava l'Arcivescovo; e poi chi saprà dire come l'affetto lo attirasse verso il suo primo benefattore? E Mons. Fransoni, non ostante le gravi preoccupazioni dalle quali era stretto [29] volentieri parlava dell'opera degli Oratorii festivi, che riteneva come sua propria per averla promossa come patrono, e provava molta inquietudine e premura del suo avvenire. Prima di partire da Torino aveva ripetutamente mandato a chiamare D. Bosco per esortarlo a prevenire in qualche modo ogni possibile disfacimento di quell'opera. Esprimevagli il vivo desiderio di veder costituita una società, atta a promuovere sempre più lo sviluppo dell'educazione dei poveri giovanetti, e a conservarne lo spirito e quelle usanze tradizionali che per lo più dalla sola esperienza soglionsi imparare. Ed ora ripetevagli: - Come farete a continuare l'opera vostra? Voi siete mortale come gli altri uomini, e se non provvedete, i vostri Oratorii morranno con voi. E perciò bene che pensiate al modo di fare sicchè vi sopravvivano. Cercate adunque un successore che pigli a suo tempo il vostro posto. - E concludeva essere necessario dar principio ad una Congregazione religiosa.
FRA le apprensioni e le speranze, celebratosi nell'Oratorio l'esercizio di buona morte, il 18 febbraio, dopo la prima domenica di quaresima, incominciavano in Valdocco, a Porta Nuova ed in Vanchiglia i catechismi preparatorii alla Pasqua. Nulla però si era innovato nelle usanze degli anni trascorsi, eccettochè il Santo Rosario alla domenica non si recitò più alla sera, sibbene prima o dopo la messa.
Frattanto gli occhi di tutto il Piemonte si può dire fossero rivolti verso questi Oratorii con diversi giudizii; e non mancavano quelle persone inette a fare il bene e maligne, che schernivano D. Bosco e i suoi allievi. - Sono birbanti, gli dicevano, e voi non ne farete nulla di buono. - E dovettero poi ricredersi, vedendo come egli invece ne formava perfetti operai, onesti negozianti, professori., avvocati, militari [31] valenti e santi preti. In quanto agli operai, diremo come nel 1862 D. Bosco scrivesse un cenno storico sull'Oratorio di San Francesco di Sales. Questo documento venne stampato e si rileva che egli ogni anno era riuscito a collocare più centinaia di giovani presso buoni padroni, da cui essi appresero il mestiere.
Tutte le domeniche riceveva visite di molte persone che volevano vedere come si impartisse l'istruzione religiosa. Ed era veramente uno spettacolo degno di essere contemplato. Mentre alcuni facevano il catechismo in cappella, altri in sagrestia e in sale attigue, altri nel cortile e nell'orto innanzi alla casa, D. Bosco raccoglieva i più discoli e andava a sedersi con essi in mezzo a un campo un poco discosto, ove ora è la chiesa di Maria Ausiliatrice, in uno spazio libero tra le patate e i fagiuoli. Dopo l'ordinario saluto: - Oh i voi siete proprio i miei più grandi incominciava le sue spiegazioni catechistiche.
Mons. Cucchi una Domenica veniva all'Oratorio con alcuni Inglesi, che desideravano assicurarsi coi loro proprii occhi quanto vi fosse di vero in ciò che la fama narrava del prete di Valdocco. Il buon prelato aveva detto loro: - Vedranno chi è D. Bosco! - Non volendo però che fosse prevenuto del loro arrivo, senza far motto ai tanti giovani nei quali s'imbattevano, lo cercarono in chiesa e in casa, da una parte e dall'altra, e non poterono incontrarlo. Finalmente, usciti dal cancello, Monsignore scoperse in un prato un gruppo di giovani all'ombra di un albero e senz'altro esclamò: - Là vi sono dei giovani; dunque vi sarà lui. - Infatti D. Bosco era seduto in atto di fare il catechismo ad una ventina circa di giovanastri dei più grandi e di aspetto baldanzoso che pure pendevano attentissimi dalle sue labbra. - E là! - replicò Mons. Cucchi. Quei signori inglesi si fermarono un buon pezzo [32] ad osservare stupiti quello spettacolo, e poi esclamarono: - Se tutti i sacerdoti facessero così, catechizzando anche in mezzo ai campi, il mondo sarebbe presto convertito interamente.
La tranquillità di questa ora Don Bosco se l'aveva guadagnata con molte precedenti industrie. Moltitudini di fanciulli accorrevano ai catechismi, eziandio a Porta Nuova e a Vanchiglia e perciò D. Bosco là mandava la maggior parte dei suoi chierici ed i catechisti più esperti. Non trascurava però di sorvegliarli e capitava, non raramente, inaspettato in mezzo ad essi. Usciva però dall'Oratorio in berretta, mentre poco lontano lo aspettava un suo fidato col cappello: e ciò faceva perchè i giovani di Valdocco non conoscessero la sua assenza e tenessero per certo trovarsi egli in casa.
Senonchè provvedendo a quei due Oratorii, venivangli per varie ragioni a mancare il personale per Valdocco. In quanto la disciplina ne aveva dato l'incarico a D. Grassino anche per gli esterni. Ma per ciò che spetta ai catechismi talvolta si trovava impacciato. Tuttavia rimediava a quella deficienza, invitando chiunque in quei momenti gli si presentasse fornito della scienza necessaria. In tal modo fu ingaggiato il Teol. Marengo, il quale continuò catechizzando per circa otto anni, e quando fu impedito da altre occupazioni, non tralasciò di venire ad ascoltare le confessioni ed aiutare D. Bosco in tutti i modi onde gli fosse stato possibile.
Altro giorno sopraggiunse il Marchese Gustavo di Cavour con un signore suo amico, mentre già erano incominciati i catechismi. Conoscendo le abitudini di D. Bosco, si volse senz'altro al prato ove egli era in mezzo ai suoi biricchini. Avvicinatosi, gli presentò quel suo amico, pregandolo di volerlo condurre a visitare l'Oratorio, essendo desideroso di saperne da lui l'origine, lo scopo e l'andamento. - Come [33] vede, signor Marchese; gli rispose D. Bosco, ho qui alcuni fanciulli da catechizzare. Se ella Vuol favorire di trattenerli un poco, io sarò felice di compiacere il suo compagno. - Il Marchese acconsentì, sedette fra quei poveri garzoni e proseguì le interrogazioni che D. Bosco aveva incominciate. E il buon prete allora condusse quel forestiere a visitare le varie classi.
Nel pomeriggio di un altro giorno festivo D. Bosco ebbe la visita di due rinomatissimi sacerdoti forestieri. Trovandosi in Torino, si presentarono all'Oratorio per fare conoscenza con D. Bosco. Erano circa le ore due. I giovani stavano allogandosi, e D. Bosco vedendovi mancare parecchi catechisti si torturava il capo per improvvisarne e disporre le classi, quando i due Ecclesiastici accostatisi a lui, mostrarono vaghezza di parlargli.
- Vi è questo signor Abate, disse uno dei due accennando al compagno, ed io pure, che desideriamo di visitare il suo Oratorio e di osservare il metodo che la S. V. vi tiene.
- Troppo volentieri, rispose D. Bosco, io farò loro visitare l'Oratorio in tutte le sue particolarità; ma piuttosto dopo le funzioni: ora, come vedono, sono qui tutto occupato tra queste centinaia di giovani. Ma è Iddio che in questo momento li ha mandati. Abbiano la bontà di aiutarmi a fare il Catechismo e poi parleremo a nostro bell'agio. Ella, soggiunse ad un di essi che gli sembrava di maggiore autorità, vorrebbe favorire di fare il catechismo alla classe che è nel coro dove sono i più grandicelli?
- Ben volentieri! rispose quel sacerdote.
- Ella, proseguì D. Bosco rivolgendosi al secondo, avrà in presbiterio la classe d'i più dissipati!
Anche il secondo religioso aderì all'invito colla miglior [34] voglia del mondo. D. Bosco porse ad ambedue il catechismo della diocesi, e senza domandare chi fossero, li condusse nelle classi assegnate e così egli potè invigilare all'ordine generale nella Chiesa. Il giovanetto Michele Rua, che dall'anno 1849 aveva incominciato a frequentare regolarmente l'Oratorio festivo, era presente a questo incontro; e potè osservarli seduti in mezzo ai ragazzi e ne ammirò il contegno. Quei preti parevano a D. Bosco persone assai distinte e si accorse che facevano il catechismo a meraviglia. Essendosi posto in luogo donde poteva udire colui che catechizzava in coro, l'udì parlare della fede con esempi e paragoni. - La fede, diceva, si aggira intorno a quelle cose che non si vedono; delle cose che noi vediamo, non si dice: “Io le credo”; le cose che noi vediamo, le giudichiamo: si credono invece le cose che non sono a noi sensibilmente presenti. Così ora che noi siamo in terra, crediamo la vita eterna, perchè presentemente non siamo di essa in possesso; ma quando noi avremo la fortuna di trovarci in cielo, quelle cose più non le crederemo, ma le giudicheremo, le godremo.
Don Bosco udendo queste ed altre spiegazioni così sode e tuttavia molto adattate all'intelligenza dei giovani, lo pregò a volerli dopo i vespri regalare di un sermoncino. Quell'abate gli fece osservare che, essendo egli forestiero, non era cosa conveniente: aver bisogno i giovani di udire una voce che conoscessero. Don Bosco insistette e nello stesso tempo invitò anche l'altro a voler impartire la benedizione col Venerabile; ed ambedue accettarono senza difficoltà. Nel tempo della predica l'altro sacerdote assisteva i giovani. Terminate le sacre funzioni, D. Bosco era impaziente di abboccarsi con loro per sapere chi fossero. - Questo reverendo è l'abate Rosmini, fondatore dell'Istituto della Carità! - rispose uno di essi indicando l'altro. [35] D. Bosco altamente sorpreso esclamò: - L'Abate Rosmini! il filosofo!
- Oh? il filosofo! rispose sorridendo Rosmini.
- Un personaggio di tanto grido, continuava D. Bosco; colui che scrisse tanti libri di filosofia!
- Eh, sì; scrissi qualche libro! - rispose Rosmini con aria di tanta umiltà e noncuranza da far meravigliare D. Bosco, che soggiunse: -Allora non mi stupisco più se lei ha fatto il catechismo tanto bene e con tanto sugo. E lei, continuò volgendosi all'altro, vorrebbe anch'ella favorirmi il suo nome?
- Canonico Arciprete di Vercelli?
- Oh come sono contento di conoscere di persona, chi già così bene conosceva per corrispondenza epistolare. Un uomo così insigne per carità e zelo!
Ambedue s'intrattennero poscia a discorrere lungamente con D. Bosco, e fin d'allora divennero ammiratori, amici e benefattori dell'Oratorio.
Quando si furono congedati, i giovani, ai quali il canonico aveva fatto il catechismo, chiesero a D. Bosco chi fosse quel sacerdote, ed egli rispose: - Questo prete è uno di quelli che sono scelti per farne un Vescovo. Abita a Vercelli ed è uno dei titolari di quell'Archidiocesi! - E infatti il canonico Degaudenzi fu poi Vescovo di Vigevano e splendido luminare dell'Episcopato Cattolico.
L'abate Rosmini venne ancora altre volte a visitare Don Bosco, accompagnato dal Marchese Gustavo di Cavour.
“Rosmini, narrava il Prof. Tomatis Carlo di Fossano, venne ad onorare colla sua presenza le scuole serali; si compiacque di fare ripetutamente il catechismo e talvolta [36] assistè alle funzioni religiose dell'Oratorio, che avevano per noi un incanto maraviglioso. Egli pure ne rimase così entusiasmato che le paragonava a quelle che si fanno nei paesi selvaggi tra le foreste, o nelle chiese nascoste delle missioni di città ancora pagane, come sarebbero quelle della Cina e dell'India. Sorprese anche D. Bosco mentre sotto un gelso istruiva un bel numero di giovanetti. E fu per lui un quadro consolante, di cui ebbe a dire: - La calma amorevole di quel buon prete è indizio del suo anelito al riposo eterno del paradiso, al quale perverrà colle migliaia dei salvati da lui, i quali così come ora in terra, gli faranno affettuosa corona un giorno nella gloria dei beati. - Venne pure all'Oratorio in un giorno feriale mentre gli artigiani ritornavano dalle officine. D. Bosco li chiamò intorno all'Abate, il quale interrogò questo e quello, ed ebbe per tutti ed anche per me una parola d'incoraggiamento: quindi visitò la nostra casetta, rimanendo commosso per quell'estrema povertà”.
In altri tempi gli alunni dell'Oratorio recitarono un piccolo dramma, bene ideato e scritto da D. Bosco stesso, innanzi a Rosmini e al Marchese Cavour, del quale l'Abate era sempre ospite venendo a Torino. Turchi Giovanni ne fu il protagonista.
Rosmini venendo in Valdocco soleva fermarsi molto tempo e con famigliare domestichezza nella camera di D. Bosco. Fin dalle prime visite gli aveva confidato, come avesse una somma del suo Istituto da mettere a frutto in qualche banca, e gli domandava un apposito parere e suggerimento. Avrebbe però preferito di dare il mutuo a qualche onesta famiglia senza fare nessun atto pubblico, purchè rimanesse nello stesso tempo sicuro del fatto suo.
- Bene, disse D. Bosco, che meditava costrurre un edifizio in Valdocco; io so a chi indirizzarla. È una persona [37] che io credo possegga la loro fiducia. Presto le scriverò di un mio progetto, che spero non le dispiacerà.
Infatti dopo pochi giorni così gli scriveva a Stresa:
Ill.mo e Reverendissimo Signore,
La parte favorevole che V. S. Ill.ma e Rev.ma prende in tutto ciò che riguarda il pubblico bene, e specialmente la salute delle anime, m'induce ad esternarle un sentimento, già manifestato al Sig. D. Fradelizio e testè comunicato al Sig. D. Pauli.
Trattasi di costrurre un nuovo edifizio per un Oratorio, avente scopo dell'educazione civile-morale-religiosa della gioventù più abbandonata. Già parecchi di simili Oratorii sono aperti in Torino, a cui comunque siasi mi trovo alla testa. La messe è spinosa, ma è molta e se ne può sperare gran frutto. Ma ci vogliono ecclesiastici, ed ecclesiastici ben formati nella carità.
Non potrebbesi in qualche prudente modo introdurre l'Istituto della Carità nella Capitale? Per es., se V. S. Ch.ma concorresse pecuniariamente al novello edifizio, in cui cominciassero venire ed abitare alcuni studenti dell'Istituto e così insensibilmente prendere parte alle molteplici opere di carità, secondo il grave bisogno? Ci pensi V. S. nella sua prudenza e qualora a ciò risolvesse di tentare qualche mezzo, conti sopra di me in tutte quelle determinazioni che potranno tornare a vantaggio delle anime e a maggior gloria di Dio. Il Sig. D. Pauli ha veduto tutto e, sapendo pienamente la mia intenzione, può dichiarare la cosa meglio che non comporta la brevità di una lettera. [38] Mentre La prego a voler dare benigno condono alla forse troppa confidenza con cui scrivo, l'assicuro essere per me il più grande onore il potermi dichiarare
All'Illustrissimo e Chiarissimo Signore, il Sig. Ab. Cav. D. Antonio Rosmini, Superiore dell'Istituto della Carità.
L'abate Rosmini faceva rispondere a D. Bosco in questi termini:
Molto Rev.do e Pregiat.mo D. Giovanni,
La pia Opera ideata da V. S. Rev.da e proposta nella gentilissima sua dell'11 marzo p. p. piacque assai al mio Venerato Superiore Don Antonio Rosmini, e desidera di potervi efficacemente concorrere. Non sembrandogli però sufficientemente sviluppato e messo in chiaro il disegno della medesima, tanto nella detta sua lettera, quanto nella relazione che gliene fece a voce D. Pauli reduce da cotesta Capitale, egli, innanzi d'impegnarvisi a prendervi parte, bramerebbe di averne schiarimenti maggiori. Al che gli parrebbe del tutto necessario un abboccamento con V. S. R.da, perocchè a voce parlando s'intende assai meglio che per iscritto, ed è assai più facile il conchiudere qualche cosa. Pertanto quando V. S. Rev.da potesse fare una scorsa fino a Stresa onorandoci una [39] seconda volta della sua presenza, Ella ci farebbe un nuovo regalo, e potrebbe a tutto bell'agio intendersi col mio Rev.mo Padre. Nel caso affermativo, sarebbe ben fatto che Ella si compiacesse di avvisarci del tempo preciso in cui ci verrebbe.
Intanto, baciandole le mani, e, coi rispetti cordialissimi del prelodato mio Superiore e di tutti gli altri che qui La conoscono, mi pregio di essere
D. Bosco non tardava a spiegare con specificata descrizione le sue idee, scrivendo a D. Carlo Gilardi:
Molto Rev. e car.mo Sig. D. Carlo,
Godo molto che l'idea esternata al Venerat.mo Sig. D. Antonio Rosmini sia tornata gradevole, e ci trovo anch'io il bisogno di un abboccamento; ma più circostanze concorrono a rendere incerta l'epoca in cui possa fare una scorsa fino a Stresa, siccome grandemente desidero.
Stimo bene pertanto di ridurre il mio sentimento ad alcuni punti speciali, offrendomi per quel schiarimenti che si potessero a tal riguardo desiderare. Il mio progetto ha due aspetti: uno di aver un sussidio materiale e spirituale per gli Oratorii, che la Provvidenza Divina dispose che fossero aperti sui tre lati principali della città; l'altro, per provare se il Signore ha scelto questo tempo e questo mezzo per dilatare l'Istituto nella Capitale, a refrigerare le moltissime e gravissime piaghe fatte e che minacciano farsi alla Religione. Come ben vede, [40] bisogna usare tutta la semplicità della colomba, ma non dimenticare la prudenza del serpente. Tenere ogni cosa destramente celata affinchè l'uomo nemico non corra a seminare zizzania.
Ciò nondimeno le cose pubbliche dovendo avere una legalità pubblica onde nessuna delle parti abbia a patirne danno in faccia alle leggi, così presento all'Ill.mo e Rev.mo suo Superiore il seguente progetto, che parmi possa appagare l'occhio del pubblico senza essere presi a vedetta.
1. Trattasi di costrurre una casa a tre piani con allato una chiesa per l'Oratorio. L'edificio verrebbe costrutto in un piano cinto di mura, di are 38, ovvero tavole 100, a Porta Susina - sezione Valdocco.
2. Il Sac. Bosco cede sei camere e anche di più all'Istituto della Carità per gli studenti che venissero a far il loro corso nella Capitale, o per altri secondo il beneplacito dei Superiore. In simil caso si offre un campo aperto per esercitare opere di carità a favore degli Oratorii, ospedali e delle carceri, scuole ecc.
3. Il Sac. Bosco è disposto di prestarsi in tutto ciò che può tornare ad onore e vantaggio dell'Istituto.
4. L'Istituto della Carità concorrerebbe per la fabbrica colla somma per es. di dodicimila franchi da versarsi in più rate: in principio - nella metà - sul finire dell'edificio.
5. Questa somma sarebbe garantita con ipoteca sopra il sito e sopra il corpo dell'edifizio.
6. Al caso di morte del Sac. Bosco, l'Istituto acquista la proprietà di una porzione di edifizio da fissarsi, oppure avrà diritto alla somministrata. Ciò nel solo caso che per via testamentaria non siasi altrimenti disposto a favore dell'Istituto.
Questo è il mio sentimento: noti però che il Governo e la Città, propensi per la pubblica istruzione, si mostrano favorevoli agli Oratorii, ed hanno già più volte dimostrato [41] desiderio di stabilire scuole quotidiane in tutti tre gli Oratorii: al che non ho ancora potuto aderire per mancanza di maestri.
Diciamo tutto in poco: è mia intenzione di procurare un vantaggio all'Istituto della Carità, col fare in modo che venga insensibilmente nella Capitale. Se ciò voglia il Signore, potremo farne la prova.
Intanto favorisca di salutare da parte mia l'ottimo Sig. D. Antonio Rosmini, mentre prego il Signore che ambidue Li conservi a pro della religione, in tante guise ai giorni nostri
ERA PASSATO poco più di un mese dalla visita dei tre illustri Senatori all'Oratorio di Valdocco, quando sul principio di marzo si venne a sapere che l'alto Consesso erasi occupato delle cose dell'Oratorio. In vero, il primo di detto mese, sotto la presidenza dei marchese Alfieri, i Senatori, tra le altre, discutevano due petizioni quasi analoghe, già annunziate sin dall'undici gennaio dell'anno stesso. L'una sotto il N° 47 era così concepita: “Brune, Giuseppe Carlo, professore, propone che sia provvisto con legge al ricovero e alla educazione dei giovani oziosi e vagabondi”. - L'altra sotto il N° 48 era di questo tenore: “Bosco Giovanni, Sacerdote, espone come per opera sua siansi istituiti tre Oratorii nei contorni di Torino per la educazione morale ed istruttiva dei giovani abbandonati, e chiede che il Senato voglia concorrere con opportuna deliberazione al sostentamento di detti Istituti”.
Relatore erane il marchese Ignazio Pallavicini, il quale, venuto il turno della prima petizione, sorse, e a nome della Commissione stabilita a tal uopo, parlò così, come ricaviamo, dagli Atti Ufficiali, nella tornata del 1° marzo 1850. [43]
Senatore Pallavicini. - Il professore Giuseppe Carlo Bruno, medico-chirurgo del ricovero penitenziario dei giovani discoli, colla petizione contrassegnata N° 47, si mostra giustamente commosso dal numero notabilissimo di giovanetti oziosi, orfani ed abbandonati dai genitori, bene spesso oziosi e fuggitivi dal paterno tetto, dormienti nelle vie, che percorrono la città vendendo zolfanelli o gomitoli di cera, o piccoli stampati, e quindi non dedicati a stabile mestiere, e senza ricovero fisso, per cui crescono all'infingardaggine, all'ozio, al delitto, alle pene, avvezzandosi fin da piccini a torre di tasca con arte finissima ora un fazzoletto, ora la scatola, ora l'orologio: presagio funestissimo di più gravi delitti. Ad ovviare un sì luttuoso disordine, vorrebbe il benemerito professore che tali monelli venissero tolti alla loro vita scioperata, e si allogassero invece in qualche stabilimento, onde appararvi insieme alle massime religiose un qualche proficuo mestiere, che loro valga dipoi quale mezzo bastevole di onesta risorsa; e a tale uopo propone l'istituto agrario-forestale della Generala, di recente ristaurato secondo i moderni principii della riforma penitenziaria, e munito di tutti i soccorsi atti a somministrare una educazione morale, elementare, professionale. A corroborare la sua proposta, cita l'esempio di ciò che praticasi a Losanna, nel Belgio, ed in Francia, ed invoca una legge che provveda al proposito. La vostra Commissione non può non far plauso grandissimo alle mire benefiche e filantropiche dello zelante, professore, e convinta come ella è (e crede bene che tale sua convinzione venga con lei divisa dall'intiero Senato), essere utilissima misura da non doversi procrastinare più a lungo quella di provvedere efficacemente ad un tanto disordine, e popolare di giovanetti le case d'istruzione, onde restino deserte di adulti le carceri ed i bagni, a gran cuore vi propone di tramandare [44] simile petizione al Ministro degli Interni, affinchè provveda senza indugio e con efficacia a tórre la causa di tanta depravazione tuttodì nascente pei monelli.
Senatore Giulio. - Domando la parola.
Presidente. - La parola è al Senator Giulio.
Giulio. - I sentimenti di umanità manifestati dal petizionario, e dei quali fa plauso la Commissione, di cui abbiamo ora udita la relazione, sono certamente divisi da ognuno di noi; e di certo, tutti facciamo eguale voto, perchè si ponga efficace rimedio a mali, che il petizionario e la Commissione a ragione lamentano. Si può tuttavia dubitare, anzi egli è certo che i mezzi dal petizionario proposti, e che il Senato in certo modo approverebbe col rinvio della petizione al Ministro, ben lungi dal poter sradicare il male che si lamenta, verrebbero ad aggravarlo ed accompagnarlo con altri mali maggiori.
Prima di pronunziare il proposto rinvio il Senato considererà certamente nella sua saviezza, se sia possibile che il Governo si incarichi direttamente dell'educazione di tutti questi fanciulli, se sia desiderabile che potendo lo faccia, se potendolo, l'incoraggiamento, che si verrebbe a dare alla negligenza dei parenti, non sarebbe male molto peggiore di quello, che si vorrebbe evitare.
Io non prolungherò di più queste osservazioni, certo che basteranno per mettere il Senato in guardia contro un sentimento di umanità, il cui effetto potrebbe essere tanto diverso da quello, che evitare si propone.
Qui il Senatore Giulio proponeva il così detto ordine del giorno contro la petizione del professore Bruno, vale a dire proponeva che il Senato passasse oltre, senza prenderla in considerazione e senza rinviarla nè raccomandarla al Governo del Re. [45]
Presidente. - Essendo proposto dal Senatore Giulio l'ordine del giorno, io lo metto ai voti perchè ha la precedenza. Chi passa all'ordine del giorno voglia rizzarsi.
Dopo prova e contro prova l'ordine del giorno del Senatore Giulio è approvato, e perciò la detta petizione rimase inesaudita.
Questo infelice risultato della prima domanda faceva temere che sorte consimile toccasse alla seconda; ma la cosa andò ben altrimenti. Ed ecco l'esito avventurato della petizione di D. Bosco, malgrado le opposizioni del Senatore Giulio.
Senatore Pallavicini. - Analoga, per l'oggetto ed il fine che si propone, a quella che testè ebbi l'onore di riferirvi, sebbene differisca alquanto nei mezzi da adoperare, trovasi la petizione N° 48, che appartiene al distinto e zelante ecclesiastico di questa città, Sacerdote Giovanni Bosco.
Anch'egli desideroso del vantaggio di tanti giovanetti forviati, ed in pari tempo di tutta intiera la società, dedicossi già da qualche anno, coll'annuenza dell'Autorità Ecclesiastica e Civile, a radunare nei dì festivi, ed in diversi luoghi, giovinetti dai 12 ai 20 anni, e ben 500 frequentano l'Oratorio situato in Valdocco.
Quivi non capiendone più pel crescente numero, or sono tre anni, un altro ne apriva a Porta Nuova, e da ultimo un terzo in Vanchiglia, ed in questi tre luoghi con istruzioni e scuole e ricreazioni si inculca il buon costume, l'amore al bene, il rispetto alle autorità ed alle leggi, secondo i principii della nostra santa Religione, cui hannosi ad aggiungere le scuole convenienti intorno ai principii della lingua italiana, aritmetica e sistema metrico; ed in fine un Ospizio aprissi per ricoverare 20 o 30 giovani dei più abbandonati e necessitosi.
L'opera santa si sostenne così coi soccorsi di zelanti e caritative persone ecclesiastiche e secolari, chè la città di [46] Torino non si rimane indietro in fatto di pii Istituti e di pie largizioni a pro del povero e dell'ignorante.
Ma le spese crebbero ogni anno, e l'Esponente è gravato dal fitto de' locali, che ascende a L. 2,400; da quelle della manutenzione dell'Ospizio e della rispettiva Cappella, cui aggiungonsi le quotidiane spese che l'estrema miseria di parecchi fanciulli rende indispensabili, e quindi trovasi costretto a cessare la continuazione di sì lodevole Istituto, troppo di frequente dovendo ricorrere alle persone, che finora lo beneficarono. Egli vorrebbe pertanto che il Senato prendesse in benigna considerazione un'opera sì proficua, e che la sostenesse colle sue deliberazioni.
La Commissione non accontentossi di quanto veniva esposto dal petizionario; e, benchè avesse già conoscenza di sì salutare Istituzione, nondimeno procurossi maggiori cognizioni, e risultolle che oltre i doveri religiosi che vi si praticano nei dì festivi a vantaggio di tali giovanetti, ai quali eziandio porgesi la necessaria istruzione, i benemeriti fondatori altro scopo si erano prefisso, e quello si era di insegnar loro, oltre le cose già dette, il disegno lineare, la Storia Sacra, la Storia patria, e le nozioni della legge adatte al popolo, cui si sarebbe aggiunta la ginnastica, giuochi di destrezza, corse, ecc., ecc.
Si pensava ben anco di eccitare l'emulazione con qualche esposizione di oggetti d'arte, di industria, di dar qualche accademia e distribuire premii. Tutto ciò volevasi fare, ma non tutto potè praticarsi per la deficienza di mezzi e per le sorvenute critiche vicende. L'idea che vi accennai di una tale Istituzione da sè manifestasi per eminentemente religiosa, sociale, proficua, senza che abbia da spendere molte parole per persuadervene. Danno gravissimo sarebbe per la città tutta quanta, se a vece di prosperare tale Istituzione, e conseguire [47] quello sviluppo, che si erano proposto quei buoni amici del popolo, che la coltivano, dovesse interrompersi o perdersi affatto per non trovar braccio soccorrevole che sostenga anche quel bene, quantunque incompleto, che sinora conservasi. - La vostra Commissione crederebbe di mancare a se stessa, al Senato che l'onorò di sì apprezzevole incarico, alla Società, se con tutta la convinzione del suo animo non vi proponesse di inviare simile istanza al Ministero dell'Interno, acciocchè voglia venire efficacemente in soccorso di un'Opera sì utile e vantaggiosa.
Giulio. - Con mio profondo rincrescimento adempio per la seconda volta ad uno spiacevole dovere, quello di impedirvi di entrare in una via, nella quale tutti siamo tratti dal proprio cuore, la via della carità legale, via, credo, funesta, via nella quale spero che il Senato non vorrà entrare a proposito di una petizione.
Io propongo ancora su questa petizione l'ordine del giorno.
Sclopis. - Le considerazioni esposte per la seconda volta dal mio onorevole collega, il signor Senatore Giulio, toccano sicuramente ad una delle più grandi questioni, che si agitano oggidì nella Società Europea. Non è questo nè il luogo, nè il tempo di discuterla: ma forse sarebbe, non dirò pregiudicar la questione, ma uno scoraggiare quegli Istituti, che (provenienti da beneficenza privata) intendono a sopperire ad una lacuna immensa, che è nella nostra Società attuale, se il Governo non desse qualche soccorso.
E qui mi pare che non conviene veder risolta la questione di carità legale, mentre s'invoca un soccorso, un aiuto in parte solamente sussidiario. Quando si trattò in altri paesi la gran questione della beneficenza pubblica, credo che coloro i quali con molta ragione volevano escluderne i principii assoluti, tuttavia riconobbero che là dove c'è impossibilità di [48] soccorrere dal canto dei privati, e dove il Governo, senza impegnarsi in istituzioni sue proprie, può per altro riempiere, se non altro, temporariamente almeno, qualche lacuna, lo possa e lo debba fare.
Io vedo poi un bisogno tanto urgente, tanto stringente di provvedere a questa condizione dei ragazzi, i quali uscendo da quelle scuole infantili, di cui abbiamo qui il benemerito promotore presente, si trovano quasi abbandonati dappoi nella circostanza, in cui le passioni si risvegliano, il sangue bolle. Credo importante che il Governo sussidii le opere più urgenti di beneficenza, senza impegnarsi tuttavia in modo permanente in queste istituzioni.
Ond'è che in questo caso inviterei il Governo a far ciò, e provvedere in modo che vi sia un mezzo di sopperire a queste gravissime esigenze. Per conseguenza dichiarando che la Commissione non ha (e credo che la Commissione sia del mio parere) avuto in mente di entrare in una discussione di carità legale, ma solo di invocare un sussidio, che il Governo dia come a tanti altri Stabilimenti di pubblica beneficenza, insisterò nella domanda dell'invio al Ministro degli Interni.
E lo dico colla più profonda convinzione, perchè appunto (come aveva già l'onore di esprimermi in questo Consesso in un'altra circostanza), il Consiglio Comunale avendo dovuto esaminare la condizione degli Operai, ha dovuto avvertire che c'è un gran difetto di assistenza in questa parte; e si può, senza esporre il Governo a prendere una assoluta determinazione, giovare per altro a mantenere in vita queste fondazioni, le quali poi con altri mezzi potranno forse diventare più durature. Il Governo debbe farlo; esso è un grande rimedio al male presente, una grande anticipazione di bene futuro. [49]
Giulio. - Risponderò primieramente all'osservazione del Senatore Sclopis con due sole parole. I Governi sono tenuti a distribuire la giustizia ai cittadini, non a distribuire elemosine, perchè non disponendo dei beni proprii, ma sibbene dei beni dei cittadini, non possono disporne se non per motivi di giustizia. Queste considerazioni, che credo indubitabili, mi paiono sufficienti a dimostrare che non è obbligo di un Governo di concorrere con fondi non suoi alla manutenzione di opere di beneficenza, comunque raccomandate da sentimenti di umanità e di religione.
I Governi non hanno altre beneficenze a distribuire che giustizia a tutti.
Sclopis. - Il Governo deve essere giusto anzitutto; sì, ma il Governo deve essere anche provvido: il Governo non deve impegnarsi in istabilimenti di carità legale, ma deve apportar sussidii nelle emergenze straordinarie. In questa parte l'assoluto non è la miglior via che si possa tenere. La esclusività, massime nelle emergenze attuali, potrebbe indurre a far disperare del bene di molte istituzioni, che ci sono raccomandate non solo dalla voce della carità, ma anche da quelle della previdenza politica.
Sauli. - Aggiungerò che queste istituzioni non sono di semplici limosine, ma istituzioni di educazione morale e religiosa, alle quali credo che il Governo sia tenuto.
Pallavicino-Mossi - Mi permetto di far osservare al Senato, che non è molto tempo egli avvisò opportuno il dare un'educazione coatta ai ragazzi vagabondi per le vie, il quale avviso manifestò con un suo voto dato per tale effetto ad un progetto di legge presentato dal Ministro alla Camera. Ora a che tende la petizione, della quale ci venne fatta relazione? Essa tende a dare un'educazione non punto dissimile da quella accennata. Dunque, se il Governo era disposto a mantener [50] questa educazione, può benissimo anche ora sopperire alle spese a ciò necessarie, senza entrare nella teoria della carità legale.
Sclopis. - Il Governo lo ha fatto in una circostanza recente degli scaldatoi, e ne è stato rimeritato dalla riconoscenza di tutti i cittadini.
Presidente. - Due proposizioni sono fatte. Una della Commissione che raccomanda la petizione al Governo per un sussidio; l'altra del cavaliere Senatore Giulio, che vorrebbe che il Senato passasse all'ordine del giorno. Io porrò ai voti l'ordine del giorno, come quello che deve avere la precedenza.
Messo ai voti l'ordine del giorno non è approvato.
Presidente. - Pongo ai voti le conclusioni della Commissione.
Queste sono adottate; e perciò la domanda di D. Bosco fu dal Senato, rinviata al Ministro dell'Interno, affinchè gli venisse in soccorso pel sostentamento del suo Istituto.
Tale deliberazione dell'Alta Camera fu di una importanza grandissima; imperocchè da quel giorno l'Oratorio ed Ospizio annesso fu preso in considerazione dallo stesso Governo, il quale di tratto in tratto ne andò mostrando gradimento, ora lodandone il nobile scopo, ora inviandovi sussidii, ora racco- mandandovi poveri ragazzi come in luogo sicuro, dove potessero imparare a divenire onesti cittadini, utili a se stessi, alla famiglia, allo Stato.
Eziandio varii giornali irreligiosi della città, facendo eco al Senato, pubblicarono articoli di lode per D. Bosco, e pel momento più non osarono parlar male di lui.
Ma D. Bosco, se aveva motivo di rallegrarsi del buon effetto prodotto da questa discussione in Senato, non meno dolevasi delle notizie pervenutegli dal suo Arcivescovo. Il Re Vittorio Emanuele avevagli scritto di proprio pugno una [51] lettera, dicendogli che prima di rientrare in diocesi Avrebbe dovuto aspettare di essere richiamato; e siccome sapevasi che era poco propenso al governo costituzionale, ravvisar necessario che con una pastorale dichiarasse di non avversarlo. E l'Arcivescovo, con lettere del 4 marzo, annunziava l'imminente suo arrivo in Torino, ringraziava il clero ed i laici delle prove di attaccamento che avevangli dato, lodava la loro costanza nella fede cattolica; e con parole di elogio alla eccelsa stirpe Sabauda, asseriva dover tutti riconoscersi soggetti allo Statuto dato da Re Carlo Alberto, poichè il primo articolo di esso dichiara con formali parole: La Religione Cattolica Apostolica Romana è la sola religione dello Stato.
IL MESE di marzo, che dai buoni cristiani santificavasi in preparazione alla Pasqua, era funestato in quest'anno da avvenimenti disgustosi. Il giorno 4, anniversario della promulgazione dello Statuto, vi furono feste ufficiali nella chiesa della Gran Madre di Dio, ove si celebrò la Santa Messa e si cantò il Te Deum essendo schierati, nella magnifica e immensa piazza sottostante, Vittorio Emanuele, i battaglioni della guardia nazionale e tutti gli Istituti maschili della città. Uno spazio era stato destinato eziandio per i giovani dell'Ospizio di Valdocco, ma questi non comparvero. D. Bosco era risoluto di impedire anche ai giovani dell'Oratorio festivo qualunque dimostrazione che si dicesse politica, perchè conosceva dove queste andassero a finire. Dovette assai adoperarsi con varie industrie, come afferma il Can. Anfossi, per raggiungere il suo intento, [53] dal 1850 al 1855; ma tenne sempre fermo, e riuscì senza inconvenienti.
Infatti in questo stesso giorno, 4 marzo, la sfrenatezza anticlericale delle turbe per le piazze e per le vie contro i sacerdoti, e gl'insulti sotto le finestre del Legato Pontificio Mons. Antonucci, furono ben deplorevoli. Le minacce costrinsero i proprietari e gli inquilini ad imbandierare le case; e una furia di sassate alle finestre ottenne una spontanea e generale illuminazione.
Intanto in Parlamento volgeva al termine la discussione della legge che toglieva al Clero il privilegio del foro. I migliori oratori cattolici della Camera combattevano quel disegno, ma la maggior parte dei deputati, uomini senza fede e senza religione, si curavano poco dei diritti e nulla dei doveri religiosi. Quindi rispondevano alle ragioni dei cattolici con rumori, risa, mormorii di disapprovazione, ed applaudivano alle odiose diatribe di Brofferio e degli altri suoi compari. E il 9 marzo, con cento trenta voti contro ventisei, approvavano il progetto. A nulla valsero i forti richiami del Cardinale Antonelli, del Nunzio e dei Vescovi, e dei giornali cattolici, perchè non si manomettessero i diritti pubblici della Chiesa e fosse rispettato il primo articolo dello Statuto. L'Armonia fu sequestrata e condannata; i predicatori quaresimalisti minacciati e molestati, e allontanato da Torino quello di S. Dalmazzo. Proibito il clero di promuovere istanze contro l'abolizione di questo privilegio, s'incoraggiavano quelle dei laici in favore della legge. La Gazzetta del Popolo padrona della piazza e ammonitrice del Parlamento aveva, con altri fogli liberali, scherniti arrabbiatamente i senatori e i deputati sostenitori della giustizia.
In questi frangenti, il 15 marzo, Mons. Fransoni rientrava finalmente in Torino, prendeva stanza nel palazzo arcivevile, [54] e recavasi ad ossequiare il Sovrano nella sua reggia. Ma Vittorio Emanuele lo accolse freddamente e alquanto risentito.
Il 28 era giovedì santo. D. Bosco quel mattino disse a D. Giacomelli:
- Andiamo in Duomo ad osservare se c’è qualche cosa di nuovo. - E andarono e assistettero alla confezione degli olii santi. Con alcuni dei più robusti giovinotti di Valdocco stava in piazza, vicino alla vettura di Sua Eccellenza, il gerente della Campana, giornale cattolico, pronto a qualunque sbaraglio se l'Arcivescovo avesse ricevuto insulto. Venne però fischiato mentre dalla Cattedrale ritornava al palazzo. Lo stesso affronto ricevette per le vie il venerdì santo. Fu rispettato il sabato nell'andare e ritornare dalla Cappella di Corte, dove amministrò la Comunione Pasquale al Re e alla sua famiglia,
Mentre nel centro di Torino si tumultuava insultando Mons. Fransoni, alla periferia della città nei tre Oratorii di Porta Nuova, Vanchiglia e Valdocco, quasi due migliaia di giovani popolani, bene istruiti nel catechismo, dopo tre giorni di prediche ed una buona confessione, si accostavano alla mensa Eucaristica, per compiere il dovere pasquale. Molti per la prima volta facevano la santa Comunione.
D. Bosco aveva fatti stampare da Paravia seimila biglietti per distribuirli ai suoi cari alunni. Vi si leggeva:
“Tre ricordi ai giovani per conservare il frutto della comunione Pasquale.
Cari giovani, se volete conservare il frutto della Santa Comunione che fate in questo tempo Pasquale, praticate questi tre avvisi. Essi renderanno contento il vostro cuore e formeranno la felicità dell'anima vostra.
1° Santificate il giorno festivo, non mancando mai di sentire divotamente la santa Messa ed intervenire ad ascoltare la parola di Dio, cioè prediche, istruzioni e catechismi. [55]
2° Fuggite come la peste i cattivi compagni; cioè state lontani da tutti quei giovani che bestemmiano oppure nominano il Santo Nome di Dio invano; fanno o parlano di cose disoneste. Fuggite altresì quelli che parlano male di nostra santa Cattolica Religione, criticando i sacri ministri e sopratutto il Romano Pontefice Vicario di Gesù Cristo. Siccome è un cattivo figlio quello che censura la condotta di suo padre, così è un cattivo cristiano colui che censura il Papa, che è il padre dei fedeli cristiani che sono in tutto il mondo.
3° Accostatevi spesso al Sacramento della Penitenza. Non lasciate passare un mese senza confessarvi ed anche comunicarvi secondo l'avviso del confessore.
Dopo la comunione fermatevi più che potete per ringraziare il Signore e chiedergli la grazia di non morire in peccato mortale.
Un Dio solo: se mi è nemico, chi mi salverà?
Un'anima sola: se la perdo di me che sarà?
Un solo peccato mortale merita l'inferno: che sarà di me se morissi in tale stato?
“Ascolta, caro figlio, il detto mio
Fallace è il mondo, il vero amico è Dio”.
I giovanetti però non erano i soli che si approfittassero della carità apostolica di D. Bosco; eziandio molti dei loro padri ricorrevano all'Oratorio per assestare con Dio i conti della loro coscienza, trascurati da anni. Coll'avanzarsi della quaresima avevano constatato come l'insegnamento del catechismo portasse in casa loro maggior rispetto ed obbedienza. Ascoltavano dai figli interrogati, ciò che D. Bosco loro raccomandava, cioè la docilità e l'amore ai genitori e l'obbligo [56] di pregare per essi, poichè Dio così vuole, e perchè si deve loro essere grati per le tante fatiche che sostengono per la famiglia. Ora simili lezioni loro ispiravano simpatia e stima per il prete. La sera nella quale i figli si erano confessati li avevano visti ritornare a casa così pieni di gioia, da far dileguare ogni pregiudizio contro il sacramento della Penitenza, e conoscere la felicità di una coscienza tranquilla. E quando se li vedevano innanzi, spinti dal consiglio di D. Bosco, a chiedere loro perdono di tutti i dispiaceri cagionati nel passato e promettere obbedienza senza limiti nell'avvenire, il rimorso si destava nel loro cuore, ricordando gli esempi poco buoni che avevano loro dati, e profondamente commossi li abbracciavano. Il giorno poi della prima comunione non pochi, anche invitati da D. Bosco, li accompagnavano all'Oratorio, e osservando la loro compostezza in chiesa, i loro volti raggianti e belli come quelli degli angioli allorchè ritornavano dall'altare, sentivano destarsi nel loro cuore qualche cosa d'inconcepibile, invidiavano la contentezza del figlio, e i loro occhi si empivano di lagrime, rammentando gli anni della loro innocenza. In quel giorno non comparivano all'osteria; in casa loro era imbandita la mensa, e gustavano la vita di famiglia e la felicità di un'anima tranquilla ed amata. Perciò incominciavano a provar ripugnanza per quei disordini che loro più volte avevano cagionato amarezze; una salutare melanconia li costringeva a riflettere; una lotta tra il bene e il male si accendeva nel loro cuore; e la grazia del Signore trionfava per le preghiere dei loro figli. Chi andava nella cappella ad aspettare che D. Bosco venisse in coro, chi si presentava a lui in sagrestia dopo che aveva celebrato la S. Messa e chi saliva in sua camera a sera inoltrata per non essere disturbato da nessuno. E D. Bosco che al primo colpo d'occhio intendeva ciò che essi volevano [57] da lui, li accoglieva con volto allegro, li invitava a confidargli le loro pene di coscienza, li assicurava che avrebbero parlato ad un amico che già aveva visto ogni genere di miserie nel mondo sicchè più nulla gli faceva specie: li incoraggiava a vincere il rispetto umano, li invitava ad inginocchiarsi e a confessarsi. E così facevano: e contenti e felici ritornavano alle loro case per formare da qui avanti la consolazione delle loro famiglie. E da quel punto con esse recitavano le orazioni mattino e sera, assistevano ai divini uffizi della chiesa alla domenica, frequentavano la santa Confessione e Comunione, e venivano talvolta all'Oratorio per passare la sera in piacevole ricreazione.
Era questo un altro grande benefizio che recavano a Torino gli Oratorii festivi.
Ma se D. Bosco vedeva coronate di frutti così belli le sue fatiche, apportatrice di nuove ferite al cuore del buon Arcivescovo fu la Domenica di Pasqua. Nell'uscire dalla porta maggiore della Cattedrale, benchè due file di carabinieri gli facessero ala fino alla carrozza e vi stesse schierato uno squadrone di cavalleria e un battaglione di guardie nazionali, pure Egli fu accolto da una furiosa tempesta di fischi, urla e minacce, che soffocavano gli evviva, i battimani e altri segni di rispetto che gli venivano dai Cattolici. Fra questi coraggiosi vi erano i giovani adulti e più fidati dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, mandati da D. Bosco alcune ore prima, perchè , non potendo far altro, almeno lo applaudissero. Di ciò a noi fece testimonianza il Teol. Reviglio Felice. Aveva saputo il sacrilego insulto che stavasi preparando da que' facinorosi. Costoro infatti slanciatisi contro la vettura, ne percuotevano colle pugna i vetri, e tentavano tagliare le tirelle della carrozza. E le truppe guardavano impassibili. Fortunatamente l'Arcivescovo fu tratto da quel grave pericolo dall'avvedimento [58] del cocchiere, il quale, con due potenti frustate sulle mani e sulle orecchie di quei bricconi, aveva impedito il taglio e spinti avanti i cavalli.
A tutti i costi si voleva costringere Mons. Fransoni ad allontantarsi da Torino. Infatti il Senato doveva decidere sulle Immunità Ecclesiastiche, e l'8 aprile, su ottanta senatori si opposero alla legge soli ventinove, e così venne approvata. La sera di quel giorno e di parecchi altri successivi una turba di patrioti emigrati sovvenuti dal Governo e giovinastri pagati e istigati dagli agitatori, la quale aveva già fischiato Mons. Vescovo di Chambery mentre andava al Senato, percorreva le vie della città imprecando al Clero e urlando: Viva Siccardi! Il peggio di quella gazzarra fu riservato al palazzo Arcivescovile. Gridando Abbasso l'Arcivescovo, abbasso la Curia, abbasso il Delegato Pontificio, ruppero a sassate molti vetri delle finestre, e tentarono scassinare la porta maggiore. A porre un termine a quella dimostrazione selvaggia accorsero soldati di fanteria e di cavalleria.
Il 9 Sua Maestà sanzionava la legge che, fra le altre disposizioni odiose, sottoponeva vescovi e sacerdoti al giudizio dei tribunali laici; e il Nunzio Apostolico, chiesti i passaporti e fatta al Re visita di congedo, il 12 partiva per Roma.
Nei segreti intendimenti delle sétte si era intesa l'esautorazione dell'Episcopato e la ribellione del clero. Speravano che i preti ed i parroci della campagna infrangerebbero la disciplina e si formerebbe un clero civile, un clero agli stipendi ed al servizio dello Stato. Ma la Chiesa doveva rifulgere di nuovo splendore; e nuovi esempi di sacrifizio, di generosità e di costanza rifiorivano nel clero e nel laicato.
A temperare intanto il dolore dei cattolici ed a riempirne di gaudio i cuori, succedeva un fatto provvidenziale: il ritorno di Pio IX a Roma. Dopo che i Francesi ebbero [59] tolta la capitale del mondo cattolico di mano ai repubblicani, lasciato trascorrere alcun tempo perchè si riordinassero alquanto le cose dai ribelli sconvolte, l'esulante Pontefice deliberava di fare ritorno tra il suo popolo diletto, che anelante lo attendeva. Pertanto, da Gaeta essendosi già recato a Portici ed a Napoli, dì qui egli prendeva le mosse il 4 di aprile, e dopo un viaggio di otto giorni, che fu per lui un glorioso trionfo, il 12 rimetteva il piede nell'alma Città, in mezzo ad apparati, a feste ed acclamazioni, così cordiali e splendide, che nessun Sovrano e forse nessun Papa aveva sino allora ricevute uguali. Nè solo Roma, ma il mondo intero ne esultò. Dal canto loro, i giovani dell'Oratorio, quando ne udirono da D. Bosco il fausto avvenimento, ne provarono sì gran consolazione da versarne giocondissime lagrime.
D. Bosco, ricevuta da Roma la narrazione particolareggiata di quel viaggio memorabile, procurava che fosse data alle stampe; e l'Armonia riproduceva gli articoli dell'Osservatore Romano. Nello stesso tempo per ordine di Mons. Fransoni in tutte le chiese dell'Archidiocesi, e così pure nell'Oratorio di Valdocco, con gioia sincera e viva gratitudine, furono rese per otto giorni azioni di grazia alla Divina Provvidenza.
Non tutti però i favori accordati dal Signore al Pontefice per conservarlo alla Chiesa, erano allora noti. Dimorando ancora il Papa a Gaeta, un gruppo di anarchici e di repubblicani, sotto l'ispirazione di Mazzini, aveva deciso a Ginevra di far assassinare il Papa da quattro sicarii travestiti da preti. La polizia di Parigi ne aveva avvertito il Gabinetto di Torino e l'avvocato Giambattista Gai, impiegato presso il Ministero degli Affari Esteri che riceveva que' dispacci, ne avvisò confidenzialmente D. Cafasso; e forse anche D. Bosco fu a parte del segreto, poichè lo stesso avvocato ci narrava nel 1890 quanto grande fosse la sua confidenza anche in lui fin dal 1841. [60] D. Cafasso aveva scritto subito a Gaeta e il disegno fu sventato[4], rimanendo segreta la cosa fino al 1898, anno della morte dell'Avvocato Gai. Questo fatto è autentico e se ne potrebbero trovare le testimonianze nelle corrispondenze e nelle note diplomatiche del Ministero degli Affari Esteri. Per tutti questi motivi D. Bosco volle dare solenni dimostrazioni del suo affetto al Papa. Un'ode stupenda era stata pubblicata in quei giorni a Roma per celebrare il fatto memorando e D. Bosco dopo averla spiegata ai giovani, più volte la fece declamare in varie accademie. Crediamo conveniente d'arricchirne queste pagine. Eccola:
S'eleva fino al ciel plaudente grido...
Al mar vicino rivolgendo l'onde,
Il Tago, il Gariglian, la Senna, il Reno
La fronte innalzan dal nativo seno
E i lieti accenti ripetendo a gara
Ritornò a Roma il Successor di Piero!
Miseri schiavi ingombrano la via
Il trionfal carro seguitando vinti....
Un Angelo del Cielo lo precede:
Intorno van, facendogli corona,
La carità, la fede, La speranza divina,
Nacque a piè della Croce sacrosanta! [61]
Silenzio!... Udite!... Il religioso canto
Che fanno degli Arcangeli le piume,
Quando il trono circondano d'Iddio!
Umido il ciglio, timido cammina,
E di Pietro alla tomba s'avvicina....
Per la cupola immensa penetrando,
Qual iride di pace e di speranza,
Al volto aggiunge maestà divina!
Salve, dell'almo Ciel sublime dono!
Sereno contrastando il fatto rio,
Più, grande ancor che sull'eccelso trono
Vieni, o Padre! Dall'alto Vaticano
La terra aspetta il venerando segno;
E di Sionne il cantico intonando,
Ritornò a Roma il Successor di Piero!
NUOVE amarezze erano preparate per l'Arcivescovo di Torino. Il 15 aprile l'intrepido successore di S. Massimo, adempiendo con un prudente coraggio al suo apostolico ministero, senza accennare a coloro che avevano votata ed approvata la legge Siccardi, scriveva una pastorale segreta ai parroci della Diocesi, perchè la comunicassero a tutti gli ecclesiastici delle loro parrocchie. Con questa dava al clero esatte norme di condotta, perchè non urtassero nella nuova legge che non poteva dispensarli dai loro obblighi e così mantener salva la coscienza; nello stesso tempo ordinava loro, che occorrendo di essere citati, non comparissero in giudizio senza licenza del Superiore Ecclesiastico.
Ma la Polizia sospettosa, facendo spiare dai sindaci se il clero avesse ricevuto istruzioni dai Vescovi contrarie alla legge sulle immunità, venne assai presto a conoscere la [63] lettera di Mons. Fransoni. Perciò, il 21 aprile, la faceva sequestrare nella tipografia Botta, negli uffizii postali e nel palazzo Arcivescovile, ordinando che si frugasse nello stesso camerino di studio dell'Arcivescovo.
Non si tardò a citare Mons. Fransoni avanti al tribunale civile per rendere conto della sua pastorale, ed Egli rispondeva che ne avrebbe chiesta licenza al Papa, e se questa venisse, si presenterebbe. I giudici non gli menarono buona la ragione. Venne quindi condannato, assente, a 500 lire di multa e ad un mese di carcere; e il 4 di maggio, giorno in cui si celebra in Torino la festa della SS. Sindone, ad un'ora pomeridiana fu condotto a scontarlo nella cittadella di Torino. All'udire un tal fatto è indescrivibile la pena che tutti i buoni ne provarono; molti amaramente ne piansero: tra questi gli alunni di D. Bosco, perchè amavano l'Arcivescovo come loro protettore e padre. Lo stesso maggiore conte Viallardi nell'accoglierlo in cittadella non potè frenare le lagrime, e il comandante generale Imperor gli cedette il proprio quartiere. La sera medesima, per la cortesia del comandante, Monsignore potè ricevere le condoglianze di una deputazione del Capitolo Metropolitano; e poi, nei giorni successivi, penetrarono sino a lui molti della nobiltà torinese e del clero.
D. Bosco andò fra i primi, anzi dispose che varie deputazioni de' suoi giovani si recassero a consolare il venerando prigioniero. Mandava Reviglio Felice con un compagno, i quali ritornati a casa narravano come avessero attraversati due o tre cortili circondati da muraglie con sentinelle e carabinieri ad ogni passo, e finalmente fossero giunti al cospetto del generoso difensore dei diritti della Chiesa. Mons. Fransoni nel quartiere destinatogli aveva accolti con bontà gli omaggi che gli presentavano a nome di D. Bosco e ad ambedue aveva regalata una corona del rosario. [64] Alcuni giorni dopo andarono in cittadella altri cinque giovani dell'Oratorio. Bellisio e tre altri vennero trattenuti nell'ultimo atrio a cielo scoperto dai soldati che custodivano varie stanze d'anticamera. Ad un solo, a Ritner l'orefice, fu permesso di entrare; e quando uscì porgeva ai compagni profondamente commosso, quattro rosarii coi grani cerulei che loro mandava il santo Arcivescovo. Bellisio, che era entrato nell'Oratorio in quest'anno, nel 1902 conservava ancora gelosamente quella preziosa corona, e l'adoperava pregando.
Intanto dal Vicario generale erano state ordinate preghiere pubbliche in tutte le chiese dell'Archidiocesi; e continuavano le dimostrazioni di affetto e di stima all'Arcivescovo.
Il 27 maggio 1850 l'Armonia invitava i subalpini ad offrire un bastone pastorale a Mons. Fransoni. I più ragguardevoli del Clero e dei laici risposero volentieri a quella proposta. I settarii ne provarono un fiero dispetto. Siccome divulgavansi di tempo in tempo nell'Armonia i nomi dei sottoscrittori, quelli presero a ristamparli e a farli vendere per la città dai monelli che gridavano a squarcia gola: L'elenco dei codini e dei retrogradi. Intanto la Gazzetta del Popolo con modi da trivio svillaneggiava coloro che promovevano la dimostrazione, fra i quali era il Can. Gastaldi: ma non potè impedire che in breve ora si raccogliessero più di 8000 lire; e il pastorale riuscì prezioso anche per l'arte. Il nome di D. Bosco Giovanni comparve il lo giugno nella prima lista degli oblatori coll'offerta di lire cinque.
Il 2 di giugno, che era Domenica e si compivano i trenta giorni stabiliti dalla sentenza, di buon mattino Mons. Fransoni fu posto in libertà. Ei disse in quel giorno: - Un'altra volta non più in cittadella, ma sarò condotto a Fenestrelle! - Stette pochi dì in Torino e poi si ritirò a Pianezza a [65] riposar l'animo dal travaglio, che pur dovevano avergli recato le descritte vicende.
D. Bosco ve lo seguì, per sentire il suo giudizio definitivo sul metodo adoperato nella direzione dell'Oratorio, e se questo potesse essere come traccia o fondamento delle regole di una società religiosa; e nello stesso tempo per avere da lui parole di conforto ed anche appoggio. Monsignore approvò le idee di D. Bosco e poi aggiunse: - Vorrei potervi dare appoggio, ma, come vedete, io stesso sono incerto del domani. Fate come potete; continuate pure coraggiosamente l'opera incominciata: vi do tutte le mie facoltà, vi do la mia benedizione, vi do tutto quello che posso. Solo una cosa non posso darvi: liberarvi cioè dalle angustie che potranno venirvi sopra.
Ma la prigionia dell'Arcivescovo era stata confortata da due avvenimenti, che vantaggi inestimabili dovevano arrecare alle anime.
Sul principio di quest'anno, fra i sacerdoti più zelanti, che intervenivano alle conferenze spirituali solite a tenersi una volta alla settimana nella chiesa del Cottolengo, erasi fondata una specie di società che prendeva il nome da S. Vincenzo de' Paoli, e si radunava in una sala del Seminario. A queste adunanze partecipavano uomini di grande dottrina e santità: il Can. Vogliotti, il Teol. Borel, il Teol. Luigi Anglesio Rettore della Piccola Casa, D. Giuseppe Cafasso, il Teol. Vola, il Signor Durando Superiore dei preti della Missione, il Can. Eugenio Galletti, il Prof. di storia Ecclesiastica Francesco Barone, il Can. Bottino, D. Ponsati, D. Destefanis, D. Cocchi e il nostro D. Bosco. Il Teol. Roberto Murialdo fungeva da segretario della Società. Questi operosi ecclesiastici studiavano i modi più efficaci per infervorare i sacerdoti nella pratica dei loro doveri; e promovevano una [66] viva azione cattolica. Essi avevano di mira specialmente i catechismi, che allora erano alquanto decaduti nelle parrocchie, e segnatamente attendevano a promuovere l'istruzione religiosa nei due Borghi di S. Salvario e S. Donato, in quegli anni più staccati dal centro della città e per poco abbandonati. Si occupavano ancora a provvedere predicatori per le missioni dove ne fossero richiesti, e fornire di catechisti gli Oratorii festivi, che riconoscevano essere il gran bisogno del tempo. Gettavano i primi semi di varie associazioni fra le quali la società contro la bestemmia, contro la profanazione delle feste, e la stampa dei buoni libri contro la propaganda Valdese. Iniziavano i catechismi nelle carceri correzionali e nella Generala, ospizio di tanti giovanetti discoli.
D. Bosco era assiduo, il più che potesse, a queste adunanze; e dal procedimento nel nostro racconto, risulterà evidente come egli fosse uno dei membri zelanti nell'eseguire tutte le opere proposte od iniziate, nessuna esclusa.
Nello stesso tempo buoni cristiani laici si organizzavano, per formare come una legione sacra a fianco del clero; e il 13 maggio 1850 fondavasi in Torino la prima Conferenza di S. Vincenzo de' Paoli, sul modello di quelle istituite dall'Ozanan in Francia nel 1833. Era venuto da Genova il Conte Rocco Bianchi presidente della prima conferenza genovese sorta nel 1846, poichè per suo incitamento si dava principio ad un'opera così salutare. D. Bosco avevalo appoggiato co' suoi consigli. Il Conte era stato promotore convinto di altre conferenze in Italia. La funzione inaugurale ebbe luogo nella sagrestia della chiesa parrocchiale dei SS. Martiri. I socii fondatori furono sette: il Rev. D. Battista Bruno Curato dei SS. Martiri, il padre Andrea Barrera, sacerdote Dottrinario, il Marchese Domenico del Carretto di Balestrino, l'avv. Francesco Luigi Rossi, il Cavaliere Luigi [67] Ripa di Meana colonnello in ritiro, l'ingegnere Guido Goano, il Conte Rocco Bianchi. D. Bosco invitato intervenne ed ebbe il seggio d'onore. La conferenza si radunò nel nome di Dio e venne posta sotto i portentosi auspicii di Maria Immacolata e il patrocinio dei santi martiri Solutore, Avventore e Ottavio. L'avv. Rossi fu eletto presidente. Accettarono di essere i primi socii Onorarii, S. E. Mons. Luigi Fransoni, Silvio Pellico e D. Bosco, il quale nei primordii assisteva a queste conferenze e ne fu sempre il socio d'onore, l'amico, il venerato protettore. L'Opera di S. Vincenzo si sviluppò senza fretta inquieta, ma con perseverante costanza. Le visite che facevano i socii nei miseri e spesso luridi tugurii dei poveri, con soccorsi materiali, con avvisi, conforti, ammonizioni, erano come l'apparizione di angioli che recavano salute e pace. Procuravano l'istruzione religiosa, rendevano cristiane le unioni illegittime. Con sole 24 lire e 15 centesimi i socii si accinsero alla pratica delle opere di carità, incominciando le visite ai poveri e la distribuzione dei soccorsi dopo la terza adunanza tenutasi il 26 maggio 1850. Le loro prime benefattrici furono le auguste e pie Regine Maria Teresa e Maria Adelaide, e la Marchesa di Barolo.
La Conferenza dei SS. Martiri fu aggregata alla Società del Consiglio Generale residente in Parigi il 1° settembre 1850, e nel 1853, essendo sessantatrè i membri attivi e trentuno i membri onorarii, si formarono in città quattro distinte conferenze e primo presidente del Consiglio Particolare fu eletto nel 15 settembre il conte Carlo Cays, che ne era stato membro zelantissimo. Nel 1856 essendovi già in Torino undici conferenze e diciannove fuori di questa città, il Consiglio Generale di Parigi istituì un Consiglio Superiore al quale fu assegnato per distretto tutto il Piemonte. Il Conte Cays ne fu presidente fino al 1868. [68] D. Bosco, che ebbe grandissima parte nella fondazione della prima conferenza, l'ebbe pure in quella di altre, che in varii modi protesse ed aiutò, specialmente quando sorsero contro di esse forti contraddizioni. Tra lui e la benefica Società correvano i rapporti più intimi, e il buon prete consegnava al patronato di questa i giovani usciti dal carcere, che egli aveva condotti sul buon sentiero. Anzi alcuni membri della Società di S. Vincenzo fecero anche parte con lui di un protettorato, legalmente costituito, per sorvegliare efficacemente ed educare i giovani corrigendi rimessi in libertà dalla Questura.
D. Bosco raccomandava loro eziandio di avere un amore di padre a vantaggio dei figliuoli dei poverelli visitati, e quei generosi favorivano l'erezione degli Oratorii festivi, promovevano i catechismi e le scuole. Non si può dire quanto si rendessero benemeriti della Patria e della Chiesa. 1 giovanetti da essi patronati in cinquant'anni furono quasi 100.000.
Per molti anni D. Bosco andava ad assistere alla grande radunanza generale delle conferenze, che in dicembre facevasi solenissima, ora nella chiesa dei Martiri, ora in quella dei Mercanti ed ogni volta prendeva la parola. Egli conosceva a fondo lo spirito di S. Vincenzo de' Paoli, e ne esponeva gli esempi e le massime. Talvolta discorreva sull'obbligo di fare elemosina, il modo di farla e il premio preparato dal Signore; tal altra dimostrava come la fede senza le opere noti vale a niente, e che bisogna fare il bene finchè siamo a tempo, Certe esortazioni rivolte ai socii si aggiravano sulla necessità di formarsi un carattere cristiano e religioso in modo che le parole e le azioni siano sempre regolate secondo le massime del vangelo, e sull'importanza di usare affabilità e dolcezza quando si tratta di dare consigli quanto a religione certe altre riguardavano i poverelli visitati e [69] soccorsi, inculcando che loro si ricordasse come la Divina Provvidenza invocata accorse in modo talvolta meraviglioso in aiuto de' suoi amici sofferenti; e la promessa infallibile del Signore, che, cioè, chi patisce rassegnato con Gesù Cristo sarà per sempre partecipe della sua gloria. Le sue parole producevano un mirabile effetto, perchè le persone di ogni ceto e di ogni condizione, sia del clero sia del laicato, lo tenevano per un uomo tutto dì Dio e molti socii delle Conferenze andavano a gara anche nel soccorrere le sue opere.
Ma venne un giorno finalmente nel quale la sua voce più non si udì in quelle radunanze. Negli anni ultimi della sua vita, ritirossi e più non comparve. Egli aveva compiuta la sua missione, e superflua era l'opera sua. Le Conferenze di S. Vincenzo prosperavano meravigliosamente. Esse infatti nel 1900 in Torino erano diciassette e trentuna in Piemonte. In cinquant'anni avevano visitati più di 40.000 poveri e loro distribuito in sussidio un milione e mezzo. D. Francesia un giorno interrogò D. Bosco perchè non andasse ancora alle conferenze generali, mentre vi contava tanti amici; ed ebbe per risposta: - Ho più nulla da fare in questa occasione. Adesso non sarebbe altro che andarvi per fare comparsa. Sfuggiva gli applausi coi quali sicuramente sarebbe stato accolto.
Ma i suoi cari amici e benefattori non lo dimenticarono punto, e il 6 maggio 1900, quattrocento confratelli della Società di S. Vincenzo de' Paoli si radunavano nella casa Salesiana di Valsalice per assistere ad una divota e religiosa funzione presso la tomba di D. Giovanni Bosco. Essi commemoravano il cinquantesimo anniversario dalla Istituzione delle Conferenze in Torino ed in Piemonte. S. E. il Cardinal Richelmy celebrava la S. Messa e distribuiva il pane Eucaristico. I rappresentanti delle conferenze erano in [70] maggior parte operai e agricoltori. In una sala di Valsalice tenevasi una plenaria adunanza e poscia i confratelli sedevano a lieta agape. E si inneggiò più volte anche a D. Bosco, le cui ossa dovettero esultare nel trovarsi in mezzo a quel trionfo della carità.
Ogni frase di questo capitolo l'abbiamo raccolta o dalle relazioni ufficiali delle Conferenze, o da notizie stampate, manoscritte od orali, non solo dai confratelli dell'Opera di San Vincenzo, ma eziandio da varii antichi allievi, i quali, essendone testimoni, ci riferirono quanto abbiamo esposto.
LE FESTE di S. Luigi e di S. Giovanni Battista eransi celebrate nell'Oratorio con grande solennità: i cortili avevano risonato degli inni a D. Bosco, e noi abbiamo ancora udita l'eco di queste antiche canzoni che per molti anni furono ripetute Sono versi incolti, ma a noi tornano gradite al paro di quelle che poi furono scritte da motti valenti cultori delle muse. Temendo però che vadano in oblío, onoriamo queste povere pagine, colla bellezza dei cari sentimenti dei nostri antichi compagni.
Su, fratelli, grato il core E gridate: Egli è la luce
Si dimostri in questo dì, Dal Signor tra noi mandata
A Don Bosco buon pastore Acciò fosse illuminata
Pel gran ben che c'impartì. L'inesperta gioventù.
Su, alle trombe date fiato, È un appoggio ai vecchierelli,
Martellate le campane, Pel fanciul che non ha pane;
Invitate il vicinato Ei sostiene i tenerelli
A far festa in questo di. E li guida alla virtù. [72]
Dunque tutti i meschinetti E prostrati innanzi a Dio
Faccian l'aure risonar Supplichiamolo di cuore
Con bei inni e bei concetti Che conservi l'uomo pio
Si rallegri questo dì. Qui tra noi per lunga età.
All'amore dei suoi giovani D. Bosco corrispondeva con una prova novella di sua carità, della quale per giudicarne l'importanza, è necessario che ci rifacciamo un po' addietro di qualche anno.
Nel 1847 esistevano ancora in Torino gli avanzi medioevali delle antiche Università, ossia corporazioni di arti, di mestieri e di commercio, colle loro confraternite ed un sacerdote per moderatore. Queste provvedevano alle anime dei socii col rendere loro facile l'adempimento di tutti i doveri religiosi; quelle, alle cose temporali con zelare l'istruzione degli apprendisti, procacciar lavoro, tener casse di risparmio, curar gli infermi, dare assistenza ai vecchi, alle vedove, agli orfani, fissare assegni per i giovani che mettevano su casa, premunire il pubblico contro le frodi degli artefici e dei negozianti, procurare i fondi per le funzioni dei loro magnifici Oratorii.
Ma lo spirito liberalesco non aveva tardato a contaminare la maggior parte di queste associazioni, loro togliendo l'indole religiosa che avevano in passato, e sottraendole alla dipendenza delle Autorità Ecclesiastiche. In queste anzi videsi spesso i membri come divisi in due categorie; gli uni, i liberali, amministrare i patrimoni e le opere di carità; solo i confratelli cattolici vestirne le divise e frequentarne gli ufficii religiosi.
Contemporaneamente alla decadenza, procurata per maligno istinto di queste società, venivano sorgendo varie associazioni ispirate dalla Massoneria, le quali, sotto il manto [73] della carità o filantropia, nascondevano il bieco divisamento di pervertire nelle loro riunioni le idee dei socii e in quanto a politica e in quanto a religione.
Quivi spacciavansi favole contro la Chiesa cattolica; inventavansi, facevansi stampare e diffondevansi storielle infamanti contro i Vescovi, i sacerdoti ed i religiosi, nulla risparmiando per metterli in uggia presso il popolo. Una parte di questo, in capo a poco tempo, fu così pervertito nelle idee e così male impressionato, che un ministro di Dio non era più sicuro per le vie della stessa civilissima Torino.
Una di queste associazioni fu la così detta Società degli operai. Parecchi, che le avevano già dato il nome, non tardarono ad accorgersi che avevano messo il piede in una trappola, e furono abbastanza pronti a ritirarnelo per tempo; ma non pochi pur troppo vi rimasero, e fecero ben presto miseramente naufragio nel costumi e nella fede. I buoni cattolici non avevano ancor volte le loro premure a guadagnarsi gli operai, prendendo a patrocinare i loro interessi, poichè fino a pochi anni addietro le Maestranze li tutelavano.
D. Bosco pertanto, dopo di aver organizzata colla compagnia di S. Luigi una nuova confraternita, conobbe che questa non bastava a stringere in fascio gli operai; e che era necessario attrarli con qualche materiale vantaggio. Ora, per impedire che i giovani esterni dell'Oratorio s'invogliassero d'inscriversi a società pericolose, Don Bosco ideò di stabilirne una tra di loro, avente per iscopo il benessere corporale, non disgiunto dal vantaggio spirituale de' suoi componenti. A questo fine pensò di imporre ai soci la condizione che essi fossero già ascritti alla Compagnia di S. Luigi, nella quale è inculcata la pratica di accostarsi ai sacramenti ogni quindici giorni. Egli adunque cominciò a [74] parlarne coi più adulti, ne spiegò il fine, i vantaggi e le condizioni, e il suo progetto fu accolto con unanime applauso. Quindi propose che una commissione di essi ne prendesse l'iniziativa ed ebbe la loro adesione.
L'Associazione, sotto il titolo di Società di mutuo soccorso, fu inaugurata in cappella il primo luglio del 1850, e riuscì a meraviglia per ottenere lo scopo prefisso. Di qui si vede che il primo seme di quelle innumerevoli Società od Unioni di Operai cattolici, che in questi ultimi anni pullularono in molte città d'Italia, fu gettato da D. Bosco medesimo tra i giovani del suo Oratorio. Mi par utile di qui riportarne per intiero il regolamento, sì a memoria del fatto, sì a norma di chi volesse istituirla altrove con quelle modificazioni ed aggiunte che i tempi e le persone richiedono.
Al regolamento andava innanzi questa Avvertenza, che portava la firma di D. Bosco:
“- Eccovi, o cari giovani, un regolamento per la vostra, Società. Esso vi servirà di norma, affinchè la Società proceda con ordine e con vantaggio. Non posso a meno di non lodare questo vostro impegno e questa diligenza nel promuoverla. Ella è vera prudenza. Voi mettete in riserbo un soldo per settimana, soldo che poco si considera nello spenderlo, e che vi frutta assai qualora vi troviate nel bisogno. Abbiate dunque tutta la mia approvazione.
Solo vi raccomando che mentre vi mostrerete zelanti pel bene della Società, non dimentichiate le regole della Compagnia di S. Luigi, da cui dipende il vantaggio fondamentale, cioè quello dell'anima,
Il Signore infonda la vera carità e la vera allegrezza, nei vostri cuori, e il timor di Dio accompagni ogni vostra azione”. Il regolamento susseguiva.
1° Lo scopo di questa Società è di prestare soccorso a [75] quei compagni che cadessero infermi, o si trovassero nel bisogno, perchè involontariamente privi di lavoro.
2° Niuno potrà essere ammesso nella Società se non è iscritto nella Compagnia di San Luigi, e chi per qualche motivo cessasse di essere confratello di detta Compagnia, non sarà' più considerato come membro della Società.
3° Ciascun socio pagherà un soldo ogni domenica e non potrà godere dei vantaggi della Società che sei mesi dopo la sua accettazione. Potrà però aver diritto immediatamente al soccorso della Società se entrando pagherà 1.50, purchè allora non sia nè infermo nè disoccupato.
4° Il soccorso per ciascun ammalato sarà di centesimi 50 al giorno, fino al suo ristabilimento in perfetta sanità. In caso poi che l'infermo fosse ricoverato in qualche Opera pia, cesserà il soccorso, e non gli sarà corrisposto se non alla sua uscita pel tempo di sua convalescenza.
5° Quelli poi che senza loro colpa rimarranno privi di lavoro, cominceranno a percepire il suddetto soccorso otto giorni dopo la loro disoccupazione. Quando il sussidio dovesse oltrepassare i venti giorni, il Consiglio prenderà a tale riguardo le opportune determinazioni per l'aumento o per la diminuzione.
6° Si accetteranno con riconoscenza tutte le offerte fatte a benefizio della Società, e si farà ogni anno una colletta particolare.
7° Chi per notabile tempo negligentasse di pagare la sua quota, non potrà godere dei vantaggi della Società, sinchè abbia soddisfatto la quota scaduta e per un mese non potrà pretendere cosa alcuna.
8° La Società è amministrata da un direttore, vice-direttore, segretario, vice-segretario, quattro consiglieri, un visitatore e sostituto e un tesoriere. [76]
9° Tutti gli amministratori della Società, oltre l'esatto pagamento di un soldo ogni domenica, avranno somma cura di osservare le regole della Compagnia di S. Luigi per attendere così alla propria santificazione e incoraggiare gli altri alla virtù.
10° Il direttore nato della Società è il Superiore dell'Oratorio. Questi avrà cura che gli amministratori facciano il loro dovere, e che il bisogno dei soci venga soddisfatto a norma del presente regolamento.
11° Il vice-direttore aiuterà il direttore, darà al segretario gli ordini opportuni per le adunanze, ed esporrà in Consiglio quanto possa tornar vantaggioso alla Società.
12° Il segretario avrà cura di raccogliere le quote nelle domeniche, notando puntualmente quelli che compiono la loro obbligazione, nel che userà grande carità e gentilezza. È cura altresì del segretario di spedire biglietti al tesoriere, in cui noti cognome, dimora dell'infermo; tutte le decisioni di qualche rilievo prese nel Consiglio saranno registrate dal segretario. In questa moltiplicità di cose sarà aiutato dal vice-segretario, il quale, occorrendo il bisogno, ne farà le veci.
13° I quattro Consiglieri diranno il loro sentimento intorno a tutto ciò che riguarda al vantaggio della Società, e daranno il voto, tanto in quello che spetta all’amministrazione delle cose, come alla nomina di qualche membro.
14° Il visitatore nato della Società è il Direttore spirituale della Compagnia di S. Luigi. Questi si porterà in persona alla casa l'inferno, onde verificare il bisogno e farne la al segretario. Ottenuto che avrà l'opportuno biglietto o porterà a casa del tesoriere, dopo di che recherà l'assegnato soccorso all'infermo. Nel consegnare il soccorso, il visitatore avrà cura somma di ricordare all'infermo qualche massima di nostra Santa Religione, e di animarlo a ricevere [77] i Santi Sacramenti, qualora si faccia grave la malattia. In ciò sarà aiutato dal sostituito, il quale mostrerà la massima premura per aiutare il visitatore specialmente nel portare i soccorsi e consolare gl'infermi.
15° Il tesoriere terrà cura dei fondi della Società e ne darà conto ogni tre mesi. Ma non potrà dar denaro ad alcuno senza un biglietto portato dal visitatore, sottoscritto dal direttore, in cui si dichiari la realtà del bisogno.
16° Ogni impiegato durerà nella sua carica un anno potrà essere però rieletto.
17° Il Consiglio ogni tre mesi renderà conto della sua amministrazione.
18° Il presente regolamento comincerà ad essere in vigore il primo di luglio del 1850.
Ad ogni socio fu assegnato come tessera un libretto, intitolato Società di Mutuo Soccorso di alcuni individui della Compagnia di S. Luigi eretta nell'Oratorio di S. Francesco di Sales. Torino, Tipografia Speirani e Ferrero, 1850. Sotto il frontispizio era stampato il motto “Quanto mai, o fratelli, è piacevole e vantaggioso stabilirsi in società”. Salmo 133.
In fine vi andava unito il modulo d'iscrizione così formulato:
figlio del dimorante di professione
è stato inscritto nella Società il giorno
Pel Regolamento ha pagato cent. 15.
Questa società così organizzata servì a meraviglia al suo scopo, ma destò le ire di quelli, i quali ogni loro sforzo facevano convergere nel corrompere le plebi, e averle ai loro cenni in date occasioni.
Brosio Giuseppe così scriveva a Don Bonetti Giovanni: “In faccia alla porta d'entrata della nostra chiesuola di Valdocco, divisa dal nostro cortile per un muro di cinta, sorgeva la taverna detta la Giardiniera. Era il rifugio dei ladri, il ritrovo dei vagabondi. Qui si radunavano continuamente i fannulloni, i giuocatori, i beoni, i musici ambulanti, i domatori di orsi, gli sfaccendati di ogni genere, e con questi i socii delle società operaie liberali allora nascenti, che avevano sede principale nel vicolo di Santa Maria in una cantina sotterranea. I Capi segreti di questa società erano alcuni protestanti e certi signori di pessima condotta. Se, negli anni precedenti, le orgie degli antichi avventori della Giardiniera recavano disturbo, tuttavia non erano espressamente ostili contro l'Oratorio. Ma in quest'anno gli schiamazzi nel tempo delle sacre funzioni avevano evidentemente in mira di far dispetto a D. Bosco e dargli la baia con parolacce da trivio. Quei furfanti erano pagati dal mestatori perchè facessero sentire all'Oratorio tutta la loro rabbia.
D. Bosco vedeva la necessità di allontanare da Valdocco quella batteria avanzata del demonio; ma non era impresa facile, sia per le spese ingenti, sia per essere pericoloso offendere quella marmaglia, pronta a qualunque violenza piuttostochè permettergli l'occupazione di una casa che riteneva come di suo proprio dominio.
D. Bosco ne ebbe più volte disgustose prove. Un giorno venne chiamato in sagrestia, dove alcuni uomini lo attendevano ed egli andò subito credendo che volessero confessarsi. Ma appena fu entrato quelli chiusero le porte. Allora vari [79] giovani dei più adulti, fra i quali Buzzetti ed Arnaud, sospettando qualche trama, passarono in presbiterio e di là stettero origliando e guardando dalla serratura dell'uscio che metteva in sagrestia. Infatti sentono ad un tratto un parlare forte e concitato di quei malvagi, venuti per disputare con D. Bosco. Egli però con poche parole avendoli confusi, e non sapendo più quelli che cosa rispondergli, si mettono a dirgli rabbiosamente molte villanie. D. Bosco cercava di calmarli, ma gli altri si accendevano ancora di più ed estraevano i coltelli. A questo punto i giovani appostati, dopo aver fatto rumore, sfondarono la porta; e quei disgraziati fuggirono dall'uscio che si apriva nel cortile.
Intanto accadevano certe diserzioni misteriose di giovani fra i più grandi, appartenenti alla nostra società di Mutuo Soccorso senza che si potesse conoscerne la cagione. Quand'ecco un giorno due signori vestiti con molta eleganza mi fermarono. Parlavano francese, lingua che lo conosceva bene, e dopo un cordiale discorso, mi offersero una grossa somma di danaro, circa 600 lire, con promessa che mi avrebbero altresì procurato un grasso impiego, se però io avessi abbandonato l'Oratorio e condotti via i miei compagni, sui quali essi si erano informati come io avessi grande influenza. Mi sdegnai per questa offerta, e con poche parole loro risposi: - D. Bosco è mio padre e non lo abbandonerò e non lo tradirò per tutto l'oro del mondo! - Quei signori, che poi conobbi essere l'anima di quella cricca operaia, non si offesero; mi pregarono di riflettere, e più altre volte, ad intervalli, rinnovarono la loro offerta di danaro, che io sempre ricusai. Intesi allora come una vile moneta avesse sedotti certi miei disgraziati compagni ad abbandonare l'Oratorio.
Io aveva narrato ogni cosa al solo D. Bosco, e giudicammo essere prudenza tener segreti questi fatti, per non [80] destar la cupidigia di qualcheduno poco saldo nella virtù, e nello stesso tempo pregare, raddoppiando la vigilanza e gli allettamenti all'Oratorio”
Ma non ostante questa guerra, la società operaia di D. Bosco per anni parecchi crebbe di numero, e vi furono ammessi per eccezione alcuni artisti della città, eccellenti cristiani, perchè col loro esempio dessero ordine ai novellini. Nel 1856 la società era fiorente ed anche Villa Giovanni volle esservi ascritto, invitato dal suo compagno Gravano. Nel 1857 questa medesima si cangiò in conferenza, e avendo sede nell'Oratorio fu annessa a quelle di S. Vincenzo de' Paoli per un tempo considerevole.
D. Bosco erasi adoperato eziandio in questa istituzione vinto da due altri gravissimi motivi. Egli fu tra quei pochi che avean capito fin da principio, e lo disse mille volte, che il movimento rivoluzionario non era un turbine passeggiero, perchè non tutte le promesse fatte al popolo erano disoneste, e molte rispondevano alle aspirazioni universali, vive dei proletarii. Desideravano d'ottenere eguaglianza comune a tutti, senza distinzione di classi, maggior giustizia e miglioramento delle proprie sorti.
Per altra parte egli vedeva come le ricchezze incominciassero a divenire monopolio di capitalisti senza viscere di pietà, e i padroni, all'operaio isolato e senza difesa, imponessero patti ingiusti sia riguardo al salario sia rispetto alla durata del lavoro; e la santificazione delle feste sovente fosse brutalmente impedita, e come queste cause dovessero produrre tristi effetti; la perdita della fede negli operai, la miseria delle loro famiglie e l'adesione alle massime sovversive.
Perciò come guida e freno alle classi operaie, egli riputava partito necessario che il clero si avvicinasse ad esse. Egli non poteva dare alla sua Società di Mutuo Soccorso quello [81] sviluppo che avrebbero richiesto i bisogni dei tempi, quantunque meditasse di innalzare per i giovani artigiani un gran numero di ospizii. Ma ora prevedeva che la direzione, la sorveglianza sui registri delle somme versate, l'amministrazione, la distribuzione dei soccorsi a lungo andare non gli sarebbe tornata possibile. Resistette, progredì; ma poi dovette fermarsi, tanto più che la sua impresa non fu secondata da chi poteva; anzi non andava esente da critiche. Egli però ebbe il merito di dare il primo impulso e il modello a tante altre associazioni tra gli operai cattolici, per migliorarne la sorte, appagarne i giusti richiami e così sottrarli all'influenza tirannica dei rivoluzionarii. La prima delle unioni operaie cattoliche, stabilita in Italia, fu quella di Torino, nel 1871, per impulso di un pugno di giovani generosi. Purtroppo le sétte avevano già raccolti gli operai e stabilito fra di loro e in proprio vantaggio il mutuo soccorso; tuttavia meglio tardi che mai. Crebbero di numero quelle cristiane unioni in tutto il Piemonte e in altre parti d'Italia, ed ebbero l'assistente ecclesiastico, con grande vantaggio della causa cattolica e con tanta consolazione di D. Bosco. Varie di queste, con diploma, lo proclamarono loro Presidente Onorario. Lo spirito del Signore aleggiava sul mondo e con nuove istituzioni provvedeva ai nuovi bisogni. Il Sac. Kolping fondava in Germania la Società Cattolica dei giovani garzoni o apprendisti, i quali, con sedi proprie in molte città, assommano ora a molte decine di migliaia. La Francia dava pure così nobile esempio; ricchi industriali concorsero generosamente a introdurre nelle loro immense officine il benessere di un lavoro rimuneratore, cristiano e senza ansietà per l'avvenire. Fra gli altri Leone Harmel detto le bon père, il padre dell'operaio, intimo amico di D. Bosco per uniformità di sentimenti.
SE IN Valdocco regnava l'affetto per il sacerdote, altrove incancreniva l'astio contro la Chiesa. Benedetto XIV aveva concesso al Piemonte, in Vicariato perpetuo, alcuni feudi ecclesiastici coll'obbligo di pagare ogni anno in Roma, ai 28 di giugno, un calice di 2000 scudi: questo patto era stato confermato con solenne convenzione ai 5 gennaio del 1740, e sempre erasi mantenuto.
Nel 1850 però non si volle più pagare il calice, perchè lo Stato proclamava sè padrone di tutto e la Chiesa un'associazione senza diritti. Ma l'angelico Pio IX, benchè in tante maniere offeso, amava i Piemontesi e porgeva al figli di Don Bosco novella occasione di grande esultanza. I lettori ricorderanno che quando il Papa ricevette in esilio il loro piccolo obolo di lire 33, lo mise in disparte per farne a suo tempo, come ci disse, un uso particolare. Durante il suo soggiorno in Gaeta, il Santo Padre aveva parlato più volte di detta offerta, e con alta compiacenza l'aveva mostrata ad alcuni viaggiatori, che si erano recati ad ossequiarlo. Or bene, un dì egli chiamò a sè l'Eminentissimo Cardinale Antonelli, prese quella piccola somma, vi aggiunse quanto [83] occorreva e gli disse: “Mandate a comperare con questo denaro altrettante corone”. Fu tosto eseguito l'ordine, e se ne comperarono ben 60 dozzine, riposte in due grossi pacchi. Avutele a sè , Pio IX le benedisse, e di propria mano le consegnò alla prelodata Eminenza, dicendo: “Queste corone si mandino agli artigianelli del prete Bosco, e sia questo un segno dell'amor di padre verso i suoi figli”. Ricevuto l'augusto comando, l'Eminentissimo Antonelli spediva quel regalo al Nunzio Apostolico in Torino, accompagnandolo colla lettera seguente:
Memore di quanto partecipava a V. S. Ill.ma e Rev.ma col mio dispaccio del 14 maggio dell'anno scorso, le rimetto per mezzo del Console generale pontificio in Genova due pacchi di corone benedette da Sua Santità, da distribuirsi ai buoni artigianelli del sacerdote Bosco.
Avrei voluto prima d'ora dar effetto a questa dimostrazione del Santo Padre, se la moltiplicità e la gravezza degli affari me ne avesse dato agio.
Ella si compiaccia di far gradire il dono per l'alta sua provenienza, e con sensi della più distinta stima mi confermo Di V. S. Ill.ma e Rev.ma
Chi rifletta che il Papa è la persona più grande e più veneranda che esista sulla terra, chi osservi agli affari sterminati e di gravissimo momento che Pio IX aveva in quei giorni tra mano, non tarderà a riconoscere che questa [84] sua sollecitudine per poveri fanciulli era di un valore impareggiabile. Per la qual cosa quando Don Bosco loro annunziò che l'amabilissimo Pontefice, prima di lasciare il suo esiglio, non solamente erasi ricordato della loro pochezza, ma aveva mandato un regalo, il loro cuore giovanile trasalì di gioia e loro tardava mille anni di esserne a parte. Ben ponderata la singolarità della cosa, D. Bosco, ritornato dagli Esercizii di S. Ignazio, ove il Curato di S. Dalmazzo in Torino avea predicato le istruzioni e il Vicario Generale di Fossano le meditazioni, giudicò di distribuire quelle corone, in modo solenne, celebrando in quella occasione una festa particolare a perpetua ricordanza del fatto. Questo venne ancora ricordato colla pubblicazione, di un libretto, scritto da D. Bosco, col titolo: Breve ragguaglio della festa fattasi nel distribuire regalo di Pio IX ai giovani degli Oratorii di Torino. Torino, 1850, Tipografia Eredi Botta.
Giunse pertanto la domenica 21 luglio; la chiesa era apparata a festa. Alla sera tutti i giovani degli Oratorii si radunarono in quello di S. Francesco di Sales, siccome primario. Sebbene un buon numero rimanesse fuori della Cappella, tuttavia questa n'era gremita. Brosio Giuseppe, il bersagliere, colla sua grande armata faceva ala per il buon ordine. Il chiarissimo Padre Barrera della Dottrina Cristiana, oratore di alto grido, recitava un bellissimo discorso di opportunità. Il modo chiaro e dignitoso, le tenere espressioni con cui egli parlò del supremo Pastore della Chiesa, trassero l'attenzione dei giovani uditori e li commossero profondamente. Tra le altre cose egli diceva: “Sapete, giovani, perchè Pio IX vi mandò questo regalo? Vel dirò io: Pio IX è tutto tenerezza per la gioventù, ed ancor prima che fosse Papa, si occupava in più guise per istruirla, educarla, avviarla alla virtù. Egli vi mandò una corona, perchè , ancor semplice [85] secolare, era grandemente divoto di Maria Santissima. Io, io stesso lo vidi più volte in pubblico ed in privato a dar segni non ordinari di divozione verso la Gran Madre di Dio”.
Finita la predica e impartita la benedizione col Venerabile, i giovani l'uno dietro all'altro passarono in fila dinanzi all'altare, e ciascuno riceveva una corona dalle mani del canonico Giuseppe Ortalda, che ne faceva la distribuzione, assistito dal teologo Simonino e dal suddetto Padre Barrera. I grani delle corone erano rossi, incatenati con un filo di metallo bianco, Coi giovanetti, tra i quali erano Rua Michele e Savio Ascanio, trovavansi eziandio parecchi sacerdoti ed altri addetti all'Oratorio; ed era spettacolo edificante il vederli accostarsi tutti con venerazione e stimarsi fortunati di possedere un oggetto regalato dal Vicario di Gesù Cristo. Stante l'immenso numero degli accorsi, non furono sufficienti le corone venute dal Papa. Quindi se ne dovettero provvedere parecchie centinaia in Torino e distribuirle colle altre per non lasciare alcuno malcontento.
Fatta la distribuzione ed usciti di chiesa, un giovane si presentò dinanzi ai sacri Ministri, circondati da parecchi distinti personaggi, e a nome de' suoi compagni prese a dire
“Se fosse un principe, un re, un imperatore, che volgendo uno sguardo benigno sopra alcuno de' suoi sudditi, si degnasse di fargli un dono, sarebbe favore grande da rendere compiutamente pago e glorioso il suddito fortunato.
Che poi il Successore del Principe degli Apostoli, il Capo della Cattolica Religione, il Vicario di Gesù Cristo, dal mezzo delle molteplici cure, cui deve attendere nel reggere e governare l'universo mondo cattolico, rivolga un [86] pensiero verso di noi poveri artigianelli, questa, ah sì questa è degnazione sì grande, che ci rende altamente confusi, e nella nostra umiliazione siamo solo capaci di parlare cogli affetti della gratitudine.
Ma se mai nella pochezza nostra potessimo far giungere le nostre parole all'orecchio di sì buon Padre, coraggiosi vorremmo dare uno sfogo al nostro cuore con dire: Beatissimo Padre, noi comprendiamo l'alta provenienza e la grandezza del dono che ci avete fatto, e conosciamo in pari tempo il dovere di gratitudine che ci stringe. Ma come mai possiamo adempirlo? Coi mezzi di fortuna? No, questo noi non possiamo, e nemmeno voi tali cose ambite. Forse con elegante discorso? Noi non siamo da tanto. Ah! sappiamo ben noi, o Beatissimo Padre, ciò che voi volete.
E’ l'amor di padre che vi spinse a ricordarvi di noi, e noi come figli affezionati conserveremo tutto il nostro amore per Voi e per quel Dio, di cui in terra siete rappresentante. Nè giammai il nostro labbro si schiuda a profferire parola, che possa tornare discara a tale benefattore, nè giammai il cuor nostro concepisca un pensiero indegno della bontà di un sì tenero Padre.
Il desiderio che noi tendiamo alla virtù vi spinse a ricordarvi di noi; e noi vi accertiamo che strettamente uniti a quella divina Religione, di cui siete Capo supremo, noi sapremo sostenerla, offerendoci pronti a perdere qualsiasi cosa, fosse anche la vita, anzichè rimanerne per un solo momento separati.
Del resto, lasciando alla sublime sapienza di Vostra Santità a supplire all'insufficienza nostra, diciamo unanimi che, riconoscendo in Voi il Successore del Principe degli Apostoli, il Capo della Chiesa Cattolica ed unica vera Religione, a cui chi ricusa di essere unito perisce eternamente, [87] supplichiamo la Santità Vostra, che si voglia degnare di aggiungere un nuovo beneficio coll'impartire a noi, vostri umili figli, l'apostolica benedizione,
In simile guisa noi, sempre memori di questo avventuroso giorno, in tutto il viver nostro serberemo caro un sì bel dono, e nell'ultimo respiro ci sarà dolce il dire: Il Vicario di Gesù Cristo, il grande Pio IX, usando un tratto dell'immensa sua bontà, mi ha regalato una corona con appeso un crocifisso, quale per l'ultima volta divotamente baciando, spiro l'anima mia in pace.
Voi intanto, illustrissimi Signori, se in qualche modo poteste far giungere questi nostri sentimenti al supremo nostro Gerarca, vi saremmo sempre mai riconoscenti dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini, rendendovi grazie le più cordiali e perenni”.
Proferite queste parole, alcuni giovanetti offerivano un mazzetto di fiori, ed altri festosamente cantavano:
Finito il canto, da tutte le parti risonarono prolungati e festevoli EVVIVA PIO IX, EVVIVA IL VICARIO DI GESÙ CRISTO! Nè sarebbero così presto finiti gli applausi, se il bersagliere non avesse sonata la tromba, chiamando i compagni al divertimenti della manovra militare. Per rendere più varia la festa si diede una finta battaglia, cioè la difesa e l'assalto di una specie di fortezza, cinta da piccoli tumoli che ne rappresentavano i bastioni. I difensori e gli assalitori spiegarono tanta energia, vivacità e obbedienza agli ordini dei comandanti, che i signori invitati se ne mostrarono molto contenti ed un generale d'armata che era nel cortile, esclamò: - I giovani di D. Bosco sarebbero capaci di difendere la patria.
La festa delle corone levò in Torino non lieve rumore. Dappertutto se ne parlava, portando a cielo la bontà di Pio IX, e prendendosi in viemmaggiore stima gli Oratorii festivi, siccome da lui favoriti e benedetti. Anche i giornali se ne occuparono, ed uno dei più accreditati ne pubblicava un articolo così ben concepito, che mancheremmo al dovere di storici se qui non lo riportassimo. Eccolo pertanto:
“Un nuovo tratto, così l'Armonia del 26 luglio 1850, un nuovo tratto di generosità venne a rivelare al mondo, essere tuttavia costante quel cuore già tanto acclamato del Vicario di Gesù Cristo. Fu questo il dono che faceva distribuire ai giovanetti dei tre Oratorii di questa capitale. Vogliamo sperare che alcuni cenni a questo riguardo non riusciranno discari al leggitori.
E oggimai noto a tutti come alcuni zelanti sacerdoti vanno rinnovando tra noi gli esempi dei Vincenzi de' Paoli e dei Geronimi Emiliani. Si pigliano a levare dai pericoli delle strade e delle piazze tutti quei giovanetti che, abbandonati a se stessi, consumerebbero inutilmente, per non dire malamente, [89] il dì festivo: li radunano in luogo riparato per istruirli nelle verità religiose, nelle cose più necessarie al vivere socievole ed intrattenerli quel dì in onesti divertimenti. Questa opera caritatevole, che moveva da tenuissimi principii, fu così benedetta dal Signore che ora grandeggia. Non conta ancora due lustri di vita, e già novera più d'un migliaio di giovanetti che assiduamente vi accorrono. Un luogo solo non bastando più a dare ricetto a tutti, tre vennero aperti nei punti principali della città. Il Senato del Regno, dietro unanime deliberazione, instava presso il Governo del Re, affinchè sostenesse un'istituzione così benemerita della religione e della società. Il Municipio delegava un'apposita Commissione per riconoscere il bene che si operava e coadiuvarlo.
Finalmente lo stesso Sommo Gerarca Pio IX, dall'alto del suo trono pontificale, rivolgendo l'occhio paterno alle piccole non meno che alle grandi opere di beneficenza cristiana, si compiaceva di benedirla e promuoverla nella maniera seguente.
Quando questo glorioso Successore di S. Pietro esulava in Gaeta, i buoni fedeli, ad imitazione di quanto operavano i primitivi cristiani verso del Principe degli Apostoli, andavano a gara non solo nell'innalzare fervide preci all'Altissimo, affinchè gli alleviasse le fatiche, addolcisse le pene dell'esilio e presto lo ridonasse alla sua Sede, ma inoltre vedevano, secondo le loro forze, di concorrere a fornirgli quel mezzi materiali, che erano indispensabili per condurre vita meno dura in terra non sua. Tra questi non furono degli ultimi i giovani dei tre Oratori di Torino. Deponendo il loro obolo nelle mani del Sacerdote Don Giovanni Bosco (tale è il nome dello zelante ecclesiastico che dirige quest'Opera), ne lo pregavano lo facesse umiliare al Santo Padre per mezzo di S. E. il Nunzio Apostolico. [90]
Nella tenue ma generosa offerta Pio IX, ad imitazione di Lui che rappresenta in terra, vide i due denari della vedova evangelica, e disse: Questo dono è troppo prezioso perchè si abbia a consumare come gli altri; vuol essere tenuto quale una cara memoria; ed in ciò dire vi scriveva sopra il nome dei donatori e lo poneva in serbo. Ritornato sott'occhio il dono in epoca meno trista, mandava ordine si acquistassero due grossi pacchi di corone portanti appesa una crocetta, e queste, benedette di sua mano, inviava al prelodato sacerdote, affinchè fossero distribuite ai giovanetti degli Oratorii.
Veniva tale funzione fissata la domenica testè passata 21 luglio, e nell'Oratorio centrale situato nella regione di Valdocco.
Come tutti furono radunati, il benemerito Padre Barrera, con quel suo chiaro e fervido dire che illumina le menti e rapisce i cuori, li intratteneva intorno al prezioso dono. Pigliava le mosse accennando al fatto biblico del giovane Daniello e compagni, i quali a fronte di tutte le arti di seduzione, adoperate con loro alla corte del re babilonese, vollero rimanersi fedeli alla religione e alle leggi dei padri loro, e n'ebbero perciò da Dio un premio temporale come saggio ed arra dell'eterno. - Così voi, proseguiva, coll'esservi serbati fedeli alla religione di Gesù Cristo, devoti al suo Vicario, non solo nella prospera, ma ancora nell'avversa sorte, chiudendo l'orecchio ai detti di quei sedotti e seduttori, che intendevano a consigliarvi diversamente, vi meritaste questa dolcissima caparra, che vi manda il Redentore per mezzo del suo Vicegerente. - Entrava poi a ragionare del dono, toccando di volo come gli antichi Romani usavano incoronare di quercia quei che con qualche azione eroica si erano segnalati nel porgere aiuto o scampo ai concittadini, e mostrava come Pio IX, regalandoli di quella corona, mirava ad incoronare la fortezza da loro spiegata: vedessero di tenerla in [91] sommo pregio, di valersene onde pigliare animo in ogni sorta di combattimenti, che loro toccasse di sostenere per la causa di Dio; rimirando la crocetta che portava appesa ricordassero come solamente il patire con Cristo apre la via alla gloria da lui meritataci.
La brevità di un articolo non ci permette di tener dietro alle moltissime cose da lui discorse, segnatamente allora quando entrava a trattare del tema suo prediletto, la divozione alla divina Madre, e, per invogliarli ad amarla viemmeglio, loro ricordava l'esempio dell'adorato Pontefice, il quale fin dagli anni più teneri le era vissuto divotissimo.
Tenero spettacolo era mirar tanti giovani pendere attentissimi dal labbro del facondo dicitore e bevere avidamente ogni parola; sensibilissima era la commozione che un tal dire destava in quei vergini cuori, massime allorchè toccando l'oratore del modo, col quale essi dovevano rispondere a tanta premura del Santo Padre, lor diceva: - Amor si paga con amore; pensate ora all'amore che vi portò Pio IX, mentre fra tanti figliuoli, che novera di dove nasce fin dove tramonta il sole, fra tante occupazioni che assediano continuamente quel cuore, pensò a voi, operò per voi; vedete perciò di amarlo, ma amarlo tanto! chè chi è con lui è con Cristo; promettete perciò, giurategli fedeltà, amore sino alla morte. - Se a tali detti rimaneva muto il labbro di quei giovanetti, parlava però eloquentemente il loro volto infiammato, lo sguardo, le lagrime, che a non pochi cadevan dagli occhi, talchè ognuno poteva accertarsi essere il Sommo Pio ardentemente riamato da quei cuori. Appena finito il sermone, in riconoscenza si facevano pregare ad alta voce Gesù Sacramentato pel Sommo, Pontefice, poi pel Sovrano e Reale Famiglia e per tutti i sudditi loro. Impartitasi la benedizione del Venerabile, ricevevano a' piè dell'altare la corona regalata da Pio IX. Bello [92] era il veder come, avutala, non finivano mai di baciarla e stringerla al cuore.
Usciti dal tempio, un drappello di milizia cittadina, allevata nello stesso Oratorio, la quale aveva presieduto al buon ordine della funzione, eseguiva alcune evoluzioni militari; un coro di giovani scioglieva col canto un inno di grazie all'immortale Pontefice, mentre il resto faceva echeggiar l'acre di lieti evviva, e portava alle stelle il nome venerato del Vicario di Gesù Cristo.
Così chiudevasi una lietissima festa di famiglia promossa dal Padre dei credenti. Le molte persone ecclesiastiche e secolari accorse ad essere spettatrici, vedendo la religione sì profondamente radicata in quei teneri cuori, bene auguravano di lei, ed a noi, che eravamo tra quelle, pareva veder avverato il verso dei salmo: Ex ore infantium et lactentium perfecisti laudem propter inimicos tuos, ut destruas inimicum et ultorem.” Fin qui l'egregio periodico.
Qualche tempo dopo la lesta delle corone, D. Bosco, per mezzo del cardinale Antonelli, mandava i suoi e i figliali ringraziamenti de' giovani al Santo Padre per l'inviato regalo e vi univa la relazione di detta festa. Sua Eminenza, informatone Pio IX, ne comunicava ben tosto l'alta soddisfazione a D. Bosco medesimo, e gliene rendeva pur grazie con questa benevolissima lettera:
Rassegnai al Santo Padre il contenuto del foglio di V. Signoria Ill.ma del 29 del p. p. mese, col quale esprimeva i sensi di arato animo da Lei concepiti e dai suoi alunni per l'invio delle corone benedette. La Santità Sua ne provò una vera soddisfazione, e si augura che i giovanetti alle sue cure affidati proseguano nel sentiero della virtù. [93] Accolse poi benignamente l'istanza che Ella mi compiegava, e la medesima è già in corso.[5]
Ho ricevuto gli esemplari inviatimi del libretto pubblicatosi in occasione dell'invio medesimo, e La ringrazio di tal pensiero. Speriamo che il Signore, mosso ancora dalle orazioni che incessantemente si porgono negli Oratorii da Lei diretti, si degni concedere alla Chiesa giorni più felici.
Con questa fiducia ho il piacere di confermarle la mia distinta stima.
Sono questi ben chiari argomenti della smisurata bontà del Romano Pontefice verso D. Bosco e verso i suoi giovanetti.
Così la Chiesa fin d'allora esternava il proprio gradimento ad un'opera, che mostrava di riuscire altamente vantaggiosa alla società civile ed alla Religione cattolica.
AL PADRE Superiore dell'Ordine dei Servi di Maria che col Padre Carlo Baima era andato a Pianezza, diceva Mons. Fransoni: - L'idra è sguinzagliata, tristi cose si vedranno succedere; il piano è preparato, i mezzi sono pronti. - Indi facendo allusione alla scacciata dei figli di S. Ignazio, ripigliava: - Prima Gesù (i Gesuiti), poi Maria (i Serviti), quindi tutti gli altri santi (gli ordini religiosi) ed io... io dovrò andare in esiglio. Lo vedrete!
E le tristi previsioni si avverarono, rincrudendo in D. Bosco e nei suoi giovanetti i passati dolori.
Uno di quelli che avevano votato la legge Siccardi, incorrendo le scomuniche, fu il Cav. Pietro Derossi di Santarosa, Ministro di agricoltura e commercio. Apparteneva egli alla parrocchia di S. Carlo, amministrata dai Servi di Maria, di [96] cui era parroco, superiore e provinciale il Padre Buonfiglio Pittavino, religioso che ad una grande bontà di cuore univa una fedeltà incrollabile al sacro suo dovere. Sulla fine di luglio, il Santarosa cade gravemente ammalato e domanda i sacramenti. Egli si era bensì confessato, ma per ricevere il Santo Viatico gli è richiesta dal parroco una sufficiente ritrattazione del mal operato contro la Chiesa. Il Santarosa la ricusa, ma finalmente agli estremi vi si arrende, e muore la sera del 5 agosto senza avere così potuto essere viaticato.
Parenti, amici, ministri, senatori, deputati, tra i quali il Conte Camillo di Cavour, giornalisti e strilloni strepitano e gridano all'intolleranza del Parroco e dell'Arcivescovo, accusandoli di avere violentata la coscienza del defunto; un nembo di fannulloni e prezzolati, quasi tutti fuorusciti da varii Stati d'Italia, urlano sulle piazze, assalgono il Convento dei Serviti, con parole da cannibali minacciano la vita al parroco, e poco mancò che non lo facessero a brani. Durante il trasporto funebre non cessarono di svillaneggiarlo e minacciarlo, e le grida e le fischiate furono così alte e frequenti da coprire il canto del Miserere.
Il 7 agosto il Padre Pittavino con tutti i suoi correligiosi erano espulsi dal Convento, del quale il Governo pigliava possesso: e fattili salire in carrozze già preparate e scortate dai carabinieri, parte furono condotti ad Alessandria e parte a Saluzzo.
Dopo i Servi di Maria si venne alla volta di Mons. Fransoni. Al domani della morte del Santarosa, in nome del Governo, il conte Ponza di San Martino col cav. Alfonso La Marmora, Ministro della guerra, si porta a Pianezza, dove l'Arcivescovo si trovava in campagna e gli domanda la rinunzia dell'Arcivescovado. Egli risponde intrepidamente di no, e con parola franca soggiunge: “Mi stimerei un vile se, in momenti [97] così critici per la Religione, rinunziassi alla diocesi”. Ed ecco che il giorno dopo, 7 agosto, i carabinieri si portano a Pianezza e lo conducono prigione nella fortezza di Fenestrelle, posta sopra le Alpi, ove regna un lungo e rigidissimo inverno con venti, nevi, nebbie spaventose. Il governatore Alfonso de Sonnaz lo accolse cortesemente, ma dovette chiuderlo in poche camere, e tenerlo sotto stretta sorveglianza. Il Ministero gli ricusò persino di poter confessarsi ad uno dei cappuccini cappellani del forte. Poco dopo si toglieva al Teologo Guglielmo Audisio, celebre per l'educazione che dava al clero, la presidenza dell'Accademia di Superga, in punizione di essere uno degli scrittori dell'Armonia, rimanendo l'Accademia da quel punto senza convittori. Nello stesso tempo, per la legge Siccardi, l'Arcivescovo di Sassari era condannato ad un mese di carcere, che scontò chiuso nel suo palazzo essendo mal fermo dì salute; e l'Arcivescovo di Cagliari, privato della sua Mensa e scacciato dal Regno, veniva condotto per forza a Civitavecchia.
In Torino parte della popolazione era fuori di sè per lo spavento, un'altra parte ubbriaca per le invettive dei giornali e per l'orridezza dei fatti calunniosi che si narravano. Una canzone piena d'ingiurie contro Mons. Fransoni era cantata da un cieco a suon di chitarra per tutte le vie e le piazze in mezzo al popolaccio.
Il 12 agosto 1850 il Questore con dodici carabinieri andava in grande solennità a perquisire la casa degli Oblati alla Consolata di Torino per avere prove di reità del Fransoni; ma nulla trovava. Si pretendeva che gli Oblati fossero Suoi complici a danno dello Stato La solita plebe tumultuava, essendosi fatto correre voci di congiure, e così ferocemente che si dovette aumentare il numero delle guardie e dei carabinieri, e dipoi chiamare i bersaglieri e in ultimo la guardia nazionale [98] senza però sciogliere quell'attruppamento di bordaglia e di scioperati. Sulla sera il tumulto era a tal segno, che bisognò por mano alla forza per contenere l'impeto irrompente della moltitudine. Il Questore fattosi allora alla porta del Convento, lesse una dichiarazione, da cui constava che, malgrado le più accurate indagini, pur non si era potuto trovare il menomo indizio di colpabilità in quei religiosi. - Le turbe si dispersero, ma i giornali a servizio della rivoluzione stamparono che le prove di congiura vi erano e che i colpevoli avevano fatto sparire ogni traccia di cospirazione.
E’ in questa occasione che, per quanto venne raccontato dal Teologo Reviglio, D. Bosco scrisse un libretto ovvero qualche articolo in difesa degli ordini religiosi; ed eziandio per l'influenza che egli godeva presso autorevoli personaggi, potè impedire la cacciata degli Oblati, stornando per allora dal loro capo una già decisa e immeritata rovina. È conosciuto il grande affetto che egli portava a que' religiosi e come più d'uno de' suoi giovani, eccitato dalle lodi che loro tributava, si ascrivesse a quel sodalizio.
Mentre però difendeva gli Oblati, dovette pensare a sè , contro fieri attacchi preparati nei covi delle sétte. Egli era conosciuto per caldo sostenitore dei diritti della Chiesa, e i nemici della medesima avevano deciso, ed effettuarono poi sempre il loro piano, col cercare di far diminuire la sua azione d'influenza, ogni qualvolta tramavano nuove offese contro essa e contro il Papa. Quindi lo dipingevano al popolo come nemico delle nuove Istituzioni e come un sacerdote guidato dallo spirito dei Gesuiti, educatore fanatico di torcicolli e contrario alla libertà. Lo designavano esso pure quale complice dell'Arcivescovo in congiure reazionarie. Or dunque, pel 14 dello stesso mese di agosto, era stata preparata un'odiosa dimostrazione al piccolo ospizio di S. Francesco di Sales, per [99] distruggerlo, cacciandone via D. Bosco. In pubblico nulla era ancor trapelato di questo disegno, quando il sig. Volpotto, quello stesso che aveva mandato a nome di D. Bosco la supplica all'Alta Camera, venne lo stesso giorno ad avvertirlo del pericolo che gli sovrastava, perchè si allontanasse. D. Bosco chiamata allora sua madre, le disse di preparare per quella sera la cena. - Oh, bella! osservò Margherita; - perchè mi dai quest'ordine? Perchè temi che io non la prepari? Perchè qualunque cosa accada, soggiunse D. Bosco, state certa che io non partirò da Torino.
Verso le 4 di sera, secondo l'avviso, doveva giungere all'Oratorio la folla tumultuante; ma nessuno comparve; neppure il giorno seguente, neppure il terzo. Che cosa era accaduto? La plebaglia, dopo avere schiamazzato contro gli Oblati di Maria, aveva fatto conto di recarsi in Valdocco. La fiumana già stava per versarsi a questa volta, quando uno dei dimostranti, che conosceva D. Bosco e ne aveva avute prove di benevolenza, salito sopra un paracarro, alzò la voce e disse: - Amici, uditemi. Alcuni di voi vorrebbero calare in Valdocco per gridare anche contro D. Bosco. Ascoltate il mio consiglio, e non andate. Essendo giorno di lavoro, colà non vi è che lui, la sua vecchia madre, e alcuni poveri giovani ricoverati. Invece di morte, noi dovremmo gridare evviva, perchè D. Bosco ama e aiuta i figli del popolo.
Un altro oratore ascese dopo il primo e gridò: - D. Bosco non è un amico dell'Austria! È un filantropo! È l'uomo del popolo! Lasciamolo in pace! Non andiamo a gridare nè viva, nè morte, e rechiamoci altrove. - Queste parole calmarono e fermarono la masnada, che andò ad assordare le orecchie ai Domenicani ed ai Barnabiti.
Intanto una dispiacente e non prevista sorpresa toccava a D. Bosco. Il Governo, che erasi impadronito anche del mobiglio [100] trovato nel convento dei Serviti, ne mandò una parte all'Oratorio di Valdocco. Alcuni avrebbero voluto che Don Bosco ricusasse questo mobiglio. Invece D. Bosco lo accettò, ma senza ringraziamenti, e tosto avvertì il Padre Pittavino a Saluzzo di mandar a ritirare ciò che era di loro proprietà: solo pregavalo di cedergli una tavola, di cui abbisognava per i suoi giovani; cosa che volentieri gli fu donata. I RR. PP. Serviti in tal modo ricuperarono il proprio, e D. Bosco senza ledere la giustizia, evitò un urto col Governo che gli avrebbe potuto recare grave danno. Questo fatto fu narrato al Can. Anfossi dal Rev. P. Francesco Faccio dell'Ordine dei Servi di Maria, già Curato di S. Carlo.
Ma nel succedersi di questi avvenimenti gloriosi per il clero, avendo insegnato Gesù essere beato chi soffre per la giustizia, grave sfregio riceveva l'ordine sacerdotale dalla condanna dì D. Antonio Grignaschi. Era costui nativo di Corconio, sulla riviera di S. Giulio presso Orta, diocesi di Novara. Ordinato sacerdote, ottenne la Rettoria di Cimamulera fin dal 1843. Aveva preso, con sacrilego inganno, ad insinuare esser egli Dio che operava la sua terza manifestazione, lo stesso Gesù Cristo in persona nuovamente incarnato. Egli dicevasi disceso in terra per fondare una nuova chiesa, che doveva sostituirsi al Cattolicismo, e quindi predicava massime contrarie alla vera fede. Operava eziandio cose meravigliose e strane da non potersi attribuire che ad intervento diabolico, ma che i suoi ammiratori dicevano essere miracoli divini. Di una donna da lui sedotta, di nome Lana, egli affermava essere la Vergine Maria. La briffalda prestavasi a rappresentare questa commedia; affettava vesti e portamento che nel suo concetto erano proprii della Madonna; e D. Grignaschi la faceva ascendere in mezzo alla chiesa sovra un banco, avendo innanzi candele accese, come se fosse una statua. [101] Le donnicciuole aggregate alla nuova sétta andavano ad inginocchiarsi dinanzi a lei ed a pregarla.
Un ecclesiastico, mandato dalla Curia entrò in chiesa e vide l'empia venerazione prestata a quella lurida persona; ma nulla disse per non destare tumulti, e passato in sagrestia, chiese allo scaccino:
- Nessuna festa occorre in questo tempo.
- Ma che titolo ha quella statua della Madonna che è in chiesa?
- Ah, soggiunse il sagrestano alzando le spalle; è la Madonna rossa?
- Sì, la Madonna di D. Grignaschi.
Conosciute queste giunterie sacrileghe, il Vescovo di Novara rimosse il Grignaschi dalla parrocchia e lo sospese dal ministero sacerdotale. Questi, venuto a Torino, si recò all'Oratorio ed espose le sue dottrine a D. Bosco, il quale, inorridito, cercò con ragioni e promesse di ritrarlo dalla mala via. Ma non vi riuscì, e il Grignaschi dopo aver vagato per varii luoghi anche del Casalese, finalmente si stabiliva in una borgata vicino a Viarigi, piccola terra dall'Astigiano, conducendo con sè la Madonna rossa, che era la serva. Qui fu il teatro principale delle sue geste tutt'altro che gloriose. Ingannati con nuove arti di prestigi spiritici, e l'amministratore parrocchiale e i preti del vicinato, colle sue eresie dementava e pervertiva gran parte di quella popolazione. Grignaschi abusava scelleratamente dei sacramenti, appariva nelle case a porte chiuse, indovinava i pensieri più nascosti, fingeva ordini venuti dal cielo e commetteva azioni nefande. La gente pareva ipnotizzata. Quando era lontano, si vedevano partire a piedi uomini ed anche giovani e fare 18, 20 e più miglia [102] dì stentato cammino e digiuni, solamente per vederlo e udire una sua parola, Riceveva seduto i suoi adepti, i quali si inginocchiavano alla sua presenza, ed esso li assolveva colle seguenti parole: Ego Dominus Jesus Christus te absolvo a peccatis tuis in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen. Disseminava le sue empie dottrine col mezzo di persone da lui ingannate e indotte a fingere santità e virtù, per l'iniquo scopo di essere dichiarato per un uomo del tutto straordinario ed un altro Salvatore.
Il suo sguardo aveva un non so che da ammaliare e trascinare le anime. Di ciò si parlava molto dalla gente. Il signor B... si burlava di ciò che dicevasi su questo sguardo magico e volle far visita a Grignaschi. Entrato in quella casa venne subito preso da misterioso orrore, e quando fu alla presenza di quel disgraziato, costui gli fissò gli occhi in volto di maniera che restò conquiso; e al suono della sua voce: - Ti aspettava; lo sapevo che dovevi venire: - cadde in ginocchio. Da quell'istante fu tutto suo. Gli fece credere che desso B ... era S. Paolo, mentre un altro suo amico era S. Pietro. B ... credeva realmente d'essere S. Paolo e si lasciò crescere la barba e si prestò obbedientissimo col compagno a quanto voleva Grignaschi: preghiere, lunghe penitenze, andare nelle osterie, mettersi in ginocchio tra le mense, pregar la gente a non voler offendere il Signore con bestemmie, intemperanze, giuochi; e altre simili cose che avrebbero certamente sdegnato di, fare se loro fossero state comandate prima di essere infatuati a quel modo. Come essi, erano tutti gli altri abitanti, fatte pochissime o forse nessuna eccezione. B… stesso raccontando la cosa a noi non sapeva darsi ragione di quella ossessione. Ed era persona ricca, di senno, di carità e abbastanza istrutta.
Fu debitore della sua conversione alle prediche di D. Bosco. [103] Intanto le turpitudini della sétta giunsero al punto che, essendo notorie, il Procuratore del Re fece mettere in prigione il Grignaschi con tredici dei principali suoi complici, fra i quali la Madonna rossa, e li fece trarre innanzi ai Magistrati d'Appello in Casale. Dello scandaloso processo sono pieni i giornali di quell'anno.
Il 15 luglio 1850, non ostante la difesa dell'avvocato Angelo Brofferio, il Grignaschi fu condannato alla reclusione e a' suoi affigliati vennero inflitte altre pene. La cattura del Grignaschi aveva posto in sommovimento il comune di Viarigi, perchè la maggioranza degli abitanti era fanatica per la nuova sétta; sicchè il Governo, perchè l'ordine non venisse turbato, vi stabilì un presidio militare. Ma l'uso della forza non bastando a richiamarvi la calma, i Vescovi di Casale e di Asti vi si condussero a dir parole di carità e di pace. Poi vi rimase solo Mons. Artico, e con una predicazione di cinquanta giorni, con generosi soccorsi ai poveri e visite agli ammalati, fe' cessare i contrasti e gli scandali, ricevette le abiure di molti e ottenne l'allontanamento del presidio militare. Ritornava così la tranquillità; ma non pochi di que' settari si ostinavano sui loro errori.
D. Grignaschi intanto era stato condotto nel Castello d'Ivrea a scontarvi per sette anni il suo falso e sconcio misticismo Egli come uomo, diremmo, ossesso dal demonio perfidiava nel mostrarsi convinto di una missione divina; ma ben pesante doveva riuscirgli la solitudine di quel carcere. D. Bosco però pensava a lui, e, come ci raccontava il teologo Savio Ascanio, egli, che andava due o tre volte all'anno ad Ivrea, si affrettò a recarsi in quelle prigioni. Più volte potè parlare all'infelice eresiarca e seppe insinuarsi siffattamente nel suo cuore, da persuaderlo del male che aveva recato a se stesso e agli altri co' suoi gravissimi scandali; e finì con [104] ottenere da lui una promessa di mutar vita, cominciando coll'espiare i suoi falli mediante la rassegnazione cristiana. Vedendo che il condannato gradiva le sue visite, ritornava ad intrattenersi con lui, recandogli opportuni sussidii in danaro, ogniqualvolta andava in quella città per far la predica in duomo, gli esercizii spirituali ai chierici del Seminario, o per trattare col Vescovo delle Letture Cattoliche e degli affari riguardanti il bene della Chiesa.
IN QUESTI tempi il Conte Camillo di Cavour era tutto per l'Oratorio. Fa meraviglia il vedere come D. Bosco giungesse ad ottenere l'appoggio di illustri personaggi che pure avversavano la Chiesa. Costoro colle più belle e seducenti maniere, colle più larghe promesse di aiutarlo nelle sue pietose intraprese, colla proferta d'insigni onorificenze, colla accondiscendenza a molte sue domande, parve che potessero mettere a pericoloso cimento la sua pietà e fedeltà alla Santa Sede e ai principii religiosi. I suoi giovani erano stati scelti, a preferenza di quelli appartenenti ad opere pie riconosciute, per estrarre i numeri del giuoco del Regio Lotto, e due fra i più piccoli, indossando speciali distintivi, ogni quindici giorni per molti anni andarono a compiere questo ufficio. Una retribuzione era perciò pagata dal Governo all'Oratorio. D. Bosco però con eroica fortezza dimostravasi sempre sostenitore della causa di Dio, senza ombra di rispetto umano.
Tuttavia, come noi stessi tante volte abbiamo ammirato, egli seguiva in questi casi le norme dettate dall'Ecclesiastico: [106]
“Se un potente ti chiama a sè , tirati indietro; conciossiachè per questo appunto egli ti chiamerà e ti richiamerà. Non essere importuno per non essere cacciato via e non tenerti tanto indietro da essere dimenticato. Nol trattenere per parlare con lui come con un eguale e non ti fidare delle molte parole di lui: perocchè con farti parlar molto ti tenterà, e come per giuoco t'interrogherà per cavare da te i tuoi segreti. L'animo fiero di lui terrà conto di tue parole e non la guarderà a farti del male. Bada a te e sta molto attento a quello che ti senti dire; perchè tu cammini sull'orlo del tuo precipizio. Ma tali cose ascoltando quasi in sogno, risvegliati[6]”.
Il Conte Camillo adunque, profondo conoscitore degli uomini e delle passioni e che possedeva l'arte difficilissima di sapersene destramente giovare ai proprii intendimenti, veniva con una certa frequenza a visitare D. Bosco in Valdocco, e voleva che egli di quando in quando si recasse a pranzo o a colazione nel suo palazzo. Ne era testimonio, Tomatis Carlo. Dimostrava di provare un gran piacere nell'udirle a parlare degli Oratorii festivi, e lo interrogava de' suoi progetti e delle sue speranze nello sviluppo futuro dell'opera sua, mentre assicuravalo che gli avrebbe prestato ogni possibile aiuto. D. Bosco intrattenevalo con quei modi rispettosi che si convengono ad un inferiore, ora franco nelle sue risposte, ora circospetto; ma sempre con quell'amabilità che legava i cuori. Il Conte non cessò di mostrarsi benevolo quando successe al Santarosa nel Ministero del commercio, e quando divenne Presidente del Gabinetto e l'anima del [107] Governo. “Il Conte Camillo, narravaci poi D. Bosco, il quale in Piemonte fu uno dei Capi dirigenti le sétte e che fece un male immenso, mi teneva come uno de' suoi amici. Più volte mi consigliò a far erigere in ente morale l'Opera degli Oratorii. Un giorno, animandomi a seguire il suo avviso, mi prometteva nientemeno che un milione per l'incremento della mia opera. Io non sapendo che cosa pensare di simile offerta e che cosa rispondere all'offerente, mi rimasi silenzioso, sorridendo fra me, ed egli riprese - Dunque che risolve? - Ed io risposi con garbo di essere dolente di non poter accettare così bel dono. - E perchè ? replicò il Conte guardandomi con meraviglia. Perchè rifiutare una somma così cospicua, mentre lei ha bisogno di, tutto e di tutti? - Perchè , Signor Ministro, osservai tranquillo, se io accettassi, domani mi sarebbe tolto, e forse lei stesso mi riprenderebbe quel milione, che oggi mi offre con tanta generosità. - Il Conte, a questo schietto parlare, non si risentì e mutò discorso”. Ma non sembra che D. Bosco leggesse l'avvenire di un uomo che avrebbe promossa la soppressione degli Ordini Religiosi, l'incameramento del patrimonio della Chiesa? Ed eziandio non è ammirabile la sua franchezza nel dire la verità? E in queste offerte di sussidii, più volte ripetute, anche per parte del. Governo, è possibile supporre che Cavour non avesse un fine nascosto? supporre che non avesse un disegno premeditato?
Ci narrò eziandio lo stesso D. Bosco: “Io non ero troppo facile ad assidermi alla mensa del Conte, non ostante i suoi premurosi inviti; ma siccome talora avevo da trattare con lui di affari importanti, bisognava che mi recassi al suo palazzo o a quello del Ministero. Ma più volte, e già egli era Ministro, mi disse risolutamente di non volermi dare udienza se non nell'ora del pranzo o della colazione, e che [108] avendo io bisogno di qualche favore da lui, mi ricordassi che alla sua mensa vi era sempre un posto per me. - Sono questi i momenti, ei mi faceva osservare, nei quali abbiamo campo di parlar con maggior libertà. Negli ufficii vi è troppa folla, e possiamo appena dirci due parole in fretta, quasi di mala grazia, e poi dividerci subito. - Ed eziandio il Marchese Gustavo suo fratello, aveva stabilito le stesse ore, e non voleva altrimenti, per conversare de' miei negozii. Ed io dovetti acconciarmi a così cortese, ma per me pesante condizione. Tanto più che un giorno, essendomi presentato per motivi urgenti all'ufficio del Conte, questi rifiutò di ricevermi, ed ordinò ad un servo di condurmi in un salotto. Quivi mi invitò ad attenderlo, perchè assolutamente voleva che io pranzassi con lui, promettendo che mi avrebbe ascoltato. Allora mi concedeva quanto io domandava”.
Noi abbiamo più volte pensato qual cosa d'importanza potè D. Bosco chiedere al Conte Camillo. Pare che presso di lui abbia patrocinata la causa degli Oblati; è poi certo che per suo mezzo ottenne locali dal Governo per la prima lotteria e condono di tassa postale; d'altro non ci consta. Non sembra che si trattasse di largizioni poichè non ne abbiamo trovato cenno nelle carte di D. Bosco ed egli non ne parlò mai; non di protezione contro qualche sopruso, poichè allora le autorità si dimostravano favorevoli all'Oratorio. Ora, siccome D. Bosco non aggiunse alcuna spiegazione sulle accennate concessioni ci pare di poter arguire esservi state domande e accondiscendenze custodite da un promesso e mantenuto segreto. Tanto più che sappiamo con certezza che gravissimi affari furono da lui ordinati a questo modo con altri personaggi. Quindi noi ci domandiamo: E D. Bosco nulla avrà tentato per alleviare in qualche modo la prigionia del suo Arcivescovo? Egli di quando in quando recavasi a Fenestrelle presso il Curato [109] D. Guigas Giambattista, suo amico, ed ivi predicava. È un fatto, stando alle attestazioni di antichi allievi, che anche nel 1850 vi andò. I nostri appunti, presi sono ormai sette lustri, non hanno data del giorno e del mese. Tuttavia, esaminando dove D. Bosco abbia dimorato in quest'anno, da quali luoghi abbia spedito sue lettere, siamo rimasti persuasi che tale gita potè aver luogo solamente o negli ultimi giorni di agosto o nei primi di settembre.
Interrogato molti anni dopo perchè si fosse recato a Fenestrelle in quell'anno, senz'altro rispose: - Desiderava di vedere quelle cime di monte ove accadde la battaglia dell'Assietta, perchè andava ideando di scrivere una storia d'Italia. Fin d'allora ci parve un po' strana questa passeggiata di semplice divertimento, perchè cosa contraria alle abitudini di D. Bosco, specialmente in tempi nei quali era tanto oppresso dalle occupazioni; così pure strana la ragione che adduceva, poichè solo nel 1856 usciva alla luce la Storia d'Italia. Tuttavia allora non abbiamo pensato ad investigare di più, essendo senza sospetti, che ci potesse essere un mistero. Ma ora, riflettendo che dentro a quelle nere mura della fortezza stava rinchiuso il suo Arcivescovo, che egli era in attinenza colla famiglia del comandante del forte, Alfonso de Sonnaz, non potrebbe aver relazione questa sua gita con quelle parole: Allora Cavour mi concedeva quanto io domandava? Non avrà cercato di giungere, fino al carcere del suo Pastore, oppure a voce o per iscritto per mezzo di qualche fidato fargli pervenire qualche desiderata notizia? Potrà essere questa una nostra supposizione, ma è certo però che D, Bosco un giorno ci asseriva: Nessuno saprà mai gran parte delle cose che ho fatte in vita mia!
Intanto in quei giorni, per ordine di Massimo d'Azeglio, Mons. Fransoni, senza prove di reità, senza processo, era [110] stato spogliato dei beni della sua mensa e condannato al bando dal Regno. Quindi il 28 settembre venne estratto dalla fortezza e attraverso le alpi condotto ai confini. L'illustre campione della Chiesa sceglieva per luogo del suo esiglio la città di Lione, dove le Autorità civili e militari, ecclesiastici e laici andarono a gara per onorarlo. Qui a lui fu presentato il magnifico bastone pastorale, dono dei subalpini. Da Lione egli continuò a governare la sua Archidiocesi, nel miglior modo che poteva, sino alla morte. I nemici di questo grande Arcivescovo, ne inventarono di ogni sorta per denigrarne la fama, e lo additarono financo quale cospiratore contro il Governo del Re; ma inutili sforzi. Il Papa, i Vescovi del Piemonte, della Savoia, della Liguria e di altre parti, i cattolici, direi, di tutto il mondo, ne lodarono la condotta e gli offersero, eziandio con ricchi doni, attestato di alta ammirazione. La veridica storia poi ha già messo in chiara luce tutta la sua innocenza, e mentre avrà sempre una pagina gloriosa alla sua imperitura memoria, non lascerà d'infliggere un marchio d'infamia indelebile a' suoi persecutori.
Mons. Fransoni anche lontano non lasciò mai di proteggere l'Oratorio e di favorirlo in tutti i modi, e di raccomandare a D. Bosco la necessità di provvedere alla continuazione della sua opera pel caso della sua morte Anche a mezzo del Teol. Borel e del Teol. Roberto Murialdo, andati a Lione, gli fe' ripetere un simile ammonimento. E D. Bosco da parte sua a lui sempre ricorreva per avere consiglio. Anzi il Can. Prof. Anfossi assicura come cosa certa che D. Bosco non molto tempo dopo si recò a visitare in Lione il suo Arcivescovo, dimostrando schiettezza d'animo anche a fronte di coloro che lo avevano esigliato.
Finiremo con dire che le amichevoli attinenze col Ministro Cavour cessarono nel 1855, quando furono soppresse [111] molte case religiose. Il Conte però non dichiarossi mai ostile a D.Bosco. La Divina Provvidenza quasi scherzando avevagli a tempo messi al fianco due cordiali ammiratori dell’Oratorio ed eccellenti cattolici. Il primo era il già nominato Avv. Giambattista Gal, il quale, caduto Gioberti dal potere, era stato scelto dal Conte Camillo per suo segretario particolare e fino al 1861 potè conoscere tutte le manovre segrete della politica. Addetto poi agli Affari esteri per ben 10 anni, chiesto il suo riposo al Governo nel 1870, veniva a visitare più volte all’anno il suo amico D. Bosco, ora da Torgnon valle d’Aosta sua patria e ora da S. Remo ove soleva svernare. Il secondo fu il Cav. Cuglia Delitala, che successe al Gal nell’ufficio di segretario particolare e vi rimase fino alla morte di Cavour. Noi conserviamo le affettuose e belle poesie che Delitala presentava a D. Bosco nel giorno del suo onomastico. D. Bosco aveva amici dappertutto.
NEL SETTEMBRE D. Bosco condusse molti de' suoi giovani a passare una settimana di sacro ritiro nel piccolo Seminario di Giaveno, allora, per le vacanze, vuoto di allievi. Vi si recarono a piedi i giovani dell'Ospizio e un buon numero dei frequenti ai tre Oratorii, che poterono ottenere il permesso dei parenti o dei padroni. Guidati dall'ottimo Teol. Roberto Murialdo, facevano allegramente il viaggio, cantando lodi a Maria Santissima e canzoni morali imparate nell'Oratorio. Don Bosco partì in vettura, sia per andar a preparare il pranzo in Avigliana, sia per accompagnarne alcuni, che per indisposizione non potevano fare il viaggio a piedi. Giunti ad Avigliana, fecero tappa e con discreto pranzo ristorarono la vita sulla riva del delizioso lago. In quell'occasione ebbero la cara sorte di contrarre intima relazione col pio e caritatevole sacerdote D. Vittorio Alasonatti, il quale nutriva tanta stima per l'Oratorio e grande amore a D. Bosco. [113]
Per la spesa occorrente, pel vitto e simili, durante gli esercizi, D. Bosco aveva ottenuto dall'Opera di San Paolo un apposito sussidio, che fu una vera provvidenza. I predicatori furono il canonico Arduino, arciprete della Collegiata di Giaveno, uomo rinomatissimo per dottrina e zelo, il Teologo Giorda e D. Bosco; loro aiutante per le confessioni era il Teol. Roberto Murialdo, direttore dell'Oratorio dell'Angelo Custode. Affinchè il pio esercizio tornasse utile ad un maggior numero di anime, combinò che vi prendessero parte eziandio i giovani del paese; e il bene ottenutone fu grande per tutti.
D. Rua Michele, dopo tanti anni, narra ancora vivamente commosso la cura paterna che D. Bosco prendevasi di lui e di tutti gli altri, sopportando le fanciullesche vivacità di molti e ottenendo amorevolmente silenzio ed attenzione nei tempi designati.
Di questi esercizi così scriveva D. Bosco al Teol. Borel:
Spero far cosa grata a V. S. Car.ma il partecipare che i nostri esercizii sono ottimamente incominciati. Il numero inter totum ascende a cento trenta; a tavola siamo solo centocinque, gli altri intervengono di fuori per le sacre funzioni. I predicatori sono il Sig. Prevosto per la meditazione, il Teol. Giorda Juniore per l'istruzione; ambedue appagano compiutamente la mia aspettazione e quella dei figli.
Dalle quattro alle cinque è ricreazione, e oggi uscendo di cappella neppur uno volle approfittarne e tutti volevano andare alla camera di riflessione.
A questi giovani vorrei dare una memoria, e per questo lascio a Lei a provvedermi quello che stima, medaglie, croci, ecc. Mi dimenticavo di dirle che nella mia camera [114] all'Oratorio sotto al Burò (Barracon) ci sono corone comperate tempo fa; chi sa che non vada bene il darne una ciascuno? Faccia dunque così: vada a casa mia, prenda le corone in numero di centotrenta; vicino a queste ci sono dei Giovane Provveduto legati in oro, me ne mandi una dozzina; di tutto facendo un pacco solo, lo consegni alla vettura di Giaveno, che parte ogni giorno alle quattro da Torino dall'Albergo della Fucina, e partecipi anche a mia madre che io sto notevolmente meglio; il Teol. Murialdo è un po' rauco, Savio ha le febbri, il portinaio di Vanchiglia anche; gli altri stanno tutti bene. Preghi affinchè tutto vada bene. Saluti D. Pacchiotti, D. Bosio e gli altri nostri preti dell'Oratorio.
Non ho più tempo a scrivere: partecipi il contenuto di questo foglio al Sig. D. Cafasso. Il Signore l'accompagni: Dominus det.
P. S. Fu dimenticato un piccolo fagotto in cucina, unito ad un involto di carta, che prego di unire a quanto sopra.
In questa lettera si ricorda la ricreazione. D. Bosco s'intratteneva sovente coi suoi esercitandi, i quali dopo pranzo e dopo cena andavano tutti intorno a lui. Scrisse Brosio Giuseppe: “Egli aveva sempre qualche fatterello ameno da raccontare, qualche nuovo scherzo per rallegrarli. Ei non prendeva tabacco, e impediva che i suoi alunni ne prendessero; ma uno dei primi giorni trasse fuori dalla saccoccia una grossa scatola ricolma di questo. Tutti i giovani gli furono ai panni domandandone [115] un pizzico, e D. Bosco rispose: - Sì, volentieri quando vi fosse necessità: quindi ne darò a tutti quelli che hanno la tabacchiera. - Tosto alcuni già anziani, fra i quali Gillardi Giovanni e Randù Giuseppe, presentarono la loro scatola poichè fiutavano tabacco o pel consiglio del medico avendo male agli occhi o al capo, oppure per antica abitudine. A costoro D. Bosco riempì le tabacchiere e loro provvide il tabacco per tutto il tempo che durarono gli esercizi. Attenzioni di simil fatta gli guadagnavano mirabilmente i cuori”.
Ma sovratutto in queste ricreazioni D. Bosco andava interrogando or l'uno or l'altro sopra il soggetto della predica e sui fatti più importanti. Una mattina egli aveva fatto l'istruzione intorno allo scandalo; perciò nella ricreazione del pomeriggio, trovandosi attorniato da molti giovanetti, tra cui varii della parrocchia, prese a domandare che cosa avesse detto. Interroga uno, e non gli risponde; chiede ad un altro, e si trova nell'impaccio; passa ad un terzo, ad un quarto, ad un quinto, e tutti si grattano la fronte senza dare una soddisfacente risposta. Oh! povero me, esclamò allora Don Bosco! O io ho parlato in tedesco, o voi avete dormito. Finalmente salta fuori un ragazzetto: - Io, io, gridò, mi ricordo. - Di che ti ricordi? - Mi ricordo dell'esempio delle scimmie.
Il racconto di D. Bosco, a mo' di similitudine, era stato questo.
Un mercante, portando sulle spalle, dentro un botteghino (in piemontese bóita), varie sue merci, viaggiava dall'uno all'altro paese per ispacciarle. Una volta tra le altre egli fu sorpreso dalla notte prima che arrivasse ad una certa città. Era d'estate; in cielo risplendeva la pallida luna, e il mercante, stanco del lungo cammino, risolse di prendere [116] riposo per terra presso ad un albero gigantesco. A ripararsi poi il capo dalla umidità della notte, egli, aperta la sua cassetta, ne cava una delle berrette bianche, di cui era fornito a dovizia, se la mette in testa e così si addormenta. Il paese era la patria delle scimmie, ed i rami di quella pianta n'erano coperti. Le bertuccie veduto quell'uomo colla berretta in capo, tratte dal loro istinto, lo vogliono imitare. Che fanno? Comincia una a scendere pian pianino a basso, rovista colle zampe nel botteghino aperto, ne trae una berretta, se l'acconcia in testa e risale sull'albero. Allora tutte, l'una dietro l'altra, fanno altrettanto, e non cessa il giuoco finchè rimane una berretta. Il mercante dormiva saporitamente, e le scimmie per la prima volta dormirono anch'esse col berrettino in capo, siccome delicate signorine. Intanto la notte era trascorsa. Dall'oriente già sorgeva bella e rosseggiante la mattutina aurora, annunziatrice dell'astro del giorno, e il nostro mercante svegliatosi si alza per riprendere il suo cammino. Ma quale non fu la sua sorpresa ed il suo dolore, quando si accorse che gli erano state involate tutte le berrette! Povero me, gridò, vi furono i ladri; io sono rovinato. Ma osservando meglio e riflettendo più attentamente, eppure sembra di no, soggiunse; se fossero stati i ladri mi avrebbero rubato tutto e non solo le berrette; io non ne capisco nulla. In quell'istante egli solleva per caso gli occhi, e vede tutte le scimmie imberrettate. Ah! grida tosto, ecco le furfanti; e subito si mette ad impaurirle, lanciando sassi per costringerle a rilasciargli la sua merce; ma le scimmie saltando da un ramo all'altro non si davano per intese. Dopo parecchie ore d'inutili sforzi, il povero mercante, non sapendo ormai più quel che si facesse, si mette le mani nei capelli quasi per disperazione, e getta rabbiosamente a terra la berretta, che ancor teneva in capo. Visto quell'atto, le scimmie fanno egualmente, [117] e in un batter d'occhio una pioggia di berrette cade dall'albero a consolare l'addolorato mercante.
I giovanetti, aveva conchiuso D. Bosco, fanno presso a poco come le scimmie. Se vedono altri a fare il bene, il fanno pur essi; se il male, lo imitano ancor più presto. Di qui la grande necessità di mettere sotto ai loro occhi degli esempi edificanti, e allontanarli le mille miglia dagli scandali.
Dal vedere poi che tra tante cose, che dette aveva nella sua predica, i giovani a mala pena ricordavano certi fatti, D. Bosco si fece un grande impegno di tessere le sue istruzioni di frequenti esempi e similitudini, che meglio colpissero la loro immaginazione, e per questo mezzo farsi strada ad illuminare la mente e muovere il cuore; e la cosa riuscì con felicissimo esito.
Egli infatti predicava e infiammava le sue narrazioni con tanto affetto per la salute delle anime, che un giorno si commosse al punto da scoppiare in forti singhiozzi, e disceso dal pulpito disse al chierico Savio Ascanio in modo umile e quasi mortificato: Non ho potuto contenermi. - Ma negli ascoltatori commossi produsse un effetto indicibile.
Toccò a lui far la chiusa di questo ritiro spirituale e diede il seguente ricordo: - Fate ogni mese l'esercizio di buona morte. Fate bene ogni mese l'esercizio di buona morte. Fate infallantemente e bene ogni mese l'esercizio di buona morte. - D. Rua che ne tenne memoria.
In premio della loro docilità, ed a sollievo dell'animo, l'indomani della chiusa dei santi esercizi D. Bosco condusse i suoi allievi a fare una passeggiata sino alla Sacra di San Michele. La banda musicale di Giaveno li volle accompagnare per rallegrarli colle dolci sue armonie. Il tragitto per l'erta salita fu un divertimento dei più deliziosi.
Il loro capitano cavalcava un piccolo giumento, e i [118] giovani gli facevano corona, ora scherzando col somarello, ora ripetendo la canzone, allora famigliarissima, che incomincia:
D. Bosco invece, facendo una variante al primo verso, cantava: Viva Roberto, rivolgendo il resto della lode al Teol. Murialdo, compagno di viaggio. Di tratto in tratto poi si faceva una breve fermata; i musici davano fiato alle trombe, e le armoniose note, battendo dall'una all'altra cima, echeggiavano maestosamente nelle sottostanti vallate. A quell'insolito rumore gli uccelli atterriti svolazzavano da un albero all'altro; i contadini uscivano dai loro abituri per ascoltare; e l'asinello rizzava le orecchie, e col suo scomposto raglio si provava d'accordarsi colla banda; erano scene di un piacere indicibile. Giunti alla sospirata meta, vi furono accolti con amorevole trasporto dai cortesi Padri Rosminiani, che amministravano religiosamente quel celebre santuario. A questi era stretto D. Bosco con grande amicizia, e quando erano in viaggio, non avendo essi casa in Torino, venivano ospitati in Valdocco. I giovani visitarono poscia la chiesa, lo stabilimento e le sue vetuste memorie; ne udirono da D. Bosco la storia, riportandone cognizioni utilissime.
D. Bosco in qualsivoglia paese andasse co' suoi giovani, soleva raccontare l'istoria dei luogo e di qualche fatto memorabile ivi accaduto. Perciò disse loro: “Questo santuario di S. Michele della Chiusa detto comunemente La Sacra di S. Michele, perchè consacrato ad onore di quest'Arcangelo, è una delle più celebri Abbazie dei Benedettini in Piemonte. [119]
Da semplice romitaggio che era verso l'anno 990, fabbricato ad ispirazione di S. Michele da un certo Giovanni da Ravenna, uomo di santa vita, che s'era colà ritirato, fu mutato pochi anni dopo da Ugone di Montboisier detto lo Scucito, gentiluomo dell'Alvernia, in maestosa chiesa di stile gotico, con un grande Convento annesso per l'abitazione dei monaci. Ugone, che faceva costrurre a sue spese questo monastero, in penitenza dei suoi peccati, pel cui perdono aveva fatto il pellegrinaggio di Roma, lasciò l'incarico dei lavori ad Atverto o Avverto, Abbate di Lusathe in Francia; il quale, terminata la costruzione dell'edificio, chiamò ad abitarlo i monaci Benedettini, che elessero Atverto stesso per loro primo Abbate. Sparsasi in breve la fama di lor santità, venne il monastero ad annoverare fino a 300 monaci; e Papi e Vescovi, Re e Duchi si diedero a gara nel largheggiare in privilegi e donativi al medesimo. - Perdutasi però la primitiva regolar disciplina, fu nel 1383 eretto in Abbazia commendatizia sotto il protettorato dei Conti di Savoia, e durò tale sino all'invasione francese, sul principio di questo secolo, quando col resto fu anche soppressa la celebre Abbazia. Ristorato però ed abbellito dai danni del tempo per magnificenza dei nostri buoni sovrani Carlo Felice e Carlo Alberto, venne ceduto ai Padri Rosminiani, che oggi vi accolsero con tanta affezione e generosità. Fra questo monte sul quale ora siamo, detto Pircheriano, e l'altro monte detto Caprasio che vi sta di fronte, voi vedete là in fondo una valle larga poco più di mille passi. Quella forma la chiusa o gola di Susa, così detta perchè quasi chiude il passo agli eserciti, che per colà scendessero dalla Francia. È celebre nella storia questo passo per lo stratagemma di Carlo Magno, che per soccorrere il Pontefice di Roma, superata la Chiusa, prese alle spalle Desiderio re dei Longobardi, e sconfittolo, pose fine al loro regno in Italia”. [120]
Quantunque ai giovani non facesse dispiacere l'imparare cose fino allora ignorate, tuttavia verso il mezzogiorno un'altra curiosità ne preoccupava la mente. La passeggiata del mattino e l'aria finissima che spirava su quelle giogaie alpine, avevano suscitato dentro di loro un bisogno, a cui si dà il nome di appetito; anzi più che appetito, il loro si poteva dire vera fame. Laonde nella visita, passando da un luogo all'altro, non potevano trattenersi di volgere di quando in quando un'occhiata furtiva al refettorio, e tardava mille anni che venisse l'ora del pranzo. Questa giunse alla perfine, e quantunque non fossero tutti musici, mangiarono nondimeno tutti con appetito musicale.
Non avendo poi di che soddisfare i caritatevoli ospiti, li retribuirono cantando e sonando. Quindi, se i figli di D. Bosco goderono in quel giorno, assai più si mostrarono lieti i buoni Padri, che fattisi in mezzo a loro li menavano qua e colà a visitare i contorni, ed altre rarità pur degne di particolar attenzione. Passate alcune ore di nuovi divertimenti, si raccolsero tutti appiè dell'altare, e cantate le litanie, s'impartì la benedizione col. SS. Sacramento.
Invocata così la protezione del Cielo, si fece ancora una sonata, si diede un cordiale saluto ai vigili custodi del rinomato Santuario, e verso le cinque pomeridiane, fattasi da quei buoni Padri una distribuzione di pagnotte coll'accompagnamento di eccellente frutta, pieni di riconoscenza, presero da loro commiato e cominciarono a discendere. Arrivati a S. Ambrogio, sito dove la via si divide in due, si fece una breve sosta. I musici sonarono un'allegra sinfonia, alla fine della quale quei di Torino gridarono Evviva ai Giavenesi, e questi ripeterono Evviva ai Torinesi, e coi segni della più affettuosa amicizia si separarono, quelli per ritornare a Giaveno, e questi a Torino per la via di Rivoli. Camminarono [121] tra lieti cantici, la recita di preghiere divote e il racconto di graziosi fatterelli, ora di D. Bosco, ora del Teol. Murialdo; il quale rifacendosi sui santi Esercizi lasciò loro per ricordo, che ogni giorno di loro vita recitassero un'Ave Maria, per ottenere la grazia che niuno di quelli che li avevano fatti, avesse da perdersi nell'inferno. - Che dolce piacere non sarà mai, loro diceva quel buon religioso, che gioia non sarà mai quando potremo fare tutti insieme le nostre belle passeggiate sugli eterni ed amenissimi colli del Paradiso!
Giunsero alla città di Rivoli a notte alquanto avanzata, la maggior parte stanchi da non poterne più. Rimanevano ancora a farsi 12 chilometri. A D. Bosco non resse il cuore di far proseguire la via sino a Torino in quello stato, e condottili ad un albergo cercò di quante vetture ed omnibus si poterono rinvenire, per farveli trasportare. Ma non si trovarono veicoli quanti bastassero, e quindi una ventina di giovani dovettero rassegnarsi e continuare il viaggio a piedi. Ma a questi D. Bosco pensò in altro modo, e dopo averli rallegrati con buone parole, chiamato a sè Brosio, il cosi detto Bersagliere, gli consegnò una somma di danaro, affinchè li facesse tutti ristorare con una buona cena; e così fu fatto. Tornò allora in mente il buon Gesù, che, vedute le turbe indebolite per averlo seguito sino nel deserto, esclamò da Padre amoroso: Ho compassione di questa gente: Misereor super turbas; e loro provvide, perchè non venissero meno per istrada.
Riposata alquanto e rifocillata, la retroguardia si rimise in via per alla volta di Torino. La notte era già molto inoltrata, e per bandire la paura dall'animo dei più timidi e per far parere meno lungo il loro tragitto, il Bersagliere usò uno stratagemma: diè di piglio a due pietre, invitò gli altri a far altrettanto, e tutti ad un tempo incominciarono a batterle insieme. In tal modo fu improvvisata una musica ed una luminaria [122] di nuovo conio, e tra quel martellare e scintillare di sassi giunsero all'Oratorio verso le undici di sera.
Il 21 settembre 1850 D. Bosco firmava e presentava in carta da bollo la nota dei nomi dì ben cento di questi esercitandi, alla direzione dell'Opera pia di S. Paolo, la quale pagò la spesa intiera dei loro esercizi. Una lista di altri nove nomi completava la precedente, cosicchè dai nostri archivii si può conoscere la maggior parte di quelli che andarono a Giaveno e la loro età[7]. [123]
Abbiamo voluto narrare distesamente la storia di questi Esercizi e di questa passeggiata, perchè nei giovani rimase impressa come una delle più grate rimembranze, e perchè meglio si conosca lo studio di D. Bosco nel far servire Iddio in una santa allegrezza.
Ad alcuni questa passeggiata diede eziandio argomento, delle singolari virtù di D. Bosco. Egli, per ottenere da Dio guarigioni ed altre grazie era solito a suggerire a coloro che a lui ricorrevano preghiere speciali e qualche volta anche voti. Il giovane Reviglio Felice aveva sopportate per più mesi febbri terzane, le quali lo avevano ridotto al punto che i medici lo dichiararono etico. D. Bosco lo aveva condotto a Giaveno, e nella confessione, come Reviglio stesso ci raccontò, gli suggerì di fare il voto di frequentare il Sacramento di penitenza ogni otto giorni per lo spazio di sei mesi. Nello stesso tempo consigliavagli alcune pie pratiche. Questo mezza fu più efficace di tutte le medicine che fino ad allora non avevano giovato, e in breve tempo il giovanetto fu rimesso in perfetta salute.
Un altro giovane sui ventisette anni, uno fra i più vecchi che frequentavano allora l'Oratorio, che faceva gli esercizi, del quale è meglio tacere il nome, entra in sagrestia mentre [124] D. Bosco era pronto per andare a celebrare la S. Messa. Brosio Giuseppe teneva già il messale per servirla e quel giovane villanamente glielo strappa di mano e difilato si avvia. D. Bosco, che fu sempre l'uomo del perdono, vedendo Brosio così ingiuriato, gli fece subito cenno coll'occhio di cedere e tranquillarsi. Ma dopo la messa, presolo a parte gli disse: - Brosio, hai fatto una bella azione a cedere. Vedrai a suo tempo chi è questo giovane! - E purtroppo D. Bosco indovinava.
Infatti dopo qualche tempo questi vendevasi ai protestanti, disertava dall'Oratorio e primeggiava fra gli schiamazzatori e bestemmiatori della Giardiniera. Più volte compariva minaccioso nei pressi dell'Oratorio per spaventare i giovani e così indurli a star lontani da D. Bosco; ma questi aveva già detto qualche cosa a Brosio riguardo alla condotta di quel miserabile, e perciò il Bersagliere lo sorvegliava. Un giorno si presentò al cancello di entrata del cortile, armato di un lungo stiletto, pronto ad adoperarlo se qualcuno avesse tentato di respingerlo. Un fanciullo corse subito ad avvertire il Bersagliere, mentre gli altri compagni pieni di spavento erano fuggiti all'estremità opposta. Brosio si avvicinò a lui, pregandolo a ritirarsi, prima amorevolmente e poi con alquanta risolutezza; ma vedendo che nulla poteva guadagnare, perchè quell'accattabrighe ubbriaco cercava pretesti per venire a colluttazione, si ritirò, osservandolo a rispettosa distanza. Ma quel furioso non tardò a cadere nelle mani della giustizia, e D. Bosco chiamato a deporre contro di lui, gli ottenne il perdono e il condono della pena, e solo si raccomandò al tribunale che volesse tutelare la sua persona, e l'Oratorio: il che venne eseguito coll'allontanamento di quel soggetto, riconosciuto pericoloso, dalla città di Torino. Ciò seppe D. Rua da chi aveva accompagnato D. Bosco al tribunale.
NEI MESI precedenti D. Bosco non aveva perduto di mira le proposte fatte all'Abate Rosmini. Perciò il 20 giugno, con atto rogato Turvano, faceva acquisto dal Seminario di Torino di una giornata di terreno (38 are), coltivato a orto e di forma triangolare, per il prezzo, di lire 7.500. È quel sito medesimo, dove dopo altre rivendite e compere, sorgono oggidì la Chiesa di Maria Ausiliatrice e i laboratorii della tipografia coll'annesso cortile.
Il Padre Gilardi Carlo aveva intanto scritto da Stresa a D. Bosco, accondiscendere volentieri l'Abate Rosmini alla sua domanda di dargli una somma ad imprestito. D. Bosco così rispondevagli:
Con grande soddisfazione ho ricevuto la compitissima lettera di V. S. Ill.ma esprimente i sentimenti del Rev.mo Sig. Abate Rosmini, e mi tornò tanto più di gradimento, perchè l'offerta superò l'aspettazione mia. [126] Accetto pertanto l'imprestito di ventimila franchi da impiegarsi nell'edifizio già da noi nominato, dandone assicurazione ipotecaria e riserbandoci a tempi migliori il venire a determinazioni analoghe ai tempi, ai luoghi ed alle persone. Siccome però presentemente sono assai aggravato dai fitti, così chiederei solo mi venisse condonato l'interesse per tre anni, finchè andando al possesso del nuovo Oratorio resti scaricato in parte del fitto presente. Questo dico soltanto per convenienza, non come condizione di contratto, giacchè io gradisco la proposta anche senza ulteriori vantaggi.
Per intenderci adeguatamente, scorgendo necessaria la presenza di ambe le parti, aspetterò solamente che sia terminato il disegno già incominciato della nuova fabbrica per portarlo personalmente costà ed avere cosi i savi pareri del Chiar.mo Sig. Abate Rosmini.
Faccia gradire i sentimenti della più viva gratitudine al veneratissimo suo Superiore e nella speranza che quel Signore il quale dispose venissero cominciate le nostre trattative, le voglia compiere a sua maggior gloria e a vantaggio spirituale delle anime nostre e altrui, mi reputo ad onore il potermi dichiarare
Il Padre Gilardi, come procuratore de' Rosminiani, così rispondeva al Direttore del pio Ricovero in Valdocco: [127] Stresa, 26 luglio 1850.
Premesse le debite scuse per avere sin qui tardato a rispondere alla gentilissima sua del 13 corrente, il mio Rev.mo P. D. Antonio Rosmini non potrebbe nè meno nei primi tre anni privarsi del frutto del capitale inteso; potrebbe però accordarle di dilazionarne oltre ai tre anni il reale versamento dietro dei vaglia, o pagherò, come li chiama, ch'Ella gli farebbe intanto.
Il Rev.mo Sud. con molto piacere ha inteso la sua determinazione di venir presto a vederci e desidera che troppo non indugi, anche per questo che la pecunia sarebbe quasi tutta pronta da mettersi quandochessia a di Lei disposizione ecc. ecc.
Temo che il mio ritardo a recarmi a Stresa cagioni qualche incertezza riguardo alla nostra intelligenza; perciò reputo bene lo scrivere a V. S. Car.ma e significarle che l'unico motivo di questo mio ritardo si è l'aspettazione del piano e del disegno della casa da fabbricarsi. Il Sig. Bocca mi ha assicurato che nella corrente settimana finisce il desiderato lavoro, sicchè nella ventura prossima spero di potermi recare a Stresa. Però, dovendo il 9 settembre essere impegnato per una muta di Spirituali Esercizii, ne avverrà che se non vado nella prossima settimana, non ci potrò fino al 16 del venturo settembre. [128] Egli è questo il motivo per cui non ho potuto effettuare la mia gita a Stresa, come desiderava. Onde La prego a farmi scusato presso il Rev.mo Sig. Abate Rosmini e di accertarlo che sono tuttora nella medesima determinazione.
Mentre, coi sentimenti della massima venerazione, mi reputo a grande onore il potermi dire di tutto cuore in Domino
Il 16 settembre adunque del 1850 D. Bosco partiva da Torino per Stresa. Andava per intendersi intorno ad affari ed a costruzioni; ma nello stesso tempo voleva osservare meglio il regolamento e il metodo disciplinare di quella casa, che era la principale della Congregazione dei preti della carità, ed il noviziato.
Giunto a Santhià verso mezzanotte confessava il conducente della diligenza; quindi, toccata Vercelli e Novara, scendeva ad Arona. Aveva fatto disegno di recarsi a Stresa sul battello. All'ufficio della diligenza però trovava il Marchese Arconati, suo amico e benefattore dell'Oratorio, il quale gli propose di lasciare la via per acqua e di salire sulla propria carrozza, poichè egli lo avrebbe accompagnato. Con ciò sperava che il viaggio riuscirebbe meno penoso per D. Bosco. In questa stessa occasione il Marchese proponeva una visita ad Alessandro Manzoni. D. Bosco accettò il cordiale invito. Attaccati i cavalli in breve tempo giunsero a Lesa, ove in quella stagione dimorava Manzoni in villeggiatura. Furono accolti con ogni cortesia, ed ivi D. Bosco fece il dejuné col grande scrittore, che aveva seco alcuni parenti, e che gli [129] fece vedere i suoi manoscritti tutti scarabocchiati per le tante correzioni. D. Bosco col Manzoni non ebbe altro contatto in sua vita che la fermata di quelle poche ore; ma tanto gli bastava perchè sempre più si persuadesse la semplicità nello scrivere essere frutto di lunghi studii.
Ripartito col Marchese, fu condotto a Stresa, ove venne accolto con mille feste dall'Abate Rosmini e da' suoi religiosi, che si compromettevano di averlo poi sempre per confratello. Quivi dimorò soli cinque o sei giorni ed ebbe lunghi trattenimenti coll'Abate. Si parlò eziandio dei beni Ecclesiastici, avidamente insidiati. Vedevasi chiaramente che le antiche forme degli Ordini religiosi non potevano più sussistere di fronte alle usurpazioni che i Governi minacciavano alle loro proprietà collettive. Bisognava adunque trovar modo di assicurare l'esistenza di una società in maniera che un Governo si trovasse di fronte al diritto comune dei singoli cittadini e nel tempo stesso che durasse il sacro legame dei voti. Don Bosco aveva sciolto il problema nella sua mente, ma l'Abate Rosmini era stato fra i primi a conciliare nelle regole della sua Istituzione il voto di povertà col possesso personale. Esso presentò adunque a D. Bosco le Costituzioni dei Preti della Carità, narrandone la storia, le ragioni, e l'approvazione ottenuta da Roma. Egli aveva stabilito che ogni membro mantenesse il dominio de' suoi beni al cospetto della autorità civile, ma non potesse alienarli, o disporne in altro modo senza il consenso del superiore; e così mentre il voto di povertà rimaneva essenzialmente salvo, si evitavano i pericoli della proprietà collettiva. La cosa pareva in sul principio così nuova, che la Congregazione romana, a cui era raccomandato l'esame delle costituzioni, aveva mosse gravi difficoltà. Ma avendo egli fatto osservare, l'essenza della virtù stare nell'anima e non nelle cose di fuori, e la povertà religiosa [130] consistere nel distacco da ogni affetto alle ricchezze e nella pronta disposizione di privarsene, e professare la povertà effettiva, quelle ottennero approvazione. - E concludeva: - La nostra Congregazione non sarà mai soppressa, perchè non vi è nulla da guadagnare!
A Stresa accadde un fatto degno di essere ricordato. Una ricca e colta signora, Anna Maria Bolongaro, aveva donato all'Abate Rosmini una villa delle meglio situate sulle sponde del Lago Maggiore, con annesso giardino e piccolo bosco. Siccome molti dotti venivano a visitarlo per conoscerlo di persona, per conferire con lui, per udire i suoi ammaestramenti, egli, per non cagionar disturbi nella casa di noviziato, aveva trasferito in quest'anno la sua dimora in quel palazzo. Quivi i suoi ospiti si raccoglievano a scientifiche disputazioni, e con agio maggiore vi erano albergati. Abitando D. Bosco nel Convento, Rosmini un giorno lo invitò a pranzo a casa di Donna Bolongaro, ed egli accondiscendendo si trovò in un convegno di scienziati e di filosofi di quel tempo, parte dei dintorni, parte venuti da lontano. I commensali erano circa trenta e fra questi Nicolò Tommaseo, il poeta e romanziere Grossi, il napoletano Roggero Bonghi, e il medico Carlo Luigi Farini di Russi; e altri che poi figurarono nelle rivoluzioni italiane. Farini aveva pubblicato la Storia dello Stato Romano, e parve moderato nei giudizii. D. Bosco aveva letto questo volume, ma non ne conosceva l'autore e molto meno sospettava che si trovasse presente al convegno.
A mensa ragionossi di argomenti politici e religiosi; ma i giudizii emessi dai commensali non erano molto retti. Da tutti si zoppicava verso il liberalismo nel vero senso odierno della parola; si criticavano le disposizioni della Corte romana, e si lodavano quei Governi d'Italia, che con atti illegittimi avevano posto ostacolo ai diritti della S. Sede. [131]
L'Abate Rosmini non mostrossi contrario a qualcuna di quelle osservazioni che riguardavano la politica, e D. Bosco avendo tutto il suo cuore attaccato alla S. Sede, ed al Papa in modo speciale, ne era grandemente disgustato; trovandosi però in casa altrui fra uomini in fama d'essere consumati negli studii, ascoltava senza proferir parola. Ad un certo punto si venne a parlare delle nuove relazioni della Chiesa collo Stato in Piemonte; si prendevano le difese dell'Opuscolo di Rosmini La Costituzione secondo la giustizia sociale, stampato nel 1848 e proibito dalla Sacra Congregazione dell'Indice; si parlava anche delle elezioni dei Vescovi da rimettersi ai comizii del clero e del popolo. Quelle discussioni si erano accese in modo che uscivano dai limiti del discorso tra vicino e vicino. D. Bosco stava come persona che non s'interessa di ragionamenti altrui. Rosmini a un tratto fa cenno ai convitati di parlare più sommessamente e poi di smettere, e sottovoce disse a Bonghi: - C'è Don Bosco! - Ma Bonghi con giovanile insolenza rispose a Rosmini, credendo che D. Bosco non l'udisse: - Non capisce nulla quell'imbecille! - D. Bosco simulò di non avere inteso quell'insulto; ma Rosmini, cui tali discorsi non garbavano, e che sapeva quanto valesse D. Bosco, era soprappensiero. Ed ecco in sul levar delle mense aggirarsi i discorsi sulla storia dello Stato Romano del Farini, che allora allora era stata data alla stampa. Rosmini avendo osservato come D. Bosco fosse rimasto taciturno in tutto il tempo del pranzo, lo invitò ad esporre anch'egli qualche sua idea. Don Bosco annuì volentieri, perchè la palla gli veniva al balzo. Senza acrimonia, ma con franchezza, in mezzo alla curiosità universale, osservò che la storia di Farini non era degna di gran lode e per certe inesattezze storiche e per il disonore che talora versava sopra il dominio temporale dei Papi; dimostrando [132] di conoscere a fondo gli scritti di Farini. Tutti i convitati si misero a ridere per quella critica inaspettata, approvando con arte quanto diceva, ed incitandolo a continuare le sue osservazioni. D. Bosco non sospettando di nulla, proseguiva. Quando si trattava dell'onore della Chiesa e del Papa non transigeva. Farini impassibile in volto, taceva; gli altri si prendevano un matto divertimento di quell'incidente. Finalmente pensate qual fu la sorpresa di D. Bosco allorchè gli fu detto: - Conosce lei il dottor Farini?
- Eccolo! ho l'onore di presentarglielo. - D. Bosco non si turbò; salutò cortesemente Farini, gli domandò scusa, dichiarando che non aveva intenzione di offendere alcuno; e mantenne il suo detto, continuando a fargli notare con bel garbo come fosse caduto in parecchi grossi errori nel capitolo dei Casi di Romagna. Tutti credevano che Farini se ne adontasse, andasse in collera e si difendesse; ma egli mostrò invece di gradire molto quella critica assennata, e ringraziò Don Bosco, dicendogli: - Si vede che lei è pratico e conosce bene la storia; mi piace la sua schiettezza: nessuno finora mi fece mai queste osservazioni.
Lo stesso Rosmini rimase stupito del coraggio di D. Bosco e quando fu solo con lui esclamò: - Io non mi sarei azzardato di dire a Farini tali cose. - Un altro aveva ammirato D. Bosco; Nicolò Tommaseo.
Sul finir di quella settimana D. Bosco ritornò a Torino sulla diligenza, poichè alla domenica voleva trovarsi in mezzo a' suoi giovani dell'Oratorio festivo.
Di qui sul finir di settembre prendeva le mosse per Castelnuovo. Non dimentichiamo le fatiche da lui sopportate in quest'anno, facendo scuola continuata di lingua latina ai quattro giovani Buzzetti, Gastini, Bellia, Reviglio. Ed ora li [133] conduceva con sè ai Becchi per la festa del S. Rosario, che doveva celebrarsi con speciale solennità per i favori spirituali chiesti e concessi dal Papa[8]; ed eziandio perchè avessero un po' di sollievo, veramente meritato con l'intensa applicazione allo studio, di cui abbiamo detto nel volume precedente. Con questi conduceva con sè varii altri suoi alunni.
Nei paesi pei quali transitava andando o ritornando dalla casa paterna, s'intratteneva colle persone che incontrava, e dopo aver con affabile interesse chieste notizie delle campagne [134] non ommetteva di insinuare nel discorso qualche richiamo spirituale: -Che bella cosa è il paradiso; ma non è fatto per i minchioni... e coraggio. - Altre volte diceva: - Che bella cosa quando vedremo Dio faccia a faccia. - Sovente si udiva ripetere: - Mandate i vostri figliuoli al catechismo ed ai Sacramenti? - Abbiate piena fiducia nella nostra buona madre Maria SS. - Fuggite il peccato se volete che Dio benedica i vostri campi e i vostri vigneti. - Il suo parlare era una predica continua, qualunque fosse l'affare che aveva tra le mani. A Buttigliera tutti ricordano ancora le parole dette da D. Bosco or all'uno ora all'altro in questa occasione.
Giunto ai Becchi non tardava a scrivere una lettera al Teol. Borel, sempre pronto a vegliare sull'Oratorio quando l'amico se ne allontanava.
All'occasione che Comba si porta a Torino per alcune commissioni, non stimo far cosa discara il darle alcune delle nostre nuove.
Da cinque giorni che son qui parmi aver molto acquistato in salute, però non con quella solita abbondanza degli [135] altri anni. Senescimus annis. Savio ha assolutamente congedato le febbri, Reviglio pare che vada pure migliorando, gli altri stanno bene, eccetto l'inquietudine di un continuo famelico appetito; ma c'è buona polenta.
Io mi occupo a correggere un compendio di Storia della Real Casa di Savoia che il Sig. Marietti vuole ristampare. Prima di partire abbiamo avuto poco tempo a parlarci, ma faccia da buon padre di famiglia per la sua e per la mia casa: se ha bisogno di danaro, vada da D. Cafasso e Le rimetterà quanto occorre.
Io scorgerei necessaria una passeggiata a Castelnuovo che farebbe bene a me ed a Lei; e se lo stima, fare una partita col Sig. T. Vola, Carpano, Murialdo (che mi esternò di venire molto volentieri da Moncalieri) ed anche D. Ponte. Stabilito il giorno per la partenza a buon'ora pel vapore, io spero di essere in grado di spedire una guida itineraria, che forse non lascerà loro toccare terreno di strada. O quam bonum et jucundum habitare fratres in unum!
Mi scriva molte cose di Lei, dell'Oratorio e del Refugio, e mentre prego il Signore che l'accompagni, La prego di salutare i soliti nostri amici dell'Oratorio e di credermi sempre
Castelnuovo d'Asti, 30 Settembre 1850.
P. S. - Ho ricevuto in buon tempo la facoltà per dare la benedizione coi Venerabile; di che, grazie.
Mentre scrivo ricevo la sua lettera, che mi dice più cose che desiderava di sapere. Le raccomando un nostro ricoverato, Rossi Giuseppe calzolaio, con Costantino, che da alcuni [136] giorni il veggo passeggiar per Torino, senza darsi studio del suo mestiere.
D. Bosco aveva scritto al Teol. Borel di rivolgersi per aver danaro a D. Cafasso; ma i suoi bisogni dovevano essere molti, poichè aveva incaricato il suo procuratore di alienare alcuni appezzamenti di sua proprietà in Valdocco. Infatti il 6 ottobre 1850 con atto rogato Turvano vendeva a Nicco Michele un terreno di centiare 38 per lire 250: a Franco Marianna vedova Audagnotto, are 3,89 per lire 2250,62: a Ferrero Giacomo e a Mo Giovenale centiare 6 per lire 37,16.
In questo frattempo D. Bosco a Castelnuovo si vide innanzi per la prima volta un giovanetto: Cagliero Giovanni sui dodici anni, nativo di quel borgo, che a lui era presentato dal parroco D. Antonio Cinzano, perchè esaminasse la sua vocazione e lo accettasse nell'Oratorio di Torino, Lo stesso Cagliero, ora Vescovo, narravaci il suo primo incontro con D. Bosco: L'impressione che io ricevetti fu quella di riconoscere in Don Bosco un sacerdote di merito singolare, sia pel modo e l'attrattiva con cui mi accolse e sia pel rispetto ed onore con cui veniva egli trattato dal mio buon parroco e da' miei maestri a Castelnuovo e dagli altri sacerdoti; impressione che in me non si cancellò nè diminuì mai, ma crebbe ognor più nei trentatrè anni durante i quali convissi con lui al suo fianco. Don Bosco adunque dopo avermi interrogato fissò la mia entrata nell'Oratorio per l'anno venturo.
Accettato Cagliero, Don Bosco si trattenne per qualche tempo ancora ai Becchi, e giovandosene per la conclusione del suo affare coll'Abate Rosmini, così gli scriveva: [137]
All'Ill.mo e Chiar.mo Signore, il Sig. Ab. D. Antonio Rosmini, Superiore Generale dell'Istituto della Carità. - Stresa.
Partecipo a V. S. Ill.ma che le circostanze di mia sanità mi hanno risolto a passare alcune settimane di più in campagna. Presentemente, grazie a Dio, essendomi ristabilito, spero nel giorno di domani di potermi restituire alla Capitale. Pertanto Ella può dare le disposizioni che giudica del caso per quanto riguarda all'imprestito di cui abbiamo parlato. L'assicurazione parmi si possa fare o per mezzo dell'ipoteca sullo stabile, o con una immediata disposizione testamentaria in ciò mi rimetto a quanto Ella meglio giudicherà.
Non posso a meno di rinnovare qui i miei più cordiali ringraziamenti per la gentile accoglienza e cortesia usatami in quei fortunati giorni che passai a Stresa; e mentre Le auguro dal Signore ogni bene, tanto per la conservazione della veneratissima sua persona, quanto per l'incremento dell'Istituto, mi reputo al massimo onore di potermi sottoscrivere Di V. S. Ill.ma e Reverend.ma Castelnuovo d'Asti, 25 ottobre 1850.
D. BOSCO GIOVANNI (vicino al Refugio).
L'indomani eragli fatta risposta:
Sig. D. Giovanni M. R. e Car.mo,
Alla gradita sua del 25 scadente rispondo per commissione del mio Superiore D.re Ab. Rosmini, che caramente La riverisce. [138]
Egli è ben pronto a dare le disposizioni relative al concertato imprestito; ma innanzi bramerebbe al tutto che V. S. R. facesse fare da un abile architetto un disegno regolare della casa, che intende di costrurre secondo le intelligenze che hanno qui seco avute, e tale che possa venire approvato da esso sig. Ab. Rosmini
La somma dei 20 mila franchi gliela verserebbe in una sola volta all'atto dell'analogo istrumento di obbligazione ed assicurazione che Ella gli passerebbe, e ciò anche per evitare la moltiplicità degli istrumenti che occorrerebbero, versandosi la somma in più rate. Ella poi potrebbe per conto di Lei proprio collocarne a frutto quella parte che così tosto non Le occorresse. Il che sarebbe vantaggioso a V. S. potendone Ella ricevere un frutto maggiore dell'interesse a cui si obbligherebbe al prelodato sig. Abate. Finalmente questi presceglierebbe che V. S. gli assicurasse la detta somma con ipoteca sopra il fondo e sopra la fabbrica da costruirsi, anzichè per testamento, anche per la ragione che in quest'altro caso egli o chi per lui dovrebbe soggiacere alla tassa di successione estranea del 10 per 100 ecc.
DON BOSCO giudicando che i suoi quattro discepoli di lingua latina potessero subire lodevolmente l'esame per indossare la veste clericale, e avendo bisogno urgente del loro aiuto negli Oratorii, ne scrisse da Castelnuovo all'Arcivescovo per ottenere le opportune licenze. Da Lione pertanto Mons. Fransoni rispondeva a D. Bosco il 23 ottobre 1850:
Spiacemi di non poter soddisfare alla sua domanda per ammettere fuori tempo all'esame per l'abito clericale i raccomandatimi giovani Reviglio Felice, Bellia Giacomo, Buzzetti Giuseppe e Gastini Carlo, giacchè se aprissi questa via cesserebbe subito la disposizione data dal mio antecessore fissando un solo esame nell'anno per tutti insieme i postulanti. Qualche rarissima volta ho preso il temperamento di [140] tollerare che alcuno indossasse l'abito clericale senza patente, e che poi subisse l'esame all'epoca stabilita per tutti. Questo pertanto è quello che posso fare per i suoi raccomandati, e parmi che possa adequare le sue mire, giacchè con questo Ella ottiene il suo intento. Conservi dunque la presente lettera per sua giustificazione, ed intanto faccia maggiormente esercitare i giovani per assicurare vieppiù l'esito dell'esame.
Preghi per me che sono di tutto cuore
D. Bosco fu grato alla bontà dell'Arcivescovo e, ritornato in Torino, continuò a dar le sue lezioni fino al termine dell'anno. Per ben quattordici mesi aveva fatto scuola di latino quasi tutti i giorni, prima del meriggio, e per cinque,o sei ore consecutive. Era adunque tempo di far dare ai suoi alunni un esame almeno privato. Di questo incaricò il Dottore in Teologia Sacerdote Chiaves e il Professore di Rettorica D. Matteo Picco, i quali non poterono in nessun modo spiegarsi, come fosse stato in poco tempo possibile a Don Bosco di preparare scolari cosi ben istruiti. E li dichiararono capaci di starsene tra gli studenti di filosofia.
La soddisfazione provata da D. Bosco per questo esame era stata preceduta da un bel guadagno e da una non piccola perdita. Abbiamo visto il giovanetto Rua Michele assistere agli esercizii spirituali di Giaveno. Egli aveva compiuto il corso elementare alle scuole dei discepoli del La-Salle; lungo l'anno, il Fratello Michele suo maestro, che era amatissimo dagli scolari, conoscendo la sua intelligenza, e il suo spirito di pietà, l'amabilità, la prudenza, l'amore al lavoro, gli aveva proposto di farsi iscrivere come confratello nel [141] suo Istituto Religioso. Il giovinetto, che motto lo riamava, acconsentiva al cordiale invito, e rispondeva: - Se nel venturo anno scolastico, lei torna alla sua scuola, farò ciò che mi consiglia.
Rua abitava in Valdocco poco lontano dall'Oratorio: suo padre ortolano, era un cristianone all'antica, e sua madre non dimostravasi da meno di mamma Margherita nell'educar bene i suoi figli. La vicinanza delle due case traeva il giovane Michele all'Oratorio anche nei giorni feriali. Come egli ebbe preso l'ultimo esame e fu chiuso l'anno scolastico, Don Bosco, che, coll'intuito tutto suo proprio, aveva pronosticato bene delle sue rare qualità, gli domandò se non gli sarebbe piaciuto farsi prete. Michele gli rispose: - Oh sì, molto! - Ebbene, preparati a studiare la lingua latina.
Il giovanetto allora gli espose, l'invito fattogli dal suo maestro e la risposta che egli aveva data. D. Bosco ciò udendo nulla più soggiunse, ma le sue parole avevano prodotta una viva impressione. Dio intanto guidava gli avvenimenti. Il Fratello Maestro era stato tolto dalla sua scuola per ordine de' Superiori, e trasferito ad insegnare in altra lontana località Michele sciolto così dal suo impegno, chiese ed ottenne da' suoi parenti di poter seguire il consiglio di D. Bosco. Nel dare la cara notizia al padre spirituale dell'anima sua, Michele presentavagli gli attestati di menzione onorevole mensili di secondo e di primo grado, ottenuti alla scuola elementare superiore negli anni 1848-49, 1849-50, per la sua ottima condotta ed applicazione allo studio. Questi furono tanto cari a D. Bosco, che volle ritenerli per sè , li conservò finchè visse, ed esistono ancora nei nostri archivii.
D. Bosco nei tre mesi di vacanza autunnale affidò Rua Michele, coi giovani Ferrero e Marchisio, a D. Merla, il quale li istruì nei principii della lingua latina. Ma dopo la festa [142] di Ognissanti, non potendo più D. Bosco ammaestrarli egli stesso regolarmente, incominciò a mandarli alla scuola privata del Professore Bonzanino Giuseppe, patentato per le tre ginnasiali inferiori. Questi insegnava, presso la piazza di San Francesco d'Assisi, nella casa appartenente alla famiglia Pellico e in quelle stesse camere dove il buon Silvio aveva scritte Le mie prigioni; ed accoglieva volentieri la domanda di D. Bosco. D. Bosco alla sera però faceva ripetizione a tutti di grammatica, insegnava loro il sistema metrico e li esercitava a fare conti.
Michele Rua continuava ad abitare co' suoi parenti per più di un anno ancora, mentre si aggiungeva a' suoi condiscepoli, ma come alunno interno dell'Oratorio, Savio Angelo. Assiduo il Michele alle lezioni, grande profitto faceva negli studii, sicchè , al termine dell'anno scolastico 1850-51, con meraviglia degli insegnanti, coronò con felicissimo esame e con gran lode i tre corsi inferiori di ginnasio.
Fin d'allora D. Bosco lo mandava, con Savio Angelo ed altri, ad assistere e fare il catechismo ai giovani a Vanchiglia ed a Porta Nuova, e così continuò per più anni.
D. Bosco recavasi sovente a chiedere notizie dei suoi allievi al professore Bonzanino. Un giorno Savio Ascanio con Rua Michele andavano all'Oratorio di S. Luigi, e Savio confidò a Rua: - Senti, Michele; D. Bosco mi ha detto di essere stato a chiedere di tue notizie al Prof. Bonzanino e che le ebbe molto lusinghiere. E mi soggiunse che su di te aveva fatti i suoi progetti e che tu gli saresti stato in avvenire di grande aiuto. - Rua Michele non dimenticò mai queste parole.
D. Bosco adunque aveva acquistato un nuovo prezioso alunno, ma nello stesso tempo perdeva un caro amico. Il Can. Teol. Collegiato Lorenzo Gastaldi dei preti di S. Lorenzo [143] in Torino, che aveva dato principio ad un fruttuoso apostolato di predicazione, erasi deciso di rinunziare al Canonicato, bramoso di vita più austera e più studiosa. Ammiratore di Rosmini, seguace della sua filosofia, difensore colla stampa delle sue dottrine, sentivasi attratto da viva simpatia alla Congregazione dei Preti della Carità; e perciò abbandonando agi ed onori, andato a Stresa, entrò in quel noviziato. Ma quivi a poco a poco avendo mutati i suoi principii filosofici, terminata la prova, i superiori dopo qualche tempo lo tolsero da professore di Razionale, e dietro sua domanda lo avevano mandato missionario in Inghilterra. Quivi giunto, gli permisero che tenesse corrispondenza coi giornali italiani, ma gli proibirono di scrivere su argomenti filosofici. Infatti tutte le notizie d'Inghilterra pubblicate sull'Armonia di Torino e scritte da lui, parlano esclusivamente di fatti storici. Intanto, spinto da vivo zelo per la gloria di Dio e fornito di singolare ingegno erasi addomesticato facilmente colla lingua inglese, per anni parecchi predicando il Cattolicismo agli Anglicani.
Egli però non cessava di amare D. Bosco, anzi prima di partire per Stresa e per l'Inghilterra aveva detto a sua madre: - Io per secondare la mia vocazione vi lascio corporalmente; ma voi non vogliate rammaricarvi per questa mia partenza: rassegnatevi ai divini voleri, ed in vece mia considerate per vostro figlio D. Bosco e i poveri suoi giovanetti. Le cure che avreste per me, prodigatele a quella nascente famiglia e farete cosa a me la più cara e di gran merito presso il Signore. -Come le disse il figlio, così fece la madre, e d'allora in poi non lasciava quasi passar giorno senza che si recasse, malgrado la sua età avanzata, a visitar l'Oratorio, colla sorella del teologo e la figlia di lei, continuando ad occuparsi in modo speciale a tener in buon ordine le biancherie, rappezzarle ed anche provvederne delle nuove [144] quando era d'uopo. E fin che visse, fu sempre benefattrice insigne di tutte le opere di D. Bosco.
Ma se il Can. Gastaldi anelava alle missioni d'Inghilterra, D. Bosco si adoperava continuamente a conservare la fede in Italia. Un altro opuscolo era uscito dalla sua penna col titolo: Maniera facile per imparare la Storia Sacra, ad uso del popolo cristiano. Esponeva in forma di dialogo i fatti del vecchio e del nuovo Testamento in trenta brevi capitoli, con domande e risposte estremamente concise ma chiare, sicchè restavano subito impresse nella mente del lettore. Con queste parole dava ragione del suo scritto:
“La presente Storia Sacra è destinata ad uso dei Cristiani e specialmente di coloro che o per occupazione o per mancanza di studio non possono percorrere libri di maggior mole e di più elevata erudizione.
Mio scopo si è di far notare come siano contenute nella Bibbia molte verità professate dai Cattolici e negate dai nemici di nostra santa Religione. Questo libretto è un compendio della Storia Sacra da me compilata, e che già si usa in parecchie pubbliche scuole. Nello scrivere ho procurato dì seguire, per quanto mi fu possibile, compendi di Storie Sacre annessi ad alcuni catechismi approvati in diverse diocesi. Io spero che tutti quelli che leggeranno questa Storia si adopereranno per diffonderla nelle scuote e nelle famiglie, persuaso che riuscirà vantaggiosa alla nostra Santa Religione. Iddio benedica tutti quelli che lavorano pel bene delle anime, infonda ne' loro cuori forza e coraggio onde possano perseverare nel cammino della verità, colmandoli di quelle celesti benedizioni che sono necessarie per la vita presente e per la futura”.
Per invitare a Gesù Cristo gli Ebrei aveva esposta la profetata ed avvenuta distruzione di Gerusalemme, e per convincere i fedeli sugli errori dei Protestanti trattava della [145] Bibbia e della tradizione, del governo e dei caratteri della vera Chiesa, e delle Società separate dalla Chiesa Cattolica. Questi dialoghi dava da studiare a' suoi giovani, e nelle accademie si udivano ripetere: - S. Pietro fu stabilito da Gesù Cristo capo della Chiesa e suo Vicario. - Gli Apostoli e i Vescovi riconobbero S. Pietro per loro capo. - A San Pietro succedono i Papi investiti dalla pienezza di sua autorità. - La spiegazione della Bibbia e la testimonianza della tradizione, dobbiamo riceverla soltanto dalla Chiesa Cattolica, perchè Gesù Cristo ha data a Lei, e a nessun altro, l'autorità infallibile per la conservazione della fede. - Gli errori contro la fede furono sempre condannati dai Papi, e le loro sentenze furono sempre rispettate dai veri cristiani come uscite dalla bocca medesima di Gesù Cristo. - Gesù Cristo ha promesso che assisterà la sua Chiesa fino alla fine dei secoli.
A questo libretto D. Bosco aggiungeva poi una carta geografica della Terra Santa, e nel 1855 ne faceva eseguire una seconda ristampa. È incalcolabile il numero delle copie diffuse nel popolo colle successive sette edizioni.
ONORA TUO PADRE E TUA MADRE, ha detto il Signore: e D. Bosco era un modello ai giovanetti nell'osservanza di questo comandamento, e fu sempre tenerissimo nell'amare i suoi genitori. Parlava sovente e con affetto di suo padre, che si può dire non avesse neppur conosciuto, e pregava ogni giorno pel riposo dell'anima sua. Aveva per sua madre tutte le attenzioni degne di un figlio il più rispettoso e la consolava nella sua vecchiaia con una pietà commovente. Mentre da una parte non fu mai che anteponesse l'amore di lei a quello di Dio, d'altra parte l'assisteva e l'aiutava in tutto quello che dipendeva da lui. L'obbediva, si sottometteva docilmente a' suoi consigli e nulla intraprendeva d'importante senza fargliene parola. Egli era felice pel suo desiderio soddisfatto di vederla cooperare al bene degli alunni, ed essere come madre di tutti. Ne parlava con venerazione, e le professava riconoscenza vivissima per le fatiche e le sollecitudini che aveva durato nell'allevarlo. L'encomiava specialmente perchè per tempissimo gli aveva insegnato ad amare e servire Iddio, insinuandogli grande [147] orrore al peccato. Eziandio nella più tarda età ricordava sua madre con tenerezza, con figliale rispetto e non senza una viva commozione di cuore. Benchè nella sua profonda umiltà egli narrasse con molto piacere de' suoi bassi natali e mamma Margherita comparisse ognora come una semplice contadina, pure egli in faccia a qualsiasi condizione di persone l'onorava grandemente.
Voleva che anche i giovani l'obbedissero e la rispettassero, e se qualche volta taluno per leggerezza d'età o per capriccio le si dimostrava meno riverente, ei parlando nei sermoncini della sera inculcava l'obbedienza, dicendo: - Io stesso, che sono il Direttore della casa, obbedisco alla madre e la rispetto: fate voi altrettanto! - E in pari tempo faceva conoscere ai giovani le fatiche che ella sopportava per essi, ed enumerava i grandi servigi che loro rendeva. Di qui traeva anche argomenti per ricordare le madri che avevano lasciate alle loro case, ripetendo le parole di Tobia: - Onora la madre tua in ogni tempo della tua vita, perchè tu devi ricordarti come e quanto ella abbia sofferto per te1.
D. Bosco non si lasciava sfuggir occasione per renderle onore. L'affabile ingenuità di sua madre compariva costante anche nei momenti più solenni.
Il suo onomastico cadeva nel mese di novembre, e i giovani lo festeggiavano affettuosamente; alla sera della vigilia D. Bosco conducevali egli stesso a recarle un mazzolino di fiori. La buona madre accoglievali sorridendo, ed ascoltava tranquilla, e senza far motto, le prose e le poesie che andavano leggendo. Finita quella lettura, rispondeva; ma erano poche parole: - Là! Vi ringrazio, benchè io faccia nulla [148] per voi. Chi fa tutto, è D. Bosco. Tuttavia vi ringrazio dei vostri augurii e complimenti, e domani, se D. Bosco lo permette, vi darò una pietanza di più.
Allora il grido di Viva Mamma risuonava fragoroso e scioglievasi l'adunanza.
Dalle parole di Margherita si vede come ella non avesse altra mira che esaltare il suo D. Giovanni al cospetto dei giovani e farlo tenere come l'unica autorità.
Questa sua umiltà rendevala cara a tutti, ed era quindi venerata da quanti la conoscevano ed eziandio da coloro che si erano intrattenuti per poco con lei nell'Oratorio. Fin dal principio che venne in Torino, appena fu conosciuta dai cittadini dei vicini quartieri, non fu chiamata con altro nome che con quello di mamma. Essa trattava colla medesima dolcezza e carità il Duca, il Marchese, il ricco banchiere, il ciabattino e lo spazzacamino.
Molti nobili signori e signore e gli stessi Vescovi, benefattori insigni della casa, venendo a far visita a Don Bosco non mancavano mai di affacciarsi alla porta di Margherita e di salutarla sia nell'andare come nel venire. La sua schietta virtù, la sua semplicità di modi e il suo squisito buon senso, era l'oggetto della loro più viva compiacenza. Se talora non trovavano D. Bosco in casa, ovvero se in quel momento dava udienza a qualcuno, senz'altro si risolvevano di aspettare intrattenendosi con Mamma Margherita. In quei tempi non vi era anticamera, e quei signori non volendo introdursi per non recar disturbo, trovavano essere cosa poco confacevole stare sul poggiuolo all'aria aperta, al sole od alla pioggia.
Battevano quindi alla porta di Margherita: - Mamma, si può? - La buona donna era seduta in mezzo a poche sedie, sulle quali stavano ammonticchiati i poveri e laceri vestiti dei giovani, da rattoppare: - Vengano, entrino, signori [149] miei, rispondeva tutta giuliva; che Iddio li benedica: - e sgombrando le sedie, le presentava ad essi invitandoli a sedere. Erano le persone più ricche di censo, più elette d'ingegno, più fornite di scienza, più chiare per fama che avesse Torino; ma essa non confondevasi, nulla rimetteva della sua abituale disinvoltura; anzi talora diceva con tutta ingenuità: -Se permettono finisco tre Ave Maria, che ho cominciate, e poi sarò tutta nell'ascoltarli.
- Fate pure! rispondevano quei signori sorridendo, poichè erano entrati a posta per godere della sua semplicità; e Margherita finiva con tutta pace la sua preghiera. Quindi incominciava la conversazione; ma se questa talora languiva, essa sottovoce incominciava altre orazioni.
Que' signori spesse volte s'intrattenevano con lei delle mezz'ore e ore intiere interrogandola e facendola parlare. Si dilettavano infinitamente delle sue risposte, dei suoi pensieri e dei proverbi che le fiorivano sempre a proposito sulle labbra. Talora per quella famigliarità che avevano con lei le proponevano perfino questioni di morale, di storia, di politica. Margherita conservava sempre una perfetta e serena tranquillità. Giammai rimaneva confusa, o impaziente, o vergognosa, o impacciata. Le sue risposte non sapevano di sciocchezza, di presunzione o di leggerezza. Il buon senso ed il Catechismo sovente venivano in suo aiuto; un frizzo o un proverbio sulla propria ignoranza, il racconto di un fatto o visto, ovvero udito a narrare, o eziandio accaduto a lei stessa, le davano argomento per eludere le interrogazioni che non intendeva. I suoi nobili visitatori ridevano di cuore, perchè a bello studio la mettevano su quei discorsi, desiderosi di ammirare il modo col quale si cavava d'impaccio una povera contadina che appena allora, si può dire, era uscita per la prima volta dai confini del suo campicello. Margherita pure rideva di cuore. [151] angioli della Provvidenza. Se le giungevano dal paese frutta primaticcie o rare, o Giuseppe le avesse recato qualche lepre o qualche volatile prezioso, era in festa e mandava subito il suo dono a quelle famiglie per le quali professava tanta affezione.
Ma sovratutto manteneva quella promessa che sovente faceva ai benefattori: - Pregherò per loro Iddio che faccia le nostre parti, e loro conceda tutte le prosperità che si meritano.
Queste cospicue attinenze nulla mutarono nelle sue idee e nelle sue costumanze. Ispirata dall'amore alla vita di privazioni sofferta da N. S. Gesù Cristo, ripeteva più volte: Son nata povera e voglio vivere e morir povera.
Soleva di quando in quando, per restituire le visite, recarsi nei palazzi dei benefattori, ove era accolta a festa. Con tutto ciò non volle mai dismettere il suo abito da contadina, nè permettere che si usassero per lei stoffe o lini di un qualche valore. - Lo sanno quei signori che sono povera, esclamava, e quindi mi perdoneranno la rozzezza del mio vestito. - Tuttavia quei panni erano sempre così lindi che rallegravano chiunque si intratteneva con lei.
Coll'andar del tempo però e dopo varii anni che portava lo stesso vestito, questo benchè senza macchie, pure era, venuto scolorito e rappezzato.
Un giorno D. Bosco le diceva: - Mamma, per carità provvedetevi di un'altra veste. Sono già tanti anni che avete quella indosso!
- Oh bella! E non ti pare che vada ancora bene questa veste?
- Bene? Io vi dico che non è più decente. Vengono da voi il Conte Giriodi e la Marchesa Fassati, e certo non è conveniente che li riceviate con quell'abito. Nessuno di quelli che scopano per la strada è vestito peggio di voi. [152] Ma come vuoi che faccia a comprarmi una veste mentre non abbiamo niente?
- È vero che non abbiamo niente; ma piuttosto che vedervi così lacera, lasceremo di comprare il vino, lasceremo la pietanza, e voi provvedetevi.
- Quando la cosa sia così, vada pure questa spesa.
- E quanto costerà un vestito?
Margherita, prese le venti lire, se ne andò pe' suoi lavori. Passa una settimana, ne passano due, passa un mese e Margherita aveva sempre la stessa veste indosso. D. Bosco finalmente la interrogava: - Mamma! E il vestito nuovo?
- Già! Hai ragione! Ma come si fa a comprarlo se non ho un soldo?
- Oh! a quest'ora sono spese! Con quelle ho comperato sale, zucchero, cipolle e cose simili. Poi ho visto un povero giovane che era senza scarpe, e gliene ho dovuto comprare un paio. Mi rimase qualche residuo, ed ho provvisto di calzoni il tale, e di cravatta il tal altro.
- Sia pure: avete fatto bene; ma non posso più soffrire di vedervi in quello stato: ce ne va del mio onore!
- Ciò mi rincresce: bisogna rimediarci; ma come fare?
- Ebbene; vi darò altre venti lire, ma questa volta esigo assolutamente che provvediate a voi stessa.
- Provvederò, se così ti piace.
- Ecco le venti lire; ma ricordatevi che desidero di vedervi finalmente vestita con più decoro!
- Sta' tranquillo, sta' tranquillo!
Ma si era da capo: tutto veniva speso per i giovani. Una benefattrice le regalò una bella mantiglia di seta molto larga. [153] Margherita dopo averla esaminata con attenzione, disse alla sorella di D. Giacomelli: - A che cosa potrà servire questa ricchezza? Io, povera contadina, vestita di seta? Non voglio mica farmi burlare! - E prese le forbici, scucì tutta la mantiglia, e ne tagliò alcuni giubbetti per i fanciulli ricoverati.
Essendo già in casa alcuni chierici e preti, D. Bosco in loro riguardo aveva dovuto aggiungere una pietanza di più pel pranzo. Essa avrebbe potuto mangiare come i Superiori, chè ce ne sarebbe stato anche per lei. Eppure non si cibava che di polenta fredda, con un peperone, una cipolla, alcuni ravanelli conditi solamente col sale, ed era contentissima. - I poveri, esclamava sovente, non hanno sempre il cibo, che a me non manca, e quindi io mi posso chiamar signora.
Talora qualche personaggio distintissimo, come un Vescovo, un parroco, venendo all'Oratorio, si avvicinavano a lei, e, porgendole la scatola che era di valore, la invitavano a, prendere un pizzico di tabacco.
Margherita rifiutava sempre, ringraziando.
- Ma, per il continuo star seduta ed occupata, non vi pare che vi farebbe bene questo sollievo?
- Signore, ho da comperare calzette per i giovani!
- Ed io vi regalo questa scatola!
- È troppo buona la S. V., ma lei sa che le abitudini,costano e molto... e noi siam poveri.
Non ostante la grande povertà che regnava nella casa, essa era di una giustizia rigorosa nel dare a ciascuno ciò che spettavagli per diritto, e in ogni occasione il cuore di questa donna mostravasi pieno di delicata attenzione per tutti. Un giorno, colla giovanetta Giacomelli, andò a far provvista di aghi, filo, bottoni in una bottega in faccia alla chiesa del Corpus Domini, e, pagato tutto, tornava a casa co' suoi [154] acquisti. Via facendo andava riandando i conti e trovò che vi era differenza di tre o quattro lire a danno del negoziante. Da quel momento non potè più stare in pace e rientrata in casa, disse alla Giacomelli: - Ritorna subito alla bottega a riconoscere se realmente ci fu sbaglio; ma abbi l'avvertenza di chiamare a parte il garzone che ci ha venduta la roba, e di parlar in modo da non farti scorgere dal padrone.
La giovinetta fece la commissione con esattezza, e riferendo le parole di mamma Margherita, pose in mano al garzone quelle lire. Il garzone restò sorpreso, e le dimandò chi fosse colei che aveala così bene indettata:
- È la mamma di D. Bosco, rispose la Giacomelli.
- Ebbene, ditele che la ringrazio tanto, specialmente pel riguardo usatomi. Se vi foste indirizzata al padrone stesso, io sarei rovinato, perchè mi avrebbe senz'altro mandato via, ed io sarei rimasto senza pane. Ringraziatela dunque quella buona signora, e ditele che venga pure a provvedersi in questa bottega, che io la servirò meglio e a miglior prezzo di qualunque altra persona.
Tutte queste narrazioni ci furono ripetute dal Teol. Savio Ascanio, da Tomatis, da Buzzetti e sopratutto dallo stesso D. Bosco.
LE VIRTU' amabili di Margherita, ricopiate e perfezionate nel figlio fino all'eroismo, ispiravano alla gente in ogni loro angustia una illimitata confidenza versa D, Bosco. In modo speciale, la sua carità verso gli infermi ed i moribondi era così notoria in Torino, che frequentemente, non solo i giovanetti esterni dell'Oratorio, ma gli infermi degli ospedali e della città lo mandavano a chiamare per confidargli i secreti dell'anima. Era desideratissimo dalle famiglie, perchè sapeva confortare i loro cari con maniere così soavi, che inducevali, senza che si turbassero, e con facilità, a ricevere il santo Viatico. Colla sua viva fede si dava eziandio premura che fosse loro amministrata l'estrema unzione colla benedizione papale, sicchè morivano confortati dalla speranza cristiana. E non rare volte, testifica D. Rua, il Signore ricompensava questa sua fede e sollecitudine, coll'accordare la salute eziandio corporale agli infermi da lui assistiti, appena ricevuto l'Olio santo.
Era eziandio ammirabile nel dissipare le angosciose trepidazioni di certe anime pie, che, giunte agli estremi. [156] temevano grandemente le pene del Purgatorio. Sapeva parlar così bene dei meriti che si guadagnano colle indulgenze, delle pene che si scontano soffrendo con rassegnazione i dolori dell'infermità, dell'offerta generosa a Dio della propria vita, della carità perfetta che scancella ogni macchia, da riempirle di fiducia consolante nella misericordia di Dio. Aggiungeva che si sarebbero celebrate molte messe di suffragio, e che egli avrebbe pregato e fatto pregare per loro. E se talvolta alcuna non era così arrendevole alle ragioni, egli, spinto dalla sua carità, per tranquillarla e confortarla, l'assicurava che si assumeva egli stesso una parte almeno delle espiazioni che ella avesse dovuto incontrare nell'altro mondo. E infatti gli avvenne di essere una volta assalito da un fortissimo male di denti, che per una settimana non gli diede requie nè dì nè notte. Interrogato da D. Rua come ciò gli fosse accaduto, gli manifestò confidenzialmente come egli, per consolare un povero moribondo, gli avesse fatto promessa di prendere sopra di sè le pene che avrebbe dovuto soffrire esso in Purgatorio.
Per tanta sua bontà e perizia nel compiere questo sacro ministero, occorreva spesso che venisse chiamato da parenti o da amici di infermi che ricusavano ostinati o procrastinavano di riconciliarsi con Dio. Invitavano lui piuttosto che altro sacerdote, convinti che sarebbe riuscito a ridurli a buoni consigli e ad aiutarli a fare una buona morte. Egli possedeva in grado eminente ciò che S. Paolo chiama Gratias curationum.
Un certo avvocato, abitante in città sotto la parrocchia di S. Agostino, cadde infermo, e la malattia era al punto di non lasciare più alcuna speranza di guarigione per la sua età avanzata. La vita di quest'avvocato non era stata quella d'un cristiano, ma piuttosto d'un ateo, di modo che aborriva [157] le cose di religione. Il parroco appena ebbe tale notizia andò a visitarlo e fece quanto può suggerire la carità e la prudenza per risvegliare in lui sentimenti cristiani, onde poterlo confessare; ma tutto fu inutile ed il parroco venne respinto villanamente. Si provarono varii zelanti sacerdoti, misero in opera quanto seppero: ma tutto invano; ed alcuni che vollero insistere furono mandati via con mala grazia. L'infermo ripeteva non voler saperne nè di preti nè di confessione. Finì coll'intimare a quei della famiglia che assolutamente e per nessun motivo permettessero che alcun prete gli si avvicinasse. La conversione dì costui pareva veramente disperata. Tuttavia la carità sacerdotale seppe trovare altri mezzi.
Il Teol. Roberto Murialdo, uno di coloro che l'avevano visitato, venne un mattino all'Oratorio a darne notizia a Don Bosco, affinchè volesse anch'egli far la prova di salvare quell'anima che minacciava di perdersi. D. Bosco disse che volentieri avrebbe fatto il possibile. Intanto diedesi tosto a studiar il modo di visitar quell'infermo, e dopo averci pensato assai non trovò ragione o pretesto con cui potesse introdursi in quella casa. Nondimeno, uscito dall'Oratorio, si mise in via, e passando vicino alla Chiesa della Consolata, vi entrò e fermossi qualche tempo a pregare Maria SS. per l'infermo. Quindi s'incamminò alla casa dell'avvocato. Era entrato nella porta, aveva salite le scale, già trovavasi sul pianerottolo del malato, stava quasi presso l'uscio; e non sapeva trovar nessun modo per introdursi, fantasticando quali accoglienze gli sarebbero fatte. Ma ad un tratto esce da un corridoio un fanciullo che frequentava l'Oratorio, ed appena lo vide prese tosto a gridare: - D. Bosco! D. Bosco! Come sta? - e gli si avvicinò salutandolo rispettosamente.
- Io sto bene, gli rispose D. Bosco. E tu stai qui di casa? [158]
- Sì, è quella la mia abitazione. Venga a trovar mia madre, venga. Mamma, mamma, c'è D. Bosco.
D. Bosco seguì quel giovanetto in casa sua, il quale tutto contento lo presentò a sua madre che gli era venuta incontro.
Sedettero e discorsero alcun poco, quando ad un tratto il fanciullo disse:
- Sa, signor D. Bosco? Qui vicino c'è un ammalato,
Ed esso dissimulando: - E come sta?
- È assai aggravato; venga a vederlo.
- Sì, ma vorrà ricevermi? prima bisogna sapere se è contento, se la mia visita non l'incomoda! Va' a vedere; a domandare; digli così: D. Bosco è venuto a trovare mia madre; gli abbiamo detto che lei era ammalato, e se lei fosse contento, egli verrebbe a trovarlo.
- Io vado subito, rispose il fanciullo.
Corre, apre l'uscio che metteva nell'abitazione dell'avvocato, e senza dir nulla e badar a quei di casa, attraversa le camere e si porta vicino al malato e gli dice: - Signor avvocato, è venuto da noi D. Bosco; gli abbiamo parlato di lei e perciò desidererebbe di venirlo a trovare. È in casa mia, sa! È contento che venga a vederlo? Veda, le darà la benedizione e lo farà guarire, poichè so di tanti che erano ammalati, e avendo D. Bosco loro data la benedizione, tosto guarirono.
Il malato domandò: - Chi è questo D. Bosco?
- Egli è quel prete che là in Valdocco raduna tanti giovanetti all'Oratorio tutte le feste, rispose il fanciullo: che ne riceve anche tanti dei più poveri in casa sua e li mantiene e loro insegna un mestiere.
- Oh bene, riprese il malato, so chi è D. Bosco... Stette un momento a pensare e poi disse: Eh là, venga; sì, venga se è D. Bosco. [159]
Appena detto questo, il giovane corse a D. Bosco che ancora parlava colla madre, e gli disse che l'ammalato lo aspettava. D. Bosco, senza più indugiare, va e si presenta all'ammalato, il quale al primo vederlo subito esclamò salutandolo graziosamente: - Oh D. Bosco! Son contento di vederla. La ringrazio di tanto disturbo e di tanta gentilezza.
Ed egli: - Sono proprio qua; e poi disse ridendo Osservi un po'; ho bene una fisonomia da galantuomo?
Il malato rispose: - Non c'è male, non c'è male.
- E come va, un uomo robusto e coraggioso come lei, starsene ora in quel letto?
- Fu un tempo in cui poteva dir mia ragione: adesso bisogna cedere;…… ma si segga.
- Oh lasci pure; se non l'incomoda, io sto ritto.
- No, no, si segga; mi dà pena il vederla così in piedi.
Allora D. Bosco si pose a sedere accanto al malato e cominciò a discorrere con lui senza mai parlare di confessione. Il discorso fu variatissimo e sì portò su molte questioni di politica, di legge, di medicina, di milizia, di filosofia, ecc. Don Bosco lo secondava sempre, e seppe in tutto rispondergli ed appagarlo così bene, che l'avvocato pieno di stupore in fine gli disse: - Ella pare l'enciclopedia in persona. -Erano già passati tre quarti d'ora e D. Bosco voleva licenziarsi; perciò alzatosi, fece per salutare l'ammalato, il quale disse:
- Vuole già andar via? Stia pure, se non l'incomoda.
D. Bosco: - È tempo che io vada a casa per alcuni affari; non posso più fermarmi.
- Oh, si fermi ancora un poco.
- No, debbo andare; ma se è contento, verrò di nuovo a trovarlo.
- Sì, venga di nuovo. - Intanto aveva presa tra le sue la mano di D. Bosco e la teneva stretta. [160] D. Bosco lo esortò a farsi coraggio e lo salutò per la seconda volta in atto di partire.
Quel signore senza rispondere continuava a trattenerlo fissandolo in volto.
Allora D. Bosco sorridendo: - Io so che cosa ella vuole.
- Che cosa voglio? Possibile! vediamo un po'?
- Ella vuole che io le dia la mia benedizione.
Allora tutto maravigliato esclamò: - È proprio così! Ma come è possibile che ella sappia questo! Sono 35 anni che aborrisco preti e religione, ed ora che per la prima volta mi viene in mente questo pensiero, D. Bosco subito me lo indovina! Dunque me la dia pure.
- Sì, volentieri; e che cosa vuole che domandiamo al Signore?
- Mi rincresce a dirglielo, ma se fosse decretato lassù che ella debba passare all'eternità?
- Come ella sa questo? I medici tutti mi dicono che sto meglio, che mi faccia coraggio, che presto sarò guarito!
- Anch'io le faccio coraggio, gli replicò D. Bosco con grande amorevolezza; pure è stabilito così: ella non guarisce più. Io non posso ottener niente per la sua guarigione; posso darle però la benedizione, e quello che domanderò sarà che il Signore le dia tempo per poter aggiustare i conti della sua coscienza, mettere in grazia di Dio la sua anima e fare una santa morte.
Queste parole non fecero tuttavia gran colpo; il malato si stette quasi indifferente. Non ostante, ricevette la benedizione e prima che D. Bosco lo lasciasse, con certo slancio gli disse: - Venga ancora a trovarmi, sa!
Erano 4 o 5 ore da che D. Bosco era ritornato all'Oratorio quando arriva un domestico a cercare di lui per [161] parte dell'infermo, dicendo che l'avvocato desiderava molto un'altra sua visita. Era già vicina la notte; D. Bosco andò. L'avvocato appena lo vide fu contento e disse: - Oh! desiderava molto un'altra sua visita. Questa mattina mi ha ricreato e fatto ridere.
- È niente quello di stamane; questa sera voglio farla ridere ancor di più. Dica un po': so che in casa sua si fa del buon caffè e, se me lo concede, ne prenderci volentieri una tazza.
- Anzi è un grandissimo piacere che mi fa.
Chiamò subito la gente di servizio:
- Presto, presto una tazza di caffè pel signor D. Bosco
Benchè quella bevanda gli riuscisse piuttosto fastidiosa che utile, D. Bosco la prese; poi disse a que' di casa: - Andate pure adesso, vogliamo discorrere tra noi due.
Rimasto solo coll'infermo, si assise e cominciò a dargli la benedizione, dicendo: Dominus sit in corde tuo etc. Ma l'altro non intendeva, nè si faceva il segno della santa croce.... e domandò: -Che cosa fa?
- Niente; lei faccia il segno della santa croce.
- Non cerchi il perchè , faccia quel che le dico.
- Non parli di confessione adesso; si segni; non è buono a segnarsi? Vorrei vedere che un avvocato, dotto e stimato come lei, non sappia fare il segno della santa croce
- Vediamo un po'. Io non credo ciò che non vedo.
- Vuole questo? eccomi; e cominciò a segnarsi: Nel nome dei Padre ecc
Allora D. Bosco si servì del suo dono speciale di conoscere esattamente, quando era d'uopo, lo stato di coscienza del [162] penitente senza che parli, nè che siasi già confessato da lui. Pertanto cominciò a interrogarlo così: - Dica un po', signor Avvocato, quanto tempo sarà che non s'è più confessato?
- Non parliamo di questo adesso; lasci fare a me: sa quello che le ho promesso: voglio contentarlo: mi ascolti; adunque sono tanti anni, e precisò il numero, che non si è più confessato?
-Et appunto il tempo che ella ha detto, ma sa che io non voglio confessarmi?
- Non parli di questo. Intanto continuava dicendo: Le sue cose in quel tempo andavano in questo e in quell'altro modo. Allora il suo stato era così e così. - E precisava a meraviglia.
- Appunto; ma pare che ella sappia la mia vita!
- Dopo, nella tal circostanza ha fatta questa e quell'altra cosa.
- È proprio vero; mi rincresce, ho fatto male. Oh non vorrei averla fatta. - In tal modo D. Bosco, un per volta, diceva tutti i peccati dell'infermo, il quale diveniva sempre più pensieroso e più commosso e a ogni peccato che D. Bosco gli metteva innanzi esclamava: - Di questo mi rincresce; questo mi avvilisce; ho proprio fatto male! Ad ogni espressione di pentimento D. Bosco gli prendeva la mano e gli diceva: Caro signore, si faccia coraggio. - Queste parole parevano ferire il suo cuore, ed ogni volta che D. Bosco le ripeteva, rendevano più viva la sua commozione e gli facevano cadere una lagrima dagli occhi. Così venne al termine della sua confessione, versando come un fanciullo lagrime dirottissime di vero pentimento. Ricevuta l'assoluzione esclamava. - D. Bosco! Ella mi ha salvato! da principio non mi sarei confessato per qualunque cosa; era disposto a fare qualsiasi [163] bestialità piuttosto che cedere ma lei mi ha saputo prendere con arte, mi ha vinto; grazie adesso farei mille confessioni: il mio cuore è straziato dal dolore, e tuttavia provo una grandissima consolazione, che non ho mai provato, nè avrei potuto immaginare. Mi si porti pure il SS. Viatico - In questo tempo giungevano per visitarlo due o tre de' suoi amici, che certamente avrebbero tentato di distruggere quanto s'era fatto.
Allora D. Bosco, essendone stato avvisato, disse all'infermo: - Se venisse qualcheduno per visitarlo, dobbiamo dir loro che lo lascino tranquillo e che tornino domani, perchè ora ha bisogno di riposo?
- Dia pure l'ordine in questo senso, rispose l'infermo.
Così fu fatto, e quei tali presero la cosa in bene e se ne partirono per ritornare il domani. D. Bosco allora uscì e tutta la famiglia rientrata in quella stanza fu piena di gioia nell'udire dall'infermo i modi usati da D. Bosco per ricondurlo a Dio.
Il domani mattina, dopo che ebbe ricevuto il santo Viatico e l'estrema Unzione, ritornarono i suoi vecchi amici e compagni d'incredulità e di vita libera e furono introdotti. Avendo saputo che egli aveva compiuti i suoi doveri da buon cristiano, incominciarono a burlarsi di lui, che per debolezza aveva piegato il capo alle intimazioni del prete. Ma l'infermo, cui D. Bosco aveva suggerito che cosa dovesse dire a costoro, rispose con franchezza: - All'ora della morte le cose si giudicano da ben altri punti di vista, e quest'ora si avvicina anche per voi. Dopo la vita presente ve ne ha un'altra ed un inferno di pene interminabili. Pretendereste forse che io fossi così stolto di precipitarmi tra quelle fiamme? Voi avete un bel ridere; riderà bene chi riderà l'ultimo. Voi dite di non credere alla vita futura ed all'eternità; ma ci sono troppi altri che affermano la sua esistenza, e non siete perciò ragione [164] voli se non ve ne prendete pensiero. Anche solo supposto che fosse dubbia l'esistenza dell'inferno, non è una stupida spensieratezza il vivere con tanta indifferenza e con manifesto pericolo di cadervi, se realmente esistesse? Non è forse da persona di senno, trattandosi di eternità, prendere la via più sicura? Perchè burlarmi? Io sono più prudente di voi I suoi amici, a questa dichiarazione, non seppero che cosa rispondere, e dopo qualche breve e inconcludente parola, si ritirarono. L'avvocato visse ancora una settimana visitato e confortato ogni giorno da D. Bosco; e ringraziandolo, spirava nel bacio del Signore.
Un altro giorno una distinta signora veniva in Valdocco a cercar di D. Bosco, pregandolo caldamente che andasse a trovare un cotale gravemente ammalato e ormai in fin di vita. Si trattava di un personaggio immischiato nella politica, molto avanzato nei gradi delle sette. Erasi recisamente rifiutato di ricevere il prete, assicurando che sarebbe mal capitato quel sacerdote che osasse avvicinarsi al suo letto. Solo a stento aveva permesso che si invitasse D. Bosco. E D. Bosco, pieno di fiducia in Dio e nella protezione della Beata Vergine, vi andò. Appena entrato in camera e chiuso l'uscio, quel signore raccolte quelle poche forze che ancora gli rimanevano, gli disse bruscamente: - Ho ceduto alle istanti preghiere di una persona che io stimo ed amo; ma lei viene come amico o come prete? Io non amo le farse, nè sono amico delle burattinate. Guai a lei se mi nomina anche solo la confessione. Così dicendo impugnò due pistole, che aveva riposte una da una parte, l'altra dall'altra parte del cuscino. Le appuntò al petto di D. Bosco e: - Si ricordi bene, esclamò, che al primo momento che ella nominerà la confessione, un colpo di questa pistola sarà per lei e quello di quest'altra per me: poichè per me non vi sono più che pochi giorni di vita. [165] D. Bosco gli rispose con calma e sorridente che stesse pure tranquillo, poichè non gli avrebbe mai parlato di confessione, senza suo permesso. Quindi gli chiese della sua malattia, di quel che ne dicevano i medici e del metodo di cura prescelta. Il suo dire era così amorevole, così interessante e pieno di conforto, che non stancava il suo uditore, rammolliva i cuori anche più insensibili e destava in essi simpatia e confidenza verso la propria persona. Cogli uomini colti usava un'industria che non poche volte lo condusse al suo pio intento. Accennava a qualche fatto contemporaneo interessante, lo confrontava con qualche avvenimento storico di tempi anteriori, e lo sceglieva in modo che coincidesse colla vita di qualche empio famoso, conosciuto per i suoi fatti o per i suoi scritti. La sua arte era di farsi interrogare. Descrivendo la morte di quel personaggio, che secondo ogni apparenza era morto impenitente, egli tuttavia concludeva: - Alcuni, arrivati a questo punto della storia, dicono che siasi dannato; io non lo dico, od almeno non mi sento di dirlo, perchè so che la misericordia di Dio è infinita e non palesa i suoi segreti agli uomini.
E così D. Bosco erasi adoperato eziandio con questo infermo, il quale sorpreso e tutto commosso: - Come, interruppe, vi è ancora speranza anche per costui?
- E perchè no? - E gli dimostrava con poche ma calde e persuasive parole, come Dio fosse disposto a perdonare i peccati per quanto enormi e numerosi a chi si pente di vero cuore, e che la più grave offesa che gli si possa fare si è il diffidare della sua misericordia.
Quel signore allora rimase qualche tempo assorto ne' suoi pensieri, e poi gli porse la mano e gli disse: - Se è così, abbia la bontà di confessarmi!
D. Bosco lo preparò, lo confessò e appena l'infermo ebbe ricevuta l'assoluzione, bagnato di lagrime, proruppe in esclamazioni [166] di contentezza, affermando che egli non aveva mai goduta tanta pace in vita sua, come in quel momento. Nello stesso tempo sottomettevasi di buon grado a tutte le prescrizioni della Chiesa. Intanto l'infermo fu avvertito essere giunti due signori dalla fisonomia burbera, e che stavano di guardia in sala. Erano due ascritti alla loggia; l'infermo ordinò che fossero introdotti nella stanza, e appena comparvero:
- Partite subito, gridò loro: via dalla mia casa.
Gli risposero: - Ma sa bene! I nostri patti sono......
L'infermo allora trasse fuori dal tavolino da letto una delle pistole, che quivi aveva riposte, e mostrandola replicò: - Era preparata per i preti, ed ora è destinata per voi se non partite. Non una parola di più!
- Quando è così noi usciremo, - risposero quei due, dando un'occhiata minacciosa al prete; e si allontanarono.
La dimane gli fu portato il Santo Viatico; ma prima di comunicarsi chiamò nella sua camera tutti quei di casa e chiese pubblicamente perdono dello scandalo che aveva loro dato. Dopo il Viatico migliorò grandemente di sanità, sicchè visse ancora due o tre mesi, che furono da lui impiegati nella preghiera, nel chiedere sovente a quanti lo visitavano, perdono de' suoi scandali, e nel ricevere ancora più volte, dando ai vicini la più grande edificazione, Gesù Sacramentato.
Questa conversione però metteva D. Bosco in un brutto impiccio. Quel signore gli aveva consegnate, poco prima di morire, i diplomi e le insegne dei suoi gradi nella setta e le carte contenenti i nomi dei complici, che teneva gelosamente custodite altrove. D. Bosco le lesse e stupì a que' nomi. Erano di persone che in faccia al mondo comparivano come buoni cattolici e che poi ebbero parti principali nelle rivoluzioni italiane. Fra costoro varii ecclesiastici estradiocesani venuti a stabilire il loro domicilio in Torino. D. Bosco chiamò [167] subito il suo confidente Buzzetti Giuseppe, che era un giovane di segretezza a tutta prova. Fino al 1849 egli aveva lavorato nel suo mestiere da muratore ed ora, studiando, occupavasi unicamente nell'aiutare Mamma Margherita nelle faccende di casa e nell'assistere l'infermeria. Egli custodiva il danaro per le spese, e una volta D. Bosco, non ricordandosi più di avergli dato uno scudo, mentre gliene porgeva un secondo, sentissi rispondere: Vuol darmelo due volte? - La sua fedeltà era proverbiale. D. Bosco adunque lo incaricò di trarre due copie di quelle carte fatali, ordinandogli che una delle copie fosse bruciata, l'altra ritenuta dallo stesso Buzzetti e nascosta cogli originali senza dire allo stesso D. Bosco ove l'avesse riposta. Era necessario che temporeggiasse per chiedere sconsiglio a' suoi Superiori. Aveva giudicato esser meglio consegnar alla Curia quella copia, anzichè fare altrimenti per non provocare odiosità ed angherie contro di essa in tempi così procellosi.
Intanto alcuni settarii, mandati dai loro capi, erano corsi alla casa del defunto, appena spirato, per impadronirsi di que' gelosi documenti e avendoli invano ricercati, s'immaginarono subito in quali mani potessero trovarsi. E in quello stesso giorno due signori si presentarono a D. Bosco, e prima con maniere cortesi e poi risolutamente, gli chiesero quelle carte. D. Bosco cercò schermirsi, trovò pretesti, e affermò di aver visto quei fogli che essi chiedevano, ma non sapere pel momento ove fossero custoditi. Sopraggiunte altre persone finì per congedarli; e quelli partirono borbottando.
D. Bosco si affrettò a chiedere istruzione alla Curia. Infatti, come egli prevedeva, i due signori poche ore dopo ritornarono e questa volta minacciosi. D. Bosco rispondeva non sapere quali diritti potessero avere su carte, le quali erano state a lui confidate da un amico, e quindi non credersi [168] autorizzato a violare simile segreto. D'altra parte affermava quelle carte essere di nessuna importanza, poichè Contenevano solo alcuni nomi.
Quei signori si calmarono, vedendo come D. Bosco dimostrasse di non farne gran caso, e scesero con bel modo alle preghiere, dimostrando come se questi nomi si fossero palesati, ne sarebbe venuto disonore e danno agli individui ed alle loro famiglie.
D. Bosco si lasciò persuadere, e consegnate le carte autentiche, dalle loro stesse parole trasse argomento per dimostrare quanto mala fosse la via per la civile quale si erano messi, quanto pericolosa per la loro anima e in faccia, alla stessa società civile.
Gli altri lasciarono dire, balbettarono scuse e partirono. Non tardarono pero a ricomparire la terza volta, e dopo lunghi giri di parole gli chiesero se avesse presso di sè copia di quelle carte. Nello stesso tempo gli facevano intendere che la setta aveva mezzi per vendicarsi.
D. Bosco rispose francamente che no. Infatti l'unica copia era stata consegnata a chi di dovere. Gli altri insistevano, e D. Bosco assicurò che per verità ne aveva presa copia, ma che aveala data alle fiamme; perciò stessero tranquilli. Parlava però in modo da eguale ad eguale, senza lasciarsi intimidire.
Quei signori erano per allontanarsi, ma ritornarono indietro chiedendo giurasse il segreto. D. Bosco si mostrò alquanto offeso che lo credessero capace di recar danno a qualcuno, e si rifiutò di giurare; promise però che nessuno avrebbe da lui saputo cose che li compromettessero. E così parve finisse quella pericolosa seccatura.
Tuttavia accadde un fatto, che non osiamo assicurare essere conseguenza di tale diverbio. In questo stesso anno [169] mentre D. Bosco una notte attraversava un tratto oscuro di Piazza Castello, due sconosciuti appressatisi a lui, e tratti i pugnali, gli furono sopra. Ma un certo sig. Rolando, che poi narrava l'accaduto a D. Michele Rua, passando con un suo amico poco lungi, dai primi movimenti di quei bricconi, avvedutisi dell'insidia, accorsero ambedue coi poderosi bastoni dei quali erano muniti, e li costrinsero a fuggire.
LA VITA di D. Bosco si fa ogni giorno più ricca di lavori e di meriti. Sul finire del 1850 egli è sulle mosse per andare a Milano. Il Sommo Pontefice aveva pubblicato un nuovo Giubileo per riparare ai tanti danni cagionati alle anime dagli odii di parte, dalle guerre e dalle ribellioni. D. Serafino Allievi, Direttore a Milano dell'Oratorio di S. Luigi in via S. Cristina, invitava D. Bosco, perchè venisse a predicarlo ai suoi giovani. Questo floridissimo Oratorio festivo aveva per iscopo di istruire i fanciulli più poveri, più abbandonati ed ignoranti della città, accoglierli sbandati, allontanarli dal giuoco e dalle bettole, e, in una parola, educarli cristianamente. D. Biagio Verri, modello nel pregare, nel confessare, nel predicare e nello svolgere tra quei giovani un gran numero di vocazioni, sì ecclesiastiche che religiose, abitando presso D. Serafino, ed essendo tanto amico di D. Bosco per averne conosciuto da vicino le rare virtù, lo attendeva con viva impazienza. L'invito era [171] stato fatto di pieno accordo coll'Arcivescovo Mons. Romilli. Eziandio il parroco di S. Simpliciano, chiesa parrocchiale dell'Oratorio di S. Luigi, non solo aveva approvato questa deliberazione, ma con vive istanze da parte sua rinnovava l'invito a D. Bosco, sperando di servirsi del suo sacro ministero a gran bene della propria popolazione.
Volentieri D. Bosco accondiscese a fare quel viaggio, e ne chiedeva licenza all'autorità ecclesiastica e il permesso all'autorità civile ed alla Legazione Austriaca. Il passaporto reca contrassegni che noi abbiamo stimato bene di non ommettere: età anni 35; statura oncie 38 capelli castagni oscuri; fronte media; sopraciglia castagne occhi id.; faccia ovale; carnagione bruna; condizione maestro di scuola elementare.
Ma prima di partire egli desiderava di assistere alla riuscita di alcune conferenze che si erano promosse per opporre un argine efficace all'errore invadente. Egli, sin dai primordii dell'Oratorio, aveva intiero nella mente il programma delle opere che da lui esigeva la Divina Bontà. Ponderava, ciò che altri solo più tardi compresero, di quale aiuto poteva essere ai Vescovi e al Clero il laicato cattolico, quando fosse disciplinato in modo da concorrere alla difesa della società cristiana minacciata. Nello stesso tempo non gli sfuggiva l'importanza di una associazione che stringesse in comune accordo i suoi benefattori per il conseguimento de' suoi fini. Era quindi nella sua mente eziandio un tentativo per dare inizio, per quanto esiguo e non senza riserve di prudenza, alla pia unione di coloro che poi furono chiamati Cooperatori Salesiani. Il seguente documento spiega il disegno caldeggiato da D. Bosco. [172]
Copia di deliberazione costitutiva.
Vien formata la seguente scrittura per servire di positiva e solenne testimonianza, che essendosi radunati li qui sottoscritti amici tutti cattolici e laici, i quali addolorati dagli abusi della libera stampa in materie religiose, e dalla sacrilega guerra dichiarata da molti cattivi cristiani contro la Chiesa ed i suoi ministri, e dal pericolo di vedere in Piemonte la religione vera soppiantata dal Protestantesimo, avuto il favorevole parere di cinque dottissimi Ecclesiastici fra li più distinti e zelanti del clero di questa Capitale, sono addivenuti alle seguenti determinazioni:
1° Di costituirsi essi medesimi in Pia unione provvisoria sotto l'invocazione di S. Francesco di Sales, preferendo questo Santo per ragione di analogia tra le circostanze attuali del nostro paese e quelle della Savoia ai tempi di detto Santo, il quale col suo zelo illuminato, predicazione prudente e carità illimitata l'ha liberato dagli errori del protestantesimo.
2° Che questa pia società provvisoria sia il principio di un consorzio in grande, il quale col contributo di tutti i soci e con quelli altri mezzi leciti, legali e coscienziosi che si potrà procurare, attenda a tutte quelle opere di beneficenza istruttiva, morale e materiale che si ravviseranno le più adatte e speditive ad impedire all'empietà di fare ulteriori progressi, e se è possibile, sradicarla dove già si fosse radicata.
3° Che a cominciare da questa provvisoria unione la Società, o Consorzio che venga a chiamarsi, sia un'istituzione laicale, onde non possano certi malvagi appellarla, nel loro gergo di moda, un ritrovato pretesco della bottega. Ma che, [173] ciò malgrado, non se ne escludano que' buoni e fervorosi ecclesiastici che ben vorranno favorire la società colla loro adesione, coi loro lumi, e colla loro cooperazione, secondo lo spirito ed i fini di questo istituto.
4° Per regolarizzarne la esistenza morale e l'opera di questa provvisoria società, li pochi intervenuti qui presenti si sono divisi tra di loro per reciproco consenso le incombenze della società nel modo seguente:
Primo Promotore. - Bognier Giuseppe Maria.
Secondo Promotore. - Roggieri Domenico.
Terzo Promotore. - Donna Domenico.
Quarto Promotore. - Battistolo Pietro.
Quinto Promotore. - Bognier Leandro.
Sesto Promotore. - Gilardi Gio. Batta.
Settimo Promotore. - Bosso Amedeo.
E per far le parti di segretario si delega il Promotore Bognier. Come Tesoriere si deputa il Promotore Roggieri Domenico.
Si fa atto della colletta fattasi qui tra noi, la quale ha prodotto la somma di lire cinque, che furono qui consegnate al sig. Promotore Roggieri nella sua qualità di Tesoriere, per servire di primo obolo alla società e da spendersi solo dietro ordinato regolare della medesima.
5° Tutti li qui intervenuti Promotori predetti, cui si è aggiunto, seduta stante, il qui presente sig. Borel Giuseppe, s'impegnano di adoperarsi, per quanto sta in loro, a procurare alla socie à quel maggior numero di nuovi membri che si potrà sempre pero colle cautele necessarie, onde non introdurre ipocriti o fratelli di equivoca cattolicità, o di uno zelo esagerato.
6° Che Domenica prossima abbia luogo una nuova adunanza, colla presentazione dei nuovi soci che si saranno [174] procurati, a quell'ora, ed in quel luogo che verrà indicato dal primo Promotore.
7° Che fra la settimana il Promotore Bognier presenti copia di quest'atto a quelle notabilità fra i laici ed ecclesiastici che giudicherà capaci di favorire la nostra Istituzione, pregandoli di aderire, prescindendo però subito ogni ulteriore pratica con chi si mostrerà piuttosto contrario che favorevole.
Torino, li diciassette novembre mille ottocento cinquanta, alle ore otto di sera.
Bognier Giuseppe. Gilardi Gio. Batta.
Domenico Roggieri. Bognier Leandro.
Donna Domenico. Borel Giuseppe.
Seguono le firme degli aderenti e le cifre delle oblazioni volontarie.
In calce sta scritta questa Istruzione:
Si proporrà primieramente la cosa come un solo desiderio, poi come una necessità, quindi come un progetto, a misura che risponde favorevolmente l'animo dell'ascoltante; ma per poco che esso si mostri ritroso, si prescinderà subito da ogni pratica ulteriore, comunque pia ed ottima sia la persona. Si noteranno però le risposte ed osservazioni avute, per regola della Società.
Le persone che per motivi particolari consentiranno solo a condizione di secreto sul loro nome, resteranno conosciute dal solo Promotore che le avrà scritte. Figureranno anonimi [175] con solo un'iniziale sull'elenco della Società, oppure coll'appellativo di benefattore.
Forse si faranno tre categorie: Socii, aderenti e benefattori. Si prevengano tutti che i soci avranno da pagare almeno 20 soldi al mese, oltre la prima oblazione. Gli altri qualche piccola moneta a lor volontà ogni settimana.
Chiuse queste conferenze, D. Bosco partiva da Torino il 28 novembre alle ore 2 pomeridiane, e con viaggio non interrotto, passando per Novara e per Magenta, giungeva a Milano all'indomani alle ore 11 antimeridiane. Aveva sofferto molto nel viaggio pel moto della vettura.
I tempi correvano difficilissimi. Milano, dopo le famose giornate, sembrava sedesse sopra un vulcano ancora acceso. I liberali e le sette avevano sempre rivolti tutti i loro disegni alla Lombardia, aspettando e cercando l'occasione di scacciarne i Tedeschi. Questi poi spiavano e conoscevano quasi tutti i disegni e le brighe dei congiurati e raddoppiavano la vigilanza. Di quando in quando gli arresti e le gravissime condanne per delitto di lesa maestà cagionavano terrore ai cittadini. La polizia austriaca teneva aperti mille occhi, eziandio sul clero e sui predicatori, perchè temeva che dai sacri pergami si facessero allusioni all'insurrezione di recente domata. Intanto per timore del Governo i parroci esitavano a dar principio alle sacre missioni in preparazione all'acquisto del Giubileo; gli assembramenti numerosi nelle chiese, avrebbero potuto dar appiglio ad effervescenze politiche o provocare sospetti, divieti e repressioni. I sacri oratori non si azzardavano di salire il pulpito, potendo una loro frase male interpretata essere causa di guai.
In queste critiche circostanze D. Bosco prendeva alloggio [176] presso D. Serafino Allievi e D. Biagio Verri, ed annunziò al parroco di S. Simpliciano che avrebbe subito incominciata la predicazione pel Giubileo nella sua chiesa. Ma il parroco, forse per suggestione di timidi consiglieri, aveva mutato parere: osservò che altra cosa era predicare nell'interno e come in privato, nell'Oratorio di S. Luigi, e altra il predicare a una gran folla in pubblica chiesa; e dichiarò assolutamente di non poter permettere che s'incominciasse quella missione senza prima parlarne coll'Arcivescovo. - Oh, in quanto a questo ci penso io! - rispose D. Bosco; e senz'altro recossi da Mons. Romilli per chiedergli quella licenza.
Il Prelato, che era ben accetto alla Corte di Vienna, non gliela negò; ma sul principio cercava di dissuaderlo. Vedendo però come D. Bosco fosse pieno di coraggio e nulla temesse: Signor Abate, gli disse, io non ho nulla in contrario, ma predicate sulla vostra responsabilità. Se vi accade disgrazia io non ci entro. Voi sapete che noi viviamo in tempi pericolosi.
- Ed lo predicherò, rispose D. Bosco, in quel modo che si usava nel fare le prediche cinquecento anni fa.
- Siete in libertà, vi replico, concluse l'Arcivescovo. Se vi sentite l'ardire andate pure e predicate. Io nè ve lo comando, nè ve lo consiglio, ma ve lo permetto di buon grado. Ricordatevi però, che per quanto grande sia la vostra prudenza, non sarà mai troppa.
E D. Bosco cominciò a predicare a S. Simpliciano. Fin dalla prima predica la folla accorse con una curiosità ed un'ansia da non potersi descrivere. In mezzo a quelle febbri rivoluzionarie sembrava impossibile l'indifferenza, politica. Si aspettava una cosa ed era un'altra ben diversa. Egli predicava nè più nè meno di quello che avrebbe fatto un oratore sacro due o tre secoli prima. Con grande franchezza ed affetto invitava i peccatori a penitenza; e ciò che era da dirsi per [177] la riforma dei costumi lo esponeva senza ambagi, non badando a nessuno. Riguardo a ciò che si agitava nel cuore dei popolani, e che teneva desta la vigilanza risoluta del Governo, non fece il minimo accenno e schivò di narrare qualunque paragone o fatto anche antico che avesse potuto essere giudicato, anche alla lontana, allusivo alle circostanze attuali: in tutto sì comportava intieramente come se non esistessero questioni politiche e non fossero mai esistite. Perciò nessuna delle autorità ebbe a fargli la minima osservazione. Tutti i suoi uditori trovavano nelle sue parole in lungo e in largo null'altro che la meditazione sui novissimi e le istruzioni sul modo di confessarsi e di comunicarsi. Milano fu meravigliata del modo di predicare da lui seguito.
Il suo stile era quello di S. Alfonso Maria de' Liguori. Di questi esercizii dettati a Milano noi abbiamo conservato le tracce scritte da lui stesso; e si capisce come la sua parola avesse sempre una forza irresistibile. Benchè lento nel parlare, pure stampava le sue sentenze nel cuore di chi l'udiva. Ci basti per saggio l'esordio della sua predica sul giudizio universale: “E fino a quando, o peccatori, abuserete della bontà di Dio, fino a quando continuerete ad offenderlo? Già gridano vendetta i compagni scandalizzati da voi; già gridano vendetta le chiese nelle quali commetteste tante irriverenze; già gridano vendetta i sacramenti profanati con tanti sacrilegi; già gridano vendetta il sole, la luna, le stelle, testimoni della vostra ribellione al loro Creatore; già grida vendetta la terra, da voi fatta teatro delle vostre iniquità; già gridano vendetta gli angioli stessi che vorrebbero vendicare gli insulti da voi fatti al loro Dio. E fino a quando vi abuserete della pazienza di questo misericordioso Signore? Vi rincresce forse mutar vita? Non tremate innanzi alla spada della giustizia celeste, già sfoderata per colpirvi? [178] Ebbene, continuate a bestemmiare il suo santo Nome, continuate pure a parlar male contro la SS. Religione nostra e contro i suoi ministri, continuate pure a mormorare contro il vostro prossimo, continuate, pure a fare cattivi discorsi, continuate pure a profanare i giorni festivi, fate presto a crocifiggere di bel nuovo sa questo duro legno il buon Gesù, perchè il tempo che vi resta è breve, l'eternità si avanza, è imminente, le folgori già lampeggiano in aria e stan per piombare su di voi, già si innalza il tribunale ove siederà il Giudice Eterno. Non lusingatevi, non sperate salvezza: il braccio del Signore è già steso e non avrete luogo di scampo. Al giudizio vi attendo, al giudizio, al quale tutti dovremo comparire e rendere strettissimo conto delle nostre azioni; di tutto ciò che avremo fatto, sia di bene omesso, come di male operato...” Era questa la politica per l'eternità.
Bello osservare allora in chiesa certi mostacchi appostati, solamente per osservare se gli sfuggisse qualche parola contro il Governo o contro lo stato attuale della cosa pubblica. Ed eziandio costoro di quando in quando non potevano tenersi dall'asciugare una lagrima, atterriti al pensiero del giudizio e dell'inferno.
Non aveva ancor finito questo triduo di due prediche al giorno in S. Simpliciano che il 2 dicembre, lunedì dopo la prima domenica di Avvento, incominciava ad ore diverse gli esercizii spirituali nell'Oratorio di S. Luigi, che dovevano durare pure tre giorni. D. Serafino aveva raccolti a centinaia i suoi giovani.
D. Bosco, che tante meraviglie operava tra i suoi giovani di Valdocco, doveva attirare a sè egualmente i cuori dei giovani di Milano. D. Serafino Allievi molti anni dopo ne faceva, noi presenti, cara testimonianza. Di queste prediche di Don Bosco abbiamo eziandio i punti principali da lui notati [179] sopra un foglietto. La prima sua parola fu la parabola di una madre che manda in viaggio due suoi figliuoli con due rispettivi compagni e dà loro i necessarii avvisi, perchè possano giungere sani e salvi, con un tesoro che loro affida, ad una lontana città ove li attende il padre loro. Essi partono, incontrano varie vicende, ed eziandio un nemico il quale si sforza di far loro disprezzare gli avvisi materni. Uno li segue e riesce bene, l'altro li trascura e riesce male. Applicazione. I due figli siamo noi; la madre è la S. Chiesa; i compagni, gli angeli custodi; il viaggio, la vita nostra mortale; la città, il paradiso; il padre che ci attende, il Signore; il nemico, il demonio; il gran tesoro, l'anima nostra. Su questa idea fondamentale svolse gli argomenti del fine dell'uomo, della salvezza dell'anima, dello scandalo, della morte che può venire improvvisa, della sacramentale confessione e del paradiso.
L'ultima sua parola fu quella già predicata agli esercitandi di Giaveno. Lasciava per ricordo: - Ogni mese apparecchio alla buona morte.
In quel frattempo varii Rettori di chiese assicurati che la sua predicazione a S. Simpliciano, non solo non aveva dato il minimo pretesto nè a disordini, nè a violenze, ma era riuscita felicemente con molto frutto per le anime, lo chiamarono nelle loro chiese. Egli acconsentì volentieri, e predicò in S. Maria Nuova, in S. Carlo, in S. Luigi e in Santo Eustorgio, come afferma D. Rocca Luigi per averne udito a parlare dai suoi parenti e concittadini milanesi. Talora predicava una sol volta al giorno in una delle sopradette chiese, talora fino a cinque prediche al giorno in diverse chiese.
Mentre predicava un triduo a S. Rocco, ebbe invito dai padri Barnabiti, alcuni dei quali aveva conosciuti a Moncalieri, [180] di andare a dettare gli esercizii spirituali a Monza. Allora tra Milano e Monza vi era l'unica ferrovia che si avesse nelle terre lombarde. D. Bosco partiva da Milano alle l0 e mezzo ant., predicava a Monza e ad un'ora pomeridiana era già a Milano per la predica a S. Rocco. Grandissimo era il numero di coloro che venivano a confessarsi.
Un giorno mentre D. Bosco andava al suo confessionale assiepato di penitenti, un giovanotto lo prese per la veste, lo tirò in un banco in mezzo alla chiesa, alquanto oscura per le tendine abbassate, e gli disse: -Mi confessi qui! D. Bosco si assise e l'altro gettandosi in ginocchio si confessò. Finita la confessione quel giovane disse a D. Bosco: - Lei confessa tale e quale e colle stesse parole di un prete dal quale io mi confessava a Torino anni sono.
- E se questo prete qui fosse quel prete là? gli rispose D. Bosco.
- Lei D. Bosco! esclamò il giovane fissandolo in volto.
- Proprio D. Bosco! - disse il buon prete. Quel giovanotto ruppe allora in pianto, tanta fu la consolazione e la tenerezza che provava in quell'istante.
D. Bosco non solo per quella predicazione non incorse in alcun mal partito, ma in varii luoghi, trovatosi in mezzo ai soldati ed agli ufficiali austriaci, era visto assai volentieri. Tanto più che egli si giovava di quel po' di lingua tedesca che aveva imparata nel 1846, per ispirar loro qualche buon sentimento.
Intanto, dietro il suo esempio, altri sacerdoti si erano posti a predicare, e l'Arcivescovo per questo gli attestò più tardi la sua viva riconoscenza.
Questa predicazione aveva durato 18 giorni. Don Bosco ritornava a Torino passando per Magenta e Novara. Al solito, confessò il conduttore del velocifero e nel tempo di [181] una fermata uno stalliere nella stalla. Coi locandieri poi ebbero luogo le stesse scene graziose, di prediche e di inviti a pensare seriamente all'anima.
Alla Barriera detta di Milano trovava i giovani Rua Michele e Savio Angelo che lo attendevano.
Appena giunto in Torino, fu suo primo pensiero porgere un attestato di riconoscenza a Maria SS. col ricordare le tante grazie che Ella aveva accordate all'Oratorio. Era una sua pratica speciale, direi quasi un atto di confidenza famigliare. Fino dall'anno 1842 era solito tenere una conferenza, ai suoi figli, intorno al suddetto argomento nel giorno dell'Immacolata: la prima volta ai giovanetti, poi ai soli catechisti, poi ai chierici; e infine la continuò ai Salesiani in tutti gli anni della sua vita, cioè di mano in mano che svolgendosi la sua Istituzione gli uni prendevano importanza e preminenza sugli altri. Se qualche rara volta ne era impedito, non ommetteva mai di tenerla prima che l'anno terminasse.
E in quest'anno per accendere sempre più ne' suoi cari la divozione verso la Madre del Divin Salvatore gli dava eziandio argomento di parlare un fatto che riempiva di sua fama l'Italia. A Rimini nella piccola chiesa di Santa Chiara, si venerava un quadro della Vergine SS. sotto l'invocazione: Regina Madre di Misericordia. Sull'imbrunire dell'11 maggio tre buone signore postesi a pregare innanzi a Lei, con grande meraviglia e consolazione, osservarono un movimento nelle pupille della santa effigie, in senso orizzontale e verticale; talora dolcemente si elevavano fino a nascondersi sotto le palpebre con un leggiero cangiamento nel colore del sacro volto. La città come in un baleno fu piena della sorprendente notizia e tutta si affollava intorno a quell'altare. E il prodigio sensibilissimo, evidente, continuò per quasi otto mesi [182] innanzi a migliaia e migliaia di testimonii. I costumi mutati di tutto il popolo, i sacramenti frequentati in modo meraviglioso, una fonte inesausta di grazie che fin d'allora incominciò a scaturire, il rigoroso processo diocesano approvato dalla Sacra Congregazione dei Riti, l'Ufficio e la Messa propria consentita per questo portento, la corona d'oro concessa dal Sommo Pontefice, la chiesa ridotta ad una elegante architettura di croce latina e dedicata nel novembre di questo stesso anno, erano altrettante testimonianze della verità del prodigio.
Colla viva gioia di questa nuova gloria della Madonna e colle soavi emozioni delle Feste Natalizie D. Bosco giungeva alla fine del 1850.
LE VIRTU' di D. Bosco erano esimie come le sue opere. Aveva preso per suo modello la vita mortificata sia interna, sia esterna del Divin Salvatore, crocifiggendo le proprie passioni e le naturali inclinazioni. Anche a' suoi alunni raccomandava questa mortificazione, proclamando che chi vuol godere con Gesù Cristo in cielo, fa d'uopo che patisca con lui sulla terra. Insisteva specialmente che fossero temperanti nel cibo, nel bere e nel dormire, dicendo che il demonio tenta di preferenza gli intemperanti. Sebbene stabilisse che il vitto fosse abbondante, onde ognuno avesse di che sostentarsi senza detrimento della sanità, specialmente perchè i suoi commensali erano giovani, tuttavia dispose che ne fosse allontanato ogni apprestamento superfluo. Non tollerava che alcuno si lagnasse del cuoco e dei cibi dei quali si nutriva egli stesso; però quando alcuno avesse avuto bisogno di nutrimento diverso, volentieri lo provvedeva. Esortava tutti ad evitare l'ingordigia e la troppa fretta nel mangiare, ripetendo la sentenza: prima digestio fit [184] in ore. Disponeva che il vino ai chierici fosse dato in molto discreta misura, affermando che l'acqua buona giova assai meglio a spegnere la sete ed alla sanità. Molto insisteva sulla temperanza dell'uso del vino. Predicando soleva ripetere le parole della Scrittura: In vino luxuria. Faceva attenzione se alcuno, per il gusto di assaporare il vino, bevesse a centellini, oppure se bevesse vino generoso senza annacquarlo: ciò che accadeva raramente, cioè nelle feste solenni e se vi erano forestieri a mensa. E su questo faceva agli alunni le sue raccomandazioni. Li esortava eziandio caldamente a non andare mai a letto nelle ore pomeridiane, premunendoli, come diceva egli, ab incursu et demonio meridiano. Però loro permetteva che nella stagione estiva, o nello studio comune o nella scuola, dormissero una mezz'ora o tre quarti d'ora, appoggiando le braccia o la testa sul tavolo o sul banco.
Soleva dire: - Datemi un giovanetto che sia temperante nel mangiare, nel bere e nel dormire, e voi lo vedrete virtuoso, assiduo ne' suoi doveri, pronto sempre quando si tratta di far del bene, e amante di tutte le virtù; ma se un giovane è goloso, amante del vino, dormiglione, a poco a poco avrà tutti i vizii. Diverrà sbadato, poltrone, irrequieto, e tutto gli andrà a male. Quanti giovani furono rovinati dal vizio della gola. Gioventù e vino sono due fuochi. Vino e castità non possono coabitare insieme!
Le sue parole tanto più efficaci, in quanto che i suoi discepoli lo videro sempre temperante in tutto. Nondimeno quanto fosse eroico questo spirito di penitenza, come quello di S. Filippo Neri, per sua industria e suo maggior merito, non si potè avvertire per anni ed anni da moltissimi estranei alla casa che lo conoscevano, senza esserne famigliari. Quelli stessi che gli stavano continuamente attorno, se ne formarono un sicuro giudizio solo dopo continuate e lunghe [185] osservazioni, tanto egli era gioviale e faceto. Questi furono, dal principio fino al termine della sua vita, testimoni continui e talora importuni, di notte e di giorno, in casa e fuor di casa, di ogni anche minima sua azione. Dal 1841 Buzzetti Giuseppe, dal 1848 Savio Ascanio, dal 1852 Rua Michele, Cagliero Giovanni e poi Cerruti Francesco, Bonetti Giovanni e infine Berto Gioachino, che dal 1864 fu il suo segretario intimo, il suo confidente, fino al 1888 circa: e con essi migliaia e migliaia di altri, da molti de' quali raccogliemmo ciò che siamo per dire.
Fin dai primordii non mancarono i critici per interpretare meno rettamente certi suoi atti, giudicandoli dalle apparenze; ma dovettero le cento volte ricredersi dopo un esame spassionato. Diremo di un fatto accaduto verso il 1850, del quale ci scrisse Brosio Giuseppe
“L'Oratorio era anche frequentato da giovani esterni grandi e molto propensi alla critica; essi per leggerezza censuravano qualunque più piccola cosa, e non solo tra loro compagni, ma anche tra le persone tutt'affatto estranee all'Oratorio. D. Bosco per una sua indisposizione mangiava la minestra anche alla sera nei giorni di digiuno; ma era condita di puro sale ed io lo sapeva. Allora la costumanza generale imponeva che nelle vigilie alla colaziuncola non si apprestasse la minestra. Ora accadde che un giovedì santo dopo la lavanda dei piedi, che faceva D. Bosco stesso, egli invitasse a cena con lui i tredici giovani che avevano raffigurato gli apostoli: in quell'anno io rappresentava S. Paolo. Per essi fu posta sulla mensa un'abbondante pietanza di magro, e secondo il solito Mamma Margherita portò la minestra a D. Bosco. Ed ecco subito un giovane dire ad un altro: - To', guarda; D. Bosco mangia la minestra questa sera che è digiuno! - Io ascoltando queste parole, desiderai [186] che D. Bosco desse una buona lezione a cosiffatti scrupolosi e dissi ad alta voce alla Margherita: - Eh brava mamma! Ha data la minestra a D. Bosco oggi che è digiuno: non sa che non se ne può mangiare? - A questa mia uscita tutte le persone che si trovavano in quella camera presero a ridere. La mamma e la zia di Don Bosco si schermivano col dire che la minestra condita al puro sale era tutt'altro che gustosa. D. Bosco non fiatava, ed io desiderando che parlasse, fingeva di non capire e continuava a battere il chiodo, cioè che di minestra in quella sera non se ne doveva portare in tavola. Allora D. Bosco, che forse intese ciò che io voleva, fece un discorso così commovente sull'argomento in questione, sulla necessità che dispensa anche da una legge, sulla debolezza del suo stomaco dopo tante confessioni ascoltate, che il giovane, il quale aveva arrischiato quel motto imprudente, piangeva; e d'allora in poi io più non udii criticare gli andamenti dell'Oratorio”.
Dopo tali schiarimenti, passiamo ad esporre fatti e testimonianze relativamente allo spirito di mortificazione di Don Bosco sebbene si riferiscano a parecchi anni.
“Io, così il primo chierico dell'Oratorio Teol. Savio Ascanio, non lo vidi mai praticare penitenze straordinarie; però, a mio giudizio, nella sua vita ordinaria di buon prete appariva straordinario. Non mi consta che portasse cilicio, si desse sanguinose discipline, si affliggesse con prolungati digiuni o altre macerazioni; ma pure praticò la mortificazione corporale così assidua, costante e minuta, con tanta facilità e sì gran piacere, che il suo vivere si può paragonare a quello dei monaci più austeri, e dei penitenti più rigidi. Attese le sue malattie, le continue fatiche, cure, affanni, avversità, persecuzioni, ogni giorno, anzi direi ogni ora ebbe la sua croce da lui portata pazientemente”. [187]
Il medesimo soggiungeva: “E’ mia ferma convinzione che egli passasse le intere notti anche insonni, per attendere alla preghiera, scrivere i suoi libri, studiare, sbrigare le corrispondenze e disegnare con Dio le sue opere”. - “Don Bosco una volta mi confidò, diceva D. Rua, che fino all'età di cinquant'anni non aveva dormito più di cinque ore per notte, vegliando una intiera notte a tavolino ogni settimana; ed io ne fui testimonio fino all'anno 1866, perchè vedevo sempre il lume acceso in sua camera fino oltre le dodici ore. Dal 1866 al 1871 incominciò a concedersi sei ore di riposo continuando la sua veglia di una notte per settimana. Ordinariamente però nella bella stagione alzavasi alle 3 del mattino e coricavasi alle 11 e ½, di sera. Di ciò accorgevasi il suo segretario D. Berto, che dormiva nella stanza vicina. Dopo la malattia di Varazze nel 1872, dovette rassegnarsi a prendere sette ore di riposo e rinunciare alla veglia di una notte per settimana. Ciò non toglieva però che qualche volta non ritornasse all'antica abitudine”.
A sua volta Bisio Giovanni ci affermò: “Io, destinato a fare il servizio della sua camera, dal 1864 al 1871, più volte trovai il suo letto intatto, e lamentandomi con lui che non avesse riposato, egli rispondeva che pel gran lavoro non aveva potuto coricarsi”.
Alla mattina era pronto a levarsi con tutti gli altri alle 5 ovvero alle 5½ eziandio nell'inverno più crudo, appena la campana della comunità dava il primo rintocco. Scendeva dal suo povero letto, che tenne, fin quasi negli ultimi anni, nella medesima camera dove dava udienza; e quantunque per la troppa debolezza il suo corpo talvolta trasudasse e tanto, e dovesse durare molta fatica per vestirsi, sempre lo fece da sè . Quando i giovani discendevano in chiesa, era già al suo posto per le confessioni, e prima e [188] durante la messa della comunità ascoltava ogni giorno i penitenti, e ciò finchè le forze glielo permisero. Solo negli ultimi anni prolungava il suo riposo fino alle 6, perchè diversamente avrebbe contristato i suoi figli.
Se l'alba sorprendevalo al tavolino, dove aveva passata la notte lavorando, alzavasi dalla sedia e andava a confessare i giovani, e, celebrata la S. Messa, ritornava al suo scrittoio. Se null'altro intrattenevalo, attendeva subito al disbrigo de' suoi lavori, con tutta l'intensità della sua mente, e loro sacrificava ogni necessità della vita. “All'inverno, disse il suddetto Bisio, si metteva a lavorare senza mai riscaldarsi al fuoco. A me pareva impossibile che col freddo intenso potesse scrivere senza che gli cadesse la penna dalla mano. E non l'ho mai udito a lamentarsi del freddo, nè del caldo, nè di qualsiasi incomodo”.
A colazione non prendeva per molti anni altro che una piccola tazza di caffè mescolato a cicoria, bevanda che non faceva gola a nessuno, mescolandovi alcune gocce di latte solo quando veniva costretto da qualche indisposizione. Per qualche tempo e di rado vi bagnava tanto di pane, e quello comune, da non rompere neppure il digiuno, e in fine lasciò anche questo. Noteremo che osservava rigorosamente le astinenze prescritte dalla Chiesa, e digiunava ogni sabato, che poi nelle regole da lui date ai Salesiani si cambiò col venerdì.
Suonato il mezzo giorno, talvolta era ancora trattenuto in camera dalle udienze, che furono causa, come vedremo, della più grande delle sue mortificazioni, quindi ordinariamente giungeva nel refettorio molto in ritardo. Tanto più che in quel tragitto era sovente fermato da più persone, che l'una dopo l'altra volevano dirgli o sentire da lui qualche parola; e talora ne incontrava di quelle che non conoscevano [189] discrezione, trattenendolo lungamente. Ed egli, con ammirabile pazienza e tutta pacatezza, ascoltava, rispondeva e cercava di dare ad ognuno soddisfazione. Se chi servivagli da segretario, inquieto faceva qualche rimostranza agli indiscreti, D. Bosco lo avvisava di tollerare e lasciare che ognuno potesse a lui venire, troppo rincrescendogli che dovessero partire insoddisfatti.
Giunto in refettorio, se erano già usciti i soliti commensali, pranzava, attorniato dai giovanetti sopravvenuti, che lo circondavano così da togliergli quasi il respiro, assordato, dal loro chiasso, in mezzo ad un polverio e ad un ambiente non certamente gradito ai sensi, ma gratissimo a lui che non cercava i suoi comodi, sibbene il vantaggio de' suoi figliuoli.
Fra questi Monsignor Cagliero Giovanni ci diceva: “La mensa di D. Bosco fu sempre frugalissima, per non dire meschina. Io da giovanetto nel 1852 e 1853 assisteva al suo desinare e alla sua cena. La minestra ed il pane era quello che mangiavamo noi; e la pietanza che gli preparava la sua buona Mamma Margherita era per lo più di legumi e alle volte con pezzettini di carne o di uova: sovente di zucca condita: e vedeva che lo stesso piatto presentato alla mattina ritornava alla sera riscaldato. Anzi lo vedeva alle volte ritornare per più giorni ed anche sino al giovedì se era una torta di mele”. Egli però mai non occupavasi degli apprestamenti di sua madre. Tenne sempre la massima di San Francesco di Sales: “Nulla chiedere e nulla rifiutare” - e il consiglio eziandio dell'Apostolo Paolo: - Manducate quae apponuntur vobis.
Qualche tempo dopo però, in grazia de' suoi commensali, alla minestra e alla pietanza aggiunse un po' di frutta o formaggio, e nel 1855 una seconda pietanza a pranzo quando vennero alcuni sacerdoti a dimorare con lui. Solamente il [190] primo piatto aveva carne e il secondo legumi cotti, ovvero insalata. Se per minestra apprestavasi la polenta, con qualche condimento, questa serviva anche per una pietanza. D. Bosco soleva eziandio raccomandare ai cuochi che evitassero le vivande eccitanti, e ciò pare che fosse per amore della moralità.
E D. Bosco preferiva patate, rape ed erbe purchè ben cotte, quantunque insipide, adducendo per ragione che erano più confacenti al suo stomaco; e ripeteva frequentemente la massima: - Dover l'uomo mangiare per vivere e non vivere per mangiare. - Di quando in quando i suoi chierici cercavano di fargli provvedere qualche vivanda più adattata alla sua mal ferma salute; ma se egli avvedevasi di tale particolarità, se ne lagnava e raccomandavasi al Prefetto della Casa perchè desse ordini in cucina che impedissero il rinnovarsi di simili attenzioni. Era ammirabile la sua indifferenza riguardo alla qualità e al condimento dei cibi. I più saporiti erano quelli dei quali meno gustava. Non fu mai udito lamentarsi del vitto. Avvenne talvolta che dopo di lui si servisse di minestra qualche altro il quale, al primo gustarla, lasciavala per qualche sapore ripugnante, ma egli, senza farne caso, aveala mangiata. Talora gli erano portate uova o altre vivande che incominciavano ad alterarsi ed egli se ne cibava tranquillamente senza dar segno di avvedersene. Era sua risoluzione presa di non mai dire: Questo mi piace, questo non mi piace. - Quando però la minestra era migliore o pel brodo o pel condimento, molte volte si vide versarvi la caraffa d'acqua, con la scusa che la doveva raffreddare per essere troppo calda. Anche il pane servivagli per esercizio di mortificazione e nello stesso tempo per promuovere lo spirito di economia. Aveva istituita in casa una specie di compagnia, detta dei tozzi di pane, i cui membri si proponevano di servirsi a preferenza di tutti gli [191] avanzi del pane, lasciati nel pasti precedenti, anche dagli altri, prima di spezzare una pagnotta ancora intera. E Don Bosco era il primo a darne l'esempio.
Mangiava poi in misura così parca che noi eravamo meravigliati come potesse reggere a tante fatiche. Il suo cibo bastava semplicemente a mantenerlo in vita. Interrogato perchè si assoggettasse a tante privazioni, rispose con umiltà allo scrivente queste memorie: - Con tanti affari che ho da sbrigare, pel grande e continuo lavoro della mia mente, se non avessi fatto così, i miei giorni sarebbonsi presto spenti. - E questa fu costumanza di tutto il tempo che visse. Anzi più volte si assoggettava a straordinarie astinenze. “Talora, ci ripeteva Buzzetti Giuseppe, attento osservatore di ogni più piccola azione di D. Bosco, se a pranzo o a cena, essendo finite le provvigioni in cucina, capitava all'improvviso qualche forestiero amico, egli privava se stesso della pietanza per darla tutta intiera all'ospite. Ma sapeva ciò fare con tanta grazia e tale onestà di pretesti, che il commensale non si accorgeva della sua industria”.
Anche nel bere fu modello di temperanza. Il poco vino lo beveva propter stomachum, come dice S. Paolo, ma così adacquato, che quasi perdeva la sua natura. Fino al 1858 e più, la sua cantina era in parte fornita dal Municipio, che mandava all'Oratorio quasi ogni settimana una misura di campioni, saggi, fondi di botte che rimanevano nel mercato del vino, mescolato il bianco col nero, il dolce col forte e talora il sano coll'inacetito. Ed usava di questo, benchè egli provenisse da un paese ove si fa vino eccellente. Spesse volte si dimenticava di bere, essendo assorto in ben altri pensieri, e toccava ai vicini di tavola di versarglielo nel bicchiere. Ed allora egli, se il vino era buono, cercava subito l'acqua per farlo più buono, diceva. E aggiungeva sorridendo: [192] - Ho rinunziato al mondo e al demonio, ma non alle pompe: - alludendo alle trombe che estraggono l'acqua dai pozzi. Ad ogni pasto beveva un solo bicchiere.
Mons. Giovanni Bertagna, che ben conosceva la vita intima di D. Bosco, un giorno di lui asserì “Nella temperanza fu di raro esempio: in casa sua mai non ricercò delicatezza; anzi pare che si sarebbe potuto permettere per sè e per gli altri un qualche miglior trattamento”.
Ma D. Bosco aveva un suo ideale di perfezione. Verso il 1860, avendo dovuto migliorare il vitto per i bisogni di coloro che abitavano con lui, mangiava senza difficoltà quello che gli veniva posto innanzi, Tuttavia spesse volte l'udimmo esclamare: - Speravo che nella mia casa tutti si sarebbero contentati di sola minestra e pane e al più di una pietanza di legumi. Vedo però che mi sono ingannato. Il mio ideale era una Congregazione modello di frugalità e che tale avrei lasciato alla mia morte, quella che pensavo di fondare. Ora però mi sono persuaso che la mia idea non era effettuabile. Mille cause mi spinsero a poco a poco a seguire l'esempio di tutti gli altri Ordini religiosi. Minestra, due pietanze, e frutta. La stessa Sacra Congregazione non avrebbe approvate le regole, se fossi stato troppo rigoroso nel limitare la qualità dei cibi; eppure anche adesso mi sembra che si potrebbe vivere come io viveva nei primi tempi dell'Oratorio.
Nondimeno, cosa incredibile! nel primi lustri dell'Oratorio, narra D. Turchi Giovanni, in Torino si diceva da taluno che D. Bosco si mostrasse povero a parole, ma che in casa tenesse piuttosto un trattamento signorile. Anzi vi fu chi osò dire, non senza un po' di malignità: - D. Bosco fa star male i suoi giovani, ed intanto lui sa mantenersi bene.
Vi fu adunque chi volle conoscere le lautezze di Don Bosco, L'Abate Stellardi con varii signori era stato [193] invitato a pranzo dal Conte d'Agliano, e conversando cadde il discorso su D. Bosco. L'Abate diceva che i pranzi di Don Bosco erano quali si convengono a persona che maneggia molti denari. Fra i convitati, chi era pel sì, chi pel no. Chi diceva D. Bosco mangiare poverissimamente; chi invece, la sua mensa essere molto lauta. A porre termine alla questione l'Abate si offerse di andare a sorprendere inaspettato Don Bosco mentre si poneva a mensa. Ed ecco ei comparisce un giorno all'Oratorio poco prima del mezzogiorno col pretesto di un'informazione da chiedere; e dopo che si fu trattenuto alquanto con D. Bosco, gli disse, se avrebbe favorito d'invitarlo a pranzo in sua compagnia, poichè i suoi affari non gli permettevano di ritornare a Soperga. - Ben volentieri, rispose D. Bosco; ma lasci prima che avvisi mia madre dell'onore che ci fa, poichè noi non abbiamo sul momento modo da trattar lei come si merita, nè vivande come la S. V. vede portare sulla sua tavola.
- No; mi faccia questo piacere; non dia alcuno avviso in cucina. Mi basterà il suo trattamento ordinario.
Dopo un po' d'insistenza dall'una e dall'altra parte si andò a tavola. D. Bosco rivoltosi a mamma Margherita - Vedete, le disse, abbiamo qui con noi l'Abate Stellardi.
- Potevi darmene avviso prima, io adesso ho niente di apparecchiato, - disse Margherita.
- Ma egli non vuole altro se non il nostro pranzo, esclamò D. Bosco sorridendo.
- Sì, sì, soggiunse l'Abate, mi contento di pranzare come pranza D. Bosco.
- E così sia! replicò mamma Margherita, che subito pose in tavola. La minestra era di riso con castagne e farina di meliga. D. Bosco mangiò col migliore appetito, ma l'Abate ne assaggiò un mezzo cucchiaio e, torcendo il viso ad altra [194] parte, non potè ingoiarlo e disse: - Oh! mangerò la pietanza.
Per prima pietanza venne portato un pezzo di merluzzo condito con un po' d'olio tutt'altro che sopraffino. D. Bosco continuò a mangiare; ma quel signore, odorato quell'olio, fece un atto di sgradimento e lasciò tutto. I chierici che pranzavano con lui, e poi descrissero questa scena, a stento frenavano le risa. Per seconda portata venne in tavola un po' di cardo bollito con sale, e per frutta una fetta di formaggio fresco. L'Abate non potè trangugiar niente, e partitosi dall'Oratorio andò immantinente dalla famiglia d'Agliano dicendo: Per carità, datemi da pranzo perchè non reggo dalla sfinitezza. E raccontava l'avvenuto, mentre tutti saporitamente ridevano. Il Conte d'Agliano conosceva D. Bosco e aveva già nel frattempo scherzato sulla preveduta disillusione dell'Abate, solito a tenere in sua casa una lauta cucina, con scelta di vivande. Così l'Abate si potè convincere, e lo disse poi in molti luoghi, che il pranzo di Don Bosco era tutt'altro che invidiabile.
Un altro esimio ecclesiastico, per fine diverso, ma colla persuasione che ci fosse qualche cosa di vero in quel che dicevasi di D. Bosco, era venuto all'Oratorio per trattare non so di che. Era il Canonico della metropolitana Ronzini Cesare. Venuta l'ora del pranzo D. Bosco lo invitò a prendervi parte. Il Canonico prima si scusò, e poi finì per accettare. Il servizio al solito modesto e povero: allesso e cavoli. Don Bosco però, in onore del suo commensale, aveva fatto aggiungere un po' d'antipasto. Il Canonico gradì molto quella gentilezza, e nel congedarsi disse al suo ospite: - Mi avevano fatto supporre che all'Oratorio si tenesse per lei una buona tavola; ma ora mi persuado che la cosa sta ben diversamente. - E guardandolo cogli occhi pieni di lagrime e [195] stringendogli la mano ripetè : - Ah D. Bosco! Io ne sono contento, molto contento! Più tardi, a cagione di alcuni sofferenti di petto, aveva fatto aggiungere qualche cosa più di carne e anche a cena. Ciò era necessario per chi si dava allo studio ed alle fatiche del ministero sacerdotale, e per accondiscendere a coloro che essendo di condizione agiata desideravano far parte della famiglia dell'Oratorio. Egli aveva anche visto come parecchi sacerdoti e secolari, venuti ad abitare con lui, avessero provato a vivere parecchi mesi secondo i regolamenti, ma che in fine, non potendosi adattare a quel metodo di vita, avessero dovuto ritirarsi ed ascriversi a qualche altro Ordine religioso.
La minestra però ed il pane li lasciò sempre comuni coi giovani ricoverati.
Tuttavia l'abbiamo udito più volte lamentarsi di questa abbondanza di carne, come egli diceva, poichè notava che avrebbe potuto, fomentare le passioni. E fu in quella circostanza che egli senza volerlo fece un'ingenua confessione del suo spirito di penitenza, dicendo, - che egli si era sempre astenuto dal mangiare carne, perchè aveva temuto la ribellione della concupiscenza; - e soggiungeva meravigliato: - Forse gli altri non sono sensibili, come lo sono io, e non hanno da appigliarsi alle stesse precauzioni!
Egli infatti generalmente si asteneva dalle carni; anzi pareva che le avesse quasi in orrore, e per quanto poteva, evitava di mangiarne, sotto pretesto che i suoi denti molto guasti gli dolevano e che non poteva masticarle. Ma rifuggendo sempre dalla singolarità, talora accettava ciò che gli veniva offerto. Se gli domandavano qual porzione preferisse, soleva dire: - Per me la porzione di carne più gradita è la più piccola! - Una parte però la lasciava nel [196] piatto e quella poca che mangiava non la condiva mai col sale. Solamente negli ultimi anni di sua vita si arrese a servirsene più frequentemente, in forza dei replicati ordini dei medici.
Dopo il pranzo, stanco dalle male notti, passate nel lavoro, o con insonnia, o con vessazioni diaboliche, come a Mons. Cagliero e a parecchi suoi intimi confidò, sfinito dalle fatiche, vinto dalla stanchezza talora dormicchiava per breve tempo a tavola, seduto sulla sedia senza appoggio e reclinando il capo sul petto. Allora i presenti, zitti zitti, uscivano dal refettorio sulla punta dei piedi per non destarlo. Ma non fu mai che in quest'ora prendesse riposo sul letto, neppure negli ultimi suoi tempi. Era questa per lui l'ora più pesante della giornata, perchè era solito uscire in Torino, per visitare i benefattori, compiere affari pressanti e cercare soccorsi per la sua opera. Tormentato dalla sonnolenza toglievasi per compagno qualche giovanetto pratico della città, dicendogli., - Conducimi nel tale e tale altro luogo; ma tu sta' attento perchè potrebbe vincermi il sonno e farmi incespicare. - E appoggiato colla mano al braccio dei giovane camminando, sonnecchiava, quasi gli bastasse quel moto e quel momento di sopore per riparare alla stanchezza del non aver dormito.
Una volta avendo passato più notti insonni e dimenticata tale precauzione, trovossi soletto sulla piccola piazza della Consolata, quasi neppur sapendo ove fosse e dove volesse andare. Un calzolaio che abitava lì presso, gli si avvicinò e gli disse che cosa si sentiva, se stesse male, o se fosse di cattivo umore.
- No: gli rispose D. Bosco, ma ho sonno.
- Ebbene, venga pure a casa mia; dormirà un po' e quindi ripiglierà il cammino per le sue faccende. - Don [197] Bosco accettò: entrò in quella piccola botteguccia, si sedette ad un deschetto e dormì dalle due ore e mezzo pomeridiane fino alle cinque Quando si destò, lagnossi col calzolaio che non lo avesse svegliato: -Oh caro lei, gli rispose quel bravo uomo; lo vedeva così stracco, dormiva così profondamente appoggiato a quel muro! Io lo guardava con divozione, pensando alle tante fatiche che avrà sopportate!
Talora accadde che sentendosi mancare le forze entrasse in una bottega, pregando il padrone di quella a lasciarlo riposare un istante. Se il bottegaio era suo conoscente, subito ben volentieri gli porgeva una sedia, perchè sapeva la cosa. Se il bottegaio non era conoscente, D. Bosco, interrompendo le solite proferte di mercanzia, in atto di confidenza dicevagli: - Mi faccia il piacere di permettermi che mi fermi qui; di darmi una sedia perchè possa riposarmi un poco. - E il padrone: -Sì sì faccia pure il suo commodo. - D. Bosco appena sedutosi si addormentava. Intanto andavano e venivano gli avventori stupiti di vedere un prete dormire in quel luogo. Pochi minuti però bastavano per rinfrancarlo e quando congedandosi ringraziava Scusi: chi è lei?
- Ma perchè non dirmelo? Vuole una tazza di caffè, un po' di vino? - E quei buoni bottegai erano poi contenti di poter narrare quella piccola avventura.
Nulla mai beveva, nè assaggiava briciola di alcunchè fuori dell'ora dei pasti, eccetto negli ultimi anni di sua vita, nei quali, per la grande difficoltà nel digerire, prendeva per ordine del medico un po' di vermouth, prima di andare a mensa; ma non comprato sibbene ricevuto in dono dalla caritatevole famiglia del Teol. Carpano; ma se non glielo presentavano egli non lo domandava. Così pure permettevasi in questi tempi un po' di camomilla, quando gliela offrivano, [198] mentre attendeva per molte ore alle confessioni. Durante il giorno, sebbene fosse stanco e sfinito dalle udienze, e talora riarso dalla sete, essendo soggetto a grande infiammazione in bocca, non chiedeva nemmeno acqua, e quando talvolta il suo segretario D. Berto gliene portava per compassione, importunandolo che bevesse almeno per fargli piacere, ne prendeva soltanto qualche sorso col pretesto che lo faceva sudare. Bisio Giovanni narrava di non averlo mai veduto bere un rinfresco, e che un giorno nei gran calori d'estate avendogli presentato una bibita con ghiaccio spezzato e limone ci la rifiutò graziosamente dicendo:
- Prendilo tu! Non volle mai in sua camera vini, sciroppi, liquori; e se gliene regalavano, o li mandava in dispensa comune o in infermeria per gli ammalati, o li faceva riporre per donarli a sua volta ai benefattori. Di quando in quando raccomandava a' suoi allievi giovani, chierici e sacerdoti di non tenere presso di sè quelle ghiottonerie spesso pericolose; nè si stancava di ripetere simile raccomandazione, e puniva anche i trasgressori. Quando nelle case ospitali gli veniva offerto del vino, egli bellamente se ne schermiva, o col pretesto che poteva cagionargli male di capo o con altre scuse.
Voleva abolite le merende con vino, frutta od altri commestibili, dicendo che venter pinguis non gignit mentem tenuem. Non fece mai una refezione tra il pranzo e la cena nè in casa propria, nè in casa altrui, nè anche allorquando invitato, o da solo, o co' suoi giovanetti insieme, vi si recava. In tali circostanze, se era solo, e l'invito era un caso straordinario, si contentava di intrattenersi in utili conversazioni colle persone di casa. Se lo accompagnavano i suoi giovani, era tutto premura che fossero serviti a piacimento loro e, dell'invitante, a norma delle convenienze; ma egli nulla gustava, adducendo per ragione che aveva da fare [199] per essi. Tutt'al più limitavasi a poche gocce di vino adacquato, per accondiscendere in qualche modo alle cortesie altrui. “In tanti anni che vissi con lui, dice Don Rua, ricordo di averlo visto una sol volta fuori di pasto con qualche grappolo d'uva in tempo di vendemmia, ed anche allora piuttosto per fare animo a' suoi giovanetti che aveva condotti espressamente a fare campagna”.
Non parlava mai di cibi nè di bevande, e coll'esempio e col consiglio distoglieva anche i giovani da simili discorsi e desiderii. Assisteva con eguale appetito ai grandi pranzi, ai quali era costretto ad intervenire, come alle semplici refezioni dell'Oratorio. Tutti vedevano che mangiava per necessità. In lui non appariva ombra d'immortificazione, ed evitava la troppa fretta. Chi sedette al suo fianco a tavola per tanti anni, può attestare che prendeva cibo come distratto, sempre occupato in altre cose, non facendo distinzione tra cibo e cibo. Accadde che gli si domandasse a pranzo se avesse già mangiato del secondo piatto, oppure solamente del primo; come pure, subito dopo alzatosi da mensa, per qualche circostanza speciale, si discorresse di ciò che era stato servito a tavola ma egli non sapeva dirlo. Erasi abituato a frenare il senso del gusto, fino al punto di perderne quasi lo stimolo.
Infatti, predicando gli esercizii in una parrocchia di campagna, verso il fine dei medesimi, una sera levatosi ad ora tarda dal confessionale, rientrò in canonica quando tutti ed anche il parroco erano già al riposo. Sentendone bisogno andò in cucina per fare un po' di cena. Al chiarore di un lumicino che colà si trovava acceso, cercò se gli avessero riservato un piatto di minestra, e vide un pignattino nel fornello sulla cenere calda. Credendo che quello contenesse la minestra, presolo e trovato un cucchiaio, mangiò tranquillamente ciò che esso credeva una polentina di semola. Ma [200] quale non fu l'indomani lo stupore della cuoca, quando, cercando l'amido, che aveva preparato per soppressare, più non lo trovò! - La buona donna non finiva di lagnarsene. Il parroco intanto venuto in sospetto, interrogò D. Bosco e con grande meraviglia apprese come egli non si fosse accorto di aver mangiato dell'amido. Del caso quegli faceva tema spesso di ragionamento, descrivendo a' suoi amici la mortificazione ammirabile del servo di Dio.
D. Bosco era tanto lontano dal soddisfare il suo palato, che, a somiglianza dei santi, pareva provasse una specie di ripugnanza ogni qualvolta doveva mettersi a tavola. Più volte fece atto come di chi si adonta di dover sottostare a tale necessità, e diceva: - Che bassezza dover tutti i giorni l'uomo nutrirsi di cibi materiali. - E soleva ripetere frequentemente: - Di due cose desidererei far senza: dormire e mangiare. - Egli aveva sovente bisogno che qualcuno lo avvisasse dell'ora del pasto, chè altrimenti se ne scordava.
Non poche volte ignorava anche se avesse già pranzato. Talora al mattino usciva per la città, e rientrato verso le due pomeridiane si poneva a tavolino. Margherita, credendo che fosse stato a pranzo presso qualche benefattore aveva già riposto ciò che aveva preparato, sparecchiata la mensa e spento il fuoco. Verso le quattro non reggendo più all'occupazione di mente, intorbidandosi la sua vista e venendogli meno le forze, D. Bosco deponeva la penna pensando: -Ma perchè mi viene questo capogiro? che non stia bene di sanità? - E passeggiava per svagarsi. Non potendo però più reggersi in piedi, chiamava la madre.
- Di che cosa hai bisogno? - dicevagli Margherita affacciandosi alla porta.
- Mi sento debole; mi gira il capo; mi sento un po' male.
- E dove hai pranzato quest'oggi? [201]
- Curiosa domanda! In casa! Vi siete dimenticata?
- Oh! in casa, no sicuramente; te ne faccio fede io.
- Dunque non hai pranzato: a mezzogiorno non eri in casa e fino alle 2 tenni la minestra al caldo. Credevo che avessi fatto pranzo altrove.
- Allora capisco, perchè son tanto debole. - E mamma Margherita ridendo andava a mettere la pentola sul fuoco.
Raccontava D. Reviglio, come essendo egli già parroco in Torino, un giorno entrasse nell'Oratorio mentre D. Bosco pranzava da solo verso le ore cinque pomeridiane, dopo aver lavorato molte ore a tavolino. Aveva dinanzi una scodella di stagno, mangiava soli fagiuoli malamente conditi, e tutto il suo vitto si ridusse a così poco, che esso Reviglio ne sentì una stretta al cuore.
A cena soleva prendere qualche cosa meno che a pranzo, insegnando coll'esempio quanto raccomandava eziandio ai suoi giovani di mantener cioè leggiero il ventricolo alla sera. Sovente gli accadeva di cenare molto tardi, specialmente al sabato, alla vigilia delle feste e nell'occasione dell'esercizio della buona morte. Finchè visse sua madre, il cibo se non altro era caldo, e qualche rara volta leggermente più sostanzioso del solito. - Una volta, narrava il Teol. Savio Ascanio, Margherita vedendo il figlio spossato, gli preparò una minestra con dentro un tuorlo d'uovo. Ma egli vedendo che ancor io ero molto stanco, la divise con me. - Mancata la madre, il cuoco non sempre previdente, metteva da parte per lui una minestra cotta da circa quattro ore, e Don Bosco si contentava di quella, ridotta a poltiglia e talvolta troppo salata. La pietanza di erbe fritte, di coste bollite, non solo non era appetitosa, ma tale da dover essere rinviata. Ci ricordiamo ancora come sempre contento e senza cercare altro, [202] rompesse la crosta di quelle paste o di quel riso che erasi formata nel caldo del forno; qualche volta incominciava a pescar sotto quella corteccia, e poi mangiava questa ancorchè fredda e dura senza dare alcun segno di disgusto. Nello stesso tempo parlava di cose utili, affatto estranee alla cena, con qualcuno de' suoi chierici e preti che lo avevano atteso per fargli compagnia in quella tarda ora, e senza manco più pensare al lavoro sostenuto, mentre quelli lo vedevano così affranto. Avrebbero desiderato fargli preparare qualche cosa di meglio, ma egli non voleva preferenze, il cuoco per suo ordine era andato a dormire, e il fuoco in cucina era spento. Se qualcuno proponevagli di far cuocere un uovo, rispondeva immancabilmente: - Mi basta la minestra dei giovani, e questo cibo; - ovvero: - Se questa pietanza bastò per gli altri, perchè non deve bastare per D. Bosco? - E rifiutava qualsiasi altra cosa, non ostante le lunghe ore di confessionale, la S. Messa e la predica che l'indomani gli avrebbero impedito di prendere ristoro prima delle 11 o del mezzogiorno.
Alla sera era l'ultimo a ritirarsi in camera, visitando prima i dormitorii, soffermandosi a dare qualche disposizione per il buon andamento della casa, o tenendo conferenza ai chierici. Rimasto solo, il pensiero di Dio traevalo sovente fuori di sè , lasciandolo come sbalordito. Egli ci raccontava: - Negli anni 1850-51-52, dopo di avere tutta la giornata del sabato lavorato e confessato e d'essermi trattenuto a raccontare cose curiose ai giovani, che servivano in refettorio, dopo cena, o ai chierici dopo le orazioni, saliva verso le 11 alla mia camera. Giunto sul balcone mi fermava a contemplare gli spazii interminabili del firmamento, mi orizzontava coll'orsa maggiore, fissava lo sguardo nella luna, poi nei pianeti, poi nelle stelle; pensava, contemplava la [203] bellezza, la grandezza, la moltitudine degli astri, la lontananza sterminata fra di loro, la distanza da me: e inoltrandomi in questi pensieri, saliva fino alle nebulose e al di là ancora; e riflettendo che l'ultima stella dell'ultima nebulosa, e che ciascuna di quelle che a milioni formano quel gruppo, poteva essere come un centro dal quale si poteva godere uno spettacolo quale si gode dalla terra, da qualunque parte, da qualunque punto si volge attorno lo sguardo in una notte serena, tanto ne era preso che mi venivano le vertigini. L'universo mi appariva un'opera così grande, così divina, che non poteva reggere a quello spettacolo, e mio unico scampo era di correre presto nella mia camera... - Tutti i giovani a questo punto stavano sorpresi, ritenendo il respiro, aspettando che cosa avrebbe detto ancora D. Bosco; ed egli, fatta breve pausa, ripigliava: -…. e correva a cacciarmi sotto le lenzuola. - I giovani ridevano a questa uscita e D. Bosco concludeva: - Solamente là sotto, in quel buco mi sembrava di non essere così piccolo e disprezzabile.
D. Bosco a tali meraviglie sideree era così impressionato, che sovente entrava in discorsi cogli amici sull'enorme distanza degli astri a noi più vicini e poi dei più lontani dalla terra e ancora visibili, e del loro immenso volume. E si compiaceva nel computare i dieci milioni di anni che ci vorrebbero, colla velocità della luce di 300,000 chilometri al minuto secondo, per giungere a certe stelle. - La nostra mente si perde, esclamava, e non può formarsene un'idea per quanto languida. Come è meravigliosa l'onnipotenza di Dio!
Con questi sublimi pensieri entrava in camera; ma non prendeva riposo, se non quando la stanchezza ve lo costringeva. Talora, vestito come era e senza accorgersene, si gettava sopra il letto e così restava dormendo sino al mattino. Spesso però era tormentato dall'insonnia e in quelle poche [204] ore che stava in letto pregando, fantasticava intorno a' suoi progetti e sui modi di attuarli. Ma, come di giorno, cosi comportavasi di notte. Chi dormiva nella stanza vicina, udendo un grido e temendo che D. Bosco avesse male, più volte entrò in sua camera all'improvviso e in punta di piedi. E lo vide coricato nel letto, assopito, supino, colla testa alquanto rialzata, colle mani giunte sul petto, così ben composto da sembrare uno di quei corpi di santi che si conservano sugli altari alla venerazione dei fedeli dentro alle loro urne di cristallo. Noi stessi con molti altri possiamo farne testimonianza.
IL CONTEGNO di D. Bosco rivelava sempre la sua grande modestia e mortificazione. Lo vedevi, diritto sulla persona, anche quando era inginocchiato. Seduto, non poneva mai una gamba a cavalcioni sull'altra; non appoggiava mai la schiena alla spalliera della sedia o del sofà: se non scriveva, teneva le mani giunte sul petto colle dita incrociate. Non fu visto mai cercare una posizione più comoda, o coricato sopra un sofà, se non quando vi fosse obbligato da grave malore. Sedendo il suo contegno era così dignitoso, che imponeva rispetto. Fu sorpreso le mille volte di giorno e di notte; fu anche spiato dalla fessura della porta mentre lavorava da solo, o meditava; e si dovette sempre ammirare la sua modestia, che maggiore non avrebbe potuto essere. Altrettale era il suo aspetto quando stava in piedi o passeggiava. Non appoggiavasi mai al braccio di un altro, eziandio nella più tarda età, se non quelle volte che, mancandogli le forze, minacciava di cadere. E così sostenevasi, ma solo per brevi [206] istanti. Una sol volta in molti anni, dopo aver rifiutato il braccio che gli era offerto da chi lo vedeva strascinare penosamente i piedi, lo chiese e vi si appoggiò, perchè altrimenti sarebbe stramazzato sul selciato della strada. Però finchè potè , conserte le braccia dietro alle spalle, tenevasi da per sè in equilibrio.
Che questi suoi atti fossero ispirati dalla virtù della temperanza, ne sono prova le raccomandazioni a' suoi giovani di non trascurare le piccole mortificazioni cagionate dallo stare composti e modesti pregando, sedendo, studiando, passeggiando, e dal suo fermo proposito, praticato per tutta la vita e non mai trasgredito, di non concedere sollievo a' suoi sensi.
Confessava i giovani seduto sopra una semplice scranna, disagiato, sempre senza appoggio e colle braccia sospese per tenere coperta la sua faccia e quella del penitente col fazzoletto bianco. D'inverno tollerava quelle lunghe ore nell'ambiente gelato del coro o della sagrestia, e d'estate il fiato di tanti giovani che lo circondavano gli impediva quasi il respiro. Aggiungendosi alla moltitudine degli interni quella degli esterni non è a stupire che fosse tormentato da certi insetti che abbondavano. Ma egli sopportavali con indifferenza, senza fare atto di provare molestie.
Quando più tardi andava in riviera, in confessionale, veniva punzecchiato nella faccia e nelle mani dalle zanzare, e mentre i penitenti se ne liberavano col fazzoletto, D. Bosco lasciava che mordessero a loro piacimento; e poi scendendo a cena e scorgendo le sue mani coperte di punture, diceva scherzando ai Superiori della casa: - Vedete come le zanzare vogliono bene a D. Bosco! - Per questa causa un mattino uscì di camera col volto tutto gonfio e sanguinolento. Quanti lo incontravano lo compativano; ma quella faccia era sempre ilare. [207] Egli era pazientissimo nel sopportare i disagi delle stagioni, ed esortava i suoi figli ad accettarli dalle mani di Dio come fonte di meriti. Soffriva un freddo intenso ai piedi, eppure non volle mai usare dello sgabelletto calorifero.
Da tutti si notava costantemente la sua mortificazione nel parlare. Sempre moderato, conversava con calma, adagio e con dolce gravità. Evitava ogni parola inutile; aborriva dai discorsi profani, dai modi troppo vivaci, dalle espressioni risentite e concitate. Parlava poco, dando importanza ad ogni parola, la quale non cadeva mai invano, perchè istruiva sempre ed edificava. Se talora diceva qualche cosa di ameno o di arguto, per sollevare sè o gli altri, ciò si permetteva con molta parsimonia e sempre condita con qualche pensiero al tutto spirituale. Teneva così a freno la lingua, che non mai scendeva a mordacità, ironie, nè a facezie più o meno disdicevoli in bocca di un sacerdote. Non poteva soffrire le offese alla carità, e una delle sue più ripetute raccomandazioni era appunto quella di fuggire qualunque sgarbo nel gestire e nel parlare. Non permetteva che si facessero mormorazioni, e senza che gli interlocutori se ne avvedessero, destramente divertiva il discorso sovra altri argomenti. Discorreva anche a lungo nei casi di convenienza; ma quando non eravi particolare bisogno sapeva osservare il silenzio, specialmente per attendere alle sue occupazioni.
Temperantissimo si mostrava colle persone che, o per mal animo, o per errore, lo contrariavano o trattavanlo ingiustamente. In questi casi, quanto più erano aspre ed insolenti le espressioni dell'avversario, altrettanto più soavi e più mansuete erano quelle di D. Bosco. “Ricordo, dichiara Mons. Cagliero, che venuto un cotale a parlargli sulla scala con fare iroso e parole sconvenienti, vinto dalle sue risposte affabili e dai suoi modi cortesi, si calmò e gliene domandò [208] scusa alla stessa presenza di noi giovani”. Talora, non potendo persuadere il suo oppositore, taceva affatto.
Questa sua temperanza animavalo eziandio quando riceveva lettere ingiuriose. Era solito a non rispondere o più ordinariamente ancora a rispondere con dolcezza. Quante volte contraccambiò gli insulti con benefizii!
A chi non sapeva tenersi abbastanza calmo nel rispondere, dava questo ricordo: - Non scrivere parole offensive: Scripta manent.
- Ve lo raccomando caldamente, - diceva con frequenza a' suoi; -evitate nel vostro parlare i modi aspri e mordaci: sappiatevi compatire gli uni e gli altri da buoni fratelli.
Un sacerdote stava per pubblicare un suo libro sull'istruzione e sull'educazione e a lui chiedeva norme e consigli. - Ti raccomando, - gli rispose, - una cosa in particolare: non offendere la carità. - E la sua temperanza è rispecchiata dai suoi scritti, dove tutto è calmo e limpido senza ombra d'acrimonia.
Frenava il naturale appetito di vedere e sapere cose che non gli appartenevano. Benchè avesse un gusto squisito per giudicare delle opere d'arte, non lasciavasi sedurre dalla curiosità di visitare monumenti, palazzi, pinacoteche, musei. In qualunque luogo si trovasse, gli occhi per lo più li aveva rivolti a terra, sicchè non iscorgeva le persone, anche quando lo salutavano. Era per lui mortificazione assai penosa il rinunziare alla lettura di libri che eccitavano il suo desiderio di scienze, letteratura o storia. Pure, per attendere alle opere di carità che la Divina Provvidenza gli aveva affidate, se ne asteneva quasi sempre, a meno che non gli fossero necessarie. Di rado leggeva o si faceva leggere giornali, e solamente in quelle occasioni che davano notizie di qualche fatto glorioso o doloroso per la Chiesa Cattolica, o [209] che riguardavano direttamente le sue Istituzioni. Chiedeva però di quando in quando che alcuno gli riferisse le notizie principali del giorno, specie nei momenti dei maggiori trambusti politici, per dare ad altri un indirizzo nel giudicare certi fatti pubblici e per non esserne affatto ignaro nelle conversazioni, in cui per sua condizione doveva trovarsi. Tuttavia si vedeva apertamente che non aveva bramosia di sapere. Non ammetteva poi giornale che non fosse sinceramente cattolico; e raccomandava, insistendo, a' suoi allievi che si guardassero dalla vana curiosità di leggere libri o giornali che non fossero utili al proprio stato.
Non fiutava tabacco, quantunque ne avesse bisogno pel male d'occhi e pel continuo mal di capo; mali causati dal sangue che si portava alla testa in conseguenza delle sue assidue e gravi occupazioni. Consigliato dal medico a prenderne, ne conservava qualche po' in una scatola microscopica di carta pesta regalatagli da amici, nella quale a stento entravano due dita; ma o si dimenticava di aprirla, o ne prendeva di raro alcuni grani. Il più sovente si contentava di avvicinarla al naso per sentirne l'odore e risvegliarsi, sollecitando lo starnuto. Servivasene nelle conversazioni e nei viaggi per farsi degli amici, come egli diceva, offrendone, quando la convenienza lo indicava, a compagni viaggiatori e aprendosi così la strada ad intavolar discorso; specialmente per dire qualche buona parola ad alcuni che erano di poca religione. Perciò talora la scatola gli servì di esca per pescare anime a Dio. Qualche rarissima volta ne offriva ad alcuno de' suoi giovani, cui diceva: - Prendi; questo caccia via tutti i cattivi pensieri. - Ed era così poco il consumo di quel tabacco, che il Teologo Pechenino il quale glielo forniva, riempivagli quella tabacchiera una sol volta all'anno. Se poi qualcun altro gliene offriva, egli [210] scherzando ne intingeva il dito mignolo e ne fiutava il pollice. E intanto raccomandava a' suoi alunni di non usare tabacco senza il prescritto del medico e vietava assolutamente a tutti l'uso del fumare, sino a porre quest'abito come impedimento per essere ricevuto nell'Oratorio e nella Congregazione.
Non odorava mai fiori. Se un ragazzo gliene offriva qualcuno, lo accettava e gradiva; e sorridendo avvicinavalo al naso contraendo le narici, e alitandovi sopra invece di aspirarne la fragranza; quindi esclamava: - Oh che prezioso odore, che gradevole profumo ha questo bel fiore! - Lo stesso atto faceva ricevendo in dono, da persone benevole, un mazzo di fiori, per compiacere chi glielo offeriva; e lo mandava tosto in chiesa all'altare della Madonna.
Amante della mondezza, nel lavarsi non usava saponette, e soleva raccomandare ai chierici, ai sacerdoti ed ai coadiutori di non usare profumi, buoni solo per la vanità.
Così pure non prendeva bagni, neppure nel più caldo dell'estate, e raramente vi si rassegnò solo per ordine dei medici. Si privava delle passeggiate di semplice svago, mentre gli erano raccomandate tutti i giorni per il grande giovamento che ne avrebbe ricavato la sua malferma salute. Ma egli fedele alle risoluzioni prese nell'ordinazione del presbiterato, se usciva di casa era per visitare un infermo, per recarsi a qualche ospedale, per trovare soccorsi a' suoi figli. Oppure usciva per cercare un nascondiglio dove dar corso alla corrispondenza ed alla composizione delle opere che andava pubblicando; effetto che difficilmente avrebbe potuto ottenere nell'Oratorio, assediato com'era dalle udienze. Ed uscendo si faceva accompagnare da alcuno de' suoi coadiutori o giovanetti, conversando di cose utili od istruttive.
Viaggiando, la sua mente non riposava mai; correggeva [211] bozze di stampa, leggeva e postillava lettere per le risposte, pregava, o meditava.
“Un giorno, narrava D. Rua, io doveva accompagnarlo nel convoglio da Troffarello a Villastellone. Mentre ci avvicinavamo alla stazione, il fischio del vapore ci avvisò della sua partenza. D. Bosco, senza per nulla scomporsi, trasse di tasca un grosso quaderno, si mise in cammino a piedi e colla matita in mano non alzò più gli occhi da quei fogli fino all'arrivo a Villastellone. Là giunti mi disse: - Proprio vero che tutte le disgrazie non vengono per nuocere; se noi avessimo raggiunto il convoglio, non avrei potuto correggere tutto questo volumetto. Così sono riuscito a finirlo e di quest'oggi potrò mandarlo alle stampe. - Così soleva far sempre ne' suoi viaggi; e quando la vista più non glielo permise, entrava con maggior frequenza in discorsi edificanti.
Si sarebbe detto un conforto qualche scampagnata nella quale accompagnava i suoi giovanetti, oppure le passeggiate che faceva con essi nei primi anni dell'Oratorio sulle colline circostanti a Castelnuovo. Ma se per gli altri riuscivano un sollievo, per lui diventavano una fonte di serie preoccupazioni, fatiche e grandi sollecitudini, dovendo pensare a tutto ed a tutti. Ma approdavano ad una vera missione tanto per gli alunni, come per i paesi in mezzo ai quali passava.
Si privò sempre di ogni sorta di divertimenti, e non prese mai parte a feste pubbliche di pura ricreazione, spettacoli anche onesti, riviste militari, illuminazioni, ingressi di principi in città, ancorchè più volte fosse invitato e sollecitato ad intervenire. Mortificatissimo come era negli occhi, mentre permetteva i fuochi artificiali per divertire i giovani, egli se era in cortile non vi badava, se in camera non usciva sul balcone. Pregato di venir ad assistervi, si scusava dicendo [212] che le sue pupille non reggevano a quelli sprazzi di luce troppo viva, e che gli dolevano. Ci ricordiamo che una sera nella quale tutto l'interno dell'Oratorio era artisticamente illuminato, egli stette per più di un'ora vicino alla finestra acciocchè i giovani lo vedessero, ma volgendo sempre le spalle e il fianco a quel lato ove più intrecciate e varie erano le fiammelle. Qualche volta lungo l'anno interveniva alle rappresentazioni drammatiche dell'Oratorio; ma egli a ciò s'induceva per istruire e rallegrare i suoi giovani, per dare loro una soddisfazione, per animarli allo studio, per dimostrar loro che la pietà non è nemica dell'onesta allegria, per tener compagnia e fare onore alle persone di riguardo che invitava; ma non prendeasi spasso. Si compiaceva, applaudiva, ma noi notavamo che il suo sguardo tranquillo non fissava la scena e gli attori. Del resto, quando non era richiesta la sua presenza, preferiva ritirarsi nella solitudine della sua cameretta.
Era ammirabile il pieno dominio sulle passioni e la padronanza sopra il suo cuore, moderando gli affetti di simpatia, di sensibilità, come pure di collera e di avversione, in guisa da assoggettarli sempre alla retta ragione, agli insegnamenti della fede, e dirigerli alla maggior gloria di Dio. Quanti lo conobbero da vicino, dovettero ammirarlo. Infatti una vita così straordinaria e grave riusciva a lui così spontanea, che avrebbe provato una gran pena a fare altrimenti. Erano abiti che egli possedeva in grado eroico.
Ora un cenno alle sue occupazioni. Non fu mai visto un momento ozioso. Parlando egli della fatica e del lavoro e rispondendo a chi domandavagli come potesse resistere, diceva: - Iddio mi ha fatta la grazia che il lavoro e la fatica invece d'essermi di peso, mi riuscissero sempre di ricreazione e di sollievo. - Nel 1885 per l'importanza e la moltitudine delle [213] lettere che richiedevano una risposta di suo pugno, stava chiuso in camera da mane a sera per più settimane. Fu interrogato: - È possibile che lei non rimanga annoiato, da questa stucchevole occupazione, senza uscire a respirare un po' d'aria più salubre? - Vedi, rispose: io ciò faccio col maggior gusto del mondo. Non vi è cosa che più mi piaccia di questa.
E così rispondeva in tempi diversi, se era compatito ora per le confessioni interminabili, ora per le predicazioni, per le lotterie, per le stampe, per altre sue svariate preoccupazioni: - Non vi è cosa che più mi piaccia di questa.
“Nel patire, scrisse D. Bonetti, provava una grandissima gioia, che apparivagli ancora sul viso, e perciò non tralasciava mai dall'intraprendere, nè desisteva da un lavoro per disgustoso e faticoso che fosse, dando a divedere che provava maggior pena nel tralasciarlo che nel proseguirlo”.
Scriveva Mons. Cagliero: “Io e tutti i miei confratelli siamo persuasi che il nostro caro padre, quantunque gelosamente occultasse all'esterno le sue mortificazioni, astinenze e penitenze, sino a sembrarci la sua virtù ordinaria e comune a qualunque sacerdote esemplare, e non atterrisse nessuno, anzi infondesse in altri coraggio e speranza di poterlo imitare, tuttavia riunendo insieme la sua cagionevole salute, gli incomodi nascosti, il distacco dai beni della terra, la durissima povertà, specialmente nei primi venticinque anni del suo Oratorio, la scarsezza di cibo, la privazione di spassi, sollievi, divertimenti e di ogni agiatezza, e sopratutto le fatiche continue di mente e di corpo; possiamo affermare con tutta verità che D. Bosco abbia menata una vita così mortificata e penitente, quale non conducono che le anime giunte alla più alta perfezione e santità. E tutte queste mortificazioni in lui erano così facili e naturali, che ci persuasero il servo di Dio aver posseduta la virtù della temperanza in grado eroico”. [214]
Giusta questa affermazione di Mons. Cagliero, e noi abbiamo argomento per essere persuasi che D. Bosco praticasse eziandio penitenze straordinarie. Abbiamo incominciato a congetturarle quando un giorno ci disse, che per ottenere dal Signore qualche grazia segnalatissima e necessaria aveva dovuto ricorrere a mezzi proporzionati e che aveva conseguito il suo fine. Non volle però direi, per quanto lo pregassimo, quali fossero questi mezzi. Non è da tacersi come egli, così composto in ogni atto della sua persona, alzasse di quando in quando leggermente le spalle, come se avesse ai fianchi qualche oggetto che gli recasse molestia o dolore. Un piccolo cilicio pungente, che non avesse da far sospettare l'uso al quale era destinato, ci voleva poca arte a formarlo; e D. Bosco aveva un'epidermide molto delicata. E questa nostra opinione, non l'abbiamo smessa per trenta e più anni continui. Carlo Gastini, rifacendogli il letto, un mattino trovò sparsi sopra il materasso, e coperti dal lenzuolo, alcuni pezzi di ferro, che certamente erano stati dimenticati da D. Bosco nella fretta di alzarsi per andare in chiesa. Il giovane non pensò più in là e, posti i ferri sul tavolino, non ne fece parola a Don Bosco. L'indomani più non vide quei rottami e più non comparvero nei varii mesi nei quali continuò a porre in assetto quella stanza. D. Bosco non gliene fece motto, e solo dopo molti anni Gastini riflettè su quegli strani ordigni, e capì a quale uso avessero dovuto servire. “Furono altra volta, narra Mons. Cagliero, trovati su quel letto alcuni ciottoli e pezzi di legno”. Aveva dunque trovato D. Bosco il modo di tormentare di notte il suo già affranto corpo, e rendersi penoso quel poco sonno.
Dubitando però che qualcuno potesse aver scoperto quel segreto, messosi più attentamente sull'avviso, egli stesso ben di sovente ricomponeva il suo letto, scopava e assestava la sua [215] camera, e spolverava le povere masserizie. Giuseppe Brosio lo sorprese un giorno in questa faccenda e D. Bosco gli trasse una bellissima morale riguardo ad una camera ben ordinata; ma Brosio osservò eziandio con sorpresa che solo in simili circostanze sovente la porta era chiusa a chiave.
Le maggiori austerità però sembra che le riservasse per quando andava a passare qualche giorno presso i suoi più insigni benefattori, ove la vastità degli edifizii e la lontananza della camera assegnatagli da quelle della famiglia de' suoi ospiti gli dava maggior sicurezza contro le investigazioni indiscrete. Egli accettava talora l'invito di una veneranda e nobile matrona, e si recava alla sua villeggiatura, sempre tranquillo e sempre gioviale. Ora una persona della famiglia a notte avanzata, forse nel 1879, attraversando la sala nella quale metteva la porta della camera ove era D. Bosco, udì per entro un rumore sordo, monotono e prolungato come di colpi. Sospettò, ma non ne fece parola ad alcuno: si mise in vedetta, e constatò ripetersi quel fenomeno ogni volta D. Bosco era ospitato, e si convinse, che imitando D. Bosco S. Vincenzo de' Paoli, ottenesse dal Signore moltissime grazie. Avendo dopo alcuni anni confidata la cosa ad alcuni altri signori, soliti ad accogliere D. Bosco, seppe che essi pure avevano fatta la medesima osservazione, ed erano persuasi che il servo di Dio si desse la disciplina. Tuttavia, prudenti e cortesi, nessuno fece mai a lui cenno di questa scoperta. Ed egli teneva gelosamente celate certe sue penitenze, sia per umiltà, sia perchè non era questo l'esempio che voleva lasciare a' suoi Congregati. Non erano pratiche che solesse raccomandare, e cogli stessi suoi penitenti era tutto bontà e compassione.
La stessa mentovata persona soleva giovarsi di lui per il sacramento della Confessione e gli chiese un giorno permesso di [216] potersi infliggere qualche penitenza corporale, come avevano fatto certi santi di cui aveva letto la biografia. Era dessa di una costituzione molto delicata e cagionevole. D. Bosco non approvò ciò che gli domandava, e alle sue insistenze per conoscere il modo onde ricopiare in sè i patimenti di Nostro Signore Gesù Cristo, rispose: - Oh vedi! Mezzi non mancano. Il caldo, il freddo, le malattie, le cose, le persone, gli avvenimenti... Ce ne sono dei mezzi per vivere mortificati!
Eziandio a' suoi giovani vietava che si dessero ad austerità troppo rigorose, osservando come il demonio stesso talvolta suggerisca per i suoi fini tali straordinarie penitenze. Quando qualcuno di questi suoi alunni o penitenti gli domandavano licenza di fare digiuni prolungati, oppure dormire sul nudo terreno, o praticare altre mortificazioni penose, egli soleva commutarle in mortificazioni degli occhi, della lingua, della volontà e in esercizii di carità. E tutt'al più permetteva che lasciassero la merenda o una parte della colazione. Del resto andava ripetendo: - Miei cari giovani! Non vi raccomando penitenze e discipline, ma lavoro, lavoro, lavoro!
E questa sua mortificazione, continua, laboriosa, tranquilla, appare non solo eroica ma quasi sovrumana, riflettendo che egli era soggetto ad infermità che lo tormentarono per tutto il tempo del suo vivere senza concedergli tregua, e che egli sopportò con una fortezza da santo. Fin dal principio del suo apostolato gli accadeva di sputar sangue, malanno che di quando in quando si rinnovava, per cui i medici gli avevano prescritto di fare immancabilmente tutti i giorni una passeggiata, perchè diversamente la sua vita non sarebbe durata lunga. Dal 1843 incominciò ad avere male agli occhi con bruciore, causato dalle lunghe veglie e dal continuo leggere, scrivere e correggere stampe, e questo male crebbe lentamente fino al punto da rendergli spento l'occhio destro. [217]
Nel 1846 gli si diffuse nelle gambe una leggera enfiagione che si accrebbe di molto nel 1853, producendogli dolori ed estendendosi ai piedi; e gli si andò sempre crescendo di anno in anno, sicchè negli ultimi tempi stentava a camminare, e fu costretto a far uso di calze elastiche. Inabile a scalzarsi da sè , era mestieri che qualcuno gli rendesse questo servizio. Chi si prestava a questo atto di figliale carità, si meravigliò come la carne gli si piegava sopra l'orlo delle scarpe, e non sapeva come egli potesse resistere a stare in piedi tante ore. Questa gonfiezza dolorosa D. Bosco era solito chiamarla bellamente: la sua croce quotidiana.
Simultaneamente era bene spesso tormentato da forti mal di capo, in guisa da parergli che il suo cranio si fosse dilatato, come egli stesso qualche volta manifestò a D Rua; e Don Berto constatò tale sollevamento. Anche atroci dolori al denti gli duravano, molte volte, più settimane, e ostinate insonnie non gli concedevano riposo.
Aggiungi una palpitazione di cuore, che gli rendeva difficile il respiro e parve perfino che una delle sue coste avesse ceduto a quell'impulso.
Negli ultimi quindici anni della sua vita agli antichi si aggiunsero malori nuovi. Tratto tratto era visitato dalle febbri miliari con frequenti eruzioni cutanee. Sull'osso sacro gli si era formata un'escrescenza di carne viva della grossezza di una noce, sulla quale sedendo o posando in letto il corpo ne risentiva grande pena. Di questa tribolazione non fece mai parola con alcuno, nè cercò punto di liberarsene manifestandola al medico, che avrebbe potuto rimediarvi facilmente con un piccolo taglio; ma egli non volle per amore della modestia cristiana. Coloro che gli stavano attorno da anni ed anni si accorgevano che pareva soffrisse stando seduto, e avendolo interrogato, egli si contentò di rispondere: - Sto meglio in [218] piedi o passeggiando. Lo star seduto mi reca molestia. Eppure continuò ad usare una semplice scranna di legno. Infine negli ultimi cinque anni l'indebolimento della spina dorsale lo costrinse a curvarsi sotto il peso delle sue croci.
Con tanti incommodi, pei quali un altro nelle sue condizioni si sarebbe dato infermo o si sarebbe astenuto da qualsiasi lavoro, egli non rallentò mai il suo solito passo da gigante nell'intraprendere e compiere le sue meravigliose imprese. Crescendo le difficoltà e le malattie, egli aumentava il coraggio, dicendo: - D. Bosco fa quello che può! - E potè tanto che le opere del suo zelo si estesero per tutta la terra.
E tutto ciò senza mai lamentarsi delle sue tribolazioni, senza mai dar indizio della menoma impazienza, a segno che sempre di buon umore e faceto, pareva godesse ottima salute. Col suo aspetto abitualmente giulivo e sorridente, e colle sue amene ed edificanti conversazioni infondeva coraggio ed allegria in quanti a lui si avvicinavano, e tutti rimandava consolati.
Quantunque ritenesse la vita per un dono di Dio ed amasse di vivere lungo tempo per lavorare alla sua maggior gloria, tuttavia pensava sempre con piacere al giorno della morte che gli avrebbe aperto le porte del cielo. Per questo suo desiderio non pregò mai per la propria guarigione, lasciando che pregassero gli altri per esercizio di carità. I medici che venivano regolarmente a visitare gli ammalati, specialmente il dottor Gribaudo suo compagno di scuola, quando sapevano che era molto oppresso e pareva venir meno, lo esortavano ad aversi qualche riguardo. Egli ben di rado dava importanza al loro consiglio o si atteneva ad alcuna delle cose ordinate, e rispondeva: Ma, se sto bene: io non ho bisogno di tanti riguardi! Ed entrava in argomenti di medicina, sicchè i dottori dicevano che quando si trovavano con D. Bosco dovevano sempre subire un esame. [219]
Nelle malattie dichiarate non si consegnava mai nelle mani dei medici, se non era costretto da chi gli comandava; e allora stava alle loro prescrizioni, ma dimostravasi indifferente al miglioramento, o al peggioramento. Anche allora però, se un motivo di carità o di religione obbligavalo ad un lavoro o ad un viaggio, si cimentava coraggiosamente, fosse pur anco contro il parere dei dottori, ben lieto di lasciar la vita per la Chiesa e per le anime.
In queste pagine abbiamo recato le testimonianze di varii nostri confratelli, anticipando di più anni la loro comparsa sulla scena dei nostri racconti. Ma era necessario che i lettori avessero sott'occhio, ad ogni istante e in ogni circostanza che saremo per esporre, la vita costantemente mortificata del nostro ammirabile fondatore.
IL RE CARLO ALBERTO, come abbiamo detto, aveva emancipato i Protestanti. Pareva che con quell'atto egli intendesse solamente di dare la libertà di professare esternamente il proprio culto, senza detrimento della Religione Cattolica. Ma gli eretici non la intesero così e perciò, appena ottenuto quell'atto e la libertà di stampa, si erano tosto dati a fare tra il popolo irrequieta propaganda dei loro errori con tutti i mezzi possibili, particolarmente con libri e fogli pestiferi. Comparvero tra gli altri i giornali: La Buona Novella, La Luce Evangelica e il Rogantino Piemontese; e poi una colluvie di libri biblici adulterati, di poca mole, prese a dilagare nei nostri paesi, penetrare nelle [221] famiglie, scorrere per le mani di tutti, pervertendone la mente, corrompendone il cuore, instillando insomma nelle anime il veleno delle più esiziali dottrine.
Nello stesso tempo scellerati trafficanti di anime si presentavano a quanti venivano a conoscere travagliati dall'indigenza ovvero oppressi dai debiti, e loro offrivano una somma purchè si ascrivessero alla loro setta e abbandonassero la vera fede dei loro maggiori. E purtroppo vi erano di quei miseri che adescati dal luccicare di quelle monete, non sapevano resistere alla tentazione.
Dava mano alla ereticale propaganda il giornale l'Opinione, nel quale, tra gli altri nemici della Chiesa, continuava a scrivere più impudentemente di tutti Bianchi-Giovini, autore di una lurida e calunniosa Storia dei Papi e di altre opere infami. Si aggiungeva che i Protestanti a questa propaganda erano preparati, ed i Cattolici non lo erano punto per opporle un argine, impedirla, o almeno scemarne le disastrose conseguenze. Fidandosi delle leggi civili, che fino allora avevano protetta la Religione Cattolica dagli assalti della eresia; fidandosi sopratutto del primo articolo dello Statuto che porta: La Religione Cattolica, Apostolica, Romana, è la sola Religione dello Stato, i Cattolici si trovarono come soldati scossi all'improvviso dal suono della tromba guerriera, e chiamati a scendere in campo di battaglia, senza armi adatte a combattere nemici premuniti in ogni punto. Infatti i Cattolici abbisognavano di giornaletti di buona lega per diffonderli a larga mano, e pochissimi ne possedevano; facevano mestieri sopratutto libretti semplici e di poco costo, ed invece non si avevano che opere voluminose di grande erudizione. Erano quindi in pericolo di perdere la fede non solamente i giovanetti, ma tutto il basso popolo, alla cui seduzione miravano i nemici della Chiesa. [222] A quella vista si accese di carità e di zelo il cuore del nostro D. Bosco, il quale, col fine di preservare dai serpeggianti errori i suoi cari giovanetti, provvide un mezzo di salute eziandio a migliaia, anzi a milioni di altre persone.
Compose e pubblicò pertanto alcune tavole sinottiche intorno alla Chiesa Cattolica, foglietti volanti, ricchi di ricordi e di massime morali e religiose adattate ai tempi, e si diede a spargerli gratuitamente tra i giovani e tra gli adulti a migliaia di copie, specialmente in occasione di esercizi spirituali, di sacre missioni, di novene, di tridui e feste.
Nè a semplici fogli si limitò l'industriosa carità del nostro buon Padre; poichè nel 1851 mise pure in luce una seconda edizione del Giovane Provveduto coll'immagine sul frontispizio di S. Luigi e i versi: Venite, o giovanetti, - offrite al Divin Cuore - il verginal candore, - ch'io vi proteggerò, - e vi aggiunse in fine sei capitoli in forma di dialogo che portavano per titolo comune: Fondamenti della Cattolica Religione. Questi dimostravano, una sola essere la vera religione: le sette dei Valdesi e dei Protestanti non avere i caratteri della Divinità, non trovarsi in esse la vera Chiesa di Gesù Cristo; essere i Protestanti separati dal fonte della vera vita, che è il Divin Salvatore, e convenire essi stessi che i Cattolici si possono salvare e che si trovano nella vera Chiesa. Non tralasciava un monito su ciò che debbono fare gli Ebrei, i Maomettani ed i Protestanti per salvare le loro anime.
Nelle seguenti ristampe del Giovane Provveduto D. Bosco ampliò queste sode istruzioni in dieci capitoli, che volle fossero sempre indivisi dal corpo del libro, acciocchè i Cristiani li avessero di continuo alla mano, colle spiegazioni del dogma dell'Infallibilità Pontificia. Più tardi si voleva di questi Fondamenti farne un fascicoletto a parte, ma D. Bosco assolutamente si oppose, persuaso che, staccati dal suo libro, [223] nessuno li leggerebbe. - Hanno da essere un Vade mecum! esclamò.
E questi Fondamenti, eziandio come erano compendiati nel 1851, al protestanti dovettero sembrare un colpo abbastanza serio per le loro false dottrine, poichè correvano, come la Storia Ecclesiastica e la Storia Sacra, nelle mani di tante migliaia di giovani, ai quali di preferenza essi tendevano le loro reti. D. Bosco nel concludere aveva scritto: “Tutti quelli che perseguitarono la Chiesa nei tempi passati non esistono più, e la Chiesa di Gesù Cristo tutt'ora esiste. Tutti quelli che perseguitano la Chiesa presentemente, di qui a qualche tempo non ci saranno più; ma la Chiesa di Gesù Cristo sarà sempre la stessa, perchè Iddio ha impegnato la sua parola di proteggerla e di essere sempre con lei sino alla fine del mondo”.
Una grande consolazione ebbe D. Bosco a provare mentre lavorava alla seconda suddetta edizione. Una sera, tornando a casa dalla tipografia e passando per la così detta Porta Palazzo, si fermò sotto i portici a sinistra ed osservava un banco di libri in vendita. Il venditore gli disse che quei libri non facevano per lui, perchè libri di Protestanti. Allora egli rispose: - Vedo che non fanno per me; ma sarete poi contento in punto di morte d'aver venduto tali libri? - E salutandolo se ne andò, Mentre D. Bosco si allontanava, il venditore chiese ai vicini chi fosse quel prete, e fugli risposto essere D. Bosco. All'indomani si portò da lui coi quale tenuta una conferenza, finì per recargli tutti i suoi libri e rimettersi sulla buona via.
Intanto D. Bosco aveva notizie certe che l'eresia valdese s'insinuava e faceva ogni giorno più strada in varii paesi. In Valdocco affluivano persone di ogni specie che una simpatia provvidenziale attirava verso D. Bosco, e alcuni di questi [224] gli riferivano quanto accadeva nelle congreghe settarie o protestanti, le loro speranze, i loro disastrosi successi, con una famigliarità singolare. Vi fu chi avvisava D. Bosco a non fidarsi; ma egli stava all'erta, prendeva informazioni e ne avvertiva fedelmente la Curia. Un distinto Ecclesiastico però se ne mostrava importunato, per l'importanza che sembrava dare D. Bosco a simili rivelazioni. Tuttavia il buon prete non ristette, a costo di umiliazioni, dal compiere il suo dovere. Fra le altre volte, i Protestanti si erano infiltrati alla chetichella in Ciriè , e incominciavano a fare adepti. Saputolo Don Bosco non tacque. - E che? egli rispose quell'Ecclesiastico: Lei sa ciò che non sanno gli altri? A Ciriè vi sono due parroci; e questi non hanno occhi? Crede che non siamo informati di quanto accade? Dunque adesso la luce ha da venire solamente da Valdocco? - D. Bosco non replicò; ma passò poco tempo e la zizzania crebbe in maniera così visibile, che si dovette di premura dar principio in Ciriè ad una missione per opporsi agli eretici e confutare i loro errori.
Varie altre parrocchie dovettero eziandio essere premunite, e D. Bosco ne ebbe il merito principale.
In mezzo a queste sue sollecite cure, da un povero infelice di nome Wolff che aveva apostatato, e che, per le solite contraddizioni dei cuore umano, gli narrava tutte le decisioni e i passi de' suoi correligionarii, seppe come i Valdesi fossero risoluti di innalzare un tempio in Torino. Infatti a questo fine avevano domandato al Municipio la concessione di un'area fabbricabile presso il giardino pubblico. I Protestanti in Torino erano poco più di duecento. Il Municipio non aveva acconsentito, benchè il progetto fosse appoggiato dall'Avvocato generale presso la Corte d'Appello. Allora gli eretici comperarono a loro spese un'altra area lungo il viale del Re poco lontana dall'Oratorio di S. Luigi, autorizzati da regii [225] decreti, del 17 dicembre 1850, e del 17 gennaio 1851, costruire il progettato tempio. Approvati dalla commissione edilizia i disegni di questo e degli edifizi annessi, il Municipio cercava di guadagnar tempo volendo declinare ogni responsabilità in faccia ai Cattolici; ma il Ministro degli Inter Galvagno fece note le disposizioni sovrane, e fu giuocoforza che cessassero le nobili opposizioni a quell'onta che si voleva recare alla città. Appena la cosa si fece pubblica, i Torinesi anzi tutti i Cattolici del Piemonte, ne furono vivamente addolorati e pregarono il Signore a tener lontano dal paese tanto scandalo. I Vescovi reclamarono in una lettera colletti al Re, in nome della religione, dello Statuto, dell'onore Casa Savoia, citando le disposizioni del codice penale e codice civile. Ma non si tenne conto di questi reclami e si diede subito mano alla costruzione del tempio l'esercizio del culto riformato protestante. Così riceve appoggio chi moveva una guerra fierissima alla Religione Cattolica.
D. Bosco appena seppe di queste mene, non ancor pago di ciò che aveva già fatto, compose e pubblicò un libretto col titolo: Avvisi ai Cattolici. È pregio dell'opera di riprodurne qui il proemio.
“Popoli Cattolici, così egli scriveva, aprite gli occhi tendono a voi moltissime insidie col tentare di allontana da quell'unica, vera, santa Religione, che solamente conservasi nella Chiesa di Gesù Cristo.
Questo pericolo fu già in più guise proclamato nostri legittimi Pastori, dai Vescovi, posti da Dio a difenderci dall'errore ed insegnarci la verità.
La stessa infallibile voce del Vicario di Gesù Cristo avvisò di questo insidioso laccio teso ai Cattolici, cioè molti malevoli vorrebbero sradicare dai vostri cuori la [226] Religione di Gesù Cristo. Costoro ingannano se stessi e ingannano gli altri; non credeteli.
Stringetevi piuttosto di un cuor solo e di un'anima sola ai vostri Pastori, che sempre v'insegnarono la verità.
Gesù disse a S. Pietro: Tu sei Pietro e sopra questa pietra fonderò la mia Chiesa, e le porte dell'inferno non la vinceranno mai, perchè io sarò coi Pastori di essa tutti i giorni sino alla consumazione dei secoli.
Questo disse a S. Pietro e ai suoi successori, i Romani Pontefici, e a nissun altro.
Chi vi dice queste cose diverse da quanto vi dico, non credetelo: egli v'inganna.
Siate intimamente persuasi di queste grandi verità: Dove c'è il successore di S. Pietro, là c'è la vera Chiesa di Gesù Cristo. Niuno trovasi nella vera Religione, se non è Cattolico; niuno è Cattolico senza il Papa.
I nostri Pastori e specialmente i Vescovi, ci uniscono al Papa, il Papa ci unisce con Dio.
Per ora leggete attentamente i seguenti avvisi, i quali, ben impressi nel vostro cuore, basteranno a preservarvi dall'errore.
Quello poi, che qui viene ora brevemente esposto, fra poco l'avrete in apposito libro diffusamente spiegato.
Il Signore delle misericordie infonda a tutti i Cattolici tanto coraggio e tale costanza, da mantenersi fedeli osservatori di quella Religione, in cui noi fortunatamente siamo nati e siamo stati educati.
Costanza e coraggio, che ci faccia pronti a patire qualunque male, fosse anche la morte, anzichè dire o fare alcuna cosa contraria alla Cattolica Religione, vera e sola Religione di Gesù Cristo, fuori di cui niuno può salvarsi”.
A questa specie di proclama, non più indirizzato solo ai giovani, ma in generale ai Piemontesi e in ispecie ai Torinesi, [227] facevano seguito i Fondamenti della Cattolica Religione stampati poco prima nella seconda edizione del Giovane Provveduto; e si prometteva intanto un apposito libro nuovo che egli stava scrivendo. Questo avrebbe per iscopo di mettere in guardia le anime contro le insidie ereticali, di ammaestrarle nelle verità più necessarie a sapersi, di svelare l'errore dei seduttori, di arrestarne la mala influenza e così confermare nella fede i cattolici. Era il libro che ebbe per titolo: Il Cattolico istruito nella sua religione.
Degli Avvisi ai Cattolici fu straordinario lo spaccio; in soli due anni se ne diffusero oltre a duecento mila esemplari. Ma se questa operetta tornò gradevolissima a tutti i buoni, inasprì i Protestanti e li fece montare in sulle furie. Mentre si credevano di poter a loro bell'agio devastare, a guisa degli antichi Filistei, il campo del Signore, si vedevano venire innanzi un novello Sansone a scoprire le loro arti, a rompere le loro file, a scompigliare le loro schiere in difesa del popolo di Dio.
Con questa pubblicazione e con le altre molte che la seguirono, D. Bosco indicava al secolo l'arma più potente per combattere i nemici della religione e segnava la strada a quanti volessero correre in difesa della società cristiana minacciata. In questi anni tutto pareva morto nel campo cattolico, e D. Bosco lo risvegliò in Torino.
Nè stancavasi nel diffondere da ogni parte l'ultima sua operetta. Fra gli altri ne mandava 150 copie a D. Scesa, maestro dei novizi a Stresa, con lettera del 3 marzo 1851; e così ne scriveva al suo Professore, il Teol. Appendino, a Villastellone.
Mando a V. S. amatissima le cento copie degli Avvisi ai Cattolici, facendole soltanto osservazione che se si occupa di [228] questi libri, perde la protezione della Gazzetta del Popolo e chi sa ancor di più, giacchè questo libriccino, sebbene visibile appena, le è avverso e fa quanto può onde averne ed abbruciarne.
Nulladimeno se si occuperà a propagar libri buoni (e la credo ottima limosina) sarà a fulmine tutus.
Tutto il suo ammontare è : libri già spediti 1 95
Avvisi ai cattolici copie 100 5 00
che spero poter andare io stesso ad esigere sul luogo del luogo.
Mi ami nel Signore, mi comandi, e se valgo a qualche cosa, mi sarà di gran piacere il poterla servire con quel figliale affetto con cui mi sottoscrivo
Ma pur troppo che i Protestanti avevano i loro complici tra i legislatori che non si lasciavano sfuggir occasione per far proposte e muovere accuse contro la Chiesa. Nel marzo vi fu in Parlamento un'accanita discussione contro l'insegnamento teologico, che si diceva pieno di errori, di viete dottrine e di una morale bassa e corrompitrice. Si gridò essere meglio che si attivassero gli studi biblici, come presso i Protestanti. Si voleva attribuire al Governo la nomina dei professori nei collegi vescovili e che ai Vescovi si togliesse la direzione dell'insegnamento teologico: si protestò doversi abolire nelle Università e nei collegi gli Oratorii e le Congregazioni, e che ai giovani si lasciasse piena libertà di essere atei o credenti. Ma il conte Camillo di Cavour, che non erasi ancor [229] dichiarato nemico del clero, parlò alquanto in favore dell'insegnamento vescovile, e così quelle sfuriate non ebbero per allora altro effetto, che una lettera dei Ministro dell'Istruzione Pubblica ai Vescovi, colla quale tentava di loro imporre alcune condizioni per l'insegnamento teologico e che provocava da essi forti richiami.
L'irritazione dei settari era prodotta dall'essere ortodossi tutti i Dottori del Collegio Teologico dell'Università di Torino, eccettuato il professore di diritto canonico Nepomuceno Nuytz, povero teologo laico, pressochè ignorante di storia, educato sui libri di Febronio e del Van Espen, giansenista per imitazione. Da più anni faceva scuola ed era stato posto su quella cattedra appunto perchè co' suoi mali insegnamenti pervertisse la gioventù ecclesiastica. Propugnava gravissimi errori intorno ai diritti del sacerdozio e dell'impero, sul sacramento dei matrimonio e sulle scomuniche. Alcuni suoi trattati erano stati colpiti dalla condanna di un Breve Pontificio. I giornali e il Governo lo sostenevano. I Vescovi dirigevano un memoriale al Re, perchè facesse cessare quello scandalo, ed ebbero qualche ascolto. L'insegnamento del Diritto Canonico fu sospeso; e poco dopo il Nuytz fu sostituito da Filiberto Pateri, non meno di lui regalista e avverso ai diritti della Chiesa, ma più riguardoso. Nuytz moriva nel 1876, senza ricevere i Sacramenti, rifiutandosi di fare ritrattazioni.
Intanto in quest'anno il Ministro cercava di eccitare i chierici a frequentare l'Università, invitando la Curia Metropolitana ad avvertirli che nel nominare ai beneficii, il Governo continuerebbe sempre ad anteporre gli Ecclesiastici che avessero conseguito i gradi nello studio universitario. I Vescovi non acconsentirono che gli alunni del santuario frequentassero tali scuole sul diritto canonico. [230] Ma ciò non bastava. L'errore oltre la libertà doveva avere il suo premio. Il 16 marzo 1851 un decreto reale dichiarava istituzione civile l'Ordine religioso equestre dei Ss. Maurizio e Lazzaro, fondato dall'autorità dei Pontefici che aveanlo dotato di beni e di rendite ecelesiastiche; e aboliva la professione religiosa che i commendatori ed i provvisti dei beni dell'Ordine dovevano prestare. Questo si faceva per poterne così conferire gli onori e le rendite anche ad ebrei, a protestanti e ad eterodossi.
Noi abbiamo scritto questa pagina, perchè sempre meglio, s'intenda qual fosse la lotta che D. Bosco aveva ingaggiata.
Egli intanto aveva visto compiersi un ardente suo voto. Il 2 febbraio, giorno della Purificazione di Maria, nel quale in quest'anno celebravasi nell'Oratorio eziandio la festa di S. Francesco di Sales, i giovani Giuseppe Buzzetti, Felice Reviglio, Giacomo Bellia, Carlo Gastini avevano indossato la veste clericale. Compieva la funzione il Teol. Collegiato Ortalda Giuseppe Canonico Teologo della Metropolitana, il quale in così bella occasione svolse il testo del Vangelo di quel giorno: Positus est hic in resurrectionem et in ruinam multorum, e spiegò ai nuovi chierici quale sarebbe stata la loro missione se avessero corrisposto alla grazia ricevuta.
D. Bosco, pieno d'immenso giubilo, non si contentò della solennità in chiesa, ma volle imbandire un pranzo, al quale invitò, eziandio il Can. Ortalda, il Teol. Nicco, il Can. Nasi e il Dottor Collegiato Teol. Can. Berta. Fu quello un convito che rimase memorabile. I cucinieri diedero prova della loro abilità, perchè D. Bosco non fu mai gretto cogli amici, ma nessuno dei commensali potè mangiare il lesso e bere il caffè. Mentre Mamma Margherita era occupata negli apprestamenti di tavola e aveva già fatto bollire il caffè in una pentola, sua sorella Marianna Occhiena, che dopo la morte di D. Lacqua suo [231] padrone dimorava all'Oratorio, aveva inavvertentemente messa la carne a cuocere in quella stessa pentola. Come sia andata la cosa dei porre in tavola di questi manicaretti noi non lo sappiamo; ma il Can. Berta ancora nel 1901 ci raccontava il gusto strano che avevano, senza che ne sapesse la causa; e come nessuno dei convitati potesse inghiottirne, benchè , da persone educate, non dimostrassero la loro ripugnanza. Noi allora gli spiegammo quel mistero, ed egli ridendo, ma con ammirazione, aggiunse che D. Bosco aveva mangiato con indifferenza un pezzetto di quella carne nauseabonda e succhiata la sua tazza di caffè condita al grasso.
L'indomani della vestizione i quattro nuovi chierici incominciarono ad andare a scuola di filosofia dai Teologi Farina e Mottura, ed alla ripetizione dal Can. Berta, e dopo qualche mese D. Bosco per sopperire alle spese che gliene derivavano, fece scrivere da ognuno di essi una supplica al Re per ottenere un sussidio, che fu accordato[9].
D. Bosco poteva finalmente sperare che i nuovi chierici fossero suoi; ma anche questo tentativo, da lui preparato con [232] tanto zelo, non doveva riuscire, poichè , come racconteremo, due di costoro dopo qualche tempo deposero la veste, due altri uscirono dall'Oratorio per varie ragioni da loro indipendenti e furono zelanti sacerdoti nelle loro diocesi. Reviglio però divenne subito un potente ausiliare di D. Bosco per l'Oratorio di S. Francesco e per l'Ospizio fino al 1857.
Anche gli altri tre lo aiutarono efficacemente nell'opera degli Oratorii festivi, sia nel catechizzare ed istruire i giovani esterni ed interni, sia nell'assisterli in chiesa e nelle ricreazioni, sia nel dar loro lezioni di canto. Margherita gioiva nel veder crescere intorno a D. Bosco le vocazioni ecclesiastiche; senonchè amava vivere ritirata, e colla sua grande perspicacia conosceva ciò che a lei era conveniente e ciò che non lo era. Sin da quando la casa fa costituita e D. Bosco incominciò a sedere a mensa in compagnia de' suoi primi chierici e preti, più non fu vista a pranzare con lui. D. Bosco avrebbe desiderato che qualche volta comparisse, ma essa sapeva sempre scusarsi. Siccome talora egli soleva invitare i giovanetti più buoni seco a pranzo, insistette perchè ella sedendo in mezzo ad essi e assistendoli, procurasse di impedire le sgarbatezze, il vociare troppo forte, e che si insudiciassero, o mangiassero con troppa avidità. In modo speciale quando aveva commensali gente estranea alla casa o forestieri da lui invitati, desiderava di impedire quanto a questi signori avesse potuto dare argomento di censura. Mamma Margherita alla fine acconsentì, benchè a malincuore; andò per circa una settimana, ma poi non si vide più. -Non è quello il mio posto, disse a Don Bosco; la presenza di una donna in quel luogo, stuona.
Non ostante però il suo aspetto tranquillo non è da credere che ella passasse la sua vita in Valdocco senza tribolazioni. Una donna amante dell'ordine e dell'economia domestica non [233] può vedere di buon occhio sciupata quella roba che le costò spesa e fatica. E come impedire che giovanetti vivacissimi, non per mal animo, ma per spensieratezza, cagionassero più di un volta danni non indifferenti e quindi recassero qualche fastidio alla buona mamma?
Rinnovandosi però fatti consimili, un bel giorno del 1851, Margherita entrò nella camera del figlio, e: - Ascoltami, gli disse. Tu vedi come non sia possibile che io faccia andare innanzi bene le cose di questa casa. I tuoi giovani tutti i giorni fanno qualche nuova loro prodezza. Qua mi gettano in terra la biancheria pulita stesa al sole, là mi calpestano l'orto e tutti gli erbaggi. Non hanno cura alcuna dei loro vestiti e li stracciano in modo che non c'è più verso di riuscire a rattopparti. Ora perdono i moccichini, le cravatte, le calze; ora nascondono camicie e mutande, e non si possono più trovare; ora portano via gli arnesi di cucina per i loro capricciosi divertimenti e mi fanno andare attorno mezza giornata per cercarli. Insomma, io ci perdo la testa in mezzo a tanta confusione. Io era ben più tranquilla quando stava filando nella mia stalla senza rompicapi e senza ansietà. Vedi! Quasi quasi ritornerei là nella nostra casetta ai Becchi, per finire in pace quei pochi giorni di vita che ancora mi restano.
D. Bosco fissò in volto sua mamma, e commosso, senza parlare, le accennò il crocifisso che pendeva dalla parete.
Margherita guardò; i suoi occhi si riempirono di lagrime: - Hai ragione, hai ragione! - esclamò: e senz'altro ritornò alle sue faccende. Da quell'istante più non sfuggì dal suo labbro una parola di malcontento.
Infatti da quel punto parve insensibile per quelle miserie. Un giorno uno di quei dissipatelli spaventava le galline e inseguendole le faceva correre sbandate per i prati circostanti. Marianna, la sorella di Margherita, gridava con quanta [234] voce aveva in gola, perchè il birichino lasciasse in pace le galline, e si affannava a ricondurle verso il pollaio.
Margherita, udendo quel gridio venne fuori, ed osservato il caso con tutta calma disse alla sorella: - Là là! Chè tati! Abbi pazienza! Che cosa vuoi farci! Vedi bene che hanno l'argento vivo nelle ossa!
Ma se nell'Oratorio vi era qualche spensierato, il cuore di tutti i giovani ardeva per D. Bosco di un amore costante: e vivo lo mantenevano usciti dell'Istituto per ritornare alle loro famiglie e prendere una carriera o uno stato. Tra le molte prove che potremmo addurre scegliamo per ora le due seguenti lettere di tempi diversi scritte dall'allievo Comba Antonio.
La prima è impostata a Rumilly in Savoia colla data del 16 febbraio 1851 e diretta al Sig. D. Bosco: “Non saprei come esprimere la gioia ed il contento che provo nel ricevere una delle sue care lettere desiderata da tanto tempo. Oh quante volte col pensiero mi porto là in quel ridente e giulivo recinto! Oh quante fiate colla mente mi trovo fra loro! Ora mi vi presento sotto un aspetto, ora sotto un altro. Non creda che la mia memoria sia così ingrata da dimenticarsi sì presto del bell'Oratorio, che anzi sarà perpetua; sì, saranno eterni quei giorni felici che con loro passai.
Godo e mi rallegro assaissimo del felice successo de' miei compagni, cioè che abbiano vestito l'abito chiericale; il che spero coll'aiuto di Dio fare un po' più tardi. In questa scuola di rettorica ho molto da lavorare; ma ne sono contentissimo poichè ho già occupato il secondo posto... Abbiamo un buonissimo superiore, che è stato molto tempo a Roma; sa egregiamente l'italiano. Ogni venerdì ne abbiamo una scuola. Qualche volta vado a trovarlo, e discorriamo in italiano; siamo molto amici; l'ho scelto per mio confessore. Abbiamo [235] ottimi professori... siamo 57 pensionarii. Il martedì, il giovedì e la domenica dopo pranzo andiamo tutti insieme al passeggio Altro non saprei se non che Ella dica tante cose dalla mia parte a sua madre, al suo fratello Giuseppe, a D. Grassino, Savio, Bellia, Buzzetti, Gastini, Reviglio, Angeleri, Piumatis, Aellisio, Tomatis, Canale, Arnaud ecc. ecc. senza dimenticare il Teol. Vola, il Teol. Borel, il Teol. Carpano ecc. ecc. Sarei bramoso di ricevere una lettera dal mio compagno Bellia, in cui mi desse qualche notizia di Torino e mi facesse il piacere di mandarmi una copia della canzone: È consumato il calice colla prima strofa in musica. Credo Buzzetti l'abbia in stampa. Quando mi scrive, la prego a non affrancare le lettere”.
Nè questa affezione durava solo pochi anni dalla partenza di Comba dall'Oratorio; ma nel 1882, l'11 settembre, scriveva una seconda lettera da Montauroux par Callian, dipartimento del Varo.
Car.mo amico ed antico compagno Sig. D. Rua,
Prima La ringrazio infinitamente, come pure il Sig. Don Lago, della loro affezionatissima lettera del 15 agosto scorso, che ci diede tanta consolazione. Dunque grazie e grazie molte..
Abbiamo recitato in famiglia le preghiere prescritteci, e grazie a Gesù nel SS. Sacramento, alla B. V. Maria Ausiliatrice, alle potenti preghiere del nostro sempre amatissimo padre, il Sig. D. Bosco, ed a quelle di voi altri tutti, carissimi amici ed ottimi fratelli, siamo stati consolati nel vedere che la mia buona consorte ha potuto andare alla messa nel bel giorno della Natività di M. V. Una volta D. Bosco mi scriveva in Savoia: Conservati nel santo timor di Dio, amami sempre nel Signore, e se in qualche cosa ti potrò servire, mi troverai sempre affezionatissimo amico. D. Giovanni Bosco. Ed [236] io l'ho sempre amato, il carissimo D. Bosco; non ho mai dimenticato l'Oratorio, i miei cari compagni, e mi ricordo sempre con gioia le canzoncine di un tempo già ben lontano
Tutti esultanti Che ci conduce
Da noi si canti Sempre alla luce
Pel nostro amabile Che in lui men fulgida
Sia il nostro padre eletto (bis),
Cui sostegno il ciel ne diè (bis).
Cui sostegno il ciel ne diè (bis).
Addio, signor D. Rua, addio, o tutti i miei cari compagni ed amici; addio.
Ripigliando ora noi il filo del racconto va qui notato come D. Bosco nel mese di febbraio ottenesse altro favore spirituale dal S. Padre, ben sapendo che indulgentiae tantum valent quantum sonant, e che quando si dice essere una remissione piena e totale, lo è anche di fatto. - Fate gran conto delle indulgenze, - ei diceva ai giovani, e con questo spirito così scriveva al Papa
Il Sacerdote Giovanni Bosco, con i suoi compagni sacerdoti addetti agli Oratorii per gli artisti della città di Torino, supplica umilmente la S. V. ad accordare l'indulgenza plenaria a tutti quei giovani che ogni festa frequentano detti Oratorii, confessati e comunicati, per l'ultima domenica di ciascun mese.
“Ex audientia SS.mi SS.mus Dominus Noster Pius Papa IX omnibus Christi fidelibus, de quibus tantum in precibus, Plenariam Indulgentiam semel in mense, in ultima nempe cujuslibet mensis dominica acquirendam, dummodo vere poenitentes et confessi SS.mum Eucaristiae Sacramentum sumpserint, nec non aliquam ecclesiam seu oratorium publicum visitaverint, ibique per aliquod temporis spatium juxta mentem Sanctitatis Suae oraverint, benigne concessit, Praesenti ad septennium valituro absque ulla Brevis expeditione.
Datum Romae ex Secreteria S. Congregationis Indulgentiarum die 18 februarii 1851] (L. S) F. Card. ASQUINIUS Bp.
A. Archipr. Prinzivalli Substitutus”.
L’ORATORIO di S. Francesco risiedeva tuttora su terreno altrui. L'appigionamento di tutta la casa Pinardi, quantunque materialmente gravoso, era stato nondimeno un grande guadagno morale; ma non bastava ancora a pienamente assicurare D. Bosco. Coloro che erano stati sloggiati da quel tugurio, non potevano darsene pace; e, - non ripugna, andavano gridando, che una casa, la quale da tanto tempo era il luogo di convegno, di ricreazione, di allegria sia caduta nelle mani di un prete intollerante? Ma intanto taluno, per rientrare in quel sito, e per avidità di lucro, ritornarlo ad essere luogo di bagordi e di mal costume, propose al signor Pinardi una pigione quasi doppia di quella che pagava D. Bosco. Ma l'onest'uomo non volle mancare di parola; anzi da buon cristiano, trovandosi assai contento di vedere la sua casa servire ad un'opera santa, aveva più volte esternato il desiderio di venderla, qualora D. Bosco la volesse comperare; ma, o perchè credesse di possedere un gioiello, o perchè avesse bisogno di danaro, egli, domandava nientemeno che l'ingente somma di ottanta mila lire. [239] A tale richiesta D. Bosco rispondeva sempre che gli era impossibile il sobbarcarsi a simile spesa.
- Ma faccia lei un prezzo, e vedremo; - insisteva il sig. Pinardi.
- Non posso farlo dopo una domanda così esorbitante, replicava D. Bosco,
- A sessanta mila lire può andare?
- Mi scusi, ma io non posso fare esibizioni
- Vengo alla proposta infima, all'ultima parola: Cinquanta mila lire!
- Non ne parliamo più, restando però sempre amici.
In que' giorni il giovane ingegnere Spezia abitava in una stanza nei pressi dell'Oratorio. D. Bosco un mattino l'incontrò e vedendo nel suo volto un'aria di grande ingenuità ne restò colpito, e fermandolo, gli chiese di quale arte si occupasse in Torino. - Ho conseguita, rispose il giovane, or sono pochi giorni la laurea d'architetto, ed attendo a potermi procurare il modo di esercitare la mia professione.
D. Bosco ciò udito invitollo a visitare la casa Pinardi e a stimare quale sarebbe il prezzo onesto da fissarsi per la compra di quell'edifizio, colla tettoia e l'area circostante. Il giovane architetto scusavasi, perchè realmente non sapeva ancora che cosa costassero le costruzioni ed i terreni. Dovette però accondiscendere, e il suo estimo, piuttosto alto, tenne che quel podere poteva aver il valore dalle venticinque alle trenta mila lire. D. Bosco nel congedarlo gli disse: Veda; altra volta avrò bisogno di lei. - E l'architetto Spezia si ricordò di queste parole, quando D. Bosco gli affidò i disegni per la costruzione della Chiesa di Maria Ausiliatrice.
Non sembrava adunque facile per ora l'acquisto della casa di Valdocco, tanto più che D. Bosco non aveva nessuna probabilità di potersi procacciare tutta la somma vistosa di danaro [240] che prevedeva necessaria. Egli e sua madre avevano già alienato ogni loro avere a pro dei giovanetti e in casa loro non avevano ormai più alcuna risorsa. Anzi mancava persino il danaro per comperare pane in que' giorni.
Ma sul principio del 1851 Dio faceva vedere esser egli il padrone dei cuori e che aveva destinato quel sito pel nostro Oratorio. Ed ecco in qual modo.
Era il pomeriggio di un giorno festivo. I giovani erano già raccolti in Cappella; il Teol. Borel predicava, e Don Bosco stavasi sulla porta del cortile, a fine d'impedire disturbi ed assembramenti di que' giovanetti che continuavano a venire.
In quella mala casa, che era vicina, pochi istanti prima era accaduta una rissa violenta. Un ufficiale giaceva steso a terra lontano pochi metri colla testa rotta, e tutto intriso nel proprio sangue, che era una pietà il vederlo. In quel momento comparisce il signor Pinardi, sdegnoso perchè già più volte era stato chiamato in questura, per simili fatti di sangue, a deporre come testimonio, con perdita di tempo, e pericolo di venire in odio ai feritori. Sì presentò adunque a D. Bosco tutto pensieroso colle braccia incrociate: - È proprio tempo di finirla, - incominciò; - è una cosa che non va più, è una continua disperazione: risse e sempre risse.
- Io voleva comperar questa casa, - osservò D. Bosco, ma voi non volete vendermela, e quindi come proprietario ne avrete ancora dei fastidii per certe vicinanze.
- Io non voglio venderla? Alto là, - esclamò Pinardi in tono scherzevole e insieme risoluto; - D. Bosco comprerà la mia casa!
- Alto là, - rispose D. Bosco, - bisogna che il signor Pinardi me la voglia vendere pel prezzo che vale, e io la compero subito. [241]
- Sì, che gliela vendo per quel che vale.
- Quello che le ho già chiesto: ottanta mila lire.
- Perchè è un prezzo esagerato, e io non voglio offendere chi domanda.
- Offra dunque quello che vuole.
- Parola d'onore che gliela do.
- Stringetemi la mano, e poi farò l'offerta.
- Nei mesi scorsi, - soggiunse D. Bosco, - io l'ho fatta stimare da un vostro e mio amico, il quale mi assicurò che nello stato attuale questa casa deve patteggiarsi tra le ventisei e le ventotto mila lire; e io, affinchè sia cosa compiuta ve ne offro trenta mila.
- Regalerà ancora uno spillo di 500 franchi a mia moglie?
- Da domani in quindici, e con un pagamento solo.
- Cento mila franchi di multa a chi desse indietro.
- E così sia, - concluse D. Bosco: - anzi, se voi siete contento, darò ancora un pranzo al quale saranno invitate quelle persone che indicherete. [242]
- Sì, anche nove o dieci. - E così quell'affare fu conchiuso in pochi minuti.
A D. Bosco stava molto a cuore l'acquisto di quella casa, e temeva che, se non concludeva subito, il sig. Pinardi mutasse pensiero e la vendesse a migliori offerenti. Ma dove trovare trenta mila lire, e in così breve tempo?
Egli scriveva subito all'Abate Rosmini, che si trovava a Stresa.
Ill.mo e Reverendissimo Signore,
Mi faccio dovere di partecipare a V. S. Ill.ma e Rev.ma che nel tempo che eseguivasi il piano del novello edifizio futuro, mi si porse migliore occasione di avere altrettanto con vantaggio più grande.
Il padrone della casa che presentemente abito, per alcune sue private circostanze è disposto a vendere, ed essendosi sul proposito trattato, si potrebbe conchiudere il contratto, con cui acquisterebbesi un corpo di casa di venti membri abitabili e sito di tavole 95 tutto cintato. Il prezzo è di fr. ventotto mila e cinquecento.
Noti qui che il comperato pel nuovo edifizio, vendendolo senza fretta, monterebbe non meno di fr. 30.000: sicchè verrebbe cambiato un sito con un altro di quasi eguale estensione, fabbricato e cinto. La posizione dei due siti è coerente e gode i medesimi favori riguardo alla distanza dalla città.
Se V. S. fosse presentemente disposta ad imprestare la somma di cui altre volte già abbiamo concertato, sarebbe un gran bene per l'Oratorio. La nuova compra verrebbe intieramente saldata, ed Ella potrebbe assicurare il suo danaro sopra una casa e sito scevro da qualsiasi onere. Nel migliorare [243] poi l'edifizio una parte qualsiasi potrebbesi ridurre a nostro beneplacito al mentovato Ospizio.
Il Sig. P. Puecher, D. Scesa, D. Pauli hanno piena cognizione del luogo, essendo precisamente quello ove esiste l'Oratorio di S. Francesco di Sales, Ospizio pei giovani abbandonati ecc. Attendo solo un cenno di Lei per conchiudere il contratto.
Nella speranza che voglia cooperare a quest'opera, che io reputo essere della maggior gloria di Dio, Le auguro ogni bene dal Signore reputandomi all'onore massimo il potermi dichiarare
Il Sig. D. C. Gilardi si affrettava a rispondergli:
Molto Rev. e Car.mo Don Giovanni Bosco,
In risposta alla riverita sua del sette gennaio corrente, il Rev.mo mio Superiore D. Antonio Rosmini, che caramente La riverisce, mi ordina di scriverle, che quando il locale e fabbricato, che presentemente Ella abita in Valdocco, e che Le verrebbe venduto dal padrone, fosse realmente libero da ogni altro peso; egli sarebbe dispostissimo a somministrarle la somma di lire 20.000 alle condizioni che già furono intese vicendevolmente: laonde Ella può contare sulla detta somma per l'acquisto, la quale le verrà rimessa parte in danaro e parte in cedole od obbligazioni fruttanti dello Stato ad un suo cenno, e stipulerà il contratto di prestito. [244]
Colgo occasione per augurarle tutte le desiderabili benedizioni del Signore pel nuovo anno incominciato e per altri molti su di Lei, e sulle opere di carità da Lei intraprese. Voglia ricordarmi alla sua ottima madre, e credami sempre
Ma ventimila lire non erano trenta, e dovevansene trovare ancora dieci. Dio però non manca mai ai bisogni de' suoi servi; ed Egli che aveva incominciata l'opera la mandò a buon termine. Ed ecco un visibile tratto di sua Divina Provvidenza a favore del nostro Oratorio.
La sera di una domenica entra nell'Oratorio il sig. Don Giuseppe Cafasso. Era cosa veramente insolita che l'illustre ecclesiastico si portasse all'Oratorio in giorno di festa, perchè sempre occupato nella chiesa di S. Francesco d'Assisi. Adunque egli si accosta a D. Bosco, e gli dice: - Sono venuto a darvi una notizia che non vi farà dispiacere. Una pia persona (la Contessa Casazza - Riccardi) mi ha incaricato di portarvi diecimila lire, da spendersi in quello che giudicherete della maggior gloria di Dio. - Deo gratias, rispose D. Bosco, è proprio il cacio sui maccheroni. - E intanto gli raccontò come avesse poco prima conchiusa la compera di casa Pinardi e che incominciava a mettere il cervello alla tortura per trovare l'intera somma convenuta. I due sacerdoti non poterono non iscorgere in quel fatto il dito di Dio, e quale non fu la meraviglia di Pinardi quando, trascorsa appena una settimana dalla parola ricevuta, il 14 gennaio vide comparirsi innanzi D. Bosco che gli diceva: Quando vorrà che facciamo lo strumento, i danari sono pronti, ed è [245] tutto oro! - Il giorno dopo fu stabilito pel compromesso; il Pinardi ricevette in acconto brevimano senz'atto legale due mila lire; e fu invitato al pranzo, secondo la promessa.
D. Bosco intanto affrettavasi a compiere tutte le pratiche necessarie per far distendere colla forma legittima il pubblico istrumento, e ne scriveva a D. Carlo Gilardi:
In seguito alla sua preg.ma lettera scrittami da parte dell'Ill.mo e Rev.mo Ab. Rosmini, ho visitato l'Ipoteca della casa Pinardi, di cui trattasi, e trovatala libera da ogni peso e da ipoteca, divenni alla conclusione del Contratto. Nella stipulazione dello Istrumento non si porrà altra ipoteca su detta casa e sito che i franchi ventimila dal benefattore Sig. Abate Rosmini imprestati. Resta solo che il prefato sig. Rosmini voglia delegare persona che la rappresenti, sia per verificare trovarsi lo stabile veramente libero, sia per la stipulazione dell'Istrumento.
Offra intanto i miei più sinceri ringraziamenti al Venerat.mo suo Superiore per quanto vuole fare per noi, e spero che quest'opera di carità, nel tempo che è della maggior gloria di Dio farà discendere sopra di lui e sopra tutto l'Istituto le divine benedizioni.
Quasi tutti i giorni passo un po' di tempo coll'amato D. Costantino e D. Nicolino. Mi ami nel Signore, e mi creda quale di tutto cuore nel Signore
P. S. Un po’ in fretta e disturbato dal chiasso dei birichini. [246]
Finalmente giunse in Torino il sacerdote Carlo Gilardi, procuratore generale dei Rosminiani, che recava le ventimila lire. - Iddio me le ha proprio mandate, esclamò D. Bosco, e lo disse con tale sentimento, che il buon religioso ne fu commosso.
Si legge nella minuta notarile: “l 19 febbraio 1851 con atto rogato Turvano, Francesco Pinardi vende in comune ai sacerdoti Giovanni Bosco, Teol. Giovanni Borel, Teol. Roberto Murialdo, Giuseppe Cafasso terreni e fabbricati, che hanno per coerenti i signori fratelli Filippi a levante e notte; strada della Giardiniera a giorno; e la signora Maria Bellezza a ponente. Il prezzo è stabilito per la somma di lire 28.500, che per lire 20.000 viene pagato dal Rev. Sig. Carlo Gilardi come rappresentante del Signor Abate Antonio Rosmini - Serbati; e per il resto si rilascia scrittura privata”.
Occorrevano ancora altre 3.500 lire per le spese accessorie, e furono aggiunte dal Comm. Giuseppe Cotta, nella cui banca venne stipulato lo strumento. Questo signore era il primo patrono ed appoggio dell'Oratorio, e tale fu sempre finchè visse.
Come si vede, il nostro D. Bosco in quell'occasione ebbe novella prova della divina Bontà a favore dell'Opera sua, e concepì una fiducia ed un convincimento vie maggiore, che la Provvidenza non gli avrebbe mancato neppure per l'avvenire. E noi crediamo che questa fiducia illimitata, che questo convincimento, non mai smentito pel corso di quasi 50 anni, sia una delle principali cause dell'operosità di Don Bosco. Il mondo stesso vorrebbe talora chiamarlo uomo audace; ma dalla felice riuscita delle sue imprese è invece costretto a chiamarlo uomo provvidenziale; e ne ha ragione.
Ed egli era tale per il concorso generoso di tanti cuori cristiani; e fra questi fu l'Abate Rosmini che provvide la [247] maggior parte dei mezzi necessarii perchè l'Oratorio di San Francesco di Sales avesse sede propria. E dando quel mutuo al quattro per cento, avvisò poi che i frutti sarebbero pagati quando egli li avesse richiesti e non domandò mai con insistenza nè l'interesse nè il capitale. Tuttavia D. Bosco fedele alle sue obbligazioni assestava ogni anno i conti col C. Gilardi procuratore. Rosmini fu amico con D. Bosco fino all'ultimo istante di sua vita, e la stessa affezione gli porta- vano i suoi religiosi; e D. Bosco li contraccambiava, anche per dovere di riconoscenza, come già si è visto dalle sue lettere, e tra queste da una che noi riportiamo, tanto più che accenna alle predicazioni da lui fatte in questi mesi. È indirizzata ad un altro sacerdote dell'Istituto della Carità, trasferito alla Sacra di S. Michele.
Mi confesso propriamente colpevole di negligenza: tra le occupazioni, alcuni impicci, alcuni giri e tra che sono un birichino, non ho risposto alle gentilissime sue lettere: onde senza cercare scuse mi dichiaro reo e ne domando benigno compatimento.
Intanto Le spedisco la copia dei libri richiestimi, a cui unisco alcune altre coserelle che giudico poter tornare costà di allettamento per quei figliuoli che nella persona di Lei trovano un padre. Unisco quivi la nota di quanto ho speso per alcune commissioni fatte in Torino.
Mi è molto rincresciuto non essermi trovato a casa quando passò qui a Torino; ora però dimorando a minor distanza che non è Stresa, spero di vederla presto, e qui in casa birichinoira. Reputo un tratto della Provvidenza ch'Ella sia andata alla Sacra; io giudico che farà del bene a quelle [248] popolazioni; il suo buon cuore lo può e lo vuole; quei popolani corrispondono.
Tanti saluti a D. Cesare e agli altri di mia conoscenza: mi ami nel Signore; se valgo qualche cosa mi comandi, non sarò più così negligente.
DON BOSCO, comprando e rivendendo casa Moretta, acquistando il campo che noi diremo di Maria Ausiliatrice, divenendo proprietario della casa Pinardi, mentre i poco sagaci potevano crederlo interessato al proprio vantaggio, faceva invece i primi passi in un arringo nuovo, al quale chiamavalo il Signore.
Innanzi ad un secolo materiale e finanziere, nel quale tengono i primi posti le scienze dette economiche, la meccanica colle svariate sue macchine, i monopolii coll'accumulamento di milioni; in mezzo a tanti uomini speculatori, banchieri, egoisti, noncuranti o sprezzatori superbi della Divina Provvidenza, solo avidi di accumulare ricchezze, perchè tutto obbedisce al danaro[10]; Iddio faceva sorgere un uomo il [250] quale, senza capitali, senza nome sulle piazze del commercio, senza associazioni di azionisti, senza pratica dei moderni sistemi economici, condurrà le opere sue a proporzioni colossali, maneggerà milioni e milioni, provvedutigli dalla carità e che tutti saranno da lui spesi per la gloria del suo Signore e per la salute delle anime. Il danaro, al quale non porterà ombra d'affetto, non sarà che un mezzo per raggiungere il fine.
Si rifletta un istante sull'intera vita di D. Bosco. Egli sentiva in sè la dignità e la sicurezza di amministratore dei tesori della Divina Provvidenza; ma come servo fedele incominciò a negoziare i talenti che il Padre di famiglia gli aveva consegnati. Sua regola fu la massima di S. Ignazio di Loiola: “Lavorare come se l'esito di un affare dipendesse unicamente dai nostri sudori, e nello stesso tempo diffidare di noi come se ogni cosa dipendesse unicamente dal Signore”. È questo principio la causa di quei mille mezzi che egli escogitò per fare appello alla beneficenza cristiana dei fedeli, non stancandosi mai fino ad imprese compiute e a costo di ogni più grave fatica e patimento. E il servo fedele non ne vide mai fallire nessuna, perchè Dio rimunerava le sue virtù. Quando gli mancavano i denari, la banca alla quale ricorreva era quella della Divina Provvidenza; e per staccarne da questa i mandati di pagamento visse egli, e volle che vivessero anche i suoi alunni, nella vera povertà evangelica. Prima però d'intraprendere tante sue opere, le aveva meditate lungamente nell'orazione, erasi raccomandato alle preghiere de' suoi figli e di altre anime pie, e per assicurarsi sempre meglio della volontà, del Signore, fu costante fino a' suoi ultimi giorni nel chiedere consiglio a sacerdoti prudenti, a superiori ecclesiastici e allo stesso Romano Pontefice. Di quanto diciamo fa ampia testimonianza D. Rua e quanti vissero con D. Bosco. [251]
La povertà volontaria adunque, la preghiera continua, l'umiltà sincera lo rendevano degno di questa sua missione. Si aggiunga la sicurezza della sua confidenza in Dio. Così Mons. Cagliero e D. Rua ci poterono dettare la seguente pagina: “D. Bosco soleva dire, e noi l'udimmo più volte: - Il padrone delle mie opere è Iddio, Iddio l'ispiratore e il sostenitore, e Don Bosco non è altro che lo strumento; perciò Iddio si trova impegnato a non far cattive figure. Maria SS. poi è la mia protettrice, è la mia tesoriera. - E quando era maggiore la deficienza di mezzi, o più grandi le difficoltà o tribolazioni, lo si vedeva più allegro del solito, tantochè nel vederlo più frequente e spiritoso nel dir facezie, dicevamo: - Bisogna che Don Bosco sia ben nei fastidi, giacchè si mostra così sorridente. - Infatti, esaminando le circostanze nelle quali si trovava allora, ed interrogandolo, venivamo a scoprire i nuovi e gravi ostacoli che gli si paravano avanti. Ma Don Bosco ripeteva sempre quelle parole di S. Paolo. - Omnia possum in eo qui me confortat. - Era sicuro che Iddio come altre volte, dopo averlo messo alla prova, lo avrebbe esaudito. Nessuno scorgeva in lui fastidio o noia. Queste continue sollecitudini erano per Don Bosco cose tanto naturali, che quasi non se ne avvedeva, e vi durava da mane a sera e un giorno dopo l'altro; e sempre come se non fosse lui a sostenerne il peso. Non si dava alcuna pretesa, e si vedeva umile come chi avesse nulla a fare, ed avesse fatto nulla”.
Eppure non potea dirsi facile il maneggio dei tesori che la Provvidenza Divina deponeva nelle sue mani, perchè in questa amministrazione egli doveva necessariamente valersi dell'opera altrui. Era oculato nel predisporre ogni disegno, attento nella scelta delle persone, minutissimo nel cercare che si risparmiasse il più che si poteva, esatto nel chiedere di esaminare i contratti, ma nello stesso tempo non diffidente. Scelta una [252] persona che aveva fama di onestà, si regolava come il Pontefice Iojada ai tempi del Re Gioas nella riparazione del tempio. “Non si faceva render conto a quelli i quali ricevevano il danaro per pagare gli artefici, ma lo amministravano sulla loro fede[11]”.
Tuttavia egli, di cuore aperto, incapace d'ingannare, credette talora essere negli altri quello stesso amore alla giustizia che egli adoperava in ogni contratto; e non conoscendo le trame usate dalla gente del mondo, nei loro commerci fu più volte ingannato, basando i suoi calcoli su una preventiva di spesa che poi vide salire a somme più elevate. Talvolta i provveditori, specialmente ne' suoi primordi, lo tradirono in varie maniere; tal altra, stretto da circostanze imperiose, s'incontrò in persone poco delicate, che lo costrinsero a vendere per poco ciò che valeva molto, e a comprare per molto ciò che valeva poco. Non mancarono e frodi e furti, perchè Don Bosco non poteva sempre tener l'occhio a tutto. Nè ciò deve far meraviglia. Gesù benedetto non aveva affidato ad un Giuda la borsa delle elemosine? Moltiplicate le aziende, egli cercò persone del suo Istituto che lo coadiuvassero in questi svariati bisogni; e trovò finalmente uomini onestissimi, fidati a tutta prova, ma taluni non sempre pratici degli affari, non atti a certe operazioni commerciali, e tutti sprovvisti sovente del denaro che era indispensabile, perchè D. Bosco aveva la cassa vuota. Aggiungiamo ancora che i debiti dell'Oratorio salivano spesso a somme enormi, e ciò senza un centesimo di reddito. Eppure Don Bosco quasi passeggiando sull'orlo di un fallimento, fece sempre [253] fronte a tutti i suoi impegni; i suoi creditori non perdettero mai un centesimo; continuamente si innalzarono edifizii; ed i suoi giovani in numero sterminato e sempre crescente non mancarono mai di nulla. Perchè le fabbriche di Francia, d'Austria, d'Inghilterra facessero spedizione di quantità di merci alle sue case, bastava per garanzia il suo nome; molti imprestiti gli furono concessi sulla semplice parola o con una carta senza forma legale, e vi furono banche nell'America che prima versarono ai Salesiani grosse somme e poi mandarono a Don Bosco, al quale era intestato il mutuo, le cambiali in bianco perchè le firmasse, come egli fece.
Tutto ciò non fu un miracolo strepitoso, continuo per quasi mezzo secolo? Non è evidente che Don Bosco fu l'uomo che Dio volle presentare al secolo materialista, per fargli toccar con mano che cosa può, senza i calcoli e le arti umane, l'appoggio della Divina Provvidenza, a chi ripone in Lei una confidenza senza limiti?
Anche di questa missione di Don Bosco è adunque da tenersi conto nel procedere nella nostra narrazione, mentre qui dobbiamo dire che nel 1851 egli con D. Cafasso, col Teol. Borel e con D. Giacomelli aveva più volte manifestato il suo pensiero di mettere presto mano all'opera per la costruzione del suo futuro e grandioso Oratorio. Anzi un giorno sul principiar dell'anno, mentre era attorniato da' suoi giovani, loro parlò dello splendido avvenire della casa di Valdocco, di un porticato che avrebbe attorniato un ampio cortile, descrivendo eziandio, come se già ciò avvenisse, le feste che si sarebbero celebrate in una grande chiesa, e le musiche stupende che vi avrebbero risuonato, e il concorso dei popoli accorrenti ai piedi degli altari.
Don Bosco pertanto nel mese di marzo risolveva di incominciar subito la fabbrica di una cappella più decorosa [254] pel divin culto, e più acconcia al crescente bisogno. L'antica, come abbiamo già esposto, coll'aggiunta di alcune camerette, si era bensì alquanto ingrandita, ma non cessava di essere insufficiente e disadatta. Siccome per entrarvi bisognava discendere due scalini, così d'inverno e in tempo piovoso era sovente allagata ed inumidita. D'estate poi, a causa della bassezza e della poca ventilazione, vi si veniva meno e soffocavasi per l'eccessivo caldo, onde passavano ben pochi giorni di festa, senza che qualche giovanetto venisse colto da sfinimento, e portatone fuori come asfissiato. Era dunque non solo utile, ma necessario che si desse mano ad un sacro edifizio più divoto, più capace e più salubre.
Ma di quali mezzi poteva disporre Don Bosco, mentre da poche settimane aveva pagata la casa Pinardi? Brosio Giuseppe così scriveva a D. Bonetti Giovanni: “Un giorno feriale sono andato a fargli visita e lo trovai nel cortile che pensieroso teneva una lettera in mano. Dubitando qual fosse la cagione di quella preoccupazione, lo interrogai; e Don Bosco mi porse la lettera perchè la leggessi. Era un fornitore che minacciava di farlo chiamare in giudizio se non gli sborsava subito circa duemila lire in acconto del suo avere. Terminata di leggere quella lettera, chinai la testa riflettendo qual dispiacere e vergogna sarebbe per Don Bosco dover comparire in giudizio e sentirsi condannato per debiti; e mi sfuggì un lungo sospiro. Don Bosco invece tutto tranquillo mi disse: - Come, caro Brosio, tu sospiri per questo? Credi tu che la Provvidenza Divina mi abbandoni? Preghiamo e vedrai quello che farà la Madonna per l'Oratorio! - E siamo andati a pregare in cappella. Terminata la preghiera, ecco presentarsi un signore che desiderava parlare con Don Bosco e gli consegnava i denari necessari per quel pagamento. [255] Questa somma riparava un solo sdruscio, rimanendogli ancora altre partite da spegnere, non contando le spese continue da farsi. La chiesuola era troppo piccola per contenere tanti giovani, il locale angustissimo per dare alloggio ai ricoverati. Come fare? Dove prendere tanti danari per provvedere a tutte le necessità? Avendo io esposte queste osservazioni a Don Bosco egli mi disse: - Ho intenzione a suo tempo di fare una lotteria; manca però il locale e gli oggetti che dovrebbero servire come premio agli oblatori. Dove mai prendere tutta questa roba? - E così dicendo sorrideva. Lei, gli risposi, che conosce tanti signori, domandi ad essi gli oggetti necessarii, ed io farò quello che potrò presso negozianti di mia conoscenza, e vedrà una lotteria che riuscirà sorprendente. - E in ciò abbiamo convenuto. Ma Don Bosco tenne per sè i suoi disegni, sui fini e sul modo di fare appello alla pubblica carità. La costruzione della chiesa doveva provvedere le somme necessarie per innalzare l'Ospizio e per ricoverare i giovani. E questi tre scopi li seppe conseguire ogni volta che si accingeva ad un'impresa grandiosa che era la principale: questa doveva sostenerne due altre eziandio importanti”.
Di quegli stessi giorni Don Bosco una sera diceva a sua madre: -Ora voglio che innalziamo una bella chiesa in onore di S. Francesco di Sales. - Ma dove prenderai i danari? gli domandò la buona Margherita. Sai che di nostro non abbiamo più nulla; tutto fu già fatto fuori per dare vitto e vestito a questi poveri giovani. Quindi prima di assoggettarti alle spese di una chiesa, devi pensarci due volte, e intenderti bene col Signore. - E faremo appunto così. Se aveste del danaro me ne dareste voi? - Puoi immaginarti con quanto piacere. - Or bene, conchiuse il figlio, Iddio, che è tanto più buono e più generoso di voi, del [256] danaro ne ha per tutto il mondo, e per un'opera che deve tornare alla sua maggior gloria, spero che me ne manderà a tempo e luogo.
Con questa fiducia Don Bosco fece un giorno chiamare l'ingegnere, il signor cav. Blachier, lo condusse sul luogo da destinarsi al sacro edifizio, e lo pregò di fare un disegno; quasi nel medesimo tempo, avuto a sè un certo sig. Federico Bocca, gli domandò se voleva assumersi l'impresa di eseguirlo. - Di buon grado, rispose quegli. - Ma l'avverto, soggiunse Don Bosco, che potrebbe darsi che qualche volta io non avessi il danaro per le opportune spese. - E allora andremo più adagio nei lavori. - Ma no, che io vorrei che andassimo in fretta, e tra un anno avessimo la chiesa bell'e fatta. - E andremo anche in fretta, riprese l'impresario. - Dunque incominci, conchiuse Don Bosco. Qualche cosa di fondo vi è già; il resto la Divina Provvidenza ce lo spedirà a suo tempo.
Mentre si prendevano queste disposizioni, si avvicinava la quaresima, e negli ultimi giorni di carnovale in mattine diverse i giovani interni ed esterni dell'Oratorio compivano l'esercizio della buona morte. “Ricordo, ci scriveva il Can. Anfossi, che ogni anno nel carnovale in compenso di tanti disordini che si commettono, Don Bosco ci esortava a ricevere la SS. Eucarestia ed a fare delle ore di adorazione innanzi al tabernacolo. E mentre parlava, pensando agli insulti che riceveva Gesù Sacramentato, specialmente in quei giorni, piangeva e faceva piangere anche noi. Ci raccomandava eziandio di compiere le nostre pratiche di pietà il più divotamente che fosse possibile coll'intenzione di acquistare l'annessa indulgenza plenaria, e diceva: Procuriamo un buon carnevale alle povere anime purganti, cooperando a farle entrare più presto nei gaudii del paradiso. [257]
Insisteva anche perchè nelle preghiere non dimenticassimo i nostri benefattori. Quindi, sebbene in Torino si facesse sfoggio di molti divertimenti pubblici e tutta la città fosse in moto colle sue maschere, noi ragazzi non sentivamo punto il bisogno di uscire per Torino; non ci veniva neanche il pensiero di chiederne il permesso; Don Bosco però in compenso ci procurava qualche divertimento nel cortile e nel teatrino”.
L'11 marzo i catechismi quadragesimali erano ordinati. Nell'Oratorio di S. Luigi il Direttore Sac. D. Pietro Ponte ebbe con sè il giovane Teologo Sac. Felice Rossi. Il Teol. Leonardo Murialdo incominciava a frequentare l'Oratorio dell'Angelo Custode in Vanchiglia, diretto poi dal Teol. Roberto Murialdo suo cugino, e vi si portava tutte le feste a farvi il catechismo. In aiuto di questi e di altri zelanti sacerdoti Don Bosco mandava da Valdocco non solo chierici ma i suoi giovani medesimi più sodi e più sicuri, esercitando essi quell'ufficio anche tutte le domeniche dell'anno. Nel 1851 per deferenza al Parroco di Borgo Dora, nella cui parrocchia trovavasi l'Oratorio di Valdocco, prese eziandio a mandarli a fare il catechismo nella sua chiesa dei Ss. Simone e Giuda e così continuò sempre, tolte brevi interruzioni, per lunghi anni.
D. Bosco catechizzava nell'Oratorio di Valdocco, ma sorvegliava su tutto e su tutti.
Abbiamo la testimonianza a noi data dal sig. Cristino Nicolao: “Fui dei primi ad intervenire all'Oratorio di San Luigi e lo frequentai per più anni. D. Bosco molte volte vi si recava, sia nella quaresima sia lungo l'anno e talora accompagnato da nobili e distinti personaggi della città che lo coadiuvavano, ed era accolto con un entusiasmo difficile a descriversi. Presiedeva ai catechismi e alle funzioni, predicava ed eccitava lo zelo de' suoi cooperatori. Io ammirai spesso l'ascendente che D. Bosco aveva su quei giovanetti. [258] Talora alcuni infuriati si battevano e D. Bosco si avvicinava con tutta calma dicendo: - Eh là! Eh là! - e prendevali, come accarezzandoli, per un orecchio; e a quell'atto istantaneamente si pacificavano.
Talora, in premio ai più diligenti, li conduceva a pranzo, o nella villeggiatura del Teol. Vola a S. Margherita, o a Sassi presso quel buon parroco. Stando in mezzo ai giovani, ne studiava attentamente le inclinazioni, la pietà e la condotta, per scorgere se scoprisse indizii di vocazione ecclesiastica. Fra gli altri, parendogli che io potessi fare buona riuscita, mi affidò al Teol. D. Pietro Ponte, perchè mi facesse incominciare lo studio della lingua latina. Ma non riuscii, perchè il mio fratello maggiore non pazientò nell'attendere che il corso degli studii rendesse più chiaramente palese la mia vocazione, e perciò dovetti applicarmi ad un'arte liberale. Ma altri da D. Bosco aiutati direttamente furono insigniti del sacerdozio; altri appresero onorevoli professioni, tutti lo amarono, molti gli si mostrarono riconoscenti, e sovente andavano a visitarlo in Valdocco. Ed io, dal giorno che morì, non posso fare a meno di recarmi tutte le settimane a visitarne la tomba a Valsalice”.
Le stesse cure D. Bosco prestava all'Oratorio di Vanchiglia.
Avvicinandosi la festa di Pasqua, che nel 1851 occorreva il 20 aprile, ferveva l'opera santa dei tridui e delle confessioni, e i Cappuccini del Monte a Portanuova e gli Oblati di Maria della Consolata in Valdocco, si prestavano, come altre volte nell'anno, ad esercitare con loro disagio il sacro ministero. I cori dei giovanetti preparati alla prima comunione cantavano la laude che D. Bosco aveva loro insegnata, e aggiunta in quest'anno al Giovane Provveduto:
E’ degli Angioli il Convito, ecc. [259]
E il clero secolare e regolare affaticavasi in città e in provincia nel santificare le anime e nello stesso tempo, convien pur dirlo, a formare dei buoni cittadini fedeli al Sovrano e obbedienti alle leggi dello Stato; senza far menzione degli altri innumerevoli benefizii morali e materiali che recavano ai popoli. Ma i settarii non volevano, anzi odiavano il vero bene e anelavano a togliere ogni influenza alla religione.
Nel Parlamento, che ormai aveva l'aspetto di un sinedrio di protestanti, verso il fine di marzo, tra le villanie e gli insulti al clero, era stata proposta una riforma degli Ordini monastici, volendosi vietare l'emissione dei voti solenni ai novizii prima dei ventun anno, e imporre che nei due anni precedenti la professione i novizii e le novizie vivessero almeno sei mesi continui fuori del chiostro: chi avesse accettato una professione religiosa non permessa dalle leggi fosse condannato alla relegazione e il professante privato dei diritti civili. Non si venne però al voto, e pochi giorni dopo, non essendo ancora ben maturati i disegni di soppressione dei Benefizii e degli Ordini religiosi, si cominciò ad imporre su questi gravi balzelli, e, lasciando esenti le chiese, si colpivano le abitazioni dei parroci e dei beneficiati. Il 15 aprile il Re firmava la nuova legge che aboliva le decime in Sardegna, e il 23 maggio sanciva quella della manomorta, la quale estendevasi alle province, ai comuni e agli istituti di carità e beneficenza; ma mentre per questi ultimi la quota era del mezzo per cento, per le Istituzioni Ecclesiastiche fu elevata al quattro.
Intanto Don Bosco in sul finire di maggio, demolito in parte il muro interno che divideva i due cortili, fece incominciare gli scavi per l'erezione della Chiesa progettata, cosicchè sul principio dell'estate se ne poterono gettare le prime fondamenta. Ma siccome i muratori di quando in quando [260] si lasciavano andare a bestemmie, Don Bosco li chiamò a sè , pregolli a non più bestemmiare, e per impedire l'offesa al Signore, promise che ogni sabato avrebbe loro dato uno ed anche due bicchieri di vino a ciascuno, purchè lasciassero quella brutta abitudine. I muratori promisero e mantennero la parola, e per più di un anno ogni sabato Margherita recava ad essi una botticella, che era vuotata a onore di Dio, a merito di D. Bosco e a refrigerio dell'ugola di quegli operai.
DON Bosco non aveva messo tempo in mezzo nel cercare oblazioni dai fedeli per dar principio alla chiesa progettata, e fra gli altri ricorreva all'Abate Rosmini.
Il poco tempo che V. S. Ill.ma e Rev.ma potè fermarsi qui in Torino, non ci permise di farle vedere il modo con cui si desiderava di erigere la nostra chiesa, e di ristorare la nostra casa; motivo per cui fatto il disegno ho pensato di radunare una decina di persone perite in tali materie, a fine di far esaminare il lavoro da farsi.
Fu pertanto ponderato il piano e il modo di eseguirlo: e in seguito ad alcune osservazioni igieniche ed economiche fu deciso d'incominciare la costruzione della chiesa. Ma [262] siccome i mezzi per effettuare una tale opera sono unicamente appoggiati sulle oblazioni dei privati, secondo che nel modo e nella quantità ciascuno desidera liberamente concorrere, mi faccio lecito col massimo rispetto d'invitare V. S. a volerci prestare la mano benefica. La spesa per la chiesa fu calcolata dall'architetto di franchi trentamila; dalle oblazioni fatte in materiali, danari e lavori di opera, abbiamo già quindicimila franchi. Ce ne mancherebbero ancora altrettanti. Noti però che qualunque somma anche tenuissima, sarà ricevuta colla massima gratitudine, e mi sarà sempre un piacere grandissimo il poterla annoverare fra i benefattori che concorsero per la costruzione di una chiesa sotto il titolo di S. Francesco di Sales, la prima che in Piemonte siasi innalzata a favore della gioventù abbandonata.
In quanto poi al restauramento della casa fu deciso di alzarla tutta d'un piano, la qual cosa duplica lo spazio della presente abitazione; i mezzi poi per questo secondo lavoro, sono fondati sopra la pezza di sito posta in vendita, il cui esito (è già in parte venduta) ci pare buono.
Persuaso che nella sua bontà ci voglia continuare la sua mano benefica, la ringrazio di tutto cuore di quanto ha fatto a nostro riguardo, pregando il Signore onde La voglia nei santi suoi desiderii favorire e prosperare nel modo che tornerà alla maggior gloria di Dio.
Mentre poi di cuore raccomando me stesso alle divote sue orazioni, coi sentimenti della più viva gratitudine mi dichiaro con tutta venerazione
Il P. Gilardi così rispondevagli da Stresa il 1 giugno 1851:
Molto Rev.do e car.mo D. Giovanni,
Fu di grande consolazione al Molto Rev.do P. D. Antonio Rosmini il leggere nella riverita sua del 28 p. p. come Iddio benedice le di Lei zelanti premure, apprestandole i mezzi da edificare la chiesa e da ampliare la casa destinata alla pia opera che Le ispirò di promuovere: e bramerebbe egli pure di potervi concorrere con qualche larga oblazione; ma le attuali sue circostanze e le molte spese che ha dovuto subire in questi ultimi anni, e che gli toccano ancora, non gli permettono dì secondare tutto il desiderio suo. Tuttavolta, qualora ciò piacesse alla S. V., egli Le offrirebbe un certo numero di libri delle Opere sue, cui Ella facendo vendere ne convertirebbe il prezzo a sussidio di cotesta sua fabbrica. Se il partito Le conviene, me ne faccia un cenno, acciò si possa mandare ad effetto…….
D. Bosco riconoscente spediva la sua risposta.
Car.mo e Molto Rev. Sig. D. Carlo,
Nella persona di V. S. Car.ma ringrazio il Rev.mo Signor Abate Rosmini della parte che vuol prendere a questo nostro or ora incominciato edifizio destinato per la casa del Signore.
Essendo un'oblazione di carità, perciò qualsiasi somma si accetta; ed anche i libri spero si potranno facilmente ridurre in danari. Abbia solo la compiacenza di significarmi il modo con cui Ella desidera di mandarmeli, ed io sarò [264] pronto a riceverli; mi sarebbe anche cosa vantaggiosa per mia norma, se m'indicasse approssimativamente il prezzo con cui tali libri sono posti altrove in vendita.
Mi rincresce molto della notizia di D. Carlo Rusca; spero però in Domino che l'infermità non sarà ad mortem. Ad ogni modo ho già pregato e continuo a pregare onde si faccia la santissima divina volontà.
La saluto di cuore e La ringrazio dicendomi Di V. S. Car.ma
D. Bosco intanto, secondo il suo costume, quando doveva mettere mano ad una impresa più importante, aveva stabilito di recarsi al santuario della Madonna di Oropa per invocare con tutta l'espansione dell'animo il suo materno aiuto. “Avendolo io pregato, ci scrisse D. Giacomo Bellia, venne a fare la chiusa del mese di Maria a Pettinengo. Era la prima volta che in questo paese si celebrava una così commovente funzione. D. Bosco predicando, da un mazzolino di gigli, rose, violette e altri fiori trasse argomento a parlare delle virtù, colla pratica delle quali si può riuscir gradevoli a Maria SS. Abitò una settimana presso di noi, dando molta edificazione, e parecchi si confessarono in casa nostra.
Passando poi a Biella nella chiesa di S. Filippo ei fu richiesto del celebret, ma non l'aveva con sè . Interrogato se conoscesse qualcuno che facesse per lui testimonianza, rispose: - Sì; p. es. Padre Goggia. - Lo conosceva però solamente di fama. Ed ecco il Padre Goggia entrare in sagrestia. I due sacerdoti appena si videro, si abbracciarono, cosa che rare volte in sua vita fece D. Bosco, chiamandosi l'un l'altro per [265] nome, senza essersi mai veduti. Io restai preso da meraviglia, poichè il nome di D. Bosco non era stato pronunciato, e dovetti osservare con altri che un santo abbracciava l'altro, senza essersi prima d'allora mai ravvisati.
In questo viaggio andò ad Oropa, vi celebrò la S. Messa e fu invitato dal Rettore a ritornare per fermarvisi fino a tre mesi, lavorando ne' suoi manoscritti e celebrando in compenso per il Santuario. D. Bosco accettò e ringraziò, pensando che qualche settimana di quiete e di preghiera innanzi alla santa immagine, se pure gli fosse possibile, gli avrebbe recato un grande sollievo. Infatti qualche tempo dopo vi ritornò; ma era cambiata l'amministrazione e non gli fu concesso di rimanere”. Fin qui D. Bellia.
Don Bosco ritornato dal Santuario d'Oropa si affrettò a far preparare i disegni della chiesa da costruirsi, e, con una sua domanda per ottenere l'approvazione, li presentò al Municipio. Subito dopo incominciò a scrivere lettere ad un gran numero di persone che sapeva propense a beneficare, esponendo loro la necessità nella quale si trovava la regione Valdocco di un edifizio consecrato al divin culto, chiedendo che venissero in suo aiuto, e loro trasmettendo una scheda di sottoscrizione da lui formulata[12].
Per varii mesi continui egli non desistette dal suo scrivere e ne ebbe le risposte anche dei Vescovi del Piemonte, ai quali aveva indirizzato la sua calorosa domanda, pregandoli a [266] volersi far promotori nelle loro diocesi della sottoscrizione. I Prelati si dichiaravano prontissimi ad aiutarlo; ma lamentavano la difficoltà di ottenere le oblazioni richieste, avendo essi molte spese alle quali non potevano sopperire per mancanza di fondi, che la raffreddata carità lasciava desiderare. Chi aveva chiese da erigere o riparare, chi si trovava ristrettissimo di finanze, chi era aggravato da istituzioni da sostenersi in città e diocesi molto povera, e assediato da molteplici richieste per opere pie e altre non pie. Ciò non pertanto promettendo che col tempo non fallirebbero alla sua aspettazione, uno manda il suo obolo, altro accetta messe che celebrerà lasciando l'elemosina a disposizione di Don Bosco. Ma sovratutto è da notarsi la deferenza che spira dalle loro risposte. Scrive il Vescovo di Fossano: “Io La conforto nel Signore a proseguire con alacrità l'opera sua, e Dio non Le mancherà nella sua Provvidenza. Mi continui la sua amicizia”. Il Vescovo d'Alba: “Dio non verrà meno a V. S., che fa un'opera così buona. Io non manco di pregare S. D. M. a benedirla”. - Il Vescovo di Susa: “Il Teol. Gey mi ha rimesso la preg.ma lettera di V. S. M. Rev., nella quale mi informa del progetto di aggiungere una chiesa alle grandi opere che il Signore Le inspira di fare in favore della gioventù abbandonata”. - Il Vescovo di Saluzzo: “Non si può fare tutto quello che si vorrebbe. Ad ogni modo Le mando un attestato del caso che io faccio della santa opera intrapresa dal di Lei zelo”. - Il Vescovo di Vigevano: “Sempre intenta V. S. Ill.ma e Rev. ad opere buone, acquisterà un nuovo titolo di benemerenza ed alle benedizioni del Cielo colla pubblica chiesa che si è proposto di erigere a vantaggio speciale degli abitanti tra Borgo Dora e il Martinetto”.
Ma tutte queste lettere sembra riassumerle quella del Vescovo di Mondovì. [267]
Io non ho mai sentito parlare della S. V. M. R. e Pre.ma e delle sante opere in cui si sta occupando a beneficio della gioventù, senza che ringraziassi veramente con tutto l'animo il Signore di avere in questi tempi così perversi suscitato in Lei un Sacerdote pieno del suo spirito e di santo zelo per la salute delle anime. Ella può quindi immaginarsi di leggieri quanto io sarei disposto a coadiuvarlo pel buon esito dell'impresa dì cui mi scrisse. Ma sono tanti gli impegni che ho assunti, tante le spese a cui debbo soggiacere, che mi è giocoforza limitarmi per ora al mio buon volere. Per non dire che delle sole chiese, quattro, e fra queste due parrocchiali, se ne stanno presentemente costruendo in questa mia Diocesi. Io non posso assolutamente dispensarmi dal contribuire, per quanto me lo permettono le mie forze, a queste costruzioni, che s'intrapresero per mio eccitamento e dietro la promessa del mio aiuto. Non parlo dello sterminato numero di poveri, cui debbo talvolta provvedere vitto, alloggio e vestito, nè della difficoltà generalmente e da me in ispecie sentita in questi giorni, di aver danaro, per cui non di rado non posso supplire ad ingenti bisogni. Per questi motivi non mi è possibile prestare presentemente alla S. V. M. R. e Pre.ma il soccorso che da me si aspetta per la creazione della nuova chiesa a cui pose mano. Non fia però che io dimentichi la sua domanda. Io l'avrò sempre presente per secondarla, se non ora, nella prima favorevole circostanza. Procurerò pure di raccomandare la generosa sua intrapresa a quelle pie e caritatevoli persone dalle quali posso sperare qualche oblazione. Intanto quello da cui non debbo attualmente dispensarmi si è di porgerle le mie più cordiali congratulazioni pel grande bene che va facendo, e di pregare [268] il buon Dio a benedire sempre più e prosperare le sante opere da Lei cominciate. Si ricordi anch'Ella di me nelle fervide sue preghiere, e gradisca l'attestato della distinta affettuosa considerazione con cui ho il piacere di professarmi...
In mezzo a questi scambi di lettere, il giorno 24 di giugno, mentre i giovani in Valdocco festeggiavano l'onomastico di D. Bosco, radunatosi il Consiglio edilizio nel Palazzo di città, approvava i disegni per la nuova chiesa di S. Francesco e dava licenza per la costruzione. Il 30 il V. Sindaco Bursarelli comunicava a D. Bosco copia dell'aspettata e presa deliberazione.
Alla festa di S. Giovanni Battista succedeva quella di S. Luigi. Con assi erano stati coperti tutti gli scavi delle fondamenta della nuova chiesa, e di fronte alla porta dell'antica, s'innalzava un gran palco per gli invitati. Questo e il cortile erano ornati di tappeti e di tappezzerie; e due file di antenne alte, vestite di tele a vario colore, dalle quali pendevano orifiamma, dalla porta della chiesuola al cancello esterno, segnavano la via che doveva tenere la processione.
A questa solennità era stato invitato il Vescovo di Fossano; ma egli impedito, ne mandava le scuse a D. Bosco[13] [269] e in sua vece si prestava il Vescovo di Pinerolo. L'Armonia del 4 luglio 1851 così riferisce di questa festa: “Domenica scorsa (29 giugno) nell'Oratorio di San Francesco di Sales in Torino si celebrò la festa di S. Luigi Gonzaga nel modo il più devoto e più solenne. Lungo il mattino gran frequenza de' Santi Sacramenti; Mons. Renaldi, previa calda esortazione, amministrò il Sacro Crisma a pressochè quattrocento individui tra ragazzi e adulti. Non mancò per una solennità celebrata da gioventù sodamente cristiana, musica di voci giovanili rispondenti, recite di dialoghi e cose analoghe; apparato modesto e con maestria eseguito; un globo areostatico, parecchi razzi e fuochi artifiziali chiudevano l'amena giornata. L'allegria, la gioia, la serenità era scolpita sul volto di quella numerosa gioventù, che con rincrescimento lasciava quel festevole soggiorno. Fu la festa di una famiglia di oltre 1500 giovani, che, fra i più cordiali e religiosi evviva di un cuor solo e di un'anima sola, dalle labbra dell'amante loro padre pendevano. A rendere magnifica questa solennità ci mancava una chiesa conveniente, giacchè due terzi degli intervenuti dovettero rimanersene fuori per la bassezza e ristrettezza del presente edifizio, ma ci gode l'animo nella divina Provvidenza, la quale sembra [270] preparare i mezzi per una chiesa novella più decente pel divin culto, più adattata ai presenti bisogni”.
Noi ricorderemo ancora che il Ch. Reviglio, per suggerimento di D. Bosco, aveva posti sul balcone tre barili pieni d'acqua, in ciascuno dei quali aveva infusa una diversa materia colorante. Da questi partivano tre canaletti, che, scendendo in cortile e passando sotterra, facevano capo ad una vasca. Quivi alla sera zampillarono all'improvviso tre getti a tre colori, con stupore e gioia immensa dei giovani. Ci voleva poco a contentarli.
Poco dopo questa festa D. Bosco si recava a S. Ignazio sopra Lanzo per gli Esercizii ove predicavano il Teol. Gastaldi le istruzioni e il Padre Molina di Calvarista le meditazioni. Di questa sua gita ci dà relazione Giuseppe Brosio in questi termini: - “La benevolenza anzi l'affetto di D. Bosco verso di noi, non si può descrivere. Aveva sempre paura che i suoi figli patissero di qualche privazione, o non fossero contenti di lui[14]. Per lo spazio di circa quarantasei anni ho [271] sempre conosciuto che D. Bosco non fu mai avaro nel favorire i giovani, che desiderava fossero sempre tutti allegri, cercando continuamente i mezzi più atti per soddisfare alle loro aspirazioni o voglie, quando erano possibili e giuste. Potrei raccontare più d'un fatto a questo proposito.
D. Bosco ci consigliava anche noi esterni di ritirarci, se potevamo, a fare ogni anno gli esercizii spirituali; e qualora le nostre occupazioni nol permettessero, a spendere almeno un giorno per aggiustare gli affari della nostra coscienza nel modo che avremmo desiderato trovarci in punto di morte. Ora io aveva molto piacere di andare a S. Ignazio presso Lanzo a fare gli esercizii spirituali, e D. Bosco mi condusse con lui e mi volle compagno di tavola, di ricreazione e di passeggio. Eravamo quasi sempre insieme. A pranzo e a cena manifestava il timore che mangiassi e che bevessi troppo poco, e procurava che la mia porzione di pietanza fosse abbondante. Talora mi diceva alla sera: - Anche quest'oggi hai mangiato poco. Sei giovane. Guarda che il tuo stomaco non abbia a patirne.
Dopo gli esercizii, discesi a Lanzo, siamo andati a visitare il paese e i suoi dintorni. Giunti che fummo sopra una bella vetta, ci siamo fermati a considerare il luogo. D. Bosco rimase pensieroso per un po' di tempo, ed io lo guardava, e non sapeva che cosa dirmi di tale improvviso cangiamento. Dopo un lungo silenzio mi prese per mano ed esclamò: Come andrebbe bene qui un Oratorio e che bella posizione per un collegio E là 14 anni dopo il suo Collegio era impiantato!
Giungendo a Torino mi disse: - Ascolta, caro Brosio; se tu studierai, prenderai la patente di maestro e così diverrai insegnante... Pensa che io ti amo e molto come figlio, e ti prometto che finchè D. Bosco avrà un tozzo di pane lo dividerà sempre con te. - Spesse volte mi ripetè queste [272] parole. Scorgevo che l'idea della sua mente era fissa in scuole elementari e in un collegio, e finalmente un giorno gli risposi: - Ebbene, sì, D. Bosco; studierò da maestro. - Infatti ho studiato; senonchè , stancatomi presto, continuai nella mia professione di negoziante; ma nulla perdetti della famigliare confidenza di D. Bosco.
Aveva anche piacere di andare al Santuario d'Oropa, e non potendo D. Bosco accompagnarmi, mi consegnò un biglietto per quel Rettore, che mi ricevette come se io fossi un personaggio distinto. Fui alloggiato nelle camere dei sacerdoti e mi fu assegnato un domestico perchè mi servisse... E con me furono moltissimi che in diverse occasioni provarono gli effetti di tratti consimili della bontà di D. Bosco”.
NEL MESE di giugno e di luglio D. Bosco non aveva cessato un istante dall'occuparsi per l'erezione della sua chiesa.
Ad alcuni parve che D Bosco fosse troppo importuno nel domandare elemosine e quasi troppo sollecito per ottenere danaro. Ma noi osserveremo che non domandava per sè , che era sempre in grande bisogno, che i suoi debiti non poteva mai estinguerli interamente, che senza una virtù eroica non avrebbe potuto sottomettersi a tanti sacrifizii di ogni genere.
Infatti il 18 giugno con atto rogato Porta era stato costretto a vendere al sig. Giovanni Battista Coriasso un suo terreno presso Casa Moretta di ettari 0,03,43 per il prezzo di lire 2.500, il quale confinava a ponente col campo dei sogni. Il Coriasso vi edificava una casetta con un laboratorio da falegname nel sito ora occupato dalla porteria dell'Oratorio.
D. Bosco fatta questa vendita, oltre le schede da sottoscriversi spediva inviti famigliari a' suoi amici, dei quali diamo qui per saggio uno diretto alla Sacra di S. Michele. [274]
Pieno di desiderio di volare sul Pirchiriano, ne sono dalle mie faccende trattenuto. Causa principale di queste faccende è la chiesa costruenda a cui V. S. Car.ma deve (non sub gravi) prendere parte. In qual modo? Non con mattoni che sono troppo pesanti; non con danaro, perchè in Torino v'è la Zecca: dovrà prendere parte col mandarmi qualche fascio di legna, qualche trave di maleso, alcuni listelli o montanti per fare il coperto alla mia povera chiesa. Mi raccomandi di questo anche al sig. Prevosto di S. Ambrogio; e inter totos et omnes mi aiutino pel coperchio del già cominciato edifizio.
Questa mia lettera manca di molte qualità, ma La tolleri come scritta da un birichino; facciami anche una perrucca, purchè mi mandi qualche fascio di legna.
Offra li miei più cordiali saluti al Sig. D. Puecher, Don Gagliardi, D. Costantino, D. Flecchia; e mentre Le auguro ogni bene dal Signore, mi raccomando di tutto cuore alle sue preghiere, dicendomi
P. S. L'esame del Chierico Nicolini riuscì bene; deve ancora subire il pubblico per lunedì.
Nè dimenticava di rivolgersi eziandio a ricchissimi personaggi non abituati a fare la carità. Talvolta non otteneva risposta, e talvolta rinnovava le pratiche anche prevedendo [275] una negativa. Però, confidando in Dio, egli diceva: - Facciamo dal canto nostro quanto possiamo, e il Signore farà colla sua bontà quello che noi non possiamo. - E dopo aver lasciato trascorrere un tempo notevole riannodava sotto altra forma le sue prove.
Pertanto poco dopo la metà di giugno egli aveva presentato al trono di Re Vittorio Emanuele una supplica, nella quale ricordava con gratitudine la sovrana sua benevolenza verso i giovanetti dell'Oratorio, gli dava contezza della costruzione della novella chiesa, lo pregava che si volesse degnare di recarsi a collocarne la prima pietra, e, ove ciò non potesse fare, supplicava la Maestà Sua, che seguendo, come aveva fatto sino allora, le gloriose pedate dell'augusto suo Genitore, volesse continuare al nostro Istituto il suo appoggio sovrano. Or bene, poco appresso, D. Bosco riceveva dalla Regia Segreteria di Stato la seguente importantissima lettera
Sua Eccellenza il Duca Pasqua, Prefetto del Real Palazzo, cui questo Dicastero ha dovuto trasmettere per ragione di competenza il ricorso stato presentato da V. S. M. Rev., ha con suo foglio del 25 ultimo scorso mese notificato che, avendo rassegnato alle reali determinazioni le inoltrate istanze, Sua Maestà vide con vera soddisfazione la determinazione presa dalla S. V. e dalle altre pie persone, di raccogliere giovani nell'Oratorio quivi stabilito, onde procurar loro una religiosa e morale educazione.
Che per ciò nel desiderio di promuovere l'esecuzione della pia opera, e non potendo, attese le molte sue occupazioni, intervenire al collocamento della pietra fondamentale della [276] nuova chiesa, di cui fu progettata la costruzione, si è degnato di dare fin d'ora una prova del generoso Reale suo animo, con manifestare l'intenzione di concorrere in qualche modo per siffatta opera, quando ne sarà il caso.
Mi è ben soddisfacente il far conoscere alla S. V. M. Rev. le favorevoli disposizioni manifestate dalla Maestà Sua a riguardo di una istituzione cotanto commendevole per il pio scopo cui è diretta, e non potendo non aggiungere nel mio particolare un tributo d'encomio per le zelanti cure, con cui Ella la promuove e dirige, profitto della propizia occasione, che mi si presenta, per proferirmi con distinta stima
Intanto lavorandosi a tutta lena, le fondamenta della chiesa erano giunte a fior di terra, e D. Bosco e gli altri ecclesiastici incaricati degli Oratorii presentavano in Curia una supplica per l'Arcivescovo, chiedendo la facoltà di benedirne la pietra fondamentale. Il 18 luglio il Can. Celestino Fissore Provicario Generale, a nome di Mons. Fransoni assente, annuiva per lettera alla domanda, concedendo a D. Bosco, e, ad altro sacerdote da lui richiesto, la facoltà di quella benedizione e funzione a termine del Rituale Romano.
Il 20 luglio si decise il collocamento della pietra angolare. I seicento e più giovani dell'Oratorio, come altrettante trombe, avendo sparsa questa notizia per tutta la città, la sera di quel giorno si trovò sul luogo sì gran folla di gente, quanta non si era mai vista in quelle parti.
La benedizione della pietra sarebbe certamente stata fatta da Mons. Luigi Fransoni, che tanto amava D. Bosco e l'Opera [277] sua, ma pur troppo questo intrepido Prelato dimorava esigliato in Lione. La benediceva in sua vece il Can. Ab. Moreno, economo generale; e la collocava a posto il signor Comm. Giuseppe Cotta, grande amico dei poveri e insigne benefattore delle opere di D. Bosco. Di tutto fu redatto apposito verbale, di cui una copia con monete grandi e piccole, medaglie ed altre memorie, venne deposta dentro la pietra medesima. Il Sindaco Bellono colla cazzuola versò la prima calcina.
In quell'occasione il celebre P. Barrera della Dottrina Cristiana, commosso alla vista del gran popolo accorso ed edificato del bel numero di Sacerdoti, di Patrizi e Matrone torinesi, che gli facevano corona, montò sopra un rialto di terra, ed improvvisò un discorso stupendo. Egli esordiva con queste parole: - Signori, la pietra, che fu testè benedetta e collocata nelle fondamenta di questa futura chiesa, ha due grandi significati. Essa significa il granello di senapa, che crescerà in albero mistico, presso cui molti ragazzi, come augelli dell'aria, verranno a cercarvi rifugio; essa significa ancora che l'Opera degli Oratorii, basata sulla fede e sulla carità di Gesù Cristo, sarà qual masso immobile contro del quale invano lotteranno i nemici della Religione e gli spiriti delle tenebre. - L'oratore dimostrava poscia l'una e l'altra delle proposizioni con tanta eloquenza, che tutto l'uditorio pendeva come estatico dal suo labbro. Ma la caratteristica del discorso in una similitudine ed una preghiera. Egli paragonò i tempi ad un uragano, che minaccia di devastazione e rovina città e villaggi. - In quel periglioso cimento, che vediamo noi, o signori? domandò l'illustre Dottrinario. Noi vediamo ogni vivente impaurito e trepidante cercarsi un riparo. La gente si ritira nelle sue case; le fiere del campo fuggono alle loro tane; e gli augelli dell'aria volano al proprio nido, fortunati [278] se lo hanno fabbricato sopra un albero ben saldo e sicuro. I tempi che corrono si fanno cattivi, cattivi sopratutto per la povera gioventù. Ecco qui un albero, che metterà profonde le sue radici, e non crollerà la cima pel soffiar dei venti. All'ombra di questo albero, nel recinto di questo sacro edifizio verranno migliaia di giovanetti a trovar riparo e difesa contro ad errori, seminati oggidì da uomini empi e da scrittori venali; riparo e difesa contro a massime distruggitrici di ogni idea di virtù e di morale; riparo e difesa eziandio dalle saette infuocate delle ardenti giovanili passioni, eccitate dai mali esempi e dagli scandali di ogni ceto di persone. Già mi par di vedere stormi di giovanetti, come colombe atterrite, levarsi a volo quali da una e quali da un'altra parte, e qui dirigersi come in luogo sicuro, e qui riunirsi non solamente per trovarvi riparo e difesa, ma cibo, ma nutrimento di vita temporale ed eterna. Signori che mi ascoltate, deh! col consiglio e colla mano adoperatevi a far sì, che questo albero cresca presto gigante, distenda i suoi rami per tutta la città, e sotto vi raccolga tanti poveri giovanetti, che a disdoro della Religione a vitupero della morale, veggonsi scorrazzare nei giorni di festa per le vie e per le piazze, in pericolo di divenire così il disonore di se stessi, l'onta delle famiglie, lo scompiglio e la desolazione della civile società. La vostra carità, o Signori, non potrebbe oggimai impiegarsi in opera più utile alla Chiesa ed allo Stato; poichè dalla gioventù bene o male educata dipende la vita o la morte delle famiglie, dei regni e del mondo. - In fine il buon Padre rivolto a Gesù Cristo gli fece una preghiera sì bella, che a molti trasse le lagrime. - E voi, mio Dio, egli disse, Voi, Salvator nostro Gesù Cristo, simboleggiato nella pietra qui collocata, deh! colla virtù del vostro braccio onnipotente proteggete l'Opera di questo Oratorio. Sarà ella forse dagli empi maledetta? [279] e Voi beneditela; combattuta? e Voi difendetela; odiata? e Voi amatela come la pupilla degli occhi vostri. Essa ha tutti i titoli alla vostra benevolenza, perchè ha per iscopo di raccogliere, istruire, educare quei fanciulli, che in vostra vita mortale formavano la delizia del vostro cuore, e sono e saranno sempre l'oggetto delle vostre amorose finezze, come agnelletti del vostro gregge, come il fiore più eletto del giardino della vostra Chiesa. Sì, sotto il vostro usbergo duri quest'Opera imperitura; anzi il suo seme, portato dal vento della vostra grazia, si spanda per ogni dove, e pria abbiano a crollare le colonne che sostengono il firmamento, che dessa venga a cessare in sulla terra. - Le parole dell'eloquente religioso furono di un effetto mirabile, ed al presente paiono quasi dal Cielo inspirate, paiono come profetiche, perchè si avverarono e continuano ad avverarsi luminosamente.
Dopo che l'Abate Antonio Moreno ebbe firmata la dichiarazione attestante che la pietra era stata da lui benedetta, si incominciò una graziosa accademia. Il Ch. Bellia lesse un indirizzo, alcuni alunni qualche breve poesia, e sei giovinetti dei più piccoli fra gli esterni recitarono un dialoghetto, scritto da D. Bosco, mentre recavano un mazzo di fiori da presentare al Sindaco.
Giovannino, Carlo, Cesare, Agostino, Pietro, Manfredo.
Cesare - Giovannino! Hai tu pensato a quello che devi dire a questi signori prima di presentar loro questa umilissima nostra offerta?
Giovannino - Sai bene che io non son capace.
Cesare - Almeno hai studiata la lezione che ti hanno assegnato in scuola per questo bel giorno?
Giovannino - Sì, l'ho studiata, ma ..... [280]
Cesare - Che ma? l'hai già dimenticata?
Giovannino - Dimmi soltanto la prima parola e il restante lo dirò io!
Cesare - Nella scuola non si deve far così! Dunque o complimento, o lezione. Se tu studiata l'hai, recita quel che sai!
Giovannino - Giacchè non so più tutta la lezione, dirò quello che potrò. Signori, io vi ringrazio da parte de' miei compagni di tutto il disturbo che avete avuto per noi.
Agostino - Io ringrazio il sig. Sindaco e nella sua persona ringrazio il Municipio per tutti i favori fatti al nostro Oratorio.
Carlo - Io dirò altrettanto al sig. Canonico Moreno, al Sig. Cavalier Cotta e a tutti questi nostri benefattori. Grazie a tutti.
Pietro - Io dico altresì da parte de' miei compagni. Noi amiamo la religione, amiamo la patria, amiamo la scienza e la virtù.
Manfredo - Non sapendo più dire altro, invito i miei compagni a dire ad alta voce: Viva il Sindaco! Vivano sempre felici tutti quei signori, che oggi sono venuti fra noi!
Piacquero a tutti i modi spigliati ed ingenui di questi rozzi figli del popolo, mentre la milizia dei ginnasti dell'Oratorio festivo, comandata dal Bersagliere Brosio, dopo aver partecipato alla festa mantenendo il buon ordine, chiudeva i divertimenti di ogni specie, eseguendo evoluzioni militari, come soleva fare in tutte le solennità.
Caduta la notte e ritiratasi la moltitudine D. Bosco rimase coi soli alunni interni, ai quali la costruzione di quella chiesa sembrava l'opera massima che avrebbe potuto fare D. Bosco. Ed egli al Ch. Reviglio, che manifestava [281] il suo stupore per la chiesa di S. Francesco, con tutta sicurezza, come se avesse tesori a sua disposizione, rispose: Oh questo è nulla; vedrai che si fabbricherà qui... avanti... attorno... - e descrisse la casa colossale che presentemente si rimira. E mentre parlava, i giovani notavano attentamente i suoi detti, e aspettavano l'avveramento delle sue predizioni, benchè allora non comparisse alcuna probabilità di successo.
La nuova costruzione però bastava per accrescere l'entusiasmo dei giovani dell'Oratorio festivo, e con essi non di rado venivano ragazzi ebrei. D. Bosco che aveva dimostrato tanta amorevolezza ai loro correligionari suoi condiscepoli a Chieri, e che aveva aiutato le conversioni di Abramo e di Giona, li accoglieva molto volentieri. Uno di questi un giorno lo affidò al Ch. Savio Ascanio perchè lo istruisse, e il giovanetto fu battezzato. Molti altri di buon grado si sarebbero convertiti, ma avevano l'ostacolo dei parenti. Dopo l'emancipazione, frequentando essi le scuole pubbliche, volere o non volere, ascoltavano qualche istruzione catechistica, ed un eccitamento dovevano provare verso il cristianesimo. Ma i genitori non mancavano di premunirli che si guardassero bene dai cristiani come da nemici, contro i quali era doveroso per essi mantener odio implacabile. E se qualcuno dava indizio di propensione pei cattolici, lo toglievano subito dalle scuole.
“Io ne ho conosciuti molti di questi fanciulli, ci diceva D. Bosco negli ultimi suoi anni, i quali ardevano di desiderio di abbracciare la nostra santa religione; e perchè insistevano di voler venire alla fede cristiana, le loro famiglie presero a chiamarli ingrati, traditori della loro religione, infamatori della loro parentela ed a minacciarli che li avrebbero diseredati, espulsi dalla casa paterna ove non mutassero proponimento. E ne conosco eziandio alcuni i quali [282] furono chiusi per molto tempo in una stanza, come in una carcere, a fine di impedirli di rendersi cristiani. Nè ciò deve recar sorpresa. L'Ebraismo moderno non è più la santa legge di una volta, annunziata dai profeti e confermata dai miracoli. Ha la Bibbia, ma tiene in maggior pregio il Talmud ispiratore di odio contro i cristiani, e bestemmiatore di Dio, negandone indirettamente l'esistenza.
Nel corso della mia vita non rare volte mi toccò di trattare con Ebrei adulti, e spesso cadde il discorso sopra cose di religione; parlando del Messia faceva compassione, udire come ragionassero di tale importantissima verità. Alcuni, interrogati da me, mi commossero quasi fino all'indegnazione per le loro ciniche risposte. Vi ebbe chi domandato, se credeva nel Messia, mi rispose: “Il mio Messia è il danaro della mia borsa”. Un altro a somigliante interrogazione mi replicò: “Un buon pranzo è per me un vero Messia”. Che cosa si ha mai a rispondere a persone siffatte? Il maggior numero di essi passa la vita nell'ignoranza della propria religione, senza curarsi del Messia e fuggendo chiunque volesse adoperarsi per istruirli. I Rabbini poi ricusavano sempre di entrare in tale argomento.
Non a tutti però era sconosciuto N. S. Gesù Cristo, ma stavano nell'Ebraismo tenutivi dal solo interesse. Non ha gran tempo che un Ebreo fattosi istruire nella religione cristiana, mostravasi dispostissimo a ricevere A Battesimo, sì veramente che gli fossero pagati alcuni debiti che egli aveva contratti. Un altro mi assicurò che avrebbe abbracciato la nostra religione, ove con ciò non fosse stato costretto a rinunciare all'eredità del padre. Un terzo, uomo dottissimo, era pronto a convertirsi, purchè io gli assicurassi i mezzi di sua sussistenza con una grossa somma. Egli era Rabbino. Ciò non ostante, io trovai anche fra gli Ebrei persone oneste [283] nei contratti e benefiche e alcune poche che vivevano secondo la legge di Dio, e mi parve che stessero in buona fede aspettando il Messia”.
D. Bosco, anche tra gli Ebrei, contava degli amici e di due specialmente ne parleremo a suo tempo. Per ora diciamo che un giorno noi, accompagnando D. Bosco per Torino, abbiamo visto un signore d'aspetto rispettabile che, avvicinatosi a lui con riverenza, prese a parlare in modo che noi eravamo persuasi fosse cattolico. Come si fu congedato, D. Bosco ci disse: - Vedi quel signore? Tutte le volte che m'incontra, s'intrattiene con me lungamente. Sai tu chi è ? Un Rabbino! Conosce la verità, ma non l'abbraccia per timore della povertà alla quale sarebbe ridotto qualora perdesse il pingue onorario che gli provvede la Sinagoga. Più volte io lo esortai a confidare nella Provvidenza, ma gli manca il coraggio.
E D. Bosco era pieno di compassione per gli Ebrei e pregava ed esortava gli altri a pregare per una nazione che fu un giorno il popolo di Dio, destinato ad entrare alla fine dei tempi nel grembo della Chiesa.
E finchè visse continuò a procurare come poteva la loro salute. Anche gli adulti, come abbiamo visto, ebbero le sue cure, e nel corso dei racconto esporremo altri fatti. Li trattava con carità e li ospitava quando ne lo richiedevano. Ricoverò anche giovanetti, li istruì e battezzò.
Il 17 luglio 1851 Mons. Luigi Calabiana Vescovo di Casale gli raccomandava un giovane israelita di cognome Deangelis, chiamato per soprannome Giovanni de' Farisei. Costui era spedito da Casale a Torino per vedere se ci fosse posto nell'Ospizio dei Catecumeni per essere istruito nella religione cattolica e per sottrarlo alle persecuzioni de' suoi correligionarii, essendosi messo sossopra il Ghetto di Casale per [284] impedire al giovane l'adempimento di sua vocazione. Se non vi fosse ricovero nell'Ospizio, il Vescovo pregava D. Bosco a ricevere fra i suoi figli il Deangelis, almeno per breve tempo, sicuro di consegnarlo ad un padre, e promettendo di pagare tutte le spese di mantenimento.
D. Bosco era felice nel ricevere tali giovani, e nel presentarli a Giona di Chieri, il quale, sempre suo buon amico, veniva spesse volte a visitarlo nell'Oratorio.
SUL principio dell'ottobre D. Bosco giungeva alla borgata dei Becchi per la festa della Madonna del Rosario, conducendovi varii de' suoi alunni. Il giovanetto Cagliero Giovanni lo aveva aspettato con impazienza. I suoi compagni di Castelnuovo lo riconoscevano per capo in ogni divertimento Essendo venuto un Vescovo a dar la cresima nella parrocchia, il giovanetto, ammirando il paludamento di Monsignore, erasi fatta una mitra ed un piviale di carta; di una canna aveva formato un pastorale, quindi sedutosi su di una scala a piuoli facevasi portare sulle spalle dei compagni, in mezzo alla turba dei fanciulli che applaudivano al piccolo vescovo, mentre esso seriamente li benediceva. Questo spiritello così vivace, ma buono, godeva le simpatie di Don Cinzano, il quale lasciavalo liberamente venire in canonica, lo incaricava di qualche piccolo servizio, tanto più quando D. Bosco gli ebbe promesso di accettarlo nell'Oratorio. Ed [286] è qui che Giovanni Cagliero incominciò a sentirsi preso da affetto ed entusiasmo per D. Bosco.
Lo stesso Cagliero ci raccontava - Udiva continuamente gli elogi di D. Bosco. I miei conterranei, e specialmente mia madre, i miei cugini ed amici, mi dicevano di aver sempre visto nella fanciullezza del giovanetto Bosco alcunchè di straordinario che lo distingueva da' suoi coetanei e che il suo portamento, modestia e dolcezza rivelavano un giovane più che virtuoso. Io conosceva in Castelnuovo parecchi de' suoi condiscepoli di ginnasio e di chiericato, come il sig. Matta di Morialdo, il dottor Allora e l'avvocato Musso. Essi mi parlavano del servo di Dio sempre con tale riverenza ed elogio di sua bontà e virtù, da considerarlo più che modello di perfezione cristiana, modello di vita santa. Il medico Allora disse poi a me e ad altri, che in Chieri presso i compagni era tenuto in concetto di santo. D. Cinzano, Vicario di Castelnuovo, parlandomi di lui ripeteva:
“Io ho sempre visto in D. Bosco qualche cosa che non era ordinaria: non era ordinaria la sua pietà, la sua giovialità, la sua riservatezza, la sua obbedienza, la sua umiltà ecc., Era straordinario in tutto. E poi, alludendo alla sua tenacità nel bene e nelle opere sue intraprese, soleva dirmi celiando: - D. Bosco fu sempre stravagante e testardo come i Santi.
Cagliero adunque appena saputo l'arrivo di D. Bosco si affrettò a correre ai Becchi, e all'esteriore grave, composto, modesto del buon prete, subito riconobbe essere desso ornato di quelle tante virtù di cui aveva udito parlare. Ritornato a casa, invitò un compagno, certo Giovanni Turchi, che aveva 16 anni, ad andarvi esso pure. “Cagliero, - ci riferiva Don Turchi, ora cavaliere e professore in belle lettere. - mi disse tante ottime cose di D. Bosco, che io da Castelnuovo mi portai ai Becchi. Colà giunto, fui colpito dallo scorgere un sacerdote [287] così compreso del suo ministero e così affabile, cosa cui io non era affatto abituato; e fin d'allora ne concepii un'idea ed un'impressione incancellabile. Al vedere poi il modo amorevole con cui parlava con me e con gli altri giovani, ne restai entusiasmato. Avendomi egli dato un po' d'esame sulle materie che studiava e sulla elezione dello stato, finì con dirmi: - Io conosco tuo padre e sono suo buon amico; digli che venga domani a trovarmi! - Mio padre andò, e così fu conchiuso che io sarei entrato nell'Oratorio verso la metà di ottobre.
Condotto in Valdocco per gli studii, udii dai miei compagni come D. Bosco operasse cose straordinarie, e questa fama dovetti constatare che andava sempre ingrandendosi; e vidi le scuole serali che esso dirigeva, e fra gli altri maestri il Teol. Chiaves e certo Signor Geninatti. Le mura della nuova chiesa di S. Francesco erano all'altezza dei finestroni, ed io pure coi compagni attesi subito a sporgere mattoni sino sopra i ponti. Nelle feste intervenivano alle funzioni di chiesa moltissimi giovani esterni, e tanto ci divertivamo, fra gli altri giuochi, agli esercizii militari fatti con grucce di fucili smessi dall'arsenale. Ma sopratutto ciò che mi colpì entrando nell'Oratorio si fu il trovarvi una pietà, della quale non aveva idea, e debbo asserire che capii allora che cosa volesse dire confessarsi. Eravi frequenza di Sacramenti, non solo nei dì festivi, ma anche nei feriali. Don Bosco ci raccomandava che lungo la settimana distribuissimo i giorni per le comunioni, perchè esse fossero continue. In massima parte andavamo a confessarci da lui, benchè nei giorni festivi vi fosse pure qualche altro sacerdote per coadiuvarlo. Era tanta la delicatezza di molti giovani per accostarsi alla sacra mensa, che nei giorni feriali, mentre ei si parava per la S. Messa, aveva quasi sempre qualcuno [288] che gli confidava all'orecchio qualche pena o scrupolo per essere assicurato di poter fare tranquillamente la comunione. Allora e sempre ho visto nell'Oratorio un buon nucleo di giovani di una pietà sì soda ed ammirabile, che intonava tutta la casa ed attirava tutti gli altri al bene. - E Don Bosco era zelantissimo che si facessero i catechismi. Le sue prediche erano tutto sugo. Soleva esporre la Storia Ecclesiastica in modo facile, chiaro, attraente, e, prima di terminare il suo dire, soleva interrogare qualcuno degli uditori a farvi su qualche osservazione, ossia a dedurre qualche conseguenza pratica. Alla sera poi dopo le orazioni ci dava dalla cattedra avvertimenti così appropriati, che io ritiratomi nella mia camera, ne sentiva un'impressione ed un gaudio che non posso esprimere. D. Bosco educava i giovani e li portava al bene colla persuasione, e quelli lo facevano con trasporto di gioia. Egli procedeva sempre con dolcezza; dando ordini quasi ci pregava, e noi ci saremmo assoggettati a qualunque sacrifizio per contentarlo. Così di bene in meglio vidi procedere l'Oratorio nei dieci anni che quivi dimorai cioè fino alla mia ordinazione sacerdotale; e dopo aver visitati molti Istituti, non ne trovai alcuno che albergasse tanta pietà come quello di D. Bosco, del quale godetti sempre anche lontano la benevolenza”. Fin qui D. Turchi.
L'accettazione definitiva di un altro giovane faceva Don Bosco a Castelnuovo il 1° novembre 1851 che lascerà eterna memoria negli annali dell'Oratorio. Quella di Giovanni Cagliero, rimasto orfano di padre, da pochi giorni.
L'anno 1851 il giorno d'Ognissanti doveva giungere da Torino a Castelnuovo d'Asti D. Bosco per fare il discorso dei morti. Cagliero con ansia febbrile aveva preceduti i compagni in sagrestia alcune ore prima che incominciasse la funzione. Desiderava di essere prescelto ad [289] accompagnare in qualità di chierichetto il predicatore al pulpito. Messosi la veste talare e la cotta, aspettava pazientemente mentre i suoi coetanei erano andati incontro a Don Bosco; e quando giunse, ebbe la gioia di veder soddisfatto il suo desiderio.
D. Bosco fece una di quelle prediche ammirabili che non si dimenticano più. Disse essere passato, nel venire, innanzi al cancello del Camposanto e di aver udito voci lamentevoli che lo chiamavano per nome. Si appressò e vide in mezzo alle croci uscir le anime da quelle fosse: - Di' a mio figlio, gli diceva una, di' a mia figlia, gli diceva l'altra, che mi trovo in purgatorio, che io l'ho sempre amata, e pure non pensa più a me. - Era un marito, una moglie, un figlio, un amico che gli davano commissioni da recare a quei del paese, perchè si movessero a liberarli da atroci tormenti! D. Bosco descriveva quelle scene pietose, quelle tenere lamentazioni, quei ricordi del passato, con tanta vivacità, candore e verità, che gli uditori piangevano. Abbondantissima fu la elemosina raccolta, circa 150 lire. A quelli che si meravigliavano delle abbondanti offerte che le sue prediche conseguivano, rispondeva: - Per ottenere dal popolo la carità bisogna fargli capire essere suo interesse abbondare nell'elemosina, eziandio per ottenere dal Signore vantaggi temporali, e come invece sia suo danno essere avari colle anime sante, o colla Chiesa: che aver protettori in cielo è vantaggioso anche per le campagne. Essi allontanano i castighi, le disgrazie, le tempeste, le malattie, gli insetti dalle piante, le siccità, ecc. ecc. È questo il segreto per indurre la gente a far elemosina, altrimenti si ottiene poco o nulla.
Fatto il discorso, D. Bosco scendeva in sagrestia e con aria dolce ed affabile voltosi al suo piccolo inserviente:
- Sembra, gli disse, che tu abbia qualche cosa a [290] dirmi ed a manifestarmi qualche tuo ardente desiderio. Non è vero?
- Sissignore, rispose tutto infiammato in volto il giovanetto; voglio proprio dirle una cosa che da tempo mi agita; voglio venire con lei a Torino, continuare gli studii e farmi prete.
- Bene, verrai con me, gli disse D. Bosco: il sig. Prevosto già di te mi ha parlato; di' a tua madre che ti accompagni stasera in canonica e ci intenderemo.
Al suono lugubre delle campane che invitavano i fedeli a pregare per i defunti, tra il mesto raccoglimento della popolazione, entrano nella casa del parroco la madre ed il figlio.
- Mia buona Teresa, disse allora scherzando quel caro sacerdote e padre già di tanti orfani, siete venuta a tempo: io già vi attendeva; parliamo adunque del nostro negozio. È vero che volete vendermi vostro figlio?
- Oh! venderlo no, esclamò la buona madre; ma se lo gradisce, piuttosto glielo regalo.
- Meglio ancora, rispose D. Bosco; allora preparategli il suo piccolo fardello. Domani verrà con me ed io gli farò da padre.
L'indomani Giovanni Cagliero era pronto, e sul far dell'alba si trovava in chiesa per servire la S. Messa a Don Bosco. Da tutti i suoi movimenti dimostrava un'estrema vivacità. D. Bosco da Castelnuovo a Torino faceva il viaggio a piedi.
- Ebbene, Cagliero, andiamo a Torino?
- Essa è , contenta; ed ora io sono con D. Bosco
Si misero in cammino. Cagliero ora camminava al fianco di D. Bosco, ora lo precedeva correndo, ora lo aspettava, ora rimaneva indietro per cogliere qualche frutto dalle siepi [291] e quindi lo raggiungeva, ora saltava il fosso e scorrazzava per i prati. D. Bosco di quando in quando lo interrogava, e le sue risposte erano di un candore ammirabile. Parlava del suo presente, del suo passato, de' suoi progetti in avvenire. Narrava quanto aveva fatto a casa, svelava i segreti più reconditi del suo cuore. Era tanto sincero, che D. Bosco ebbe a dire di averlo in poche ore conosciuto così perfettamente, che se si fosse trattato di confessarlo non avrebbe più avuto da far altro che dargli l'assoluzione
Cagliero parlavaci delle sue impressioni in questo viaggio: “D. Bosco non mi discorreva che di Dio, della Vergine SS., se mi accostava ai Sacramenti, se ero divoto della Madonna, e di altre cose spirituali. E talora anche scherzando mi invitava ad essere buono. Finalmente giungemmo a Torino.
Ricordo sempre con piacere il momento della mia entrata nell'Oratorio la sera del 2 novembre. D. Bosco mi presentò alla buona mamma Margherita, dicendo: - Ecco, mamma, un ragazzetto di Castelnuovo, il quale ha ferma volontà di farsi buono e di studiare.
Rispose la mamma: - Oh sì, tu non fai altro che cercare ragazzi, mentre sai che manchiamo di posto.
D. Bosco sorridendo soggiunse: - Oh, qualche cantuccio lo troverete!
- Mettendolo nella tua stanza, - rispose la mamma.
- Oh, non è necessario. Questo giovanetto, come vedete, non è grande, e lo metteremo a dormire nel canestro dei grissini; e con una corda lo attaccheremo su in alto ad un trave; ed ecco il posto bello e trovato alla maniera della gabbia dei canarini. - Rise la madre ed intanto cercommi un sito, e fu necessario per quella sera che dormissi con un mio compagno ai piedi del suo letto. [292]
L'indomani vidi che tutto era povero in quella casetta. Bassa ed angusta la stanza di D. Bosco, i dormitorii nostri a pian terreno, stretti e col selciato di pietre da strada, e con nessuna suppellettile, tranne i nostri pagliericci, lenzuola e coperte. La cucina era meschinissima e sprovvista di stoviglie, eccetto di alcune poche scodelle di stagno col rispettivo cucchiaio. Forchette e coltelli e salviette li vedemmo poi molti anni dopo, comprati o regalati da qualche pia e caritatevole persona. Il refettorio nostro era una tettoia, e quello di D. Bosco una stanzetta, vicina al pozzo, che serviva di scuola e luogo di ricreazione. E tutto questo cooperava a tenerci nella condizione bassa e povera nella quale eravamo nati e nella quale ci trovavamo educati dall'esempio del servo di Dio, il quale molto godeva, quando poteva egli stesso servirci nel refettorio, prestarsi a tenere in assetto il dormitorio, pulire e rappezzare gli abiti, ed altri simili servizii.
La sua vita comune, che faceva con noi, ci persuadeva che noi più che in un ospizio o collegio, ci trovavamo come in famiglia, sotto la direzione di un padre amorosissimo e di niente altro sollecito fuorchè del nostro bene spirituale e temporale.
Amava farsi piccolo coi piccoli, ed anche alle volte succedeva che qualcuno di noi dimenticavasi del rispetto che gli era dovuto; ed allora più che da D. Bosco, che tutto tollerava dai fanciulli, veniva avvisato dai più grandicelli, i quali dicevano: - Sta' a modo! Non vedi che urtando noi, urti e calpesti anche D. Bosco? Se è tanto buono con noi, e noi dobbiamo essere buoni con lui!
Spesse volte vedevamo dei signori che venivano a visitare D. Bosco, tratti dalla fama delle sue opere, e non pochi meravigliavansi di trovarlo seduto sopra un cavalletto di [293] legno, ed anche per terra e come nascosto in mezzo ad un numeroso stuolo di ragazzi, mentre c'intratteneva con ameni racconti e piacevoli lepidezze, o mentre giocava con noi a mancalda, oppure gareggiava in sveltezza nel battere le palme della propria mano e poi quelle del compagno (la sinistra contro la destra, la destra contro la sinistra).
Nulla aveva di più a cuore se non che i giovani salvassero l'anima propria. Se vedeva che qualcuno fosse meno buono, s'industriava di avvicinarlo, dirgli qualche buona parola all'orecchio; e poi lo faceva sorvegliare per trarlo al bene e rassodarlo nella pietà! Aveva tutta la fiducia che Dio l'avrebbe aiutato nell'educazione e nell'istruzione cristiana di tanti giovanetti.
Ricordo che, ancor piccolo alunno dell'Oratorio, l'udii raccontare con santa semplicità e spesse volte, che aveva domandato al Signore un posto in paradiso per diecimila de' suoi giovanetti. E soggiungeva che l'aveva ottenuto, ad un patto: che non offendessimo il Signore: - Oh! miei figliuoli, diceva, saltate, correte, giuocate, schiamazzate; ma non fate dei peccati, ed il vostro posto è sicuro in paradiso.
Vedendo poi che i giovani andavano crescendo in numero, gli domandavamo se fossero sufficienti diecimila posti in cielo per noi. Allora soggiunse che aveva chiesto un locale più ampio per molti altri giovani, che sarebbero venuti ed otterrebbero la loro eterna salvezza coll'aiuto di Dio e colla protezione di Maria SS.
E queste sue parole facevano tanto maggior effetto in quantochè il suo spirito profetico era manifesto in mille guise e in mille circostanze ed occasioni, ed era persuasione comune nell'Oratorio che D. Bosco sapesse le cose occulte”. Fin qui lo stesso Mons. Cagliero. [294]
Dopo, adunque, la Commemorazione di tutti i fedeli defunti, Cagliero incominciò il suo corso classico di latinità frequentando la scuola del Prof. Bonzanino con Turchi, Savio Angelo ed altri. Nello stesso tempo Michele Rua era stato ammesso alla scuola privata di D. Matteo Picco, professore di umanità e rettorica che insegnava in un appartamento di una casa presso la parrocchia di S. Agostino. Questo esimio insegnante, pregato dallo stesso D. Bosco, volonterosamente si incaricò di istruirlo nella classe di umanità. E qui pure fu stupenda la riuscita del giovane Rua, il quale continuava ad abitare presso i suoi genitori.
D. Bosco continuava sempre ad aiutare i suoi alunni negli studii classici. Ed era veramente maestro nel dare consigli, acciocchè essi studiassero con molto profitto la grammatica latina. Di ciò fa ampia fede il Prof. D. Cerruti Francesco. D. Bosco diceva loro e particolarmente a Rua Michele: - Vuoi imparare bene la lingua latina? Traduci prima in italiano un tratto di autore classico; quindi, senza più vedere il testo, volta in latino la tua traduzione e in ultimo confronta col testo la tua composizione latina. Con questo esercizio, fatto tutti i giorni per un mese, ti assicuro che intenderai moltissime difficoltà senza aver bisogno di vocabolario.
Mentre D. Bosco collocava a scuola gli studenti, con cura non minore attendeva al profitto nel mestiere de' suoi artigiani, che mandava dall'Oratorio ad imparare l'arte ed a lavorare nelle botteghe di Torino. Perchè non ne risentisse danno la loro moralità, educazione ed istruzione, sempre vigilante, non solo continuava ad andare spesse volte a visitarli, ma si assoggettava a stringere coi padroni speciali convenzioni che intendeva fossero rigorosamente osservate. Ed è qui pregio dell'opera riportarne alcune, perchè ci danno idea di quei tempi ed anche ci risparmiano non inutili osservazioni. [295]
Contratti di locazione d'opera.
“In virtù della presente privata scrittura da potersi insinuare a semplice richiesta di una delle parti, fatta nella Casa dell'Oratorio di S. Francesco di Sales tra il Sig. Carlo Aimino ed il giovane Giuseppe Bordone allievo di detto Oratorio, assistito dal suo cauzionario Sig. Ritner Vittorio, si è convenuto quanto segue:
1°. Il Sig. Carlo Aimino riceve come apprendizzo nell'arte sua di vetraio il giovane Giuseppe Bordone nativo di Biella, promette e si obbliga di insegnargli la medesima nello spazio di tre anni, i quali avranno il suo termine con tutto il mille ottocento e cinquantaquattro il primo dicembre e dargli durante il corso del suo apprendizzaggio le necessarie istruzioni e le migliori regole riguardanti l'arte sua ed insieme gli opportuni avvisi relativi alla sua buona condotta, con correggerlo, nel caso di qualche mancamento, con parole e non altrimenti; e si obbliga pure di occuparlo continuamente in lavori relativi all'arte sua e non estranei ad essa, con avere cura che non eccedano le sue forze.
2°. Lo stesso mastro dovrà lasciare per intiero liberi tutti i giorni festivi dell'anno all'apprendizzo acciocchè possa in essi attendere alle sacre funzioni, alla scuola domenicale ed agli altri suoi doveri come allievo di detto Oratorio.
Qualora l'apprendizzo per causa di malattia (o di altro legittimo motivo) si assentasse dal suo dovere, il mastro avrà diritto a buonificazione per tutto quello spazio di tempo che eccederà li quindici giorni nel corso dell'anno. Tale indennità verrà fatta dall'apprendizzo con altrettanti giorni di lavoro quando sarà finito l'apprendizzaggio. [296]
3° Lo stesso mastro si obbliga di corrispondere giornalmente all'apprendizzo negli anni suddetti, cioè il primo lire una, il secondo lire una e cinquanta, il terzo lire due, in ciascuna settimana (secondo la consuetudine gli si concedono ciaschedun anno 15 giorni di vacanza).
4° Lo stesso signor padrone si obbliga in fine di ciascun mese di segnare schiettamente la condotta del suo apprendizzo sopra di un foglio che a tale oggetto gli verrà presentato.
5° Il giovine Giuseppe Bordone promette e si obbliga di prestare durante tutto il tempo dell'apprendizzaggio il suo servizio al mastro suo padrone con prontezza, assiduità ed attenzione; di essere docile, rispettoso ed obbediente al medesimo e comportarsi verso di esso come il dovere di buon apprendizzo richiede, e per cautela e garanzia di questa sua obbligazione presta in sua sicurtà il qui presente ed accettante Sig. Ritner Vittorio Orefice, il quale si obbliga al ristoro di ogni danno verso il padrone mastro, qualora questo danno avvenga per colpa dell'apprendizzo.
6° Se venisse il caso che l'apprendizzo incorresse in qualche colpa per cui fosse mandato via dall'Oratorio (cessando ogni suo rapporto col Direttore dell'Oratorio), cesserà allora anche ogni influenza e relazione tra il Direttore di detto Oratorio ed il mastro padrone; ma se la colpa dell'apprendizzo non riflettesse particolarmente il mastro, dovrà esso ciò non ostante dare esecuzione al presente contratto fatto coll'apprendizzo e questo compiere ad ogni suo dovere verso del mastro sino al termine convenuto sotto la sola fidejussione sopra prestata.
7° Il Direttore dell'Oratorio promette di prestare la sua assistenza pel buon esito della condotta dell'apprendizzo e di accogliere con premura qualsiasi lagnanza che al rispettivo [297] padrone accadesse di fare a cagione dell'apprendizzo presso di lui ricoverato.
Locchè tanto il mastro padrone che l'apprendizzo allievo, assistito come sopra, per quanto a ciascuno di essi spetta ed appartiene, promettono di attendere ad osservare sotto pena dei danni.
Le prime convenzioni erano fatte in carta semplice, ma quelle dell'anno seguente sono in carta bollata: tale è la convenzione tra il Sig. Giuseppe Bertolino mastro falegname dimorante in Torino ed il giovane Giuseppe Odasso nativo di Mondovì, coll'intervento del Rev. Sacerdote Giovanni Bosco e coll'assistenza e fidejussione del padre di detto giovane Vincenzo Odasso, nativo di Garessio e domiciliato in Torino. In questa si richiede che la scrittura sia fatta in doppio originale: si specifica essere il padrone obbligato a dare all'allievo, relativamente alla sua condotta morale e civile, quegli opportuni e salutari avvisi che dovrebbe dare un buon padre al proprio figlio: correggerlo amorevolmente in caso di qualche suo mancamento, sempre però con semplici parole di ammonizione e non mai con atto alcuno di maltrattamento: si dichiara con termini espressi che chi presta cauzione è solo obbligato quando un danno recato dall'apprendista al padrone possa giustamente venir imputato al danneggiante, [298] fosse cioè per risultar proveniente da volontà spiegata e maliziosa e non quale un semplice effetto di accidentalità, o per conseguenza di imperizia nell'arte: si dichiara che l'assistenza di D. Bosco prestata per la buona condotta del giovane cesserà dal punto che il giovane cessa di appartenere all'Oratorio. Seguono le firme di Giuseppe Bertolino, Odasso Giuseppe, Odasso Vincenzo, Sac. Bosco Giovanni. La Convenzione porta la data dell'8 febbraio 1852.
Queste convenzioni variano nella durata del tempo, nella paga giornaliera, secondo l'età e l'abilità del fanciullo, e secondo l'importanza, la difficoltà dell'arte che si doveva apprendere. Ma dal leggere questi articoli si potrà intendere quante contrarietà, quante difficoltà sorgessero ogni istante a preoccupare D. Bosco. Quante noie, quanti dispiaceri, ma che non valevano a turbare la sua serenità. Si trattava sovente di padroni troppo esigenti e di giovani spensierati. Tuttavia la sua carità poneva sempre rimedio a tutto: e questa sua carità, specialmente verso i giovani, quanto apparisce luminosa in ogni riga di questi contratti da esso stesso compilati o adottati!
LA COMPAGNIA di S. Luigi Gonzaga fioriva negli Oratorii di Portanuova e di Vanchiglia, arricchiti di indulgenze che dovevano estendersi anche a tutti gli altri Oratorii che si sarebbero aperti nell'avvenire; ma dove portava i frutti più preziosi ed abbondanti era in Valdocco. Quivi presiedeva D. Bosco, il quale, amandola come la pupilla degli occhi suoi, una volta all'anno invitava a mensa con sè la sessione dei giovani esterni. Teneva di quando in quando le sue radunanze nella cappella, e un segretario redigeva i verbali. Ne facevano parte i migliori giovani esterni e i giovani interni, poichè D. Bosco voleva che questi vi fossero tutti ascritti. Ed essi si facevano premura di dare il nome loro e portavano indosso la medaglia di S. Luigi.
In questa Compagnia si erano aggregati, come membri onorarii, anche personaggi illustri della nobiltà torinese, i quali non si peritavano di intervenire alla festa, fregiarsi essi pure della medaglia di S. Luigi ed accompagnare la [300] processione. Gli ufficiali della Compagnia dovevano prendere insieme col Priore di questa, i debiti concerti per la festa di San Francesco di Sales e di S. Luigi. Nei nove giorni che precedevano queste due feste si cantavano in chiesa l'Iste confessor o l'Infensus hostis, con qualche preghiera od un sermoncino, o almeno un po' di lettura della vita del Santo, o di qualche verità della fede. Nelle funzioni del mattino e della sera alla domenica precedente la solennità si esortavano i giovani ad accostarsi ai SS. Sacramenti della confessione e comunione. E non si ometteva mai di avvertirli dell'indulgenza plenaria che in questi giorni potevano lucrare. Queste disposizioni furono poi registrate nel Regolamento degli Oratorii festivi. Congiunta alla Compagnia di S. Luigi prosperava sempre la Società di mutuo soccorso ed eziandio i suoi ufficiali e i suoi membri più distinti erano invitati a pranzo da D. Bosco una volta all'anno.
D. Bosco in sua camera radunava sovente i suoi più fidi e più distinti per bontà, per dar loro istruzioni particolari sull'andamento dell'Ospizio e dell'Oratorio e sul modo di fraternamente sorvegliare. Quivi D. Bosco educavali secondo il suo scopo, cogli esempi di S. Luigi, e diceva loro: - Ricordatevi che S. Luigi passava più ore al giorno innanzi al SS. Sacramento. - Egli amava più degli altri compagni coloro che lo disprezzavano. - Ancor secolare, portavasi nella chiesa ad insegnare il catechismo agli ignoranti, ne correggeva i costumi e studiava di acquietarli nelle risse e nelle discordie. - S. Luigi, istruendo in Roma i poverelli, li conduceva da qualche confessore perchè fossero assolti dalle loro colpe e rimessi in grazia di Dio. - Quando noi non potessimo fare il catechismo ai poveri giovanetti, conduciamoli ove altri li istruiranno. Quante anime potremo così levare dal sentiero della perdizione e rimetterle in quella strada che li [301] condurrà a salvamento. Ed allora quante grazie ci otterrà S. Luigi da Dio.
Non è a dire quanto riuscissero efficaci le parole di Don Bosco, sia per la santità della sua vita, come per la persuasione in tutti che egli operasse cose maravigliose. Ed era naturale, dicendo S. Paolo: - Chi sta unito col Signore, è un solo spirito con lui[15]. - Quindi non avvi nessuna difficoltà che possa conoscerne certi segreti e talora giovarsi della sua onnipotenza. Quanto a D. Bosco è incontestabile che Dio volle accompagnare le sue esimie virtù con doni sovrannaturali e grazie gratis datae, le quali, mentre gli erano di grande aiuto per procurare la divina gloria e la salute delle anime, manifestavano agli uomini la sua celeste missione. Infatti egli era decorato dello spirito profetico, della scrutazione dei cuori, della cognizione delle cose occulte e segrete, del dono delle lagrime e di quello delle guarigioni e dei miracoli.
D. Savio Ascanio, che abitò nell'Oratorio dal 1848 al 1852, e D. Vacchetta suo compagno ci asserirono che, fino dai primordii della casa, D. Bosco annunziava che Dio avrebbe benedetti i suoi disegni e le sue opere, e loro parlava, dell'Oratorio che avrebbero essi Visto crescere meravigliosamente.
D. Turchi Giovanni, venuto nell'Ospizio nel 1851, ci confermava come D. Bosco fin d'allora parlasse di una gran casa, di grandi laboratorii e specialmente di una tipografia propria, per promuovere la gloria di Dio colla diffusione di buoni libri, destinati a diffondere e conservare la religione e la virtù nei giovani e ad opporsi agli errori dei Protestanti e al diluviare dei pessimi libri. [302]
Dal signor Villa Giovanni, che incominciò a frequentare l'Oratorio come esterno nel 1855, udimmo aver egli avuto conferma di queste profezie da molti de' suoi compagni che da varii anni prima di lui frequentavano in Valdocco le radunanze festive, e ne erano stati testimoni auricolari. Anzi altri aggiunsero: “D. Bosco per animare i socii della Compagnia di S. Luigi, narrava talora come avesse visto in sogno l'incremento e lo sviluppo meraviglioso dell'Opera degli Oratorii festivi, indicando così, senza nominarla, la sua futura Congregazione. Con questo veniva anche a far conoscere loro l'importanza e l'estensione che avrebbe raggiunto la Compagnia. Egli, per umiltà parlava di sogni; ma tutti i giovani erano intimamente persuasi che D. Bosco loro annunziasse quanto aveva conosciuto per il dono di profezia”.
E una prova che ben si apponessero, erano le predizioni di avvenimenti prossimi, avverate sotto i loro occhi.
Narra D. Rua Michele: “Fin dai primi giorni che io frequentai l'Oratorio festivo, dal 1847 al 1852, ricordo che, ogni qualvolta doveva morire qualche giovane della Compagnia di S. Luigi, D. Bosco annunziava qualche tempo prima tale evento. Non ne pronunziava mai il nome, bensì diceva: - Fra quindici giorni, oppure, fra un mese, uno della Compagnia sarà chiamato all'eternità; posso essere io, può essere uno di voi. Teniamoci preparati! - Un salutare timore teneva attenti i giovani per notare se quell'annunzio fosse veritiero. All'epoca della predizione quelli, ai quali alludeva D. Bosco come chiamati all'eternità, talora erano sani e robusti e talora infermicci; ma le morti avvenivano nei tempi determinati. Io stesso parecchie volte sentii dare tali annunzi, talora ne ebbi avviso dai compagni, e sempre ho visto verificarsi le predizioni. Egli predisse la morte di mio fratello e di altri di mia ricordanza”. Rua Luigi, fratello [303] maggiore di Michele, era morto il 29 marzo 1851 contando 19 anni. Frequentava l'Oratorio festivo e teneva una condotta ammirabile.
Eziandio Buzzetti Giuseppe ci dettava la seguente attestazione di un fatto avvenuto nel 1850.
“D. Bosco una sera, dopo aver parlato ad alcuni giovani della Compagnia di S. Luigi che radunava a conferenza speciale, mentre tutti erano per congedarsi da lui, disse loro: - Contatevi pure: la prima volta che ci raduneremo mancherà uno. - Tutti intesero che quell'espressione - mancherà indicava il passaggio all'altro mondo. Perciò vi furono i più confidenti, fra i quali il fratello di D. Rua Michele, i quali presolo in disparte, gli chiesero chi di loro sarebbe mancato. D. Bosco sulle prime cercò di dare una risposta evasiva, ma pressato, disse Il nome di colui che morirà incomincia colla lettera B.
I giovani nell'udire questa franca risposta si guardarono l'un l'altro. - Chi sarà costui? - Fra i presenti alla conferenza vi erano due soli il cui nome incominciasse colla lettera B e, cosa singolare! benchè non fossero parenti, tutti e due si chiamavano Burzio. I giovani si raccomandarono l'un l'altro il segreto e stettero a vedere a chi dei due sarebbe toccata quella sorte. Ambedue allora godevano ottima salute.
Il più giovane dei due Burzio era un piccolo S. Luigi e D. Bosco lo teneva in gran concetto di virtù. Una domenica mentre D. Bosco celebrava e i giovani assistevano al santo Sacrifizio, questo Burzio rimase come assorto, quindi mandò alcune grida lamentevoli e in fine svenne. I compagni attribuirono ciò a malessere; ma D. Bosco, che aveva udite quelle grida, volle interrogarlo sul motivo di esse. Il giovane rispose: - Nel tempo dell'elevazione ho visto l'ostia tutta grondante sangue, e nello stesso tempo ho ascoltata una voce [304] formidabile che diceva: - Questa è un'immagine del come sarà trattato Gesù in Piemonte coi sacrilégi.
E questo santo giovanetto fu quello che morì prima che si tenesse la susseguente conferenza”.
Buzzetti accennava pure a fatti simili, accaduti quando D. Bosco era ancora al Refugio.
E non solamente la morte, aggiungeva D. Rua, ma altresì la guarigione preannunziò molte volte, anche in casi disperati. - Ricordo certo chierico Viale, mio compagno, il quale cadde una volta gravemente ammalato nel 1853. Non eravi più speranza di guarigione. D. Bosco fu a trovarlo all'Ospedale, e raccomandatogli di ricorrere a qualche Santo, non so quale, forse S. Luigi, gli promise che fra tre giorni sarebbe ritornato da lui e l'avrebbe trovato seduto sul letto a mangiare qualche porzione e che ben tosto sarebbesi levato pienamente libero. Così predisse; così si avverò precisamente”.
Tutti i nomi che abbiamo citati sono di giovani appartenenti alla Compagnia di S. Luigi, dai quali e da molti altri abbiamo udito eziandio raccontare come D. Bosco fosse fin d'allora dotato da Dio della scrutazione dei cuori. Ci narravano rivelazioni avvenute nell'atto delle confessioni e fuori di queste e che gli uni andavano confidando agli altri. Egli aveva conosciuti i loro pensieri più intimi, e quanto avevano dimenticato o taciuto nelle confessioni precedenti. - Come un'acqua profonda, dicono i Proverbi, così i consigli dell'uomo nel cuore di lui; ma l'uomo sapiente li trarrà a galla1.
I giovani ne erano convinti e taluni che avevano qualche grave imbroglio sulla coscienza schivavano d'incontrarsi con [305] D. Bosco, sperando così che egli non avvertirebbe e non conoscerebbe la loro ostinazione nel male ovvero la loro miseria interna. “Molti, e lo attesta un esimio professore di se stesso, sentendosi la coscienza rimordere di qualche mancanza erano da una forza misteriosa tenuti lontani da D. Bosco durante le private conversazioni, ma intanto sentivansi spinti a recarsi al più presto a' suoi piedi per farne la confessione. E allora molte volte udivano D. Bosco ricordare precisamente le loro colpe anche di più anni, non senza grande loro sorpresa; e di più la confessione, fatta da lui, riusciva loro facilissima e li lasciava coll'animo pienamente soddisfatto, perchè per suo suggerimento potevano esporre, senza ometterne una, tutte le loro colpe, colle rispettive circostanze. Altri invece andavano a lui con ansia e giubilo per aver la sicurezza di essere in grazia di Dio, ovvero che la confessione, che erano per fare, sarebbe stata coll'aiuto di D. Bosco, di pieno gradimento del Signore”.
Vi fu qualche illustre e dotto personaggio che, avendo saputo da molti che D. Bosco faceva profezie, leggeva nei cuori, manifestava cose occulte, dubitò che, essendo egli di sottilissima intelligenza e tenendosi bene in cognizione delle cose dall'Oratorio, dell'indole e dei costumi dei giovani e di quelli che lo avvicinavano, potesse naturalmente prevedere certe cose impreviste agli altri e che intuisse con sagacia ciò che era nascosto ai meno esperti. Noi concediamo che D. Bosco possedesse tale naturale discernimento, e aggiungeremo che portentosa era la sua ritentiva dei nomi delle persone, delle fisionomie, dei fatti e delle parole, e che talvolta a bene del prossimo è possibile che siasi approfittato di queste cognizioni. Ma le tante cose straordinarie che si dissero, vuoi dagli esterni vuoi dagli allievi, e quelle innumerevoli che abbiamo vedute noi stessi ci costringono a [306] conchiudere che qui dentro vi fosse certamente molto e molto di soprannaturale. Del resto le stesse doti naturali di Don Bosco, tutte adoperate eroicamente a gloria di Dio, è ovvio che fossero ricompensate con doni così eccelsi perchè il suo zelo fosse più fruttuoso. Il buon servo del Vangelo ha detto al suo padrone: - La tua mina ne ha fruttate altre dieci. - Ed egli disse - Buon per te, servitore fedele, perchè sei stato fedele nel poco, sarai signore di dieci città2.
D. Savio Ascanio ci lasciò una chiara testimonianza.
“Era voce comune nell'Oratorio fin dal 1848 che Don Bosco scopriva i peccati dei giovani, e li leggeva sulla loro fronte. I giovani per metterlo alla prova dicevano: - Don Bosco, mi indovini i peccati. - E D. Bosco qualche volta si metteva a parlare confidenzialmente all'orecchio di qualcheduno, e questi dava a divedere che li aveva indovinati, perchè non parlava più. Una sera si trovava in quella conversazione un giovanetto di Vercelli, chiamato Giulio. Questi disse a Don Bosco con insistenza: - L'indovini anche a me i peccati che ho commessi. - E D. Bosco gli parlò segretamente all'orecchio come faceva cogli altri. Questi, sentite le parole di D. Bosco, si mise a piangere esclamando: - E lui, è lui che ha predicato la missione nella tal chiesa, alludendo a qualche chiesa del Vercellese. Essendo quel giovane venuto da lontano paese, in quel giorno solamente, senza essere stato mai conosciuto da D. Bosco, e questi non avendo mai confessato in quella chiesa indicata, io credo che D. Bosco abbia conosciuto l'interno di quel giovane per lume soprannaturale. Era così diffusa questa opinione che D. Bosco leggesse i [307] peccati sulla fronte, che parecchi in bei modi cercavano di coprirsi la fronte affinchè non potesse leggerli.
Mi disse il mio fratello D. Angelo, che una volta Don Bosco alzandosi il mattino scrisse alcuni avvisi a varii giovani dell'Oratorio, tra i quali uno al detto mio fratello. Io gli domandai: - Te li ha indovinati i tuoi difetti? - E mi rispose di sì. Nel modo con cui mi parlò si vedeva che erano difetti nascosti, e che non potevansi conoscere se non per lume soprannaturale”.
Oh, in D. Bosco non eravi finzione, non rispetto umano, e ciò che diceva aveva per movente un sacro dovere, tanto più grave, quanto erano più misericordiosi i disegni di Dio. E i giovani ne erano certi, vedendo come ogni suo atto, ogni sua parola fosse ispirata da uno zelo calmo, prudente, sereno. Il dono poi delle lagrime era evidente prova della grande unione che aveva con Dio e del tenero amore che gli portava. Versava dolci lagrime talora nella celebrazione della santa Messa, altre volte quando amministrava la santa Comunione, e anche semplicemente benedicendo il popolo dopo il santo Sacrifizio. Parlando alla sera ai giovani e nelle conferenze a' suoi coadiutori, o dando i suoi brevi ed efficaci ricordi al termine degli esercizii spirituali, e accennando al peccato, allo scandalo, alla modestia, alla poca o niuna corrispondenza degli uomini all'amore di Gesù Cristo, o al timore che alcuno de' suoi avesse a perdersi eternamente, bene spesso per la commozione era interrotto dal pianto in modo da eccitarlo anche ne' suoi uditori. E in mezzo alle lagrime talvolta il suo volto fu visto raggiante da buoni giovani, come asseriva D. Giovanni Bonetti. Scrisse Mons. Cagliero: “Mentre D. Bosco predicava sull'amor di Dio, sulla perdita delle anime, sulla passione dì Gesù Cristo nel venerdì santo, sulla SS. Eucaristia, sulla buona morte e sulla [308] speranza del paradiso, lo vidi io più volte, e lo videro i miei compagni, versare lagrime ora di amore, ora di dolore, ora di gioia; e di santo trasporto quando parlava della Vergine SS., della sua bontà e della sua immacolata purità”.
Ciò succedeva sovente quando predicava nelle chiese pubbliche. D. Reviglio lo vide versare lagrime nel Santuario della Consolata mentre faceva la predica sul giudizio universale, descrivendo la separazione dei reprobi dagli eletti. D. Dalmazzo Francesco osservollo più volte lagrimare, specialmente quando toccava il punto della vita eterna, sicchè moveva a compunzione i peccatori ostinati, i quali dopo la predica cercavano di lui per confessarsi.
Noi stessi che stendiamo queste pagine fummo testimoni con mille altri di questo dono divino, che a D. Bosco fu dato fin da quando fondava l'Oratorio e anche prima e durò fino alla sua morte.
Del dono delle guarigioni e dei miracoli abbiamo già parlato; ma è un nulla a petto di ciò che ne resta a dire; e quanto narrammo in questo capitolo, non è che una piccola traccia di un argomento inesauribile.
GOFFREDO CASALIS, nel suo Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale, scriveva un articolo intitolato: Istituti di beneficenza, nel Volume XXI stampato nel 1851. Dopo aver narrato con molti elogi la fondazione dei tre Oratori festivi di Don Bosco in Torino, concludeva:
“I vantaggi che ricavano i giovani che frequentano questi Oratorii sono il dirozzamento dei costumi, e la coltura dell'intelletto e del cuore, così che in poco tempo acquistano un trattare affettuoso e civile, e divengono affezionati al lavoro, buoni cristiani ed ottimi cittadini. Questi frutti, che ricavansi copiosi, varranno al certo a muovere il Governo a prendere in considerazione un'opera che riesce di giovamento grandissimo alla classe più povera del popolo, usufruttuando lo zelo che anima i molti sacerdoti dedicatisi a questo genere di beneficenza, con cui si possono togliere dall'ozio, e rendere utili alla patria ed alla società motti giovani, i quali senza le cure che loro si prodigano, farebbero senza dubbio [310] la mala fine. Non vogliamo qui tacere che il benemerito Teologo Carpano ha concepito l'idea di aprire uno stabilimento per ricoverare coloro fra gli operai che, usciti di fresco da qualche Ospedale, non trovano tosto lavoro, o sono ancora incapaci di esso per la non ancor ferma salute, e non tarderà a mettere in esecuzione il suo felice concepimento se non gli mancheranno quegli appoggi in cui fermamente confida.
Qualcuno forse dirà esser noi troppo minuti nel parlare di questi Istituti; ma formerannosi ben altro giudizio coloro che sanno come la pubblica riconoscenza, essendo l'unico premio che ricevono delle loro continue e gravi fatiche i benemeriti personaggi, che spendono la loro vita a pro di questi giovani, sarebbe ingiusto il negar loro questo tributo di gratitudine a cui hanno un ben meritato diritto”.
Il Teol. Carpano si era adunque ritirato, e con suo grande rincrescimento abbandonava quell'opera che egli aveva veduta nascere, ed ampliarsi eziandio per la sua cooperazione. All'Oratorio di S. Luigi era nel 1851 ancor preposto Don Pietro Ponte, coadiuvato dall'Ab. Carlo Morozzo, dal Sac. Ignazio Demonte, dall'Avv. Bellingeri, dal Teol. Rossi e dall'Avv. D. Berardi. Ma D. Ponte, ottimo ecclesiastico, era però uomo molto facile a ricevere impressioni, e si lasciava raggirare da alcuni catechisti, malcontenti dei modi usati da Don Bosco nel regolare l'andamento degli Oratorii di Vanchiglia e di Porta Nuova. Costoro attribuivano le opere del suo zelo a spirito di ambizione, a voglia di dominare, “benchè a me, affermava il Teol. Murialdo Leonardo, non risultasse mai che tale fosse la sua intenzione, dovendo anzi ammirare il felice e benefico svolgimento della sua opera”.
Ma questa prosperità doveva attribuirsi all'unità di comando che D. Bosco voleva rispettata, mentre i sussurroni avrebbero voluto scinderla. Purtroppo che, generalmente [311] parlando, gli uomini non stimano che quello che essi stessi credono di poter fare, e non vedono di buon occhio che vi sia chi vada innanzi assai a tutti gli altri in questo o quel genere di cose, in specie se quegli è loro eguale. Si crederebbero umiliati se l'ammirassero. L'invidia, camuffata da zelo, è definita dal Tommaseo: “Ammirazione repressa da odio e da tristezza”.
E’ perciò che poco benignamente si interpretavano gli ordini, benchè riguardosi, che dava D. Bosco, e le mormorazioni continuate e maligne si diffondevano, benchè in centri ristretti, da un Oratorio all'altro. La passione accecava gli animi. Si manifestavano sintomi di insofferenza nell'obbedire. D. Bosco soffriva e taceva per non spingere le cose agli estremi; ma anche il silenzio gli era imputato a colpa. Tuttavia era pronto ad agire venuto il momento, poichè incominciava a spuntar la zizzania.
A D. Bonetti scrisse Giuseppe Brosio:
“Una domenica dopo le funzioni del pomeriggio non vedendo D. Bosco nel cortile e non sapendo il motivo della sua insolita assenza, andai a cercarlo in tutti gli angoli della casa. Finalmente l'ho trovato in una camera, contristato e quasi piangente. Vedendolo così abbattuto, lo pregai insistendo che mi dicesse il motivo di quella melanconia. Don Bosco, che nulla mi aveva mai negato, cedendo alle mie replicate istanze, mi narrò che un giovane (e mi disse il nome) lo aveva oltraggiato in modo da recargli grave dispiacere. - Ma riguardo a me, soggiunse, non me ne importa; ciò che mi duole è il trovarsi quel malcauto sulla via della perdizione.
Queste parole mi ferirono gravemente il cuore e mi avviai subito per chiedere ragione, e aspramente, a quel giovane, e fargli ingollare le sue insolenze. Ma D. Bosco, che [312] si avvide della mia alterazione, mi fermò e fattosi tutto ridente mi disse: - Tu vuoi punire l'offensore di D. Bosco ed hai ragione; ma la vendetta la faremo insieme; sei contento?
- Sì, gli risposi; ma lo sdegno in quell'istante non mi lasciò travedere che D. Bosco intendeva vendicarsi col perdono. Infatti mi invitò a fare con lui, una preghiera per l'insultatore, e credo che egli abbia eziandio pregato per me, perchè ho provato un subitaneo cambiamento nelle mie idee, e lo sdegno contro quel compagno si mutò in amore tale che se mi fosse stato vicino lo avrei perfino baciato.
Terminata la preghiera, narrai a D. Bosco l'interno mio mutamento ed egli mi disse: - Essendo la vendetta del vero cattolico il perdono e la preghiera per la persona che ci offende, così, avendo tu pregato per questo compagno, hai fatto ciò che piace al Signore, e perciò ora ti trovi contento. Se tu farai sempre così, passerai una vita felice”.
Tale era l'animo di D. Bosco nelle contrarietà; e il fatto suaccennato rendeva palese che già qualcuno eziandio in Valdocco parteggiava pei dissidenti. Siccome andava accentuandosi il pericolo di scisma, si formò allora quasi un comitato di sacerdoti, per cercare il modo di stornarlo. Vi era il Teol. Roberto Murialdo, il Teol. Tasca, Prof. Barone, Berizzi, D. Cocchis, e il Can. Saccarelli fondatore della Sacra Famiglia. D. Ponte, invitato ad esporre le sue lagnanze, stette fermo nelle sue pretensioni e non volle prendere parte a quella radunanza. D. Bosco era pronto a far qualunque concessione, ma non ad abdicare a quella supremazia che gli spettava di diritto.
Vi fu intanto un momento di tregua. Siccome la Marchesa di Barolo cercava un cappellano che fosse addetto alla sua casa, D. Bosco raccomandò a D. Cafasso la scelta di D. Ponte il quale desiderava tale ufficio; e la Marchesa acconsentì [313] alla proposta del Rettore del Convitto. La nobile signora, verso la metà di ottobre, partiva per Roma con Silvio Pellico e D. Ponte, il quale con una lettera al Teol. Borel manifestava le sue risoluzioni e lamentavasi di gravami che diceva di non poter soffrire. D. Bosco raccomandava allora al Teol. Rossi l'Oratorio di S. Luigi.
Il Teol. Borel erasi affrettato a rispondere a D. Ponte in modo da non offendere la di lui suscettibilità, e da questa lettera si ha qualche spiegazione dei sorti dissidii.
Carissimo e Molto Rev. Sig. D. Ponte,
Premendoci sempre assai il bene degli Oratorii, siccome ravvisiamo l'unione tra i membri, di qualunque grado essi siano, essere il miglior consiglio, perchè così avremo Dio con noi, perciò siamo tutti d'accordo, con l'aiuto Divino, di promuovere questa unione tanto desiderata, sia con stringerei maggiormente tra noi in questo spirito, sia con levare di mezzo tutto ciò che vi si opponga. Fra le altre cose non dubitiamo che sia di notevole pregiudizio all'unione, il ritenersi e riservarsi la proprietà e l'uso delle cose che si sono provvedute a benefizio di un Oratorio, escludendo gli altri Oratorii dal giovarsene; come pure nello stesso Oratorio un membro potersi servire degli oggetti ivi esistenti per uso dell'Oratorio, esclusi gli altri membri in assenza di quello. Siamo pure tutti d'accordo nel pensiero e nel volere, che ogni Oratorio nella persona del suo Direttore tenga come fatte a tutti tre le offerte ricevute da quello, stando a noi in tale caso di rendere informate le persone benefattrici dello spirito che ci regge e delle Fondazioni dell'Oratorio. A questa determinazione ci ha condotto il contenuto della lettera di V. R. e il fatto analogo susseguente. Quindi siccome può accadere, nella [314] nostra ristrettezza di arredi, che in qualche solennità manchi alcun oggetto in un Oratorio, è bene che gli altri concorrano, come siamo soliti concorrere con le persone e con l'opera; e se avvenga che alcuno di noi giudichi di imprestare qualche cosa sua o tolga da altri allo stesso scopo checchessia, oltre di essergli molto riconoscente, è nostra intenzione che gli sia restituito e portato a casa sua quanto prima, come si è sempre praticato: del che abbiamo un esempio sul presepio, che graziosamente ci fu imprestato più volte per l'Oratorio dì S. Luigi.
Nè poi dobbiamo temere per ciò che sia per cessare la Divina assistenza agli Oratorii. Anzi è da sperare maggiore benedizione. Ognuno dei membri fa più generale la sua carità, allarga per sè la via a fare maggior bene alla gioventù, sarei per dire che sì fa più addentro nella comunione dei santi, sottrae tutto ciò che sa di proprio, o di volontà propria, per entrare nello spirito puro di carità non inceppato da particolari riguardi. Nè minore è lo interessamento di ciascun socio, perchè niente è sottratto al bene particolare dell'Oratorio cui esso è applicato, anzi ha il vantaggio che se altri gode della comunione sua, esso pure gode della comunione degli altri. Questo sia detto ora e per sempre. Oh, sia benedetto il Signore, quando siamo tutti fermi nello stesso spirito, e così uniti alleviamo la nostra gioventù in tutti i lati della città.
Mi gode il cuore di poterle annunziare che gli Oratorii sono sufficientemente assistiti, e la gioventù continua colla stessa affluenza, docilità e religione. Per la mancanza del carissimo D. Grassino, il Signore ha messo in cuore al Teol. Murialdo di assumere il suo uffizio in Vanchiglia e già è in possesso. Il carissimo Teol. Rossi è diligente all'Oratorio di S. Luigi, e sino ai Santi farà il discorso della sera mentre io continuo al mattino. A S. Francesco di Sales D. Bosco provvede; altrimenti supplisce egli. [315]
La chiesa nuova è arrivata all'ultima pontata e prima dell'inverno si coprirà colle tegole.
Ho ricevuto notizie dell'arrivo a Firenze che fu felice per la signora Marchesa e per V. R. Solo mi rincresce che il Sig. Pellico ne abbia sofferto. Ieri 22 le sorelle Maddalene hanno rinnovato le preghiere per la nuova partenza della loro fondatrice e benefattrice per Roma. Io non lascio ogni giorno di fare i miei voti al Signore per la prosperità, lunga vita e consolazione della medesima. Non ho notizie di riguardo da dare per rapporto al Monastero o al Rifugio. Mi pare che ogni cosa proceda assai bene, e possa fare sicura la signora Marchesa e contribuire alla sua quiete con questa parola.
I Sacerdoti stanno tutti bene come pure lo scrivente che a quest'ora trovasi a casa e si fa un dovere di restare quanto più gli è possibile, tanto per il bene delle famiglie, come per compiacere chi tanto le ama e benefica.
Ancora di una cosa voglio pregare V. R., e questa è di farmi sapere quanto prima il suo sentimento intorno a quello che le scrissi sovra degli Oratorii e dello spirito nostro in governarli; e quali ordini sia per dare intorno alle cose che non sono di spettanza degli Oratorii.
In attesa di tanto favore, rinnovandole i miei sentimenti di perfetta stima e sincerissima carità, passo all'onore di dichiararmi
Dev.mo aff.mo amico e servitore
Al sig. Sacerdote D. Pietro Ponte - Roma. [316]
Ecco la risposta ricevuta dal Teol. Borel:
Al Teol. Borel Giovanni Direttore del Refugio.
Carissimo e Molto Rev. Sig. Teologo,
Ricevei con gran piacere la lettera che la R. V. degnossi di scrivermi; leggendola il mio cuore si è rallegrato. Aveva gran bisogno di ricevere notizie degli Oratorii: la mancanza di queste mi cagionava delle inquietudini; la Dio mercè ora sono calmate.
Veniamo all'oggetto principale della lettera. L'unione che la R. V. tanto desidera fra i direttori degli Oratorii, è quello che forma l'oggetto principale dei miei voti, e di cuore anelo a quel momento in cui dissipate le divergenze, tutti concordi potremo sicuramente sperare più abbondante aiuto dal Signore e maggior merito alle nostre fatiche. Io credo che l'origine della disunione, che finora deplorasi fra di noi, provenga dal non aver un capo ove dirigersi e dal troppo mutismo che vi regna; e non sono io il solo a deplorare questa cosa. Procuri la R. V. di rimediare a questi inconvenienti e sarà tolto il fornite alla disunione.
E’ stato in tutta coscienza e con maturo esame che fu da me presa quella deliberazione che le ho già manifestato e non posso assolutamente mutarla; e se per caso gli oggetti da me lasciati nell'Oratorio di Porta Nuova fossero d'incomodo, appena giunto a Torino li farò levare. Però se fossero adesso di disturbo darò gli ordini opportuni, perchè anche in mia assenza siano tolti. Per l'avvenire (se il Signore vuole che io impieghi ancora le deboli mie forze a pro degli Oratorii), di buon grado mi adatterò alla determinazione presa di far causa comune; cioè che nella persona del rispettivo Direttore tengansi come fatte a tutti gli Oratorii le offerte [317] fatte ad uno e se si presenterà il caso, terrò informate le persone benefattrici dello spirito che ci regge e delle condizioni degli Oratorii.
Godo assai che mercè le cure della R. V. e del carissimo Teol. Rossi l'Oratorio di Porta Nuova proceda sempre bene. Dal canto mio sebben lontano di corpo, col cuore son sempre fra di loro e nelle deboli mie preghiere non fo che raccomandare quest'opera a Dio; e fra poco dovendomi recare, come spero, all'udienza del Vicario di G. Cristo chiederò pei Direttori e pei ragazzi la santa benedizione.
Il nostro viaggio finora è stato buono. La signora Marchesa gode buona salute e fu molto contenta delle buone notizie de' suoi stabilimenti. Il Sig. Pellico dopo pochi giorni di malattia ora sta bene. La S. V. preghi per me e faccia anche pregare i ragazzi. Saluti tutti i preti degli Oratorii e nella consolante speranza di avere dalla bontà della S. V. fra poco altre notizie del buon andamento degli Oratorii, mi dichiaro col più profondo rispetto e colla più sentita effusione del cuore
Devot.mo servitore e l'ognor più aff.to amico
Frattanto una viva soddisfazione aveva provata Don Bosco per le lettere encicliche del 21 novembre, colle quali il Papa aveva concesso un giubileo: e con questo si preparò ad una gioia ancor più grande.
Il giorno 8 dicembre di quest'anno medesimo 1851 compievasi il primo decennio dell'incominciamento dell'Oratorio, e la domenica innanzi D. Bosco lo ricordò ai giovani con [318] affettuosissime parole. Egli avrebbe voluto celebrare quel decimo anniversario della sua Istituzione con particolare solennità; ma non avendo ancora in pronto la nuova chiesa, si limitò ad infervorare i suoi allievi a ringraziare con lui la Vergine Immacolata della materna benevolenza, con cui li aveva sino allora circondati e protetti, e raccontare per sommi capi le grazie più belle ricevute in quello spazio di tempo; raccomandò che in prova della loro figliale gratitudine si accostassero in quel giorno ai santi Sacramenti ad onor di Maria.
Tutti accondiscesero; e sotto il manto della celeste Regina si dava principio al secondo decennio. Il primo si può chiamare periodo di nascimento e d'infanzia, il secondo d'incremento e di giovinezza.
Ma il primo periodo finiva con un fatto che si può dire fatidico. Così stampava il Prof. Rayneri nel 1898 in un suo omaggio a D. Bosco: “Nel pomeriggio di una domenica del 1851 si era fatta una lotteria; i vincitori erano molti, e per ciò molti i contenti. Per ultimo D. Bosco dal balcone gettò caramelle a destra ed a sinistra, ed erano pur molti che avevano la bocca addolcita. Era facile che raddoppiassimo gli evviva. D. Bosco disceso dal balcone fu preso ed alzato come in trionfo qual segno della massima gioia, quando un giovane studente e chiericando disse: O Don. Bosco, se potesse vedere tutte le parti del mondo ed in ciascuna di esse tanti Oratorii! - D. Bosco (parmi vederlo) volse intorno lo sguardo maestoso, soave, e rispose: - Chi sa non debba venire il giorno in cui i figli dell'Oratorio non siano sparsi per tutto il mondo! - Egli fu profeta”.
NE' MESI trascorsi di quest'anno D. Bosco non aveva cessato un istante nel darsi attorno per l'erezione della sua chiesa . In agosto, già il sacro edifizio sporgeva alcuni metri da terra, quando egli si accorse che erano pressochè esauste le sue finanze. Coll'aiuto di alcune benemerite persone egli aveva raccolto 35 mila lire; ma queste erano scomparse come ghiaccio al sole. Fu d'uopo allora di ricorrere alla beneficenza pubblica. Il Vescovo di Biella, Mons. Pietro Losanna, riflettendo che il novello edifizio e l'istituzione degli Oratorii tornava a particolare vantaggio dei garzoni muratori di sua Diocesi, per la maggior parte dell'anno residenti in Torino, invitò i suoi Parroci a concorrervi col loro obolo. A questo fine egli diramò la circolare seguente:
L'egregio e pio Sacerdote D. Bosco, animato da una veramente evangelica carità, prese a raccogliere nei dì festivi in Torino quanti giovani incontrava, abbandonati e [320] dispersi per le piazze e per le contrade nel lungo e popoloso tratto tra Borgo Dora e il Martinetto, e a ricoverarli in un sito appropriato, sia per un onesto loro trattenimento, che per la loro istruzione ed educazione cristiana. Tale fu la di lui santa industria, che la Cappella locale divenne si ristretta all'uopo, che attualmente non sarebbe sufficiente a contenere più di un terzo fra li seicento e più che già vi accorrono. Spinto dall'amor di tanto bene, si accinse all'ardua opera di costrurre una Chiesa corrispondente ai bisogni del pietoso suo disegno, e si rivolse perciò alla carità dei Cattolici fedeli, onde poter sopperire alle troppo gravi spese, che vi vogliono per compirla. Con particolare fiducia poi egli ricorre a questa Provincia e Diocesi per mio mezzo, in quanto che di seicento e più che già si riuniscono a lui d'intorno, e frequentano il suo Oratorio, più di un terzo (oltre a 200) sono giovani Biellesi, di cui anche parecchi vengono da lui ricoverati in casa sua, e gratuitamente provveduti di quanto loro occorre pel vitto e pel vestito, onde possano apprendere una professione. Oltre al titolo quindi di carità, tal soccorso lo reclama da noi anche il titolo di giustizia, per cui io prego la S. V. Rev. di voler prevenire li buoni suoi Parrocchiani su di sì interessante oggetto, di ricorrere, ai più facoltosi, e destinare un dì festivo per una elemosina da farsi in Chiesa a tal fine, la quale verrà tosto trasmessa alla Curia in modo sicuro, e colla sovrascritta etichetta sì della somma entro-chiusa, che del luogo di sua provenienza.
Mentre li figli delle tenebre tentano di aprir un tempio per insegnarvi l'errore a perdizione dei loro fratelli[16], [321] verrano eglino meno li fortunati figli della luce per aprire una Chiesa, onde insegnarvi la verità a salvamento loro, e dei loro fratelli, e massime compatriotti?
Nella viva speranza pertanto di poter quanto prima colle offerte, che ci perverranno, porgere un confortevole aiuto all'impresa dell'encomiato uomo di Dio, ed insieme un pubblico attestato della pietà illuminata e riconoscente dei miei Diocesani verso un'opera sì santa, sì utile, anzi sì necessaria ai tempi che corrono, colgo questa opportunità per ripetermi colla maggiore stima ed affetto
Questo appello fruttò la somma di mille franchi. Non era gran cosa, ma il Sovrano compieva la promessa del 5 luglio.
Economato Generale Regio Apostolico.
Con dispaccio della Regia Segreteria di Stato per gli Affari Ecclesiastici di grazia e di giustizia del 30 ora scorso settembre si notificò all'Azienda Generale dell'Economato R. Apostolico essersi S. M. degnata d'accordare a V. S. M. R. la somma di lire 10.000 sovra di questa cassa da pagarsele a rate, cioè lire 3000 fin d'ora e la rimanente somma negli anni successivi e a quelle epoche in cui questa cassa si troverà in grado di fare fronte ai relativi pagamenti, da erogarsi questo sussidio particolarmente nell'edificazione di una Chiesa per lo stabilimento filantropico da [322] Lei istituito perla povera gioventù artistica nella regione Valdocco, come altresì nelle ricorrenti spese per l'educazione religiosa di quei giovani; non che per il mantenimento degli individui che trovandosi più abbandonati, è caso di colà ricoverare.
Ne do avviso a V. S. affinchè si presenti personalmente, ovvero incarichi qualche conosciuta persona, che munirà del di Lei bianco segno debitamente legalizzato, per esigere l'ammontare del relativo Mandato.
L'Economo Generale Regio Apostolico
Un'altra opportunissima sovvenzione concedeva Vittorio Emanuele a D. Bosco pochi giorni dopo.
Sovraintendenza generale della lista civile.
Pregiomi partecipare alla S. V. Ill.ma essersi S. M. degnata in udienza delli 5 corrente prendere in considerazione le circostanze accennatemi nella pregiatissima di Lei lettera e che io ebbi l'onore di sottometterle, accordando per l'erezione di una Chiesa annessa a cotesto stabilimento un sussidio di lire 1000.
Mi reco a premura di rendere avvisata la S. V. Ill.ma di questo nuovo tratto di Sovrana Munificenza ad opportuno di Lei governo, onde Le piaccia di farmi conoscere l'epoca in cui Ella desidera sia fatto il relativo pagamento, e [323] pregandola a volermi indicare la persona in capo della quale a tempo debito potrà essere spedito l'occorrente mandato, ho il pregio di raffermarmi con ben distinta considerazione
Ma D. Bosco, mentre ringraziava il Re delle sue offerte, cercava di risparmiare quanto più poteva le spese, e dovendo ancor pagare al Municipio i diritti stabiliti per la spedizione del permesso di fabbricare, con lettera del 22 ottobre chiedeva di esserne dispensato. Il Sindaco così rispondevagli
Non potendo nelle massime assentate acconsentire il condono dei diritti stabiliti per la spedizione del permesso, che la S. V. M. Illustre e M. R. avrebbe dovuto ritirare prima di far intraprendere la costruzione della Chiesa, che ne era l'oggetto, ho provveduto per la gratuita spedizione, facendone integrare la cassa con fondi destinati alla beneficenza, avuto riguardo alla pia destinazione cui è rivolto quel provvedimento.
Compiegole quindi la stessa carta di permesso, che debbe rimanere presso chi sovrintende alla costruzione, onde evitarsi la contravvenzione che potrebbe essere accertata ove non fosse tale documento esibito alla richiesta degli agenti comunali a ciò autorizzati.
E colla speranza che le religiose di Lei sollecitudini possano trovare sollecito compimento mi pregio di raffermare con riverentissima e pari considerazione...
Ma il danaro non era mai bastante, quantunque con atto del 20 novembre 1851 rogato Turvano vendesse a Giovanni Emanuel ettari 0,01,99 del terreno proveniente dal Seminario per lire 1573. Tutte queste somme non furono tuttavia che poche gocce d'acqua sopra un terreno arsiccio. Onde fu mestieri ricorrere ad altro mezzo. Fu allora che Don Bosco mise mano alla sua prima ideata grande lotteria di oggetti, ossia di piccoli e numerosi doni che si riprometteva dalla generosità dei Cattolici. L'attuazione di questo disegno era oltremodo faticosa, ma egli indirettamente aveane già preparata la riuscita.
D. Bosco era instancabile nel chiedere soccorsi alle autorità governative, umile nei modi, ma colla franchezza di chi lavorava efficacemente pel pubblico bene. Quindi batteva a tutte le porte, entrava in ogni ufficio, si presentava ad ogni ministero, ricorreva alla Provincia ed al Comune, si rivolgeva ai membri della famiglia reale. Ogni ramo dell'Amministrazione dello Stato aveva ricevute le molteplici sue petizioni. Spesse volte ne scriveva fino a dieci per settimana, ed in generale veniva esaudito. Molte largizioni erano per un mandato di sole lire 10, 15, 20 e con questi presentavasi alle tesorerie per riscuotere, ed era sempre accolto con ogni urbanità.
Per ottenere però il suo intento doveva sobbarcarsi a non pochi lavori, e umiliazioni e noie. Ci volevano conoscenze, amicizie, persone che lo raccomandassero, quindi visite e lettere continuamente. Tutte le volte che si cambiava un ministro, un sindaco, un prefetto, un capo ufficio, doveva trovar modo di avvicinarlo per renderselo favorevole. E quindi mettere in moto conoscenti, protettori, e sempre lettere e sempre visite. Non gli importava tanto che grande o piccolo fosse il sussidio ricevuto, quanto che il sussidio [325] dato equivalesse ad una approvazione dell'autorità per l'opera sua. Prevedeva il caso di ostilità, e voleva poter rispondere: - Siete voi che mi avete finora aiutato, e non dovete distruggere ciò che un giorno stimavate secondo le leggi e degno della vostra protezione.
Infatti egli riusciva nel suo intento, e ne fu una prova la lotteria.
Egli incominciò a far ricerca di quei benemeriti che volessero coadiuvarlo in questa impresa di carità. Quarantasei di condizione diversa, artigiani, signori e sacerdoti, tra i quali primo il Teol. Cav. Anglesio, Direttore della Piccola Casa della Divina Provvidenza, accettarono di essere Promotori; ottantasei signore della borghesia e del patriziato, e fra queste non ultima la Marchesa Maria Fassati, nata De-Maistre, dama di S. M. la Regina Maria Adelaide, accondiscesero con piacere ad essere promotrici. Nello stesso tempo D. Bosco formava e stabiliva la Commissione che doveva presiedere. Membri di questa furono:
Arnaud di S. Salvatore conte Cesare.
Baricco T. Pietro, vice sind., segretario.
Blanchier Cav. Federico, ingegnere.
Borel T. Giovanni, rettore dei Rifugio.
Bosco D. Giovanni, direttore dell'Oratorio.
Cappello cav. Gabriele, detto Moncalvo, consigliere comunale.
Cotta cav. Giuseppe, senatore del Regno, consigliere comunale, tesoriere.
Cottin Giacinto, intend., cons. com. [326]
D'Agliano di Caravonica Cav. Lorenzo.
Duprè Cav. Giuseppe, cons. com.
Gagliardi Giuseppe, chincagliere.
Murialdo T. Roberto, capp. di corte.
Ortalda T. Gius., Can., direttore della pia opera della Prop. della Fede.
Ritner Vittorio, orefice estimatore.
Ropolo Pietro, fabbr. serr., cons. com.
Esaurite tutte le pratiche necessarie per questa organizzazione, presentava memoriali per ottenere l'approvazione governativa.
I sottoscritti desiderosi di procurare una lunga durata all'Oratorio di S. Francesco di Sales, di cui è cenno nella circolare annessa alla presente, scorgendo divenire ogni giorno più angusto il locale, che era stato destinato a uso di cappella, pel numero sempre crescente dei giovani che vi convengono per compiere i doveri religiosi nei dì festivi e per ricevere una buona educazione intellettuale e morale, divisarono di innalzare una chiesa più decorosa e più ampia. Messisi coraggiosamente all'opera per mezzo di private oblazioni poterono recarla fino al compimento del tetto. Ma richiedendo ancora le opere da farsi una ragguardevole somma e non volendo lasciare incompiuta l'impresa, vennero in pensiero di fare un appello alla pubblica beneficenza, onde raccogliere dalle persone caritatevoli il numero di oggetti, che si potrà maggiore, per farne quindi una pubblica lotteria. [327]
In obbedienza della legge 24 febbraio 1820, modificata dalle regie patenti 10 gennaio 1833 e dalle istruzioni pubblicate dalla Azienda Generale delle R. Finanze in data del 24 agosto 1834, ricorrono i sottoscritti alla S. V. Ill.ma invocando la di Lei approvazione alla progettata lotteria.
Con tal fine hanno l'onore di rassegnarle, a tenore delle citate istruzioni, un progetto di Circolare in cui viene brevemente tracciata la storia e lo scopo del Pio Istituto ed è indicato il mezzo a cui intendono appigliarsi per la raccolta dei doni: ci uniscono pure il piano della lotteria.
Ogni vantaggio, che si potrà trarre dalla lotteria divisata, sarà consecrato all'ultimazione della nuova cappella; i fondi poi che verranno riscossi, resteranno presso il Senatore Cotta, sottoscritto pure alla presente, il quale compierà le funzioni di tesoriere.
Pronti a dare ogni maggior spiegazione in proposito, i sottoscritti dichiarano di riferirsi per ogni cosa al disposto delle precitate Istruzioni dell'Azienda delle Finanze.
Persuasi che la S. V. vorrà concedere la implorata approvazione pel bene di un'opera quanto modesta, altrettanto vantaggiosa alla povera gioventù popolana, Le anticipiamo i più vivi ringraziamenti.
Il piano presentato per la lotteria era il seguente
1. Sarà ricevuto con riconoscenza qualunque oggetto d'arte, d'industria, cioè lavori di ricamo e di maglia, quadri, libri, drappi, tele e simili.
2. Nell'atto di consegna dell'oggetto verrà rilasciata una carta di ricevuta, ove sarà descritta la qualità del dono [328] ed il nome del donatore, a meno che questi ami conservare l'anonimo.
3. I biglietti della lotteria saranno emessi in numero e, proporzionato al valore degli oggetti, e nei limiti segnati dalla legge, cioè col benefizio del quarto.
4. I biglietti saranno spiccati da un foglio a madre, e saranno muniti della firma di due membri della Commissione. Il loro valore è di centesimi 50.
5. Si farà pubblica esposizione di tutti gli oggetti nel prossimo mese di marzo, e durerà per lo spazio di un mese almeno. Sarà dato avviso nella Gazzetta Officiale del Regno del tempo e del luogo in cui si farà questa esposizione. Verrà pure indicato il giorno, che sarà fissato per la pubblica estrazione dei numeri vincenti.
6. I numeri saranno estratti uno per volta. Occorrendo che per isbaglio se ne estraessero due, non si leggeranno, ma saranno rimessi nell'urna.
7. Si estrarranno tanti numeri quanti sono i premi da vincersi. Il primo numero estratto vincerà l'oggetto corrispondente segnato col numero 1; così il secondo, e successivamente finchè siansi estratti tanti numeri quanti sono i premi.
8. Nel Giornale Officiale del Regno saranno pubblicati i numeri vincitori, e tre giorni dopo si comincerà la distribuzione de' premi.
9. I premi non ritirati dopo tre mesi si terranno per ceduti a benefizio dell'Oratorio.
Il Sig. Intendente Generale di Torino con suo decreto del 9 dicembre 1851 concedeva la desiderata licenza, e dal Municipio era trasmessa a D. Bosco. [329]
Al signor D. Bosco, Direttore dell'Oratorio festivo di San Francesco di Sales, fuori di Porta Susa, Regione Valdocco.
Torino, addì 17 dicembre 1851.
Trasmetto copia alla S. V. M. Reverenda del Decreto Intendenziale col quale si autorizza la lotteria di oggetti da Lei implorata a vantaggio dell'Oratorio festivo di S. Francesco di Sales.
Siccome poi stabilisce il decreto che la Direzione di questa lotteria debba sempre andare d'accordo col signor Sindaco di Torino, il quale è incaricato di sorvegliare l'adempimento delle relative disposizioni, io prego la S. V. a compiacersi di spedire a questo Municipio copia di tutte le carte da Lei presentate all'Intendenza Generale, e d'ogni altro documento relativo alla pratica, affinchè possa aver luogo la imposta sorveglianza, e tutto proceda colla dovuta regolarità.
Colgo l'occasione per raffermarmi con dovuta stima
D. Bosco affrettossi a pubblicare colla data del 20 dicembre 1851 l'appello della Commissione alla pietà dei concittadini, approvato dall'Intendenza Generale.
Una modesta opera di beneficenza fu intrapresa, or fa dieci anni, nel distretto di questa città sotto il titolo di Oratorio di S. Francesco di Sales, diretta unicamente al bene intellettuale e morale di quella parte di gioventù che [330] per incuria de' genitori, per consuetudine di amici perversi, o per mancanza di mezzi di fortuna trovasi esposta a continuo pericolo di corruzione. Alcune persone, amanti della buona educazione del popolo, videro con dolore farsi ogni giorno maggiore il numero dei giovani oziosi e malconsigliati che, vivendo di accatto o di frode sul trivio e sulla piazza, sono di peso alla società e spesso strumento d'ogni misfare. Videro pure con sentimento di profonda tristezza molti di coloro che si sono dedicati per tempo all'esercizio, delle arti e delle industrie cittadine, andar nei giorni festivi consumando nel giuoco e nelle intemperanze la sottile mercede guadagnata nel corso della settimana, e desiose di portare rimedio ad un male da cui sono a temersi funestissime conseguenze, divisarono di aprire una casa di domenicale adunanza, in cui potessero gli uni e gli altri aver tutto l'agio, di soddisfare a' religiosi doveri, e ricevere ad un tempo una istruzione, un indirizzo, un consiglio per governare cristianamente e onestamente la vita. Fu perciò instituito un Oratorio dedicato a San Francesco di Sales coi mezzi che somministrò la carità di quei generosi, che sogliono largheggiare in tutto ciò che al pubblico bene riguarda; si apprestò quant'era d'uopo per celebrare le funzioni religiose, e per dare ai giovani una educazione morale e civile; varii giocherelli atti a sviluppare le forze fisiche e a ricreare onestamente lo spirito furono pure adottati, e così si studiò di rendere utile ed insieme gradita la loro dimora in quel luogo.
E’ difficile a dire con quale favore sia stato accolto l'invito che si fece a' giovanetti senza veruna pubblicità, e in quella guisa soltanto che si vuole tra i famigliari, di convenire ogni dì festivo nell'Oratorio; il che diè animo ad ingrandire il recinto e ad introdurvi in progresso di tempo [331] quei miglioramenti, che una carità ingegnosa e prudente potè suggerire; quindi si incominciò ad insegnare prima nelle domeniche, e poi ogni sera nell'invernale stagione la lettura, la scrittura, gli elementi dell'aritmetica e della lingua italiana, ed uno studio particolare si pose per rendere a quei giovanetti volonterosi famigliare l'uso delle misure legali, di cui, essendo la più parte addetti a' mestieri, sentivano il maggior bisogno.
Instillare nei loro cuori l'affetto ai parenti, la fraterna benevolenza, il rispetto alle autorità, la riconoscenza ai benefattori, l'amor della fatica, e più di ogni altra cosa istruire le loro menti nelle dottrine cattoliche e morali, ritrarli dalla mala via, loro infondere il santo timor di Dio, e avvezzarli per tempo all'osservanza dei religiosi precetti, sono queste le cose a cui per due lustri da zelanti sacerdoti e laici si dà opera assidua e si consacrano le cure maggiori. Così, mentre vi ha chi lodevolmente si adopera per diffondere gli scientifici lumi, per far progredire le arti, per prosperare le industrie e per educare i giovani agiati nei collegi e ne' licei, nel modesto Oratorio di San Francesco di Sales si compartisce largamente l'istruzione religiosa e civile a coloro, che, quantunque siano stati meno favoriti dalla fortuna, hanno pure la forza ed il desiderio di essere utili a se medesimi, alle loro famiglie ed al paese.
Riconoscendo però in brev'ora angusto, pel numero sempre crescente dei giovani, il locale che era stato destinato ad uso di cappella, e non volendo lasciare a mezzo un'impresa così bene avviata, i Promotori, pieni di confidenza nella generosità dei loro concittadini, deliberarono dimettere mano ad un edifizio più ampio e meglio acconcio all'uopo, e di assicurare in tal guisa la durata di un così utile istituto educativo. Fu troncato ogni ritardo, si superarono [332] le incertezze, e con coraggio si gettarono le fondamenta del nuovo Oratorio.
Le oblazioni, i regali, gl'incoraggiamenti d'ogni fatta non vennero meno sinora, e tanto si progredì nel lavoro, che nel volgere di pochi mesi si potè giugnere alla formazione del tetto.
Ma per condurre a compimento l'edifizio i mezzi ordinarii più non bastano, ed è necessario che l'inesausta carità del pubblico venga in soccorso della privata beneficenza. Egli è a tal fine che i sottoscritti Promotori della pia opera si rivolgono alla S. V. Ill.ma invocando il di Lei concorso, e proponendole un mezzo che, essendo già stato adoperato con buon successo in altre benemerite istituzioni, non fallirà certamente all'Oratorio di S. Francesco di Sales. Consiste questo mezzo in una lotteria d'oggetti, che i sottoscritti vennero in pensiero d'intraprendere per sopperire alle spese di ultimazione della nuova cappella, ed a cui la S. V. vorrà, non vi ha dubbio, prestare il suo concorso, riflettendo all'eccellenza dell'opera cui è diretta.
Qualunque oggetto piaccia alla S. V. offerire, o di seta, o di lana, o di metallo, o di legno, ossia lavoro di riputato artista, o di modesto operaio, o di laborioso artigiano, o di caritatevole gentildonna, tutto sarà accettato con gratitudine, perchè in fatto di beneficenza ogni piccolo aiuto è gran cosa, e perchè le offerte anche tenui di molti insieme riunite possono bastare a compir l'opera desiderata.
I sottoscritti confidano nella bontà della S. V., sicuri che il pensiero di concorrere alla buona educazione della gioventù abbandonata non potrà a meno di non piegare il di Lei animo ad una qualche sovvenzione. Valga del resto a raccomandare presso di Lei il pio istituto, la singolare benevolenza con cui persone d'ogni ordine e d'ogni grado [333] ne hanno promosso lo stabilimento e favorita la estensione. Valga soprattutto il voto emesso dal primo Corpo legislativo dello Stato, che, dopo averlo preso in benigna considerazione, nominava una Commissione apposita per averne precisi ragguagli, e conosciutane l'utilità, raccomandavalo caldamente al Governo del Re. Valga eziandio il generoso sussidio decretatogli per due anni continui con voto unanime del Municipio torinese; la singolare larghezza con cui S. M. il Re e S. M. la Regina si degnarono di venirgli in aiuto, e la speciale benignità con cui venerandi Prelati e distintissimi personaggi si compiacquero di raccomandarlo alla pubblica carità.
I sottoscritti rendono alla S. V. Ill.ma anticipati ringraziamenti per la cortese cooperazione, che vorrà prestare pel buon esito della progettata lotteria, e Le pregano dal Cielo ogni benedizione.
In calce a questo appello erano stampati i nomi dei Signori Promotori e delle Signore Promotrici, col poscritto: “Gli oggetti saranno ricevuti dai Signori Promotori e dalle Signore Promotrici e per maggior comodità potranno depositarsi presso ai Signori:
Gagliardi Giuseppe, chincagliere, avanti la Chiesa della Basilica - Chioitti Carlo, negoz. in maiolica e porcellana in Dora Grossa avanti la Chiesa dei SS. Martiri - Pianca e Serra, negoz. contrada della Madonna degli Angeli casa Pomba n. 6. Giacinto Marietti, tip. libraio sotto i portici dell'Università”.
Così D. Bosco colla spedizione in ogni parte di alcune migliaia dei suddetti inviti alla carità, santificava anche le Feste Natalizie.
SUL PRINCIPIO del 1851 i ricoverati più non si disperdevano nel cortile o nella casa per mangiare la minestra a pranzo e a cena, ma incominciarono ad assidersi a qualche tavola disposta sotto una tettoia, ed essendo molti cresciuti in età, si era concessa a tutti in più una pagnotta a colazione. Ma nel 1852 ci fu un altro progresso. D. Bosco cessò la distribuzione dei 25 centesimi al giorno ad ogni giovane, perchè alcuni, non sapendo regolarsi, li spendevano in ghiottonerie, rimanendo poi senza pane. Aboliti i pentolini, li sostituì con capaci scodelle di stagno, e da quel punto il pane fu provvisto dalla dispensa della casa, aggiungendo regolarmente un po' di pietanza al pranzo del giovedì e della domenica. Tempo dopo, si distribuiva tutti i giorni pietanza o frutta a mezzogiorno e un bicchiere di vino nelle feste.
D. Bosco s'industriava quanto poteva per dare a' suoi giovani il vitto necessario; e questo non fu mai che mancasse, [335] non tanto fino, ma sano ed abbondante. Minestra e pane erano sempre a piena disposizione di tutti, che ne mangiavano a sazietà. Si invigilava però che di questo non ne fosse portato fuori di refettorio, e per raggiungere tale intento si concesse una metà di pagnotta per la merenda. D. Bosco contrattava che il pane fosse di prima qualità e avendogli il Cav. Cotta suggerito di nutrire i suoi giovani con grissini, volle far la prova per una settimana. Ma scorgendo che quel nutrimento, benchè dei più fini, non li soddisfaceva, perchè essendo senza midolla bisognava mangiarlo con lentezza, subito smise. Nelle solennità e nelle feste della casa concedeva loro qualche cosa di più, che ordinariamente consisteva nel companatico a colazione, in un modesto antipasto e in una bicchierata a pranzo. Anche pel vestito non lasciava mancar nulla ai più poveri.
La massima parte dei giovani avevano miglior trattamento nell'Oratorio di quello che potevano avere nelle loro proprie famiglie, ed erano a pensione gratuita. In generale D. Bosco dava la preferenza agli orfanelli più bisognosi ed abbandonati, esposti al pericolo di commettere dei delitti, o ad essere guasti dagli scandali che avevano in famiglia, o a rimaner arreticati da qualche cattivo compagno. Egli diceva tutto commosso e colle lagrime agli occhi: - Per questi giovani farò qualunque sacrifizio: anche il mio sangue darei volentieri per salvarli. - E raccomandava a' suoi coadiutori la stessa compassione.
Esigeva però qualche tenue tangente da coloro che avevano ancora i genitori, o possedevano qualche sostanza, o avevano benefattori, solendo dire non esser giusto che fossero costoro mantenuti dalla pubblica beneficenza, la quale deve servire solo per coloro che si trovano nella vera necessità. Il loro mantenimento però era sempre più costoso di ciò che [336] qualunque di essi corrispondesse; al che D. Bosco suppliva coi soccorsi somministratigli dalla Provvidenza.
Quello che loro dava era dunque superiore a ciò che potessero pretendere ed egli molte volte biasimava il sistema di certi Istituti moderni per cui i poveri giovani ricoverati ricevono un trattamento oltre la loro condizione ed in seguito, dovendo uscire dall'Istituto, non si adattano a certe privazioni con danno materiale ed anche morale.
Vi erano anche altri giovanetti all'Oratorio in questi primi tempi, appartenenti a famiglie piuttosto agiate, le quali pregavano D. Bosco di accettare in educazione i loro figliuoli, disposte a concorrere con una retta anche vistosa; e questi avevano un trattamento speciale. D. Bosco l ammetteva alla mensa de' suoi chierici, perchè ricevessero buon esempio. Ma questa eccezione non fu di lunga durata, cioè finchè D. Bosco non aprì altri collegi all'uopo nel 1860 e 1863.
Ma fra gli studenti e gli artigiani, chi pagava la pensione e chi non la pagava oppure la retribuiva esigua, fra chierici e ricoverati regnava la più viva amicizia e la più schietta eguaglianza. D. Bosco legava tutti i cuori. Buono come la più amante delle madri, giusto, senza parzialità per alcuno, affettuoso colle stesse persone destinate a servire, apprezzatore e rimuneratore dei meriti, sollecito cogli infermi, soccorritore dei bisognosi, pacificatore incantevole nelle piccole discordie dicendo: Chi ha maggior prudenza l'adoperi, soffriva quando i giovani si allontanavano anche per breve tempo e adoperava ogni industria per tenerli presso di sè nelle vacanze, anche gratuitamente, perchè temeva che andando via colle ali, ritornassero colle corna.
Ma la rara tranquillità, che i giovani generalmente sani e robusti per le sue attenzioni godevano, non era senza qualche [337] disagio. La minestra, per la grande quantità, non era sempre secondo tutti i gusti, i locali ristretti e poveri, gli alunni troppo più numerosi che la sua casa potesse capirli con agio, e varii altri incomodi che non dipendevano dalla volontà e diligenza di D. Bosco. Tuttavia l'amore che i giovani portavano all'Oratorio, anche quelli che pagavano pensione, è cosa incredibile. Ancor oggi narrano gli antichi allievi, e fra questi il Can. Ballesio: “La minestra e la pietanza non erano all'altezza dei tempi. Pensando come si mangiava e come si dormiva, adesso ci meravigliamo d'aver potuto allora passarcela senza talvolta patirne e senza lamentarci. Ma eravamo felici, vivevamo di affetto. Si respirava in una regione di splendide idee, che ci riempiva tutto di sè e non pensavamo ad altro”.
D. Bosco in quest'anno aveva eziandio incominciato a stabilire alcune regole disciplinari, poichè , nei primordii dell'Oratorio, non vi erano regolamenti scritti. Non essendovi là entro nè scuole, nè laboratorii, la classificazione dei giovani veniva fatta per camerate, e perciò in ogni dormitorio fu destinato un chierico o un giovane per assistente e venne affissa una tabella la quale conteneva articoli da osservarsi nella casa. Eccone il tenore.
1. Ogni giovane dovrà essere sottomesso all'assistente od a chi ne fa le veci, il quale è obbligato a render conto di quanto si fa e di quanto si dice nel dormitorio.
2. Non si può introdurre nel dormitorio alcuna persona anche parente senza licenza: nemmeno i giovani di un dormitorio possono andare in quello degli altri senza speciale permesso dei Superiori.
3. Ciascuno procuri di dare buon esempio ai compagni, [338] particolarmente nella frequenza dei Sacramenti, accostandovisi almeno ogni quindici giorni.
4. Ognuno abbia cura della nettezza tanto della persona quanto del dormitorio.
5. La sera, dette le orazioni, si venga subito in camera e non si stia a girare pel cortile: si osserverà quindi rigoroso silenzio per non incomodare coloro che hanno bisogno di riposare,
6. Al mattino al segno della levata, ciascuno si vestirà colla massima modestia, osservando esatto silenzio.
7. È strettamente vietato di vendere o comperare qualsiasi oggetto o tener danaro presso di sè . Chiunque avesse danaro deve consegnarlo al Prefetto, che ne terrà conto e lo somministrerà nei casi di bisogno.
8. È pure vietato di scrivere sui muri della casa, piantar chiodi o far rotture per qualsiasi pretesto.
9. Si raccomanda la carità fraterna, perciò sopportare pazientemente i difetti dei compagni e non mai disprezzarli od offenderli.
10. È rigorosamente proibito ogni atto sconvenevole ed ogni sorta di cattivi discorsi.
11. Chi osserverà queste regole sia dal Signore benedetto, Ognuno si ricordi che colui il quale comincia a vivere da buon cristiano in gioventù, condurrà buona vita fino alla vecchiaia, e Dio lo conserverà fino a quell'età.
N. B. Questo regolamento sarà letto a chiara voce la prima domenica di ciaschedun mese a tutti quelli del dormitorio.
Questo regolamento col quale i giovani erano chiamati i figli della casa nell'originale primitivo, venne a poco a poco alquanto modificato e ridotto nella forma su esposta. [339] I giovani in que' tempi memorabili godevano moltissima libertà, essendo come in famiglia. Ma di mano in mano che sorgeva un bisogno o nasceva un disordine, D. Bosco gradatamente restringeva la libertà con qualche nuova regola opportuna. E i giovani, riconoscendo la necessità di quelle nuove disposizioni, vi si assoggettavano volontieri, ma ne rimproveravano coloro che colle mancanze ne erano stati la causa. Così ad una ad una, a varii intervalli, furono stabilite le norme disciplinari che ora formano il regolamento delle Case Salesiane.
Ogni camerata o dormitorio aveva il suo Santo titolare e patrono, il cui nome era scritto sulla porta d'entrata ed ogni anno i giovani appartenenti a quella ne celebravano la Festa coll'accostarsi tutti ai Sacramenti, e, ottenuta licenza, coll'addobbare e ornar con lumi l'effigie del Santo, col cantare inni, recitare preghiere innanzi alla stessa. Sceglievano quell'ora del giorno o della sera che meno disturbasse l'orario generale, e invitavano i Superiori. Era presente un priore scelto da essi, ed un giovane od un chierico faceva il panegirico. Talora davasi da baciare la reliquia. Era questo un mezzo, che unito agli altri, accendeva sempre più il fervore della divozione. La camerata tenevasi come un santuario. In ogni dormitorio, e poi nelle sale di studio, D. Bosco prescrisse vi fosse la conchiglia coll'acqua benedetta, della quale facevasi uso. Eravi l'altarino colla statua della Madonna ed il crocifisso. Tutti i giorni del mese di maggio recitavasi prima di coricarsi una piccola preghiera innanzi all'immagine di Maria, ornata da molti lumi e di tappezzerie. Queste usanze furono ridotte per i troppi chiodi che si piantavano nel muro, ma durarono lungo tempo. Talora le feste del Titolare della camerata davan luogo in questa ad una bell'accademia, presente D. Bosco stesso. Abbiamo trovato e custodiamo alcuni [340] sonetti composti e recitati in varii anni successivi dai giovani studenti della camerata di Sant'Agostino in onore del grande Vescovo d'Ippona e dedicati a D. Bosco, a Dori Alasonatti Vittorio, e ad uno dei loro priori, Berruto Giovanni.
In quanto all'ordine generale D. Bosco vide l'importanza che vi fosse nella casa un rappresentante permanente della sua autorità; e quando egli doveva allontanarsi da Torino, per qualche giorno, invitava, come aveva fatto nell'anno, trascorso, anche nel 1852 D. Grassino ad abitare in Valdocco:
Il suo zelo e la sua prudenza gli suggerivano i detti provvedimenti, mentre la sua carità verso i giovani traspariva anche dalle lettere che scriveva a quelli che li raccomandavano. Il Rev. Don Francesco Puecher dell'Istituto della Carità, da Stresa per lettera auguravagli la benedizione dì Dio per la sua lotteria, lo salutava insieme col Teol. Gastaldi, e, a nome dell'Ab. Rosmini, disposto a pagare una retta mensile, gli raccomandava un giovanetto. D. Bosco rispondeva il 16 Febbraio 1852. “In seguito alla lettera di V. S. Ill.ma e car.ma ho tosto fatto venire il giovanetto C ......... Io fui intenerito al solo vederlo; ha un aspetto proprio di chi patisce fame di corpo e di anima; l'indole però mi parve ottima, sicchè gli dissi che venisse presso di me nella corrente settimana, onde tenerlo per alcuni giorni per prova, senza dirgli altro. Io giudico di mandarlo ancora qualche tempo a scuola per conoscere meglio se il Signore lo chiama allo studio o ad un mestiere.... Comunque sia io conto di tener qui questo giovane perchè ne scorgo troppo grave il bisogno”. E tempo dopo scriveva al Rev. D. Gilardi: “Il giovanetto C….. è assai distinto nella buona condotta e nella pietà: dimostra propensione per lo stato ecclesiastico, primeggia nel terzo corso di grammatica latina: fa sperar bene [341] di sè per l'avvenire; ma tocca solo i quattordici anni; bisogna fare in modo che egli prosegua i suoi studii”.
Altra lettera indirizzava al Conte Zaverio Provana di Collegno.
Comprendo tutta l'importanza di occuparci del giovane,dalla bontà di V. S. Ill.ma raccomandato, e l'assicuro che ne prenderò tutto l'interessamento possibile.
Soltanto che mi trovo in momento scabroso, perchè scarso di mezzi e affatto privo di locale, tuttavia diami cinque o sei giorni di tempo, e farò in modo di occuparlo in qualche maniera, quindi collocarlo o qui o presso qualche altra sicura persona.
La ringrazio di tutto cuore della buona memoria che conserva per me, mi raccomandi al Signore e gradisca che mi dica colla massima venerazione
Intanto le scuole di latinità davano eccellenti frutti. Anche il giovane Cagliero dimostrava un bell'ingegno, e un umore allegro. Sempre il primo nei giuochi e nelle partite, capo e maestro di ginnastica, e intraprendente al sommo grado.
Ma la sua indole focosa sul principio non pareva che fosse possibile frenarla. Specialmente nel recarsi alle scuole, non c'era modo che potesse piegarsi ad andare di conserva cogli altri compagni. Il ch. Rua, che era, incaricato della sorveglianza, non riusciva a metterlo in riga. Esso, appena fuori dell'Oratorio, [342] correva in piazza Milano ove erano i ciarlatani, dava un'occhiata al giuochi, e quando i compagni giungevano alla porta del prof. Bonzanino, trovavano Cagliero che già li attendeva tutto molle di sudore
Rua dicevagli spesse volte: - Perchè tu non vieni cogli altri?
- Oh bella! a me piace più così; che male c'è passare per una strada piuttostochè per un'altra?
- L'ubbidienza? Non sono io puntuale nel giungere alla scuola? Anzi non arrivo sempre prima degli altri? Io il lavoro lo faccio, la lezione la so sempre; dunque perchè prendervi fastidio per queste bazzecole?
E continuava ad andare solo, pel matto piacere di vedere i ciarlatani. Qualcuno incominciò a proporre a D. Bosco che sarebbe meglio mandare a casa propria un giovane così poco amante della disciplina; ma D. Bosco, che teneva in massimo conto la schiettezza di Cagliero, non volle saperne. Infatti l'anno seguente il giovane Cagliero, dopo alcune ammonizioni di D. Bosco, divenne più osservante della regola e non tardò ad essere il modello di tutti.
Era adorno di molte belle qualità, e D. Bosco, che in lui aveva scoperta una felice disposizione per la musica, gliene insegnò i primi rudimenti e lo consegnò al chierico Bellia, perchè proseguisse ad esercitarlo. Egli desiderava di formare un maestro che scrivesse cose facili pel popolo, e lo fece applicare sul serio a tale studio, mercè un buon metodo di cui in breve si videro i risultati. Un giorno venne a mancare chi alla festa suonava l'armonio in chiesa. Chi suonerà in vece sua la domenica? Che figura si farà in chiesa senza suoni e senza canti? Cagliero vede l'imbroglio, nè vuole che sia detto che per l'assenza di uno ne scapiti [343] l'Oratorio. Con un'energia di volontà superiore all'età sua, tanto fa e tanto si adopera che la domenica seguente siede all'armonio e con mano sicura suona le melodie solite a udirsi nelle domeniche precedenti.
Dopo questa riuscita, la sua passione per la musica si fece ognor più prepotente, e stava ore ed ore allo sgangherato pianoforte. Sonava con tanta foga note poco armoniche per un orecchio profano, che un giorno la buona Margherita perdette alquanto la pazienza, e non si peritò per cella di minacciar colla granata il giovane musico, che amava da buona madre. Essa infatti dolce, affabile, paziente, in ogni circostanza, o grande o piccola, dimostrava la grande carità che nutriva verso i poveri giovanetti. Sovente accadeva che d'inverno qualcheduno fosse costretto dal padrone a lavorare fino ad ora tardissima; non vedendoli comparire cogli altri a cena e saputa l'urgenza del lavoro: - Poveri figli! esclamava, ricordiamoci di tenere la minestra al caldo! E non aveva coraggio di andare a riposarsi, ma li stava sempre aspettando fino alle 11 ore e talora fino a mezzanotte tremando dal freddo. Quando giungevano, li rallegrava eziandio con un avanzo di pietanza che aveva messo in serbo.
Qualcuno dei più piccoli talora, alla sera della domenica, dopo le funzioni di chiesa andava in cucina. - Che cosa vuoi, piccolino?
- Ma non hai già mangiata la tua merenda?
- Sì; ma ho ancora tanta fame!
- Poveretto, prendi; e gliela dava; - ma non dirlo a nessuno, altrimenti vengono anche gli altri compagni, e poi mi lasciano i pezzi di pane in mezzo al cortile.
- Mamma, state tranquilla, non lo dico a nessuno. [344] E correva in cortile colla sua pagnotta in mano. I compagni, vedendo che mangiava, gli andavano attorno: - Chi te l'ha dato questo pane?
Il piccollino rispondeva subito colla bocca piena: - Mamma Margherita.
E gli altri correvano difilati da lei, che non sapeva dire di no.
La domenica seguente lo stesso fanciullo ritornava, a chiedere pane: - Tu, dicevagli Margherita, la settimana scorsa hai raccontato a tutti che io ti ho dato del pane, e mi hai messa negli imbrogli. Perciò oggi non te ne do più.
- Ma dovevo io dire la bugia? Mi hanno interrogato e ho dovuto rispondere secondo verità.
- Hai ragione, la bugia non va detta. - E senz'altro lo contentava.
Come si vede, i buoni giovani avevano un grande ascendente sopra il suo cuore. Quando nell'Oratorio erasi incominciata la classe degli studenti, alcuno di costoro, ritornato dalla scuola e avuto il pane per la merenda, andava in camera di Margherita e le diceva: - Niente altro?
- E non ti basta? rispondeva Margherita.
Il giovanetto incominciava a mangiare il suo pane e poi ripeteva:
- Mamma, non posso trangugiarlo.
- È asciutto! Se aveste un po' di formaggio o una fetta di salame, sarebbe più buono.
- Va' là, va' là, ghiottone i Ringrazia la Provvidenza che hai pan bianco.
- Oh mamma! - quasi con un gemito ripigliava il furbacchiotto, fissandola pietosamente in volto. - Oh mamma!
E Margherita finiva con dargli quanto chiedeva.
Abbiamo rammentati questi due umili fatti, che si diranno forse da qualcuno troppo comuni, perchè ci è più cara una [345] stilla d'amore, che un pelago di glorie, di grandezze, di meraviglie, e perchè riguardano due nostri compagni che furono poi insigniti di altissime dignità'.
Da ciò puossi eziandio argomentare che cosa essa facesse per i giovanetti quando erano melanconici o ammalati. Per i primi, non lasciava di mettere in opera ogni mezzo per far ritornare il sorriso sulle loro labbra; per i secondi, gareggiava per spirito di sacrifizio e per continue cure con qualunque madre possa darsi più affettuosa. Un mal di testa, un dolor di denti che qualcuno avesse era per lei una pena grande. I giovanetti al primo sentirsi qualche leggiero malore ricorrevano a lei, ed essa era pronta in loro servigio, di giorno e di notte. Se avesse udito un gemito, un pianto, non tra tranquilla finchè non ne avesse saputa la cagione. Se per malattia uno era costretto a coricarsi, essa gli era sempre attorno; preparava le medicine, andava a lavorare vicino al suo letto, vegliavalo quando gli altri andavano a dormire. Valga, per dire tutto in breve, il seguente fatto. Un giovane cadde infermo di malattia infettiva, e il medico avendo prescritto che fosse isolato dagli altri, Margherita gli si mise al fianco amorevole infermiera. Quando fu stabilito che fosse ricoverato all'Ospedale e lo vide trasportar giù per le scale, lo seguì silenziosa fin sulla soglia; quando i servi sollevarono la barella e si avviarono, ruppe in dirotto pianto.
Margherita era l'angelo custode dell'Oratorio.
I VALDESI continuavano colla parola e colla stampa a spargere i loro errori nel popolo, regalando 80 lire a chi si faceva ascrivere alla loro setta. Alcuni dei giovani degli Oratorii festivi, che avevano dati gravi dispiaceri a D. Bosco, e in certe questioni avevano parteggiato contro di lui, si erano lasciati tirare all'apostasia, accettando quella vile moneta. Ne venne quindi per conseguenza che il loro astio cercava di sfogarsi contro gli antichi loro compagni, dai quali la coscienza avvertivali che da qui innanzi sarebbero tenuti in concetto di rinnegati. Una sera Tomatis rincasava verso le 9 ore. Passando vicino alla chiesa della Consolata, scendeva verso l'Oratorio, quando si accorge che due individui lo inseguono. Impaurito affretta il passo, ed essi pure. Si mette alla corsa e può entrare nel cortile e chiudere la porta in tempo, perchè se avesse ritardato un istante lo avrebbero raggiunto. Egli si recò subito a narrare il fatto [347] a D. Bosco, il quale dispose per alcune precauzioni che tutelassero la sicurezza della comunità.
“D. Bosco, ci scrisse Giuseppe Brosio, soffriva molto per queste defezioni e tradimenti. Una domenica predicava in Valdocco contro gli errori dei protestanti e con affocate parole si lamentava di quei giovani, che si lasciavano ingannare dai corifei dell'empietà, e smascherava le arti ingannevoli delle quali costoro servivansi per trarre a certa perdizione la gioventù. A un tratto interruppe la predica, come era uso a fare qualche volta, e prese ad interrogare alcuno dei fanciulli, affinchè i compagni comprendessero bene l'argomento. Così dilucidò le ragioni che difendevano invincibilmente alcuni dei dogmi negati dai protestanti, principalmente la verginità, della Madonna. D. Bosco si infiammò tanto nello svolgere il suo argomento, che la sua faccia divenne risplendente quasi fosse stata la fiamma di una lucerna. Questo l'ho veduto io”. Diremo a suo tempo come in altra circostanza fummo eziandio noi testimonii di simile meraviglia.
Intanto D. Bosco aveva incominciato a darsi con grande sollecitudine all'opera di convertire gli eretici. Per anni molti fu tale la sua costanza, che ebbe la consolazione di ricevere, in numero considerevole, abiure di apostati e di quelli che erano nati nell'eresia. Non è a dire quanto egli godesse quando poteva aggregare qualcuno alla vera Chiesa.
Spesso veniva visitato da coloro che, ingannati dai Valdesi, avevano rinnegata la fede, ed egli con tutta benignità li accoglieva, spiegava loro le verità cattoliche con molta chiarezza, mostrava loro come fossero stati sedotti, metteva loro davanti il mal passo che avevano fatto: incoraggiandoli a non disperare mai della Misericordia di Dio. Nello stesso, tempo li aiutava quanto poteva. Alcuni erano bisognosi, ed egli dopo averli istruiti dava loro qualche sussidio. Altri [348] accolse nell'Oratorio affinchè fossero tolti dall'occasione di ricadere nell'errore e per poterli meglio catechizzare. Alcuni poveri ragazzi protestanti ricoverò, istruì, e converti. Intiere famiglie furono da lui ricondotte nell'ovile di Gesù Cristo, procurando ad alcune il modo di vivere onestamente colle proprie fatiche. Di tutto il qui detto fa testimonianza D. Rua.
Taluni dei neofiti valdesi venivano all'Oratorio più per disputare che per convertirsi, e D. Bosco acconsentiva. “Io stesso, ci disse il Can. Anfossi, ho assistito parecchie volte a queste dispute da lui sostenute, ed era ammirabile la sottigliezza degli argomenti da lui adoperati, ed appariva chiaramente che non solo aveva fatto studio particolare nell'intento di confutare gli errori del Protestantesimo, ma che di più aveva dal cielo un lume speciale; e che traspariva ancora dalla grande carità colla quale s'intratteneva con questi illusi. Costoro non adoperavano sempre verso di lui modi cortesi, ma egli non smise mai dal trattarli con dolcezza. Questa ei la diceva la virtù più necessaria particolarmente cogli eretici”. Infatti se si accorgono che si voglia prevalere sopra di essi, allora si preparano, non già a conoscere la verità, ma a combatterla; e le vive contestazioni chiudono la porta del loro cuore, mentre l'affabilità l'avrebbe aperta. Infatti San Francesco di Sales sebbene abilissimo nella controversia, guadagnava più eretici colla sua dolcezza, che non per mezzo della scienza. La forza di una disputa senza la dolcezza non convertì mai nessuno.
E più d'uno dei sopraddetti presuntuosi furono persuasi da D. Bosco, e rimessi nella barca di Pietro.
I così detti pastori valdesi non tardarono ad accorgersi dello zelo col quale D. Bosco si adoperava per fare ritornare alla fede cattolica i traviati. Quindi alcuni di loro vennero essi stessi da D. Bosco, colla speranza di confutarlo e [349] di menarne poi vanto pubblicamente. Ma non poterono riuscirvi mai, non solo per la sodezza delle sue ragioni, ma perchè sapeva fermarli in quelle divagazioni da un argomento all'altro, nelle quali sono maestri, sia per la loro ignoranza, sia per l'arte di rendere impossibile la conclusione di una tesi, determinata. D. Bosco talora lasciava l'argomentazione diretta e positiva, e procedeva per interrogazioni, specialmente trattandosi della storia ecclesiastica, dei concilii, dei SS. Padri, e le loro risposte a vanvera cadevano in tali anacronismi da far ridere le galline. Era poi espertissimo nell'ottenere, anche da un avversario abbastanza colto, concessioni di cui questi non aveva potuto prevedere le conseguenze, e gli creava tali imbarazzi e difficoltà dalle quali non poteva sciogliersi. Quei signori perciò se ne tornavano scornati.
Intanto anche in quest'anno egli continuava a diffondere una nuova edizione dell'opuscoletto intitolato Avvisi ai Cattolici, che a migliaia di copie promovevano un grandissimo bene in Piemonte e specialmente in Torino. Mentre però D. Bosco, combatteva l'eresia accampata fuori del cerchio delle mura di Valdocco, la brutta bestia tentava di seminare la zizzania nello stesso Oratorio.
Un certo frate minore riformato del convento di S. Tommaso in Torino, Padre Vitale Ferrero, fratello di alcuni ragazzetti che frequentavano l'Oratorio, si era fatto molto amico di D. Bosco. Costui seppe così bene dissimulare la malvagità del cuore, che D. Bosco, credendo fosse persona di fiducia, più volte avevalo invitato a pranzo con sè . Quindi in quell'anno 1852 incaricavalo di fare il panegirico di San Francesco di Sales nel giorno della Festa. Il frate salì il pulpito, e incominciò a parlare in dialetto piemontese che possedeva assai bene. Vive erano le descrizioni che tratteggiava. Dipinse S. Francesco che a piedi, stanco, saliva la montagna [350] per salvare le anime, e che rattoppava lui i suoi abiti che aveva guastati, facendo il parallelo con altri che vanno in carrozza e mandano le loro robe al sarto. Con quell'altri alludeva ai Vescovi.
Quindi portò una parabola dell'aquila e della volpe. L'aquila era sopra un albero, e la volpe si strisciava per terra, piena di piaghe schifose, pestifere, e volendo nascondere le sue piaghe, cercava di occultarsi tra le siepi per poi andare in mezzo agli animali ed infettarli. Ma l'aquila stette a guardare un po' di tempo tutti i passi subdoli della volpe, e poi gridò ad ogni specie di animali: - Guardatevi dalla volpe! - E concludeva il perfido predicatore: - Figliuoli, sapete chi era l'aquila? Lutero! Sapete chi era la volpe? La Chiesa Cattolica!
A questa conclusione D. Bosco, che fino a quel punto era stato con pena immensa attento ad ogni sua parola, si avanzò verso il pulpito mentre il frate scendeva, e presolo per un lembo della tonaca, gli disse con voce vibrata, sicchè tutti i giovani udirono: - Lei è indegno di portare quest'abito!
Quel disgraziato dopo poco tempo usciva di convento con licenza dei superiori, col pretesto di assistere al suo vecchio padre. Giunto però a casa vestito da prete secolare, cacciò il padre in mezzo ad una strada, quindi gettò l'abito, e finì con darsi al Protestantesimo con pubblica professione di fede eterodossa, sotto la guida del pastore valdese Amedeo Bert. Mandato a Londra acciocchè pervertisse gli Italiani ivi residenti, morì nello stesso anno per una coltellata ricevuta da un connazionale.
L'infelice era venuto a predicare nell'Oratorio d'accordo coi protestanti; ma non aveva saputo contenersi con accortezza, gettando subito la pelle di pecora. Quei giovanetti che l'udirono, [351] dopo circa 40 anni ricordavano ancora per filo e per segno l'empia parabola. Tanta impressione aveva fatto quel racconto sui loro animi!
E D. Bosco con gran dolore aveva narrata ad essi l'apostasia dì quell'infelice, raccomandandolo alle loro preghiere
L'eresia con un tale colpo mal riuscito aveva fatto concepire contro di sè maggior aborrimento nell'animo di quelli dell'Oratorio, e D. Bosco servissi eziandio di un felice avvenimento per confermarti sempre più nel buon proposito. Nel 1851 il Papa aveva concesso a tutti il Giubileo. Fuori di Roma poteva lucrarsi l'anno seguente. Il Teol. Giovanni Borel in nome di D. Bosco aveva supplicato la Curia ad acconsentire che i giovani degli Oratorii, assistiti dai sacerdoti che li dirigevano, prendessero le perdonanze nelle proprie cappelle. Se gli si concedeva questo provvedimento, esprimeva la speranza di ricavar maggior frutto spirituale. Il Vicario generale Can., Filippo Ravina il 2 febbraio 1852 accordava volentieri la chiesta facoltà. Queste visite, come si costumò poi sempre nell'Oratorio, si fecero nel numero prescritto, uscendo e rientrando processionalmente nella cappella. Con grande impegno i giovani procurarono di guadagnare l'indulgenza, infervorati dalle prediche di D. Bosco, il quale agli alunni interni ed anche ad un certo numero di esterni, perchè non dimenticassero que' giorni solenni, diede consiglio, che ciascuno scrivesse sopra un foglietto i proponimenti che avevano fatto, e questo o ritenessero presso di sè o lo consegnassero a lui, che lo avrebbe custodito.
Ai giovani piacque la proposta. Molti scrissero intestando il loro foglio col titolo: Il mio giubileo, oppure col proprio nome. Altri firmarono il loro proponimento per es.: - Sono Sacco Giovanni Battista. Prometto ed attendo. - Quei pochi foglietti che ancora si conservano, colla semplicità delle espressioni, [352] le ripetizioni e le sgrammaticature manifestano esserne gli scrittori principianti artigiani, o studenti novellini da poco tempo entrati nell'Oratorio.
Ecco alcune di quelle scritte: - Io debbo fuggire quelli che bestemmiano. - Io debbo fuggire quelli che sono soliti ad altercare, e prometto di non più altercare con nessuno. Io devo promettere di non più bestemmiare e dire cose cattive. - Io devo fuggire le cattive compagnie colle quali vado insieme. - Io prometto di essere diligente ne' miei doveri e più devoto in chiesa. - Io devo accostarmi con maggior frequenza ai Santi Sacramenti. - Io devo promettere di fuggire coloro che parlano male della Chiesa. - Questa frase si legge in tutte quelle cartine, indizio evidente che era stata suggerita e spiegata da D. Bosco. Lo stesso dobbiamo dire, perchè uniforme, dell'ordine delle idee, il quale è forse il medesimo tenuto da lui nelle sue prediche. Ne riportiamo un intiero esemplare, alquanto corretto, come documento:
“QUESTO È IL GIUBILEO Di ROCCHIETTI
1° Io debbo fuggire le cattive compagnie.
2° Io debbo fuggire quei che parlano male della Religione Cattolica.
3° Io debbo fuggire i cattivi discorsi.
1° Io debbo imitare S. Luigi Gonzaga.
2° Io debbo imitare quei che sono molto divoti del Signore e dei santi, e seguire i loro buoni consigli.
3° Io debbo imitare quelli che parlano bene della Religione Cattolica. [353]
1° Io debbo promettere al Signore di non mai più peccare per tutto il tempo della mia vita.
2° Io debbo promettere di fuggire le cattive compagnie, i cattivi discorsi e quelli che sono soliti a bestemmiare il mio Signore Iddio, o a nominarlo invano.
3° Io debbo promettere di non dire bugie nè per scusa, nè per altra causa, nè bestemmiare o dire cose cattive, e di fuggire il male.
Rocchietti Pietro, prometto ed attendo sempre per tutto il tempo della mia vita”.
Questo biglietto era stato con altri molti consegnato dai giovani a D. Bosco, perchè potesse avvertirli qualora si dimenticassero delle loro promesse. Tanta confidenza col buon padre era la loro salvaguardia.
Intanto i Valdesi, presso il tempio che andavano edificando, incominciavano a fondare scuole per fanciulle di famiglie agiate, altre per giovani poveri d'ambo i sessi, un asilo d'infanzia, un ospedale, una Diaconia per distribuire sussidii ai poveri, e poco distante un collegio di artigianelli valdesi. Ma a questa operosità nel male, retribuita largamente dall'Inghilterra, D. Bosco contrapponeva la sua operosità nel bene con grandi sacrifizii: a costruzioni profane, ove sarebbe insegnato l'errore e avrebbe risonato la bestemmia, edifizii sacri, nei quali si predicherebbe la verità e si glorificherebbe il nome santo di Dio; ai tesori accumulati delle Società Bibliche, l'obolo della fede e della carità.
Frattanto proseguiva alacremente negli apparecchi per la lotteria.
I PRIMI giorni dell'anno 1852 trovarono D. Bosco tutto occupato nella sua lotteria. Una seconda edizione dell'Appello fu consegnata alle stampe colla data del 16 gennaio per domandare doni da tutte parti. Ciò importava di scrivere migliaia e migliaia di indirizzi. Era la prima volta che si ricorreva in questo modo alla pubblica beneficenza per la costruzione di una chiesa e l'Appello ebbe un'accoglienza assai favorevole.
“D. Bosco che mi voleva immischiato in tutti i suoi affari, scrisse Brosio Giuseppe, mi diede varie incombenze per la lotteria del 1852 e per quella poi di Portanuova, e perciò lo accompagnava nelle visite che faceva ai grandi signori e nello stesso tempo alle case nelle quali erano degli infermi”.
Intanto arrivavano molti doni. S. M. la Regina Maria Adelaide mandava un bicchiere di cristallo rosso col coperchio; un torsello in velluto rosso con guernizione in bronzo dorato a foggia di piccolo seggiolone; altro in velluto verde guernito in avorio; un bicchiere di cristallo bianco e azzurro; [355] un servizio di due persone per caffè e latte di porcellana;bianca con fiori a rilievo composto di otto pezzi. S. M. la Regina Vedova Maria Teresa regalava due vasi di bronzo dorati ed argentati, un piccolo scrittoio in legno intarsiato,ed altri dodici oggetti. S. A. R. la Duchessa di Genova donava un calcalettere in bronzo con un gruppo di tre statuette. Eziandio tutta la corte reale e la nobiltà torinese si segnalarono colle proprie offerte. Il Sommo Pontefice Pio IX, Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele avevano fatto intendere che in qualche modo volevano dare il loro contributo. E il lavoro cresceva per D. Bosco. Bisognava tener registro dei singoli doni ricevuti, col nome degli offerenti, numerarli, custodirli, scrivere lettere di ringraziamento ai precipui donatori.
Ma dove esporli, perchè i cittadini potessero recarsi a vederli? La povera casa di Valdocco non aveva certamente sale che servissero all'uopo. D. Bosco pertanto, avuta licenza dal superiore dei Domenicani, chiedeva un locale al Marchese Alfonso La Marmora, per mezzo del Teologo D. Pietro Baricco Vice-Sindaco. A questi rispondeva il Ministro.
Ministero della Guerra. Divisione Amm. Milit.
In seguito all'istanza sporta dal Rev. Don Giovanni Bosco Direttore dell'Oratorio di S. Francesco di Sales in Valdocco, onde potersi valere nella parte del convento di S. Domenico in questa Capitale, tuttora a disposizione dell'Amministrazione militare, di n. 3 camere per l'esposizione degli oggetti donati per la lotteria, per l'ultimazione della nuova cappella dell'Oratorio predetto, e visto il filantropico e benefico scopo cui tende siffatta istanza, mi son fatto premura di assecondarla [356] ed ho perciò disposto presso l'azienda Generale di Guerra, perchè presentandosi:il prenominato D. Bosco o chi per esso, siengli temporariamente consegnate le camere in discorso.
Partecipo siffatta determinazione alla S. V. Ill.ma per norma della Commissione per la lotteria predetta e del sacerdote Bosco.
IL MINISTRO SEGRETARIO DI STATO
Ma crescendo sempre il numero dei doni, quelle tre camere erano evidentemente insufficienti; perciò D. Bosco si rivolse all'Abate Gazzelli di Rossana, limosiniere di Sua Maestà, perchè volesse appoggiare presso il Sovrano una supplica colla quale chiedevagli di voler concedergli l'uso di qualche sala in una delle fabbriche appartenenti alla Corona. L'Abate Gazzelli riceveva la seguente risposta.
Sovraintendenza Generale della lista civile.
Non essendovi nei reali fabbricati alcun locale di cui si possa disporre per l'esposizione degli oggetti della lotteria che si vuol fare a vantaggio dell'Oratorio di S. Francesco di Sales in Valdocco, io non saprei in quale altro modo si potrebbe secondare la domanda sporta a tale proposito dal Rev. D. Bosco, ed appoggiata da V. S. Ill.ma e M. Rev.da, salvo che appigionando per il detto uso il locale del giuoco del Trincotto o pallacorda in attiguità dell'Accademia filodrammatica. [357]
L'affittavolo di questo locale sarebbe disposto a lasciarlo a D. Bosco per tutto il mese di marzo, ma a condizione che per il giorno primo aprile esso gli sia di nuovo dato compiutamente sgombro, perchè per quell'epoca è già stato affittato come negli anni scorsi alla società promotrice delle Belle Arti, per la sua esposizione annuale.
Prego V. S. Ill.ma di comunicare questo progetto a Don Bosco, ed, ove lo creda di sua convenienza, io avrò l'onore di riferirne a S. M. e di proporle si degni di autorizzare il pagamento del fitto relativo sui fondi della sua particolare cassetta.
Avendo però il detto affittavolo osservato che i telai delle finestre del locale del Trincotto sono di proprietà esclusiva della Società promotrice delle Belle Arti, e che egli perciò non sarebbe autorizzato a farli mettere a sito, sarà bene V. S. Ill.ma informi anche di ciò D. Bosco, onde possa praticare per tempo gli incombenti che stimerà presso la Società sullodata all'oggetto di ottenerli ad imprestito.
In attesa di un di Lei riscontro per opportuno mio governo, ho l'onore di essere con distintissima considerazione,
E il Re faceva spiccare un mandato di 200 lire, per pagare il fitto chiesto dall'utente del Trincotto. Ma essendo troppo breve il tempo che l'affittavolo poteva concedere per l'esposizione, si incominciarono pratiche presso il Municipio, il quale metteva benignamente a disposizione di D. Bosco una vastissima sala dietro alla Chiesa di S. Domenico. Don Bosco ne dava notizia per lettera all'Abate Gazzelli, unendovi [358] un'altra supplica pel Re, e l'Abate trasmetteva i due fogli al Marchese Pamparà. La risposta che ebbe il Limosiniere del Re fu la seguente:
Sovraintendenza Generale della lista civile.
Essendochè pei motivi espressi dal Rev. sacerdote Don Bosco nella lettera che V. S. Ill.ma mi ha trasmesso il 25 scorso febbraio, non potendosi profittare dell'offerto locale del Trincotto per esporre al pubblico gli oggetti di lotteria a pro dell'Oratorio di S. Francesco di Sales in Valdocco, il detto benemerito Sacerdote avrebbe già ottenuto a tal uso un altro locale, S. M., cui ho avuto l'onore di riferire le supplicazioni di D. Bosco, avvalorate dalla commendatizia di V. S. Ill.ma, affinchè gli venga ciò nondimeno largita quella somma che sarebbesi corrisposta al proprietario del Trincotto, si è degnata di accoglierle favorevolmente e di destinare che la somma di L. 200, convenuta per il fitto dei surriferito locale, sia pagata al prefato Sacerdote coi fondi della reale cassetta privata, onde la impieghi nella pia opera intrapresa.
Mentre do questa risposta al pregiatissimo foglio della S. V. Ill.ma sovra datato, mi fo carico di prevenirla che venne già trasmesso alla Tesoreria della lista civile l'occorrente mandato in capo di D. Bosco, ed ho il vantaggio di tributarle gli atti della mia distintissima considerazione.
Riscossa questa largizione sovrana, nel salone concesso dal Municipio si disposero tutt'all'intorno tavole a gradinata, ornate con decoro, sulle quali si misero in mostra tutti i doni numerati, 3007, e col nome dei donatori, e secondo tale ordine registrati in un accurato catalogo. Questo per cura di D. Bosco veniva stampato in un fascicolo di 158 facciate col primo appello della Commissione ai cittadini, col piano della Lotteria e l'elenco dei promotori e delle promotrici. Si vendeva al prezzo di 50 centesimi a beneficio dell'Oratorio di S. Francesco di Sales nella sala dell'Esposizione e presso i librai Giacinto Marietti e Paravia.
Con gentile pensiero D. Bosco vi aveva posto nelle prime pagine la seguente dedica.
CHE NELLA LORO PIETA' GENEROSAMENTE CONCORSERO
A RENDERE RICCA E COPIOSA IN OGGETTI
PER ULTIMARE LA CHIESA DELL'ORATORIO MASCHILE
IN ATTESTATO DELLA PIÙ VIVA GRATITUDINE
D. Bosco in mezzo a tutto questo avvicendarsi di cose aveva scritto al Conte Camillo di Cavour, pregandolo eziandio [360] di farlo esentare dalle spese di posta. Il Marchese Gustavo gli aveva risposto in questi termini:
Mio fratello avendo esaminato il richiamo di V. S. M. Rev.da per la lotteria di beneficenza in favore dell'opera dei giovani abbandonati, mi incarica a farle sapere ch'egli è pienamente deciso a darle senza verun indugio l'autorizzazione voluta a questo fine, tosto che gli sarà pervenuta regolarmente l'opportuna richiesta. Veda pertanto di sollecitare nell'ufficio competente la spedizione della cosa per le necessarie formalità. A questo fine potrà, ove il voglia, rendere ostensiva a chi sarà del caso questa mia lettera, ed asserire che il Ministro delle finanze ha già preso positivo impegno di concedere l'anzidetta autorizzazione.
Colgo l'opportunità onde profferirmi con predistinti sensi di considerazione,
D. Bosco gli aveva mandato il memoriale e il Governo gli condonò varie spese di posta, sia per circolari e pieghi, sia per inviare e ricevere doni e biglietti. Senonchè , mentre i disegni di D. Bosco procedevano a gonfie vele, ecco un incaglio. Secondo le prescrizioni della legge i biglietti da estrarsi dovevano essere in numero proporzionato al valore dei doni. Quindi fu delegato dall'Autorità un estimatore che [361] ne facesse la perizia. Venne fatta; ma D. Bosco si credette leso e presentò un reclamo in carta bollata all'Intendenza Generale.
Ill.mo signor Intendente Generale,
Il sottoscritto, a nome della Commissione istituita per la lotteria a favore dell'Oratorio di S. Francesco di Sales in Valdocco, espone rispettosamente a V. S. Ill.ma che, sebbene detta Commissione sia molto soddisfatta della premura con cui l'estimatore da V. S. delegato fece la perizia intorno agli oggetti di commercio, tuttavia alla medesima rincresce doversi uniformare al giudizio degli oggetti d'arte, che sono fuori della sfera dell'ordinario estimatore, per i seguenti motivi:
1° Perchè molti oggetti d'arte furono stimati nemmeno un quinto del valore dato da persone di notoria capacità, il che sarebbe in danno dell'opera, che i distinti membri della Commissione e la carità pubblica prende a proteggere.
2° Parecchie persone informate dell'inesatto prezzo stabilito agli oggetti da loro donati cessano di concorrere colle loro offerte.
3° Perchè tale perizia cagiona continuamente inconvenienti e ritardi al progresso della lotteria con pubblico rincrescimento e danno dell'opera medesima.
Per questi motivi il ricorrente supplica V. S. Ill.ma a voler prendere in benigna considerazione il vantaggio di questa opera col delegare la persona che meglio crederà dei caso, per fissare il giusto valore agli oggetti d'arte, che la pubblica beneficenza ha già offerto ed offre tuttora.
In simile guisa il sig. Angelo Olivero lasciando a parte gli oggetti d'arte, può continuare la sua perizia per gli oggetti di commercio, ed i membri della Commissione, lieti di [362] poter promuovere il bene di questa pia istituzione, potranno altresì andare al riparo delle lagnanze del pubblico.
Persuaso della grazia, il sottoscritto a nome della Commissione si dichiara
DIRETTORE DELL'ORATORIO DI S. FRANCESCO DI SALES.
La domanda di D. Bosco fu accolta con favore.
L'Intendente Generale della divisione amministrativa dì Torino.
Visto il presente ricorso con cui il sacerdote Gio. Bosco, Direttore dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, a cui è stata autorizzata con decreto di questo Generale Ufficio delli 5 marzo corrente l'apertura d'una lotteria d'oggetti, col quale si farebbe a chiedere la nomina di un perito speciale per gli oggetti di belle arti, non sembrando abbastanza corrispondenti i prezzi apposti ai doni di tal genere dall'estimatore Olivero:
Si nomina a perito per l'estimo degli oggetti di belle arti offerti a favore della suddetta lotteria il signor professore Cusa, segretario della Accademia Albertina, il quale dovrà visitare accuratamente i doni indicati e riportato a fianco di ciascheduno su apposito elenco in carta da bollo il prezzo, corrispondente, farne quindi a mani di questo uffizio la sua giurata relazione.
Esaurite tutte queste pratiche l'Armonia del 21 marzo Domenica, in un supplemento al num. 34, poteva pubblicare il seguente annunzio: “Ieri (19 marzo) si aperse l'esposizione della lotteria di oggetti destinata all'ultimazione dell'Oratorio maschile in Valdocco sotto la direzione del Sig. D. Bosco. Gli oggetti esposti sommeranno in breve a più di tre mila; non parleremo del valore dei medesimi, che la sarebbe troppo lunga cosa, diremo solo che concorsero a questa lotteria ragguardevoli personaggi, fra cui ci è lieto nominare S. M. la Regina Regnante, S. M. la Regina Vedova, il Duca Pasqua, Prefetto dei RR. Palazzi, l'Ill.mo Sindaco della città ecc. Siamo lieti di dire che la Gazzetta Piemontese d'oggi fa di quest'opera di beneficenza i ben meritati elogi”.
Intanto, giudicata accettabile la seconda perizia dei donativi, i promotori e le promotrici continuarono a spiegare uno. zelo mirabile, coll'offrire e cercar doni e poscia nel distribuire biglietti. Il numero totale degli oggetti raccolti ben presto raggiunse la cifra di 3251, e si aggiunse un supplemento all'elenco già stampato. In merito al loro valore si ottenne l'autorizzazione di emettere cento mila biglietti. E anche questa era un'improba fatica se non fosse stata sorretta da un grande amore. La stampa degli intieri quaderni, una doppia numerazione progressiva, il taglio dei biglietti dalla matrice, il timbro dell'Oratorio e la firma di due membri della Commissione sovra ciascun biglietto e sulla matrice, le spedizioni e le registrazioni di queste che furono senza numero; e poi le continue circolari, le quitanze per i pagamenti incassati non concedevano un istante di riposo. In tutte le principali città e paesi dello Stato fu nobile la gara colla quale persone ecclesiastiche e laiche concorsero alla caritatevole opera a di ritenere que' biglietti per sè , o di smerciarli presso i conoscenti ed amici trasmettendone il prezzo a D. Bosco. Ne [364] accettarono anche i senatori, i deputati ed i consiglieri del Municipio.
Egli intanto, come se fosse un nulla tutto questo lavoro, non stancavasi di mandare i suoi autografi alle persone caritatevoli di maggior riguardo con biglietti di lotteria.
Per mezzo di Giovanni Francesia tempo dopo ne mandò uno al Can. Vogliotti. Questi lo lesse e poi disse al latore: “Io non volevo accettare di questi biglietti; ma D. Bosco mi ha scritto una lettera così bella e commovente che non posso fare a meno che mandargli la somma corrispondente. Ecco cinquanta lire. Ma glielo dica che la sua lettera così bella è quella che mi ha convinto e vinto”.
I cittadini accorrevano in gran numero a vedere i premi della lotteria. Il Marchese Gustavo di Cavour aveva promesso di recarvisi.
Varie premurose occupazioni mi hanno fatto indugiare a riscontrare sinora il pregiatissimo di Lei foglio del 18 corrente. Godo che la lotteria da Lei intrapresa per la santa e benefica opera cui consacra tante fatiche si presenti bene. Non mancherò di andare a visitare l'esposizione degli oggetti donati per questo pio scopo e di prendere dei biglietti, e spero che l'opera medesima avrà un vantaggioso risultato da questo divisamento. Avevo sin da principio osservato che il locale di cui poteva disporre per questa lotteria era poco adatto per quel fine, e godo che il Governo gliene abbia concesso un altro più opportuno. [365] Intanto mi valgo di questa opportunità di raffermarmi con predistinta e ben divota considerazione
Il Marchese mantenne la promessa e anche il Conte Camillo si recò a quell'esposizione, accompagnato dal Conte Brozzolo. D. Bosco andò incontro al Conte sulla porta della sala a capo scoperto e lo condusse ad esaminare gli oggetti più preziosi, tenendo sempre umilmente il berretto in mano.
Per evitare che nei locali ove erano esposti i premi s'introducessero i ladri, D. Bosco aveva disposto che il Ch. Buzzetti con un altro giovane adulto andasse a passarvi la notte. Per essere più sicuri, questi solevano tenere presso di sè una piccola pistola carica a sola polvere, per dar l'allarme ai vicini con un'esplosione se ne occorresse il bisogno. Or dunque una sera dei primi di marzo, mentre nell'Oratorio Buzzetti caricava la sua pistola per andare a far la solita guardia, quella prese fuoco, e lo stoppaccio colpendo l'indice della sua mano sinistra tutto lo scarnificò. Fu subito portato all'Ospedale Mauriziano, che allora era presso a Porta Palazzo, ove gli si dovette amputare il dito. Dopo due o tre giorni ritornato col suo braccio al collo, riprese subito i soliti ufficii, insegnando il canto delle antifone per il vespro della Domenica, e non cessando di assistere ai lavori gravosissimi che si andavano moltiplicando per la lotteria. Buzzetti da quest'anno fu il braccio forte di D. Bosco in tutte le molte lotterie che egli fece, ed acquistò una meravigliosa attitudine e perspicacia in queste complicate preparazioni.
NELLO stesso tempo che D. Bosco organizzava la lotteria, col suo volto sempre sorridente, dissimulava una spina acuta, la quale però non aveva forza d'indebolire l'energia delle sue azioni. Abbiamo già esposti i malintesi che sul finire del 1851 avevano incominciato a dividere gli animi di alcuni, i quali s'interessavano per gli Oratorii festivi. Vi erano persone che parevano contrarie al buon andamento dell'Oratorio di Valdocco, perchè D. Bosco non teneva conto delle loro pretese. Andavano a gara nello spargere zizzania fra i giovani che lo frequentavano, non lasciando passare occasione per trarne pretesti a maldicenze. Fra queste eravi specialmente uno il quale, rispettando il suo vero nome, noi indicheremo con quello di D. Rodrigo. Vi fu chi gli prestava orecchio, perchè “le parole del susurrone pajono semplici, ma esse penetrano nell'intimo delle viscere[17]”. [367]
Ma qui si domanderà: Perchè D. Bosco erasi associato tali coadiutori? Perchè erano buoni e zelanti; senonchè , la passione facendo velo alla loro intelligenza, più non ragionavano. - Ma essi non erano testimoni delle tante virtù che ornavano D. Bosco? Le avessero puranco conosciute, nello stato d'animo nel quale si trovavano, non potevano apprezzarle. Del resto avvicinavano D. Bosco solamente nei giorni festivi, occupati nei loro catechismi e in mezzo al trambusto di tante folle di giovanetti, sicchè non avevano tempo a studiarlo con ponderazione. E poi D. Bosco usava tanta semplicità in ogni sua parola, in ogni sua azione, e nei fatti più straordinarii da lui operati davasi così poca importanza, che pervenuti al loro orecchio, erano giudicati con criterii puramente comuni o anche come illusioni di fantasia.
Il Teol. Leonardo Murialdo, alieno da ogni dissensione, sostegno per tanti anni degli Oratorii dell'Angelo Custode e di S. Luigi, amico sincero e costante di D. Bosco, sebbene non suo famigliare per le gravi occupazioni che gli incombevano lungo la settimana, narrava il giudizio che di lui si era formato in questi anni, e come lo avesse riconosciuto dopo lungo studio per quello che era.
“Sulle prime ravvisai in D. Bosco un sacerdote assai zelante, ma senza riscontrare in lui un santo. Cominciai a sospettarlo tale, e la mia stima andò via via crescendo, quando incominciarono a parlare in favore di lui le sue opere, che rivelavano un uomo non ordinario e tale da far proclamare: - Digitus Dei est hic! e che ricordavano, in qualche maniera almeno, il detto di nostro Signore Gesù C.: - Opera quae ego facio in nomine Patris mei, haec testimonium perhibent de me.
“D'altra parte D. Bosco fu uno di quei servi di Dio, i quali costituiscono la santità nel sacrificarsi per la salute [368] delle anime e per la gloria di Dio, secondo il motto che, se non erro, aveva famigliare S. Giuseppe Calasanzio: - Qui orat bene facit, qui juvat melius facit. A me non constano di D. Bosco nè prolungate orazioni, nè penitenze straordinarie; ma mi consta il lavoro indefesso, incessante per lunga serie di anni in opere di gloria di Dio, con fatiche non interrotte, fra croci e contraddizioni d'ogni fatta, con una calma e tranquillità al tutto unica, e con un risultato per la gloria divina ed il bene delle anime al tutto prodigioso. - Ora Dio non suole scegliere a speciale strumento della grande opera della santificazione delle anime uomini nè malvagi, nè mediocri in fatto di virtù”. Così il Teol. Murialdo.
Se adunque allora D. Rodrigo ed i suoi compagni non videro ciò che non vedeva il dottissimo e già molto avanzato nella vita spirituale Teol. Murialdo, non è a farne le meraviglie. Intanto D. Cafasso cercava di ricondurre alla buona armonia gli animi agitati e scriveva la seguente lettera:
Al M. Rev. D. Ponte Pietro presso la Signora Marchesa di Barolo. - Napoli.
Credeva poter rispondere alla carissima sua prima che Ella partisse da Roma, ma non ne ebbi il piacere, e non mi fu in verun modo possibile per la serie continua d'occupazioni e d'imbrogli Venendo subito in questo momento di tempo all'oggetto più importante, io comincio a raccomandarle che deponga ogni sorta d'inquietudine ed affanno sulla risoluzione a prendersi per l'affare che mi nomina, perchè i compagni sono certo che non lo fanno per spirito d'impegno, nè [369] di malumore con Lei, nè per voglia di romperla, che anzi so che sperano sempre nella sua cooperazione, quando il Signore La voglia di nuovo in Torino e fosse pur presto. V. S. in coscienza può determinarsi come crede per esserne veramente padrone, e se vuole che io Le avanzi un mio sentimento, nel presente stato di cose, penso che Ella farebbe bene a cedere ogni cosa, non già ad alcun individuo, ma bensì ad uso degli Oratorii colla facoltà però di servirsene prima d'ogni altro Ella medesima, finchè potrà prestarsi, come spero, per cotesta opera del Signore. Che se pensa far diversamente, operi pure con tutta libertà, e calcoli per non detto quanto Le ho suggerito.
Le ripeto di nuovo di star allegro, quieto e tranquillo ovunque vi saran croci, ma in ogni luogo piace pure al Signore la tranquillità e la pace.
Favorisca dire alla Signora Marchesa che anche di lontano si può pregare a vicenda, e che io non la dimentico nelle mie poche orazioni. Tanti rispetti al Sig. Pellico e mi tenga sempre come Le sono e ben di cuore
Ma le amorevoli istanze di D. Cafasso non approdarono, e intanto nell'Oratorio si svolgeva una scena disgustosa, quale non si vide nè prima nè poi. D. Rodrigo co' suoi compagni avevano ordita una congiura segreta per ridurre al nulla l'Oratorio, come essi stessi dicevano; quindi cercavano di togliere a D. Bosco i giovani più grandi, Germano, Gastini ed altri esterni che erano i catechisti nelle classi. “Una festa, scrisse Brosio Giuseppe, dopo le funzioni della sera, fummo invitati da certi signori ad una conferenza per risolvere una [370] questione che si diceva riguardasse il nostro onore. Alcuni dei più istruiti ed intelligenti subodorarono un tranello, e non intervennero. Infatti si trattava nientemeno che di accusare D. Bosco di averci insultati e disonorati nei fogli pubblici, bollandoci col titolo di vagabondi e di ladri. Questa accusa era un'arma sleale, colla quale si tenevano certi di mettere il disordine, e in parte vi riuscivano, in un'opera che prosperava nel nome di Dio. Radunatici noi catechisti in una stanza dell'Oratorio a pian terreno, D. Rodrigo trasse fuori e ci lesse l'appello scritto e dato alle stampe da D. Bosco per la lotteria. Finita la lettura ci fece rimarcare quella frase: Alcune persone amanti della buona educazione del popolo, videro con dolore farsi ogni giorno maggiore il numero dei giovani oziosi e mal consigliati che, vivendo di accatto o di frode sul trivio e sulla piazza, sono di peso alla società e spesso strumento d'ogni misfare….. Per questo divisarono di aprire una casa di domenicale adunanza”. La maggior parte di quei catechisti erano onesti giovani, appartenenti a buone ed anche agiate famiglie di operai e negozianti, e altri della stessa loro condizione frequentavano l'Oratorio. Come è evidente, l'Appello non faceva cenno di essi, perchè tale non era il suo scopo. Ma l'oratore concludeva: - A voi, proprio a voi allude D. Bosco ed è un'atroce ingiuria della quale dobbiamo chiedergli riparazione!
Quando egli ebbe finito, tra quei giovani irriflessivi si vide una massima agitazione. Io ad un tratto chiesi la parola, e si fece silenzio nella sala. Per conoscere e sventare le trarne di quelle teste riscaldate, bisognava che io non mi dimostrassi loro avversario; quindi presi a parlare in questi termini: Compagni, nessuno di voi mi accuserà di amar meno il nostro onore di quello che lo ami ciascuno di voi. Tuttavia, per non arrischiarci ad una risoluzione prematura, io consiglierei di [371] intenderci ora sul da farsi. Se D. Bosco, riconosciuto l'errore, si piegherà ai nostri desiderii, sia finita ogni questione; se invece rifiuterà di ritrattarsi, il reagire sarà in tal caso inevitabile, ed io pretendo di darvi l'esempio di uomo che sa qual rispetto sia dovuto a se stesso e alla propria famiglia; voi mi vedrete difendere pel primo ciò che più ci sta a cuore: la stima dei nostri concittadini. Ma prima di venire a questo estremo esaminiamo con calma se le frasi di quell'appello richiedano da parte nostra una protesta violenta. Io temo che noi ci mostriamo troppo suscettibili. Si osservi se veramente noi siamo offesi e se quelle frasi ridondano a nostro disonore. Si è data loro un'interpretazione che non mi sembra genuina. Io credo che, se nell'Appello non vi è un periodo che distingua le due categorie dei giovani dell'Oratorio, ciò si debba forse ad un errore di stampa, oppure ad una ommissione involontaria di un copista, perchè temerei mostrarmi troppo audace e maligno, se credessi che con ciò D. Bosco abbia voluto attentare all'onore di giovani che tanto egli ama. Vediamo adunque se la questione non possa accomodarsi all'amichevole. È mio parere che una semplice rimostranza fatta da noi a D. Bosco sia più che sufficiente per ottenere spiegazioni; ed anche una soddisfazione se realmente ci spetta di buon diritto. Egli stesso sarà il primo a proporre il mezzo di una riconciliazione, tanto da lui desiderata e che non dobbiamo respingere. Per tal modo si eviteranno a lui e a noi dei gravi dispiaceri, che potrebbero essere causa di guai maggiori per ambe le parti, senza verun buon effetto e con pericolo di averne noi la peggio.-
Io tacqui parendomi di aver concesso anche troppo al loro irragionevole, focoso risentimento. Un silenzio glaciale accolse le mie parole, e quindi a poco a poco da un mormorio di disapprovazione si passò a tali schiamazzi che quella [372] adunanza pareva una congrega di spiritati. I promotori e fautori di quella specie di rivolta non si lasciarono sfuggire una così propizia occasione per i loro intenti. Avevano tollerato che io parlassi in favore della pace e della concordia per nascondere più facilmente le loro insidie, per mettere a prova gli animi dell'assemblea, e per assicurarsi della vittoria.
Perciò appena furono acquietate alquanto le grida, si alzò D. Rodrigo, e fattosi rigoroso silenzio, così parlò: - Miei cari amici, io amo il vostro onore, quanto colui che ora avete ascoltato, ma io l'amo in modo diverso. Io voglio vedervi tenere alto il sentimento della vostra dignità. (Voci: Bravo!) Certamente io sono amico della pace (?) e mi crederei degno dell'esecrazione di tutti se spingessi i nostri amici ad un dissidio senza motivo: ma chi non scorge motivi nel caso, presente? Siete forse voi, o cari amici, che avete provocato, D. Bosco, o è lui che col suo imprudente appello ha spinto agli estremi la vostra pazienza? (E’ vero: Bravo!) Il vostro compagno Brosio, che ha parlato or ora, ha detto che amichevoli osservazioni basterebbero a far correggere le frasi di quella circolare e a riparare così il vostro onore. Ma sapete voi, o amici cari, come finirebbero nelle presenti circostanze le amichevoli trattative? Ad una mascherata, ad una farsa umiliante di più; vi sentirete rimproverare questa stessa conferenza nella quale ora trattiamo dei nostri diritti, e voi sarete invitati a chiedere venia (agitazione). Sì! delle scuse! Volete mandare a quelli che calpestano il vostro onore una deputazione incaricata di presentar loro delle scuse? Dite! Lo volete? -
In quel momento scoppiò nella stanza un ruggito di furore e fu deciso che tutti dovessero abbandonare l'Oratorio e D. Bosco. Così venne proclamato lo scisma”.
D. Rodrigo e i suoi complici avevano il loro piano prestabilito. [373] D. Cocchi Giovanni, ripreso il suo antico disegno,di Oratorio festivo, aveva domandata la Cappellania di San Martino ai Molini di città e la facoltà di radunarvi i ragazzi nei giorni di festa; e il Municipio gliela concedeva con suo Ordinato del 15 febbraio 1852. Questa chiesuola era stata una delle prime stazioni fatte da D. Bosco, quando andava in cerca di un luogo per fondare stabilmente l'opera sua. Presso S. Martino adunque que' signori piantarono il loro quartiere generale per la guerra contro D. Bosco, e più non si videro in Valdocco. D. Cocchi che non aveva ragioni sufficienti per giudicare dei loro litigi, a cagione della necessità nella quale si trovava di aver coadiutori, li associò, alla direzione del suo nuovo oratorio. Quivi incominciarono a convenire prestando il loro ufficio i catechisti disertori di Valdocco la domenica dopo il giorno di quella malaugurata conferenza. Alla sera tre giovani adulti dei più sfacciati si presentarono a D. Bosco con varii pretesti per questionare sull'Appello per la lotteria. “Io era nel cortile, scrive ancora Giuseppe Brosio, che tratteneva i giovani colla manovra militare e, passando a caso vicino alla sagrestia, udii che là dentro si vociava forte. Entrai per vedere che cosa ci fosse di nuovo, e vidi un giovanastro che allora allora aveva finito di parlare. Nella sua faccia sconvolta si leggeva lo sdegno e il disprezzo. Mi fermai e udii che D. Bosco tutto tranquillo gli rispondeva, come nell'Appello non si parlasse in modo particolare delle varie classi dei giovani che intervenivano all'Oratorio, ma sibbene in modo generale, cioè della maggioranza di coloro che intervenivano; e nel generale esservi nell'Oratorio appunto di quei giovani ai quali la circolare accennava. Per conseguenza il giovane onesto e dabbene, da tutti per tale conosciuto, e al quale era affidato l'ufficio di catechista, non doveva prendere in mala parte un periodo che non era per lui; anzi si doveva gloriare di venire in [374] simile oratorio per cooperare ad una buona opera. - E così dicendo D. Bosco citava i nomi di molti giovani distinti di famiglie onorate, e di rispettabili signori che venivano all'Oratorio per questo fine: e terminava con osservare come nessuno di costoro avesse pensato di aver ricevuto offesa da lui, e come fosse impossibile supporre che D. Bosco concepisse l'idea stolta di volerli offendere ingiustamente e con suo danno.
Ma quel giovinastro che insieme cogli altri due era stato mandato dagli avversari a imporre una riparazione di onore, infiammato dall'ira non intendeva e neppure ascoltava le ragioni di D. Bosco e quindi profferiva termini ingiuriosi e villani contro di lui e di tutti i giovani dell'Oratorio, dicendo che D. Bosco in quell'Appello aveva dipinto con verità se stesso e i suoi, e che perciò i proprii compagni avevano fatto bene ad allontanarsi da un covo di simile gentaglia. Il guanto della sfida era gettato ed io l'accettai a nome di tutti i giovani che si erano appressati e fremevano. Coi pugni stretti mi avanzai contro il malcreato, ma D. Bosco mi trattenne colla benevolenza di un padre amantissimo, che sapeva compatire. Prendendo poi le difese dei figli oltraggiati, rimproverò severamente quell'insensato, dicendolo un biricchino, e minacciando di cacciarlo dall'Oratorio. Questi, vista la mala parata, abbassò le ali e si ritirò cogli altri due; ma pur troppo che dopo poco tempo egli si fece conoscere per quel che era; e si aggregò a compagnie così scandalose, che perdette irreparabilmente, presso coloro che lo conoscevano, quell'onore del quale vantavasi così geloso”.
I chierici dell'Oratorio non avevano preso alcuna parte a questi trambusti, e D. Bosco non ne parlava volentieri. Il Ch. Savio Ascanio diceva: - Io non ho mai udito D. Bosco mormorare contro qualche suo avversario. A me, che una volta lasciai sfuggire una piccola critica, fece pronta e benevola correzione.
DON RODRIGO e i suoi emissarii non lasciavano di avvicinarsi di quando in quando all'Oratorio di Valdocco per invitare i più adulti ad andare con loro a passeggio fuori di città, pagando essi i pranzi e le merende agli alberghi: sicchè quasi tutte le feste mancava alle funzioni un certo numero di quei giovani. Erano specialmente smaniosi di togliere a D. Bosco il Brosio, che sembrava essere, ed era, il suo braccio destro. Prima gli offersero regali in danaro ed in oggetti affinchè servisse al loro partito, rimanendo però in vedetta a Valdocco. Un beneficiato di S. Giovanni gli promise molti vantaggi se si fosse ascritto all'Oratorio dei Filippini e lo avesse frequentato. Brosio però che voleva preparare le sue contromine, faceva loro buona cera e dava ambigue risposte.
Egli così descrisse i tranelli degli avversari di D. Bosco.
“Una festa venne D. Rodrigo ad invitarmi per una passeggiata in campagna, ed io feci subito parte, a D. Bosco di [376] questa proposta, benchè mi fosse stato da lui proibito di parlargli di quelle spiacevoli radunanze. D. Bosco mi permise di accettare, ed io andai volentieri per vedere qual piega prendessero le cose. Alla Domenica seguente dopo le funzioni del mattino partii adunque dall'Oratorio per ritrovarmi al posto convenuto, cioè a Porta Palazzo. Ivi erano già tutti gli altri compagni, che mi aspettavano coi signori capi della Cricca, i quali però credevano che non sarei andato. Al vedermi comparire fecero una gran festa e per la contentezza mi baciarono ed abbracciarono. D. Rodrigo esclamò: - Oggi la festa sarà più bella perchè abbiamo con noi il nostro intimo amico, il nostro caro bersagliere! - Quindi partimmo; prendendo lo stradale di Milano, siamo andati all'albergo del Centauro, e appena giunti colà ci vennero serviti dei rinfreschi. A mezzodì era apparecchiato un pranzo sontuoso: non si poteva desiderare di più. I vini erano squisiti ed in grande abbondanza. Dopo il pranzo incominciarono i divertimenti.
Si giocava alle bocce, si cantava, si correva e sempre serviti di ottimo vino. In tal modo si passò tutta la giornata. Verso sera ritornammo in città e quando giungemmo a Porta Palazzo, andammo tutti non alla benedizione, ma a prendere il caffè, e dopo ci siamo disciolti per recarci ciascheduno alla propria abitazione coll'invito però di ritrovarci tutti alla domenica successiva di mattina nella chiesa di S. Martino.
Io invece di andare a casa venni nell'Oratorio per rendere conto a D. Bosco di tutta la giornata, e a domandargli come dovessi regolarmi per la Domenica successiva. D. Bosco, dopo di avere ascoltato tutto, mi disse di andarvi. Alla Domenica prefissa ci siamo trovati alla Chiesa indicata. Finita la messa, fummo condotti al caffè detto delle Gallerie di S. Carlo, che si trovava a Porta Nuova (ora via Roma) a fare colazione. [377]
In queste due circostanze le prediche non mancavano d'incoraggiarci ad abbandonare l'Oratorio, dicendoci che Dio si trovava dappertutto e che in qualunque luogo chi voleva poteva farsi santo.
Al dopo pranzo ritornai all'Oratorio per far di tutto consapevole D. Bosco, dicendogli che era invitato di nuovo per la Domenica prossima ad una gran merenda: ma D. Bosco non mi lasciò più andare con quella brava gente.
D. Rodrigo mi aveva regalati sei scudi d'argento (30 lire) sperando con ciò di meglio raggiungere il suo scopo che era di legarmi indissolubilmente alle loro radunanze. Io non voleva accettarli; ma egli mi addusse tante ragioni, mettendo nello stesso tempo i danari nelle mie mani, che io restai confuso e incantato come una statua di marmo. Appena ebbi quei denari, perdetti la mia pace, fui preso dai rimorsi, credendo di aver già tradito D. Bosco pel solo fatto di averli accettati, e li diedi subito in elemosina ad un povero padre di famiglia che ne aveva estremo bisogno. Dopo ciò corsi all'Oratorio per esporre a D. Bosco il mio operato, ed egli mi disse che avrei potuto tenerli i danari senza scrupolo, ma che aveva fatto una bell'opera a darli in elemosina”. Così il Brosio.
D. Rodrigo non mancava di danaro, e difatti ne era largamente provvisto e per molto tempo da persone ricchissime, le quali credevano sinceramente di concorrere ad opere di carità. Siccome la lingua batte dove il dente duole, Don Rodrigo, che aveva molte relazioni in città, sparlava del povero D. Bosco con una passione che egli battezzava per zelo; e perciò aveagli alienato l'animo di molti fra coloro che lo soccorrevano. Crediamo che sia di questi tempi un fatto che narrò il Teol. Leonardo Murialdo, relativo alla mansuetudine di D. Bosco: “Un giorno egli confidenzialmente mi riferiva il danno che gli era stato recato da persone che [378] avevano mormorato a suo carico e ciò che egli aveva giudicato di dover dire al capo dei mormoratori: - Veda un po' il danno che Ella mi ha fatto, gli disse: Ella mi ha obbligato a cangiare tutti i miei benefattori! - D. Bosco non aveva dubbi sull'incremento delle sue opere, poichè era sicuro che di benefattori ne avrebbe sempre avuti: era il cambiamento che gli rincresceva, ritirandosi da lui taluni de' suoi primi e cari sostegni”.
Ma ad aiutare D. Bosco in questa lotta concorreva Mons. Fransoni. Dal luogo del suo esiglio essendo stato informato di queste male arti, da prima incoraggiò D. Bosco e poscia lo volle premunire; onde con un decreto lo stabilì ufficialmente Direttore-Capo di tutti gli Oratorii da lui fondati. Ecco il tenore di questo decreto o patente.
CAV. DEL SUPREMO ORDINE DELLA SS. ANNUNZIATA
PER GRAZIA DI DIO E DELLA SEDE APOSTOLICA
Al Molto Rev. Sig. D. Giovanni Bosco da Castelnuovo, Sacerdote della nostra Diocesi: Salute.
Congratulandoci con Voi, degno Sacerdote di Dio, che abbiate con industre carità saputo stabilire la non mai abbastanza commendevole Congregazione dei poveri giovani nel pubblico Oratorio di S. Francesco dei Sales in Valdocco, giudichiamo cosa giusta il testificarvi, mercè le Presenti, il nostro perfetto gradimento con deputarvi effettivamente Direttore Capo Spirituale dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, a cui vogliamo siano uniti e dipendenti quelli di San Luigi Gonzaga e del S. Angelo Custode, affinchè l'opera intrapresa con sì felici [379] auspizi progredisca e si amplifichi nel vincolo della carità, a vera gloria di Dio, e a grande edificazione del prossimo, conferendovi tutte le facoltà, che sono necessarie e opportune al santo scopo.
Mandiamo intanto ad inserirsi negli atti della nostra Curia Arcivescovile queste Patenti per originale, con facoltà al nostro Cancelliere di rilasciarne copia.
Dato in Torino addì trent'uno di Marzo l'anno mille ottocento cinquanta due.
Firmato: FILIPPO RAVINA Vic. Generale,
e manualmente sott. BALLADORE Cancell.
Per copia conforme all'originale
Torino, li 12 Maggio 1868] In fede
Teol. GAUDE Pro Cancelliere.[18] [380]
Anche al Teol. Murialdo, il quale cooperava grandemente alla riuscita dei progetti di D. Bosco nell'Oratorio di Vanchiglia, l'Arcivescovo dava il seguente attestato di stima.
CAVALIERE DELL'ORDINE SUPREMO DELLA SS. ANNUNZIATA
DELL'ORD. DEI SS. MAUR. E LAZZARO
PER GRAZIA DI DIO E DELLA SEDE APOSTOLICA
Al M. Rev. Sig. Teol. Norberto Murialdo Sacerdote Torinese:
In considerazione dello spontaneo impegno e caldo zelo, con cui da degno sacerdote attendete con diligenza ed assiduità alla Cristiana istituzione dei poveri giovani, che si radunano nel pubblico Oratorio del Santo Angelo Custode nella regione Vanchiglia di questa città, crediamo pregio dell'opera il darvi mercè le Presenti una pubblica testimonianza del nostro pieno gradimento con deputarvi effettivo Direttore Spirituale del sullodato Oratorio sotto la sola condizione che per voi si conservi sempre fedelmente l'unità e la dipendenza dal Sig. D. Giovanni Bosco, Direttore Capo dell'Oratorio di S. Francesco di Sales in Valdocco e fondatore di questa Pia istituzione, conferendovi al santo scopo le facoltà necessarie ed opportune.
Mandiamo intanto ad inserirsi negli atti della nostra Curia [381] Arcivescovile questo decreto per originale con facoltà al nostro cancelliere di rilasciarne copia.
Dato in Torino addì trentuno marzo mille ottocento cinquanta due
Firmato in Originale FILIPPO RAVINA Vic. Gen.
Sigil. e manuale BALLADORE Cancell.
Una sconfitta più dichiarata non potevano subire gli avversari di D. Bosco. Ogni loro pretensione di supremazia nei tre Oratorii era andata in fumo. - Sei sono le cose, dicono i Proverbi, che il Signore ha in odio e la settima è all'anima di lui in esecrazione:... il testimone falso che spaccia menzogne e colui che tra fratelli semina discordie[19].
Ma intanto che cosa avveniva degli antichi catechisti? Non avevano osato abbandonare interamente D. Bosco; ma al mattino delle Domeniche si presentavano a lui per qualche istante e poi correvano al novello ritrovo, dove aspettavali D. Rodrigo. Alla sera non comparivano, radunandosi, tutti nell'Oratorio di S. Martino. D. Bosco un giorno a Gastini Carlo disse queste gravi parole: - Tutti mi abbandonano, ma ho Dio con me e di che debbo temere? L'opera è sua e non mia, ed egli penserà a condurla innanzi.
D. Bosco per qualche domenica pazientò; ma vedendo che quel brutto scherzo continuava, decise di finirla con [382] quelli che volevano tenere, come si dice, un piede in due staffe. Nel mattino di un giorno festivo, mentre essi facevano la solita apparizione, li radunò nella sua saletta da pranzo. Costoro gli avevano regalata una campanella a mano che, suonata in cortile, doveva chiamare i giovani alla Messa. D. Bosco intravide nell'intenzione di alcuni di quegli offerenti un secondo fine. Tuttavia incominciò a manifestar loro la propria riconoscenza, ma concluse francamente e con calma: - Io non son contento di voi: chi vuol andare, vada; chi non vuol più venire, rimanga pure dove meglio gli piace. Io mi formerò nuovi catechisti. Ho cominciato da capo altre volte e son pronto a ritornare da capo anche oggi. - Ciò detto, li guardò fissamente con faccia ilare e si ritirò. Quei mal consigliati vennero ancora la seguente domenica: circondarono D. Bosco, ma senza dargli alcun segno di affezione, quindi scomparvero e più non si fecero vedere nell'Oratorio di San Francesco di Sales. Presso quello di S. Martino essi avevano a merenda pollastri, salame, dolci, frutta e vino e altri camangiari. Ma erano poi veramente contenti? Uno di questi incontratosi un giorno col compagno Francesia gli disse: Là a S. Martino si sta bene; ma ci manca qualche cosa che ci faceva andare più volentieri all'Oratorio di Valdocco. Questo qualche cosa era D. Bosco colla sua paterna affabilità, colla sua carità scevra di ogni interesse.
Infatti questi giovani, passati i bollori di quei primi anni, ravvivarono talmente l'affetto per D. Bosco, che ritornati a stringersi intorno a lui, gli furono amici teneri e costanti per tutto il tempo di sua vita. D. Bosco ne li ripagava. Non aveva dimenticati i servizi che avevano reso a lui e all'Oratorio come catechisti; e dimenticò i dispiaceri che gli avevano recati in un istante di eccitate passioni. Quindi accoglieva sempre con gran festa quelli che, conseguita [383] onorevole professione in società, venivano a visitarlo o a passare un giorno con lui, altri bisognosi ricoverò in sua casa e qualcuno ebbe ufficio e paga conveniente nei laboratori dell'Ospizio, perchè , poco valente nell'arte sua, non avrebbe potuto somministrare il necessario alla propria famiglia.
Fervendo però le animosità, Brosio al vedere che in tali momenti una riconciliazione non era possibile, troncò ogni attinenza coi novatori. “Alla gran massa dei giovani, egli continua a scrivere, nulla importava delle bizze di quei signori, ed erano tutti per D. Bosco. Di ciò D. Rodrigo era indispettito vedendo che faceva fiasco, e D. Bosco per sventare le sue arti accrebbe tutti i divertimenti con nuovi dilettevoli giuochi. Siccome il cortile non era sufficientemente largo per le nostre manovre e per le partite delle bocce, si andava nel campo e nel gerbido, ove ora è la Chiesa di Maria Ausiliatrice a giuocare e a fare gli esercizi militari. Più volte, per dare maggior sfogo al nostro battaglione, ci siamo spinti fino sui prati del Borgo S. Donato, sempre manovrando per la campagna, facendo così una passeggiata militare. Giunto colà andavo a comprare due grossi cesti di frutta coi danari che mi aveva dati D. Bosco per questo scopo, e ne faceva la distribuzione a tutti i miei soldati. La ginnastica e la corsa a piedi erano sempre all'ordine del giorno. Sovente invitava alla corsa anche D. Bosco, che accettava e, cosa che faceva tutti stupire, prendeva quasi sempre il premio assegnato al primo che giungesse alla meta”.
Ma D. Bosco intanto colla sua ferrea volontà erasi rifatto da capo per provvedersi di nuovi catechisti, tanto più che una parte degli avvenimenti erano accaduti sul principiare delle istruzioni quadragesimali. La quaresima era incominciata il 25 febbraio e finiva colla Pasqua l'11 aprile, ed ei non poteva distrarre il personale dall'Oratorio di S. Luigi, nè da quello de' Santi Angeli Custodi, che radunavano circa un [384] migliaio di fanciulli, ai quali facevasi anche un po' di scuola. Degli antichi in Valdocco eragli rimasto il solo giovanetto di 14 anni Giovanni Francesia, che abitava ancora presso i suoi parenti. A questi aggiunse allora Giovanni Cagliero, altri suoi coetanei interni e qualche chierico, che furono sempre pronti a suoi cenni. Erano, si può dire ragazzi, eppure ebbero ciascuno la propria classe di venti o venticinque vivaci monelli; e si impegnavano di compiere il loro ufficio. Quindi benchè più d'uno dei loro scolari fosse più grande del suo catechista, non veniva mai a nessuno per il capo la voglia di disturbare. E poi D. Bosco girava sorvegliando. Aveva prescritto che si insegnasse a studiare il catechismo alla lettera, facendone dare anche di quando in quando pubblici saggi, e distribuendo piccoli premii. I nuovi catechisti, con una disinvoltura e prudenza superiore alla loro età, assistevano nei giorni festivi i molti esterni mentre si preparavano per confessarsi, durante la santa messa e la predica che si faceva subito dopo, le funzioni della sera, e durante le ricreazioni. Sovente erano incaricati di distribuire un pane anche ai giovani esterni, tanto più se avevano fatta la S. Comunione, poichè a molti di essi riusciva di grande disagio il ritornare digiuni a casa loro per la colazione. D. Bosco godeva nel vederli fare così buona riuscita, e non si stancava di ripetere loro: - Per carità, raccomando di non lasciare mai soli i giovani, ma di assisterli sempre, continuamente e dovunque. - E per animarli spiegava loro quel motto di S. Agostino: Animam salvasti, animam tuam praedestinasti.
I catechismi della quaresima volgevano al termine, benedetti in modo evidente dal Signore, e si incominciava il triduo di preparazione per la Pasqua, che rimase impresso nei giovani per un aneddoto così descritto dal Prof. Raineri.
“Si era presso la Pasqua: la sera d'un giorno feriale, Don [385] Bosco faceva l'istruzione sul tema: Fuggire le occasioni del male, fuggire i pericoli. Ad un certo punto disse: - Chi non vuol bruciare, stia lontano dal fuoco. - Ecco, proprio in quell'istante, prendono fuoco le scatolette dei fiammiferi che un giovinetto giardiniere aveva in tasca per portare a casa. Tosto si alza fumo, ed un crepitare intenso si fa sentire, così da attrarre l'attenzione di tutti. Non mai precetto fu così prontamente seguito e confermato dall'esempio. Tutti risero di cuore e dettero ragione al precettore, che rise pure egli; ma il suo riso si vedeva, non si udiva mai”.
Anche gli altri Oratorii portavano ottimi frutti. Quivi D. Bosco era sempre coadiuvato da zelanti sacerdoti e dal Teol. Borel, il quale passava sovente da un Oratorio all'altro catechizzando e predicando con mirabile ardore ed efficacia. Egli tuttavia di quando in quando vi interveniva, e con quanta gioia e con quante grida di evviva egli era ricevuto dai giovani! In queste sue visite egli soleva far la predica, e dopo le funzioni procurava di avere a sè i ragazzi, e rivolgeva a ciascuno un consiglio particolare molto appropriato e conveniente all'indole, quasi fosse stato sempre loro amico intimo. E Iddio lo benediva, e molti giovani che prima davano poca speranza di buona riuscita, uscivano dagli Oratorii migliorati, e si diportavano da uomini di fede e di onore negli impieghi che poi occupavano.
Finite le feste pasquali i nuovi catechisti, i quali appartenevano alla Compagnia di S. Luigi, continuarono con ardore crescente ed estesero la loro missione anche agli alunni interni. D. Bosco bramava che tutti imparassero le laudi sacre e il canto gregoriano, e nel 1852, come aveva già incominciato nell'anno antecedente, cessavano le scuole al sabato sera perchè s'imparassero le antifone e il salmeggiare per il vespro della Domenica. Tutte le sere vi era pure il catechismo [386] per quelli più ignoranti delle cose di religione, volendo Don Bosco ammetterli alla Comunione appena ne fossero capaci. - Bisogna, ci diceva, che il Signore prenda possesso dei loro cuori prima che vengano guasti dal peccato. - Tutto ciò ei faceva o per sè o per mezzo de' suoi catechisti, i quali eziandio supplivano a qualche maestro mancante nelle scuole serali.
Si adoperavano inoltre per le funzioni di chiesa. Nel 1851 D. Michelangelo Chiatellino aveva scritta la musica di una Messa e quella di alcune terzine di Litanie da lui regalata a Don Bosco; essi l'impararono ed eseguirono con molto piacere, e poi l'insegnarono ai nuovi cori che per anni si andarono formando. Oltre a ciò avevano imparato ad assistersi a vicenda ed è questo il motivo per cui non accadevano disordini di qualche entità. Talvolta certe ricreazioni potevano recar sorpresa a qualche intransigente. Non essendovi allora luoghi abitati intorno all'Oratorio, i giovani scorrazzando si spingevano fino ai prati della cittadella lontani quasi un mezzo chilometro; ma in mezzo a loro correva eziandio e guidava le mosse uno di quei più zelanti, che li riconduceva indietro per radunarli affettuosamente intorno a D. Bosco.
Ogni burrasca adunque erasi acquietata nell'Oratorio e nel giornale moderato ma cattolico, la Patria, usciva un magnifico articolo in lode della Storia Sacra di D. Bosco. D. Cocchis, chiamato intanto ad altre fondazioni, specie a quella degli Artigianelli, aveva affidata la direzione dell'Oratorio di S. Martino a D. Ponte. Questi, ritornato dal viaggio colla Marchesa Barolo, attese con grande ardore all'istruzione dei fanciulli del popolo fino al 1866. In quest'anno si ritirava, rimettendo il suo Oratorio alla società di S. Vincenzo de' Paoli, che ne diede al Rettore degli Artigianelli la direzione spirituale, e che ora trasferito al di là della Dora in locale proprio, raccoglie nelle feste oltre a 400 giovanetti.
L'ANNO 1852 una terribile sventura, come fulmine a ciel sereno, piombava sopra la città di Torino, la quale poco mancò che non divenisse un cumulo di rovine e la tomba de' suoi abitanti.
In mezzo al Borgo Dora, presso al cimitero di S. Pietro in Vincoli, sorgevano una fabbrica e tre magazzini da polvere. Talora vi stavano raccolti più migliaia di chilogrammi di polvere da mina e da caccia; e quindi il detto Borgo e la città intiera avevano nel loro seno un pericolo formidabile.
Or bene, erano le undici e tre quarti antimeridiane del 26 aprile, quando per causa della imperfezione di una macchina si eccita una scintilla in un laboratorio. In men che non si dice, il fuoco si appicca a due granitoi laterali, passa ai frulloni, indi alla polvere distesa all'aperto. L'incendio di quest'ultima mette il fuoco prima ad un piccolo magazzino di polvere da caccia, e poscia ad un altro di polvere da [388] mina, che, a breve istante l'uno dell'altro, scoppiano con un rombo tremendo, udito a quindici miglia all'intorno, facendo traballare la città, sgangherando usci e, porte, e non lasciando alle finestre chiuse un vetro intatto. La grossa fabbrica di polvere salta in aria, le case vicine si rovesciano, due file di annosi gelsi sono troncati a mezzo come tenere pianticelle; pietre, chiodi, spranghe di ferro, travi infuocate volano per aria, e piombano sui palazzi, nelle vie e nelle piazze, come proiettili d'immensa bomba, minacciando strage e morte; a 400 metri di distanza cadono sassi di 10, 15 e 20 miriagrammi l'uno; gli uomini addetti alla polveriera, o colpiti a morte, o bruciati, o sepolti, schiacciati sotto le macerie, sono ventuno; i feriti trentacinque. Intanto una densa nuvola di fumo come un funereo manto si stende sopra tutta Torino, le toglie la vista del sole e la riempie di terrore; pare giunto il finimondo. Chi grida, chi piange, chi fugge senza saper dove, perchè dai più s'ignora da principio il luogo e la causa del disastro. Corsane a poco a poco la voce, molti dall'interno della città volgono i passi verso la polveriera; ma giunti nelle sue vicinanze ne vengono trascinati indietro dalla calca fuggitiva delle vicine contrade, che annunzia imminenti peggiori disastri. Varii per altro dei più coraggiosi insieme coi soldati e colle guardie nazionali, il sindaco Bellono colle civili autorità e la stessa reale Maestà di Vittorio Emanuele col Duca di Genova e coi Ministri, si portano sul luogo della desolazione; tra questi vi fu anche il nostro D. Bosco.
Nel momento del primo scoppio trovavasi egli nella sala dell'esposizione degli oggetti dell'anzidetta lotteria. Al fragore, che aveva scosso tutti gli edifizi, egli era disceso nella pubblica via, per sapere che fosse avvenuto. In quell'istante si fa sentire il secondo scroscio, ed un momento [389] dopo un sacco di avena dall'alto gli cade accanto, poco mancando che lo schiacciasse. Non tardò ad argomentare che aveva preso fuoco la polveriera, distante dall'Oratorio poco più di 500 metri. Si dirige tosto a casa, nel timore che fosse accaduto qualche sinistro; ma la trova vuota, chè tutti sani e salvi erano fuggiti nei vicini campi e prati. Allora, senza mettere tempo in mezzo, e senza badare al pericolo, egli vola sul luogo del disastro, a fine di recare a qualche infelice il soccorso del sacro ministero. Per via s'imbatte nella madre, che tenta d'intrattenerlo, ma indarno. Sopraggiunge Carlo Tomatis, e D. Bosco gli ordina: - Torna indietro, va' in cerca delle monache che sono fuggite qua e là per le piazze e per le vie dai loro monasteri e conducile tutte in Piazza Paesana. Là vi è un omnibus che le trasporterà a Moncalieri dalla Marchesa Barolo. - Tomatis corse ed eseguì il comando ricevuto, non sapendo intendere come D. Bosco senza preavviso conoscesse le disposizioni prese in quel frangente dalla Marchesa. D. Bosco intanto arrivato sul luogo, potè a stento farsi strada tra le immense ruine. Quale straziante spettacolo! Pezzi di cadaveri, gambe e braccia sparsi qua e colà! Voci dolenti che ancora uscivano dalle fumanti macerie! E, quello che era più spaventoso, l'imminenza di un terzo scoppio, che avrebbe fatto macello di tutti i vicini, e dei più lontani ancora. Imperocchè i due magazzini, che avevano preso fuoco e menata sì orrenda strage e rovina, non contenevano che pochi miriagrammi di polvere; ma a pochi metri da quelli un terzo ancor se ne trovava col tetto divelto, con gli edifizi circostanti tutti in fiamme riempienti l'aria di scintille, e che di polvere ne conteneva ben quarantamila chilogrammi! Era un terribile vulcano, che, se prendeva fuoco, forse non solo il Borgo Dora, ma buona parte di Torino sarebbe crollata da capo [390] a fondo; e tal pericolo era imminente. Or chi salverà Torino? La salverà Maria per mezzo di un suo divoto, il cui nome è ben giusto che da noi sia pure tramandato alla più tarda posterità.
E questi il sergente foriere Paolo Sacchi da Voghera, capo degli operai addetti alla fabbrica, scampato come per miracolo dall'orribile strage. Per ben due volte dalla violenza degli scoppi egli è stramazzato a terra siccome morto; si alza nondimeno, invocando Maria SS., e colle membra peste, colla faccia, colla testa e colle mani abbrustolite, mettendo sangue persino dalle orecchie rintronate e sconvolte, in mezzo ad una confusione indescrivibile, tra il macello de' suoi operai, tra i pianti e le grida di disperazione, egli mostra una perspicacia e spiega tale un coraggio, che è superiore ad ogni encomio. Vinti i ripetuti sbalordimenti che gli avevano cagionato gli orrendi scrosci, egli si avvede che è ancor salvo il terzo magazzino, ma che il fuoco già si è appiccato ad una coperta che vi si trovava. A questo pericolo di vicina morte egli non fugge, no, ma sentendosi spinto come da una forza superiore, corre, entra anelante, rimuove la coperta a tempo, la strascina fuori e rimane sul luogo impavido chiamando aiuto. Dal suo eroismo animati accorrono ben tosto alcuni cittadini; si aggiungono indi soldati e pompieri, e si stabilisce un pronto servizio; gli uni attendono a spegnere il fuoco, che si manifesta qua e là; gli altri trasportano dal gran magazzino gli 800 barili di polvere, che vi conteneva. Anche il Conte Cays era là, consigliando, aiutando, trasportando feriti. Il Sacchi intanto si affrettava a coprire i barili colle coperte di lana impregnate d'acqua. Questi lavori, nella generale trepidazione degli animi, durarono sino alle ore quattro pom. e furono compiuti felicemente. Così in quel giorno di angoscia Torino [391] andò salva per l'intervento di Maria, e per l'eroismo di un uomo,, che in quell'orribile frangente a Lei si rivolse per consiglio e conforto, e che fino a che sopravvisse tu avresti veduto ogni sabato prostrato dinanzi all'altare della Vergine Consolatrice a sciogliere un voto di ringraziamento, per averlo non solamente salvato, ma reso salvatore de' suoi fratelli. Quest'uomo semplice ed onesto, che tra mezzo a singolarissime vicende della sua vita giovanile, sembra essere stato riserbato e preparato da Dio alla nobile missione di salvare Torino, ricevette nei primi giorni da tutti gli ordini della cittadinanza lusinghiere dimostrazioni di stima e di onore; ma non tardò ad essere pure abbeverato del fiele della ingratitudine. Presso a taluni egli ebbe il torto di aver attribuito pubblicamente il proprio eroismo alla Vergine benedetta. Egli infatti ripeteva: - No, io non sono il salvatore di Torino. Chi l'ha salvata è la Vergine Consolatrice. - Per questo fu subito oggetto di sarcasmi, di dileggio e di calunnie per parte di coloro, cui il nome di Dio e dell'Augusta sua Madre suona male all'orecchio. I giornali illustrati lo trattarono da ipocrita e baciapile. Ebbe per altro dal Governo la medaglia d'oro, conferitagli in piazza d'arme; dalla Guardia Nazionale una corona d'argento; e dal Consiglio Comunale gli onori di Cittadinanza Torinese, una via che porta il suo nome, ed un'annua pensione vitalizia di L. 1200. Ma nè lodi, nè beffe, nè onorificenze, nè insulti fecero cambiar sentimento a Paolo Sacchi, non alterarono in lui la sua profonda divozione verso la Madonna, e tale si mantenne fino al 24 maggio 1884, festa di Maria Ausiliatrice, ultimo giorno di sua vita. Col grado di capitano erasi recato tutti i giorni con altro capitano nativo di S. Giorgio Canavese suo amico, ad adorare per lunghe ore nella Chiesa delle Sacramentine. Avendo l'Arcivescovo [392] Gastaldi proibito a chi indossava veste secolaresca di servire nelle sacre funzioni, egli, col suo compagno, per vestire l'abito talare si fecero radere i baffi. Per vecchi militari era non lieve sacrificio.
In quanto al nostro D. Bosco, egli ebbe la consolazione di impartire ancora l'assoluzione ad un povero operaio, che, estratto di sotto alle rovine, mutilato di una coscia e straziato in tutto il corpo, dava gli ultimi aneliti. Se poi non gli fu permesso di prestare la mano nel difficile lavoro materiale, fece nondimeno un buon servizio il suo cappello. Nel cuor del pericolo si aveva urgente bisogno di portare acqua, per impedire che il fuoco si appiccasse alle coperte, stese sopra i barili di polvere. Non avendo alcun recipiente, il Sacchi diè di piglio al cappello di D. Bosco, e di quello si servì alla meglio, finchè non giunsero le secchie e le pompe. “Ultimamente ancora, scrisse D. Bonetti Giovanni, nel 1877 il prode foriere mi parlava di questo episodio con sua e mia grande soddisfazione”
Invero fu ed è generale la persuasione che ad una speciale protezione del Cielo sia dovuta la salvezza di Torino da ulteriori disastri. I primi a provare gli effetti del celeste intervento furono i ricoverati della Piccola Casa della Divina Provvidenza, detta il Cottolengo. Il pio Istituto sorgeva a poca distanza dalla polveriera, ed alcuni suoi edifizi non ne erano discosti che da ottanta a cento metri. Quindi nella terribile esplosione rovinano tetti, pareti e soffitti; mobili, guardarobe e cassettoni vanno a soqquadro; attrezzi di ogni genere sono gettati qua e colà con orrendo fracasso; sono schiantati usci e porte dai loro cardini; piovono poi da ogni parte travi, pezzi di legno e di ferro, pietre, mattoni e rottami di ogni fatta. Or bene, in mezzo a tanto rovinío, in mezzo ad una grandine di micidiali proiettili, in mezzo a [393] tanti pericoli della vita, non una delle mille e trecento persone dell'Istituto ne fu colpita. Eranvi dei malati, eranvi dei ciechi, degli storpi, dei folli, dei bimbi, e niuno ne riportò neppure la menoma contusione o scalfittura. Molti si videro come passare sotto gli occhi la morte; si videro a balenare sul capo la sua terribile falce; ma non ne furono tocchi. Sopra il letto ove giaceva l'infermo, staccavasi e rovinava gran tratto di soffitto, ma cadeva ai piedi od ai fianchi; altrove pericolava il muro, ma nel suo pendío stava come sospeso per aria, e dava tempo a rimuoverne il letto col suo malato; nelle camere dei bambini si rovesciava il tetto, cadevano moltissime tegole, ma neppur una sui letticciuoli e sopra le culle degli innocenti. L'infermeria delle figlie sceme od ebeti conteneva oltre venti letti, e da circa tre anni non era mai accaduto che fosse sgombra di malate, sopratutto prima del mezzogiorno. In quel mattino, quasi presentissero ciò che stava per avvenire, si erano alzate tutte, e raccolte nella stanza vicina. Intanto succede lo scoppio e lancia sopra quella infermeria un lungo e grosso troncone di trave, che sfonda il tetto e penetra in mezzo della camera, trascinando con sè la maggior parte del soffitto, e schiacciando persino i letti di ferro; ma i letti erano vuoti.
Però i più consolanti e che dimostrano la visibile protezione di Maria sono i fatti inesplicabili, che riguardano le sue immagini. In tutte le stanze tu vedevi le guardarobe, gli armadi, gli usci medesimi strappati dal muro e rovesciati a terra per la violenza dello scoppio; ma appeso alla parete miravi sempre ancora il quadro della Vergine. Nell'infermeria detta di Santa Teresa, all'altezza di due metri, stavasi una statua di Maria dentro una campana di vetro; cadono entrambi sul pavimento, ma e campana e statua [394] restano perfettamente intatte. Nel lungo dormitorio degli orfani tutte le finestre prospicienti la polveriera erano chiuse a mattoni. Succede il disastro: le singole murature si rovesciano, ad eccezione di due a cui erano pendenti due quadri di Maria. In un corridoio sotterraneo, che unisce una parte della casa coll'altra, all'altezza di oltre a tre metri, posava in apposita nicchia una statua in legno dell'augusta Regina del Cielo. Nell'istante dello scoppio, mentre tutto il muto all'intorno precipita a terra, la statua sembra che ne sia come lentamente discesa anzichè precipitata, poichè si trovò ritta sopra la sua base e attorniata dalle macerie. Pareva che fosse, come viva, discesa per confortare più da vicino coloro che, cercando scampo, transitavano per quell'andito gridando pietà. Nel privato Oratorio detto il Santuario, già molto caro al venerabile Cottolengo, stavano appesi al muro circa 300 quadri di varie dimensioni, col rispettivo vetro o cristallo, rappresentanti i santuari più celebri e miracolosi, che sorgono nel mondo ad onore della Madre di Gesù. Esso era situato dirimpetto alla polveriera, esposto quindi al primo impeto della violenta bufera e senza riparo. Or bene, scoppia da vicino il tremendo vulcano; nella camera dietro al Santuario, protetto dal muro, precipitano a terra grosse e pesanti guardarobe, rovina una parte del soffitto, si sfracella l'uscio, e la spranga di ferro che lo chiude s'attortiglia come corda o molle candela; e i quadri? I quadri del Santuario restano al loro posto coi rispettivi vetri intatti. Nella Chiesa della Comunità e nella Cappella del SS. Rosario stavasi la statua di Maria, chiusa nella sua nicchia. Alla distanza di sei metri si fende il grande arcone, che sostiene la cupola della Chiesa; l'organo che stava entro lo sfondo di una tribuna viene rovesciato a terra e portato in là d'alcuni passi; spalancasi il [395] telaio coi larghi cristalli che chiudono la nicchia; ma la statua di Maria come Padrona e Regina si rimane immobile colla sua corona in capo, ed appena permette che le cada dall'orecchio uno de' suoi pendenti.
Sennonchè con un linguaggio ancor più eloquente dimostrò la potentissima Vergine la visibile sua protezione in quel giorno; ed è coi due fatti seguenti.
Nell'atrio d'ingresso del pio Istituto del Cottolengo, presso alle due porte che mettono nella via pubblica, vi stava, come sta pure oggidì, affisso ad un sottile tavolato di legno, un quadro di un metro d'altezza, in cui è effigiata da mano maestra la Vergine Consolatrice. Il quadro era, come ora, custodito da una lastra di vetro, circondato da fiori, da cuori d'argento e da altri vaghi ornamenti. Innanzi a quella immagine veneranda suolsi, da chi entra e da chi esce, recitare l'Ave Maria. L'atrio nella parte interna che introduce nel cortile sottostante trovavasi in faccia alla polveriera e senza alcun riparo tra mezzo. Quindi nello scoppio dei due magazzini tale ne fu la scossa prodotta, che si apersero con violenza persino le porte chiuse dell'Istituto; più diecimila lastre di vetro delle sue finestre furono mandate in minuzzoli insieme coi telai, sgangherati e travolti e fatti in pezzi; anzi in tutta la via Doragrossa ed in altre della città distanti oltre un chilometro non si vedeva più alle finestre un vetro intatto; furono lanciati nel mentovato atrio a nembi a nembi i proiettili di ogni genere: mattoni, sassi, ferro e legno, alte e pesanti guardarobe, che sorgono colà presso, sono rovesciate in un attimo; nella parte opposta, cioè dietro al quadro, l'uscio fortissimo di noce che mette sulla contrada, chiuso con grosso catenaccio di ferro, spalancasi in due parti spezzando il catenaccio medesimo; si rompe e sfracella l'angolo stesso del muro contro il quale [396] stava appoggiato il quadro della Vergine; e questo? Mirabile a dirsi! Questo solo rimane immobile con tutti i suoi fregi e col suo vetro intiero! La bella immagine di Maria in amabile aspetto pareva che dicesse agli atterriti suoi figli: Ego sum, nolite timere: Sono qua io, vostra Madre; non vogliate temere, sarò vostro scudo, sarò vostra difesa. Un signore, che poche ore dopo dall'interno della città entrava in quell'atrio, al vedere ancora intatto il vetro dinanzi alla immagine di Maria, mentre nelle case neppur uno se ne vedeva e nelle vie si camminava sui vetri, si sentì scorrere un misterioso brivido per tutta la vita, e pieno il cuore d'immensa gioia pianse di consolazione come un fanciullo. A dire tutto, questo intreccio di fatti, per quanto siasi studiato di spiegarlo colle leggi della fisica, niuno vi potè riuscire, e quindi fu ed è uopo scorgervi la mano di Dio onnipotente e la protezione della divina Madre, che mostrava con ciò di vegliare sulle sorti di Torino.
Ma un fatto che risplendette sopra ogni altro, e che fa toccar con mano il patrocinio di Maria Santissima in quel giorno di spavento, è quello che qui esporremo colle parole stesse del non mai abbastanza compianto Mons. Luigi Anglesio, in quel tempo già da dieci anni Superiore del portentoso Istituto del Cottolengo.
“Fra tutti i caseggiati (così egli scrive) che facevano come ala fiancheggiando da due parti la polveriera, il più vicino di tutti, ed alla distanza appena di 80 metri, era un umile casolare detto di Nazaret, di due piani, compreso il terreno. Conteneva al piano terreno oltre una ventina di scemi o cretini, nel piano superiore una trentina di poveri ragazzi cronici ed infermi dai quattro ai nove anni; siccome il solaio, così tutti i travi del tetto venivano a poggiare sopra un pilastro posto in mezzo della vasta camerata: sopra [397] questo pilastro e il tetto erasi alzata un'altra colonna di terra cotta, appunto una di quelle che avevano servito ad uso di stufe; sopra questa colonna ergevasi una statua della Vergine Immacolata, alta oltre un metro, vuota nell'interno, di semplice scagliuola, con intorno al capo un'ampia corona di dodici stelle: avresti detto che stava proprio là per fare la sentinella e scudo alla Piccola Casa, anzi quasi per dar legge alla natura, al flagello e determinargli le vie, i confini. Scoppiano infatti i due magazzini della polvere a quella sì breve distanza e con quella lunga e dolorosa serie di conseguenze che sopra si sono accennate; una continuata tempesta di proiettili d'ogni genere e peso viene lanciata insieme all'indescrivibile bufera per ogni verso all'intorno e contro il caseggiato di Nazaret: la colonna porta l'impronta dei proiettili da cui viene percossa, ma la statua della Vergine, appena di un pollice smossa dalla sua base, sta illesa ed intatta con in capo la sua corona: e mentre prima era rivolta verso l'atrio della casa, ora si vede la sua faccia guardare la polveriera. Come adunque non riconoscerla, non salutarla e ringraziarla quale fedele custode ed amorosa difenditrice? Infatti il tetto sottostante venne tutto sconquassato ed in parte rovesciato sopra il soffitto, e questo, spezzate le travi, precipitò insieme alle tegole nella stanza ove stavansi raccolti i bimbi tutti, gli uni giacenti nel loro lettuccio o cuna, gli altri o seduti sui loro seggiolini od in piedi, avresti pensato chè forse nessuno o ben pochi avrebbero potuto scampare da tante rovine; e così infatti si persuadevano e temevano queglino tutti, che avevano visto o sentito la cosa; accorsero perciò sul luogo onde prestar soccorso a quelle innocenti creaturine in aiuto delle suore infermiere; ma, grazie alla vigile Madre, che dall'alto li contemplava, neppure uno sfuggì alle amorose sue cure; di [398] quei ragazzini i più snelli, al primo scoppio, si gettarono fuori dell'uscio, gli altri tutti non presti alla fuga o giacenti nei loro lettucci per un modo o per l'altro, non si sa come, furono tutti protetti, trovati illesi ed incolumi. Tra essi uno si trovò che lo scoppio aveva rovesciato per terra insieme alla cuna, ma questa capovolta sul bimbo servì a coprirlo e difenderlo dalle tegole e dai rottami che lo avrebbero incolto. Era poi una scena al tutto commoventissima in mezzo a quelle grida e quei gemiti sentire quelle creaturine esclamare: Perdonateci, Maria SS., perdonateci, saremo poi bravi, saremo poi bravi” Fin qui la penna di Mons. Anglesio[20].
Or le accennate maraviglie, e sopratutto quella della debole colonna, parve un fatto così singolare e fuor dell'ordine di natura, che persino gli ebrei, tratti dalla curiosità a vederla, dissero quello essere un vero miracolo. Il giorno appresso un uomo di mala vita aggiravasi in quei dintorni e prorompeva in bestemmie contro Dio per causa di quel disastro; ma giunto in faccia a quella delicata statua, e vistala colà immobile con la sua leggiera corona in capo, ammutolì: la fissò per lunga pezza, e poi uscì in queste testuali parole: Qui ci debb'essere qualche diavolo! Naturalmente ciò non può stare. Noi compatiamo a quel miserabile e diciamo invece: Il diavolo avrebbe frantumato non solo le immagini della Vergine, ma rovesciato dal suo trono celestiale la Vergine stessa, se dato gli fosse. Quindi è fuor di dubbio, che quella fragile statua in quel sito, attorniata da tante rovine, fu un segno visibile della invisibile presenza [399] di Maria, che da Madre amorosa vegliava sopra i figli suoi, vegliava sopra Torino, salvandola da un totale eccidio.
Nè la Vergine Santissima si limitò a mostrare che vegliava sopra Torino coi fatti maravigliosi sopra accennati, poichè in varii altri luoghi pii, esposti ancor essi a gravi pericoli, diede ella prova non dubbia di sua materna sollecitudine. Nel Monastero delle Maddalene, distante dalla polveriera circa 400 metri, nell'Ospedaletto di Santa Filomena e nell'attiguo Conservatorio, tre Istituti della Marchesa Barolo, erano ricoverate ben 500 tra suore e giovanette, o sane od inferme, ed ancor esse dalla prima all'ultima andarono esenti da ogni disgrazia. Nel muro dell'Ospedaletto a mezzanotte si vedevano i segni profondi degli scagliati proiettili: nel Monastero delle Maddalene cadde tra gli altri un macigno del peso di ben 10 miriagr., e vi si mostra ancora oggidì un armadio pieno di pietre, di spranghe di ferro contorte e simili oggetti, grandinati nel cortile, sopra del loro edifizio e penetrati persino nelle camere e nei corridoi; ma niuna delle cento e più persone ne fu menomamente tocca. Anzi nella infermeria si trovavano due suore malate, che da molto tempo più non si alzavano di letto. Quel mattino verso le 11 dimandano di levarsi ed uscire a prendere un po' d'aria nel giardino, e la superiora contro il suo solito lo concede. Or bene, appena uscitene, un trave enorme viene lanciato sopra il tetto dell'infermeria, lo sfonda e vi penetra dentro con tale impeto, che schiaccia i letti delle due malate. Mentre poi le Maddalene con loro immenso dolore stanno per rompere la clausura ed uscire in cerca di un più sicuro riparo, vedono librarsi a volo una candida colomba e andarsi a posare sulla sommità della croce posta sul tetto del loro sacro asilo. Ritengono quello per felice pronostico, e dicono: Se la colomba prenderà il volo di là, [400] ne usciremo anche noi; se no, vi rimarremo. L'uccello ebbe la costanza di fermarsi in quel sito sino alle 4 di sera, quando un messo del Governo andava ad avvertire che il pericolo di nuovi scoppi era scomparso.
E nel nostro Oratorio che cosa avvenne di particolare? Un trave infuocato, lungo da 6 a 7 metri, cadde a pochi passi dalla casetta di D. Bosco, che, stante la cattiva costruzione, avrebbe rovesciata ed abbruciata ad un tempo, se la mano di Dio non l'avesse trattenuto dal piombarvi sopra. La nuova chiesa, ancor fresca e stata poco prima disarmata e colla volta non ancora interamente coperta colle tegole, avrebbe potuto o crollare o fendersi; ma la Divina Provvidenza dispose che, sebbene presso ad essere benedetta, tuttavia non avesse ancora nè porte, nè finestre a posto. Quindi essendo per ogni lato aperta, l'urto non la scosse con tanto impeto e non le fece alcun danno. Quella che ne soffrì non poco fu l'abitazione, la quale si ebbe spaccature spaventose. Non occorre il dire che dei vetri non ne rimase pur uno: le finestre chiuse furono aperte con tanta violenza che, sbattute nel muro, parecchie ne andarono a pezzi. Un uscio della cappella, dalla parte di mezzanotte, e perchè gonfio dall'umidità dell'inverno, e perchè irrugginitane la serratura, da parecchi mesi più non si poteva aprire; ma lo scoppio tolse al sagrestano ogni fastidio, chè non solo lo aperse, ma lo schiantò dai cardini, gettandolo in mezzo alla cappella. Il simile accadde in una cameretta a pianterreno, alla quale si dava il nome di cantina. Anche qui l'uscio fu strappato dal muro, e per alcuni giorni i giovani avrebbero potuto entrarvi liberamente a bere il vino alla mamma; peccato che non ce n'era.
Ma un altro fatto che ha dello straordinario ed anche del sovrumano fu quello che siamo per dire. Tra i giovani ricoverati [401] uno ve n'era di circa 13 anni, per nome Gabriele Fassio, fanciullo di aurei costumi e di esimia pietà; faceva il ferraio. D. Bosco aveva predetto che morrebbe presto e ne aveva una grande stima e spesso lo proponeva a modello. Talora esclamava: Oh quanto è buono! Or bene, questo giovanetto, un anno prima dello scoppio fatale, cadde malato e fu ridotto agli estremi. Aveva già ricevuto i conforti di nostra santa Religione, quando un giorno, come indettato dall'alto, ei si pose a ripetere: Guai a Torino, guai a Torino. - Alcuni compagni che gli stavano ai fianchi gli domandarono: - E perchè guai? Perchè è minacciata da un grave disastro. - E quale? Un orribile terremoto. - Quando sarà? Un altr'anno. Oh! guai a Torino il 26 aprile. - Che cosa dobbiam fare? - Pregare san Luigi che protegga l'Oratorio e quelli che vi abitano.
Poco dopo egli santamente moriva all'Ospedale del Cottolengo. Stante le sue rare virtù e l'accento, diremmo, inspirato, col quale pronunziava il suo guai, i giovanetti della Casa ne riportarono profonda impressione e ne accolsero rispettosamente il consiglio. Fu allora che a loro richiesta si aggiunse mattino e sera nelle comuni preghiere un Pater, Ave e Gloria a san Luigi, colla invocazione: Ab omni malo libera nos, Domine; pratica che nelle nostre Case vige tuttora. L'Armonia accennò a questo fatto e un empio giornale argomentò che fossero i preti coloro che avean dato fuoco alle polveri: scellerata insinuazione, che in certi casi poteva accendere sanguinarie passioni di vendetta.
Il danno materiale cagionato dallo scoppio della polveriera fu immenso; molti fabbricati all'intorno ne soffersero tanto che per ripararli fu d'uopo demolirli. In vista di che fu stabilita dal Governo una apposita Commissione incaricata di esaminare le case più danneggiate e di erogare una [402] sovvenzione ai proprietarii più poveri, onde ristorarle secondo il bisogno. La Commissione portossi eziandio all'Ospizio di Don Bosco, e vistone il guasto operato, elargì lire 300. Anche dalla camera dei Deputati gliene vennero altre 200[21].
Di un fatto ancora non dobbiamo tacere.
Dopo i due scoppii sopradescritti e all'annunzio di un terzo più terribile che pareva imminente, molti abitanti delle case più o meno vicine e parecchi degli stessi malati, che a mala pena potevano reggersi in piedi, eransi portati in un campo presso all'Oratorio, quasi in faccia alla chiesa in costruzione. Colà facevano ottimi riflessi sulla potenza, sulla giustizia e sulla misericordia di Dio; colà chi domandava perdono, chi prometteva di migliorare sua vita, chi si raccomandava ai santi del cielo. Tutti poi esternavano la più grande fiducia nel valido patrocinio di Maria Vergine; quindi ricordavano le antiche sue misericordie sopra Torino, quindi la invocavano in quel terribile caso, quindi recitavano il santo Rosario e facevano risuonare l'aria di sue lodi. Or [403] è bello il riflettere che quel campo fu poscia convertito nel Santuario di Maria Ausiliatrice, a cui continuano a portarsi ed anche solo a rivolgersi gli afflitti e i tribolati di tutte parti, per riceverne aiuto e conforto, e ne sono esauditi.
In quel mentre D. Bosco ritornato dal luogo del disastro accoglieva in sua casa, confortandole, schiere di giovani di altri istituti che pieni di terrore venivano a rifugiarsi presso di lui. Per ore ed ore si udiva il rumore dei carri che trasportavano altrove i barili di polvere. Tramontato il sole, D. Bosco chiamò a sè i ricoverati, timorosi di qualche nuovo disastro in quella notte, e prima che andassero a riposo li esortò a star buoni, tranquilli e a confidare in Dio, apportando tali ragioni che pienamente li rassicurò.
L'immagine di Maria Immacolata colla scritta - Auxilium Christianorum, ora pro nobis, che allora teneva nella sua stanza e che noi custodiamo come un tesoro, ci dimostra il motivo della sua confidente sicurezza.
Infatti per memoria della grazia faceva stampare dalla litografia Doyen 5000 copie di una bella immagine che distribuiva poi ai giovani sul finir di giugno. Nello sfondo è figurata la città di Torino e la polveriera che esplode. In alto la Vergine Consolatrice seduta sulle nubi e fra gli angioli, il cui santuario si vede fra le case. Sul davanti giovanetti inginocchiati o in piedi, colle mani o giunte o spante, rivolti a Maria; e un sacerdote che loro la addita colla mano destra, mentre tiene la sinistra sulla spalla di un fanciullo, il quale come in estasi contempla la Madonna. Vi si leggono due iscrizioni
SOPRA L'IMMAGINE Nei pericoli e nei bisogni ricorrete a Maria.
SOTTO L'IMMAGINE I figli dell'Oratorio di S. Francesco di Sales a Maria Consolatrice: [404]
“Noi dalle accese polveri |
“Per tua mercè scampati |
“Ai piedi tuoi, gran Vergine, |
“Grazie rendiam prostrati”. |
Ma di ciò non contento appieno, volle testificare al Signore la sua gratitudine con un atto di singolare generosità. Si legge nel numero 56 dell'Armonia, martedì 11 maggio 1852.
“La Commissione direttrice della Lotteria d'oggetti a benefizio della Chiesa che si sta fabbricando in Valdocco, per l'istruzione religiosa e morale de' giovani, nella seduta del sei corrente, riconoscendo come special favore del Cielo l'essersi conservate illese le mura del nuovo edifizio, quantunque assai vicine al luogo del disastro accaduto nel Borgo, Dora, e non sapendo meglio esprimere la sua gratitudine verso la Divina Provvidenza, se non col venire in aiuto di quel meraviglioso ospedale, che dalla medesima s'intitola, e che tanto danno ebbe a sentire nell'avvenuto infortunio, ha deliberato che la metà dell'aggio accordato dalle leggi sulla Lotteria di pubblica beneficenza debba d'ora in poi cedere a pro dell'Opera Cottolengo.
Un duplice scopo si otterrà in tal modo da' generosi e benefici che vorranno ancora inviare qualche oggetto per arricchire la già copiosa raccolta o vorranno acquistare i biglietti che ancora sono disponibili: il bene della povera gioventù che potrà nella nuova Chiesa essere educata alla pietà ed alla virtù, ed il soccorso ad uno stabilimento che pe' suoi principii e per la sua conservazione è un miracolo, della Provvidenza.
La pubblica esposizione continuerà tutti i giorni dalle 10 del mattino alle 6 di sera, nel solito locale via della Basilica, N. 3, piano I; sul principio di giugno avrà luogo la pubblica estrazione”.
LA PRODIGIOSA preservazione dallo scoppio della polveriera accendeva sempre più la divozione degli alunni di D. Bosco verso la Madonna. Già prima d'ora nel mese di maggio si faceva nella cappella dell'Oratorio tutti i giorni qualche pratica di pietà in suo onore; e specialmente nei sabati alcuna lettura delle sue glorie, o un sermoncino. Ma è da quest'anno che regolarmente ogni sera incominciò l'usanza nei dormitori di offrirle, nel mese dei fiori materiali, fiori spirituali. D. Bosco ogni sera annunziava il fioretto e la giaculatoria per il domani.
L'amore a Maria rendeva in lui più viva la riconoscenza verso i benefattori che ne promuovevano la gloria, e scriveva una cara lettera a Mons. Losana Vescovo di Biella.
Compreso dai sentimenti della più viva gratitudine verso la Divina Provvidenza, la quale si degnò di suscitare nella persona di V. S. Ill.ma e Rev.ma un insigne benefattore [406] dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, ringrazio umilmente Lei, Monsignore, di avere con tanto zelo raccomandato con speciale sua circolare del 13 settembre dello scorso anno, la mia chiesa alla carità dei suoi fedeli diocesani. Le offerte formanti la graziosa somma di lire mille, che dichiaro d'aver ricevuto da Lei, sono una evidente prova che tutti conobbero, la necessità di mantenere intatta la moralità della gioventù e di promuoverne la cristiana istruzione, e volonterosi perciò corrisposero alla pia aspettazione del loro Pastore. Vada pertanto lieto, Monsignore, di aver fatto questo benefizio alla gioventù torinese, e si rallegri, perchè esso ridonda purea vantaggio di moltissimi giovani di sua diocesi, i quali, dovendo passare una notevole parte dell'anno nella capitale per ragione di loro mestiere, in numero considerevole esemplarmente intervengono a quest'Oratorio per ricrearsi, istruirsi, e santificare i giorni dedicati al Signore.
Ella sa, Monsignore, che, non ostante le generose oblazioni di pie e caritatevoli persone, mi vennero a mancare i mezzi per continuare il sacro edifizio, ma la Divina Provvidenza mi porse benigna la mano e nuovi mezzi seppe procurarmi col mezzo di una Lotteria di oggetti. Questa appena annunciata venne favorevolmente accolta dalla pubblica carità, e moltissimi distinti personaggi e benemerite signore, con zelo veramente cattolico, vi presero parte, e sì la promossero, che mercè loro i doni abbondarono oltre ogni mia aspettazione, sia nel pregio, sia nel numero, talchè al giorno d'oggi sommano oltre a tremila e cento; spero ora che mi sarà continuato il favore delle pie e facoltose persone nell'acquisto dei biglietti da cui solo dipende il compimento della santa opera.
Così confortato ed aiutato mi gode l'animo di annunziarle che i lavori di costruzione si continuano con tutta l'attività [407] possibile, ed ho fede nel Signore, che il 20 di giugno prossimo, giorno sacro per noi a Maria Consolatrice, si potrà, per soddisfare all'urgente nostro bisogno, andando nella nuova chiesa benedirla e celebrarvi le sante funzioni. Ella, o Monsignore, si immagini la gioia e la consolazione da cui fin d'ora sono compreso al solo pensiero della solennità, che avrà luogo in quel dì tanto sospirato!
Non potendo, come vorrei, dimostrare la mia gratitudine alla S. V. Ill.ma e Rev.ma ed a' suoi diocesani, e per le offerte e per avere efficacemente protetto la lotteria, sarà mia premura di accogliere colla massima amorevolezza tutti quei giovani del Biellese che interverranno all'Oratorio, e nulla risparmierò per quelli che vorranno approfittare delle scuole e della religiosa istruzione.
Quello che posso e non mancherò di fare si è di unirmi ai giovani, che sonomi in certo modo dalla Divina Provvidenza affidati, e pregare con essi costantemente il Signore Iddio a largamente compensare colle sue benedizioni V. S. Ill.ma e Rev.ma, e tutti quelli che nella loro carità concorsero e concorrono in qualunque siasi modo a quest'opera di beneficenza. Mi permetta, Monsignore, che La preghi ancora a voler continuare la sua efficace protezione all'Oratorio e benedire la novella chiesa, la lotteria, e tutti i figliuoli dell'Oratorio, e con essi anche la mia persona, che di tutti ne sento maggior bisogno.
Degnisi frattanto di gradire i sentimenti della sincera mia gratitudine della più profonda ed ossequiosa venerazione con cui ho l'onore di dichiararmi
UmiI.mo Dev.mo Ubb.mo Servitore
Intanto non cessava per un sol momento l'avvicendarsi dei lavori per la lotteria. I Vescovi del Piemonte con una carità ammirabile se ne erano fatti i promotori e così scrivevano a D. Bosco.
“Vedrò se si potranno distribuire i 200 biglietti da V. S. M. R. trasmessimi, ed ove non mi riesca a smaltirli tutti, come temo, glieli respingerò coll'importare dei distribuiti prima dei 20 del corrente. Intanto, raccomandandomi alle sue orazioni e pregando il Signore a benedire le sue fatiche....
“Ha fatto ottimamente V. S. M. R. a mandarmi 300 biglietti della di Lei lotteria. Da molto tempo bramava di averne e non sapeva come procurarmeli. Comincio per prenderne io stesso N. 100 e procurerò di esitare gli altri 200, e mi farò quindi premura di trasmetterle l'importare, e, qualora ne sia il caso, chiederlene dei nuovi.
Venendo poi per qualche circostanza a Torino, La prego fin d'ora di permettermi di visitare questo Oratorio che si sta fabbricando, non che gli altri Oratorii di cui mi parla e che finora non conosco.
Intanto, pregandole dal Signore tutte quelle più copiose benedizioni che non può a meno di trarre sul di Lei capo la sant'Opera con cui si è consecrata, mi protesto....
“Ho ricevuto il compito foglio di V. S. Ill.ma e Rev.ma del 13 del mese corrente ed i biglietti di lotteria in numero di trecento che portava in seno. Si compiaccia di notare a mio debito il valore di detti biglietti nella somma di fr. 150 [409] che Le farò pagare colla prima occasione favorevole che mi si presenterà.
Benedica il Signore tutte le sollecitudini di V. S. nell'innalzare una nuova chiesa al suo culto e gradisca....
“Ho ricevuto assieme al pregiato foglio di V. S. M. R. del 21 corrente il pacco contenente N. 200 biglietti della consaputa lotteria, e sebbene non sia possibile di poterli qui esitare sia per le circostanze dei tempi, che per la straordinaria miseria che vi regna e fassi sempre maggiore, tuttavia, siccome trattasi dell'erezione di una chiesa, li terrò tutti, e nella settimana ventura Le procurerò l'incasso dell'importo totale in lire cento.
“Prima che io ricevessi i 200 biglietti che la S. V. M. R. e Preg.ma mi spediva, altri 200 erano già pervenuti in questo Vescovado, ed io avevo già disposto per acquistarne un discreto numero di decine: onde non ho molta speranza che possano ancora esitarsi quelli che Ella si compiacque di spedirmi. Io farò ogni possibile, ma, ripeto, non ispero che l'esito corrisponda al mio buon volere. In questo caso non mi resterà altro che ritornare in tempo utile alla S. V. i biglietti non distribuiti.
Mi raccomando frattanto alle sue fervide orazioni....
“Oltre i 100 biglietti che ho già preso per mio conto, ho ricevuto pure, quelli che mi inviò per la diligenza; già li [410] consegnai a varie persone per essere distribuiti; farò quanto, potrò per favorir la cosa.
Anche a me spiacque assai il non aver potuto intervenire al suo saggio; verrò altra volta.
Preghi per me che il Signore mi ridoni la salute mi continui il suo affetto....
Il saggio di studii al quale accenna Mons. Vescovo di Fossano, si era svolto nell'Oratorio di S. Francesco di Sales. D. Bosco con una lettera circolare aveva mandato ai benefattori e ad altri esimii personaggi il seguente invito.
La premura con cui V. S. Ill.ma si degnò di prendere parte a quelle cose che riguardano al bene dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, spero non Le farà tornare discaro il presente invito con cui La prego d'intervenire domenica prossima, 16 del corrente Maggio, dalle ore 2 alle 5 pomeridiane, per onorare di sua presenza il saggio che i giovani delle nostre scuole serali danno dei loro tenui studi di quest'anno scolastico.
Non vedrà grandi cose, ma scorgerà senza dubbio il buon cuore e la buona volontà di questi nostri giovanotti.
1° Lettura e scrittura. - Elementi di aritmetica, di sistema metrico e di grammatica italiana. - Canto con musica..
2° Un po' di geografia sacra, storia sacra del nuovo testamento. - Canto con musica.
3° Due dialoghi: viaggi in Palestina. - Un giovane non premiato. - Varii tratti ed alcune poesie saranno recitate ed interposte ai diversi rami d'istruzione. [411]
Nella persuasione che vorrà gradire questo mio umile invito, La ringrazio di quanto ha fatto e che spero voglia continuar a fare a favore di questi miei giovanetti, e Le offro i miei più sinceri ringraziamenti dicendomi con tutto rispetto
Chiari professori, fra i quali l'Aporti, parecchi membri del Municipio, altri nobili, distinti personaggi, e Monsignor Calabiana Vescovo di Casale onorarono di loro presenza l'adunanza. Non è a dire quanta fosse la sorpresa degli intervenuti nell'ascoltare le spigliate e franche declamazioni, i canti e i suoni di quei buoni giovani popolani, i quali incalliti nelle fatiche e nel duro esercizio dei più umili mestieri, dimostravano che sotto la ruvida veste più di una volta si trova un ingegno svegliato. Gli applausi che frequenti e prolungati accoglievano le loro risposte, alle varie e talora non facili interrogazioni, erano certa prova della soddisfazione universale.
Cresceva poi la meraviglia perchè i più degli astanti, recatisi col pensiero di assistere ad un saggio dato da fanciulli, vi trovarono giovani nel pien vigore dell'età, i quali non lasciandosi strascinare da' mali esempi dei loro coetanei, consacravano allo studio il tempo che loro rimaneva dal lavoro, e che altri consuma in istravizi. Al certo, non è lieve fatica il domare nella gioventù lo stimolo potente che la porta a' sollazzi e volgerla invece allo studio paziente e serio! Ma ciò che è arduo ai nostri fautori, del metodo d'istruzione, è facile al sacerdote cattolico, il quale non ha altro metodo che quello che gli suggerisce la carità cristiana. Quando [412] voi vedete qualche centinaia di artigianelli, che rinunzia ai divertimenti per ascoltare la voce di un dabben sacerdote, domandate che cosa rattiene quella fervida età, e così ghiotta di libertà? L'amore che hanno per il loro padre in Cristo. E che cosa nutre e fomenta quest'amore verso il loro padre? L'amore che questi nutre pei figli! Ed entrambi questi amori si identificano nell'amore di Gesù Cristo1.
Ci ricordiamo di aver saputo che l'Abate Aporti, Senatore del Regno, rapito dalle pronte ed esatte risposte che davano quei giovani artigianelli, ebbe a dire che non si sarebbe potuto aspettare di più non solo da giovanotti che tutto il giorno avevano maneggiato o la cazzuola, o la lesina, o l'ago, ma da quei medesimi che passavano la maggior parte dell'anno sui banchi di una scuola, pendenti per più ore dal labbro di un maestro. In fine si distribuirono i premii che non consistettero solo in applausi, ma in vari utili oggetti provvisti dai benefattori.
Questa accademia restò anche famosa perchè volendosi dissipare l'accusa mossa all'Oratorio sulla politica, un giovanetto recitò una lunga poesia in dialetto piemontese composta da D. Bosco, che così incominciava:
Nui parluma nen d'politica |
A le niente nost'affè : |
E nui fumma mac la critica |
Al pan brun del panatè . |
Una nobile signora la quale non aveva potuto assistere a questo trattenimento, ne manifestava a D. Bosco il suo dispiacere. [413] Dalla mia villa di Chieri, 23 maggio 1852.
L'onorevole invito di V. S. M. Rev.da non mi è pervenuto che ieri sera soltanto per incuria solita del portinaio, e ne sono tanto più dolente, chè ho dovuto comparirle non solamente incivile, ma ingrata, non comparendo all'interessantissima adunanza e non tributandole almeno, come era mio dovere i più sentiti ringraziamenti. Prego la S. V. a perdonarmi l'involontaria mancanza, ed a concedermi la speranza di ammirare in qualche altra occasione, la santa sua Opera: La prego intanto a gradire un foglio, nel quale un giovane Av.to dell'Emigrazione ha voluto far conoscere all'Italia, come siasi la Dio grazia, rinnovato fra noi il grande esempio dei Calasanzi e dei Vincenzi di Paola: chè il sacerdote, quando segue le massime del Vangelo, è stimato e venerato come merita, e da tutti indistintamente; ed anche da quelli che, poco curanti della religione, lo sarebbero, se più generalmente dal clero venissero seguite le caritatevoli orme d'un Dio Salvatore. - E rinnovando alla S. V. M. Rev.da i miei più vivi ringraziamenti per l'alto onore di avermi ricordata ad onta della mia pochezza, mi pregio dirmi col più profondo rispetto e venerazione....
Benchè non sia giusta la critica in questo foglio indirizzata al clero, noi l'abbiamo qui presentato, perchè vero è l'elogio fatto a D. Bosco, perchè s'intenda lo spirito e le opinioni di quei tempi e perchè l'emigrazione politica aveva doveri di riconoscenza verso l'Oratorio.
NON RIGETTARE la preghiera del tribolato; e tu sarai qual ubbidiente figliuolo dell'Altissimo. Questi sarà buono con te più che una madre[22]”.
L'invito adunque e la promessa dello Spirito Santo aggiungevano fiamma alla carità di D. Bosco verso il suo prossimo. Quanti giovani furono da lui ricoverati affatto gratuitamente. Quanti orfani si presentarono a lui per aiuto ed egli li accolse fra' suoi figli. Quanti furono da lui accettati dietro promesse dei benefattori o parenti che avrebbero corrisposto mensilmente una minima quota; e avvenendo che questa non fosse pagata, egli tuttavia li ritenne, purchè li vedesse compiere esattamente il loro dovere. E quanti dell'Oratorio festivo ebbero scarpe, vestiario, cibo e mestiere.
Ma povero come egli era, asserisce D. Rua, estendeva la sua generosa beneficenza anche agli adulti estranei alla sua casa. “La bontà del suo cuore, disse Mons. Cagliero non aveva limiti. Sensibilissimo alle disgrazie altrui era pieno di [415] compassione per i poveri e i sofferenti, e l'amabilità e la dolcezza con essi furono le sue Virtù caratteristiche per tutta la vita. Questa sua carità fu alcunchè di ammirabile, tanto più avuto riguardo ai tempi calamitosi in cui visse. Molti di quelli che mancavano assolutamente di mezzi per mantenersi dà loro, in varii tempi li accolse in sua casa, o provvisoriamente finchè avessero trovato utile occupazione, od anche stabilmente; altri cercava di farli ritirare in istituti di beneficenza”.
Giammai avveniva che accommiatasse i poverelli senza soccorso.
“Ricordo, disse D. Piano, che un giorno essendo io studente di morale in Torino e trovandomi insieme con Don Bosco, incontrammo un povero il quale gli chiese elemosina. D. Bosco non aveva danaro presso di sè , come gli accadeva frequentemente, perciò si rivolse a me e mi domandò se avessi danari. Io avendogli risposto coll'aprire il portafoglio, egli veduto che aveva un biglietto da lire due, mi pregò di darlo a quel povero con promessa di restituirmelo. Difatto alcuni mesi dopo mi disse che aveva meco un debito, alludendo a quel biglietto di due lire, e me l'offerse. Io però non l'accettai, felice di poter cooperare alla sua carità”.
D. Dalmazzo scriveva: “Ho veduto io più volte Don Bosco ad elargire assai grosse elemosine, specialmente quando si trattava di persone decadute o di donne pericolanti. Tra le altre volte l'ho veduto dispensare degli scudi, delle pezze da lire venti, e più di tre volte biglietti da cento lire. Specialmente questo avveniva quando trattavasi di apostati ritornati alla fede e privi di mezzi di sussistenza; oppure di acattolici entrati nel grembo della Chiesa e privi di sostegno”.
D. Berto aggiunge: “Nel 1874 io accompagnava D. Bosco. Un poveretto gli chiese l'elemosina; già altri l'avevano ottenuta prima. D. Bosco si rivolse a me per avere qualche soldo [416] da dargli; ma io non avendolo in pronto e facendogli d'altronde osservare che troppo grande era il numero dei poveri che si accostavano da poterli soddisfare tutti, dissemi: Non sai che sta scritto: Date et dabitur vobis?”
Non cadevagli sott'occhio una miseria, senza che egli per quanto potesse non cercasse di provvedere. Un giorno era con D. Rua e D. Dalmazzo in una delle principali vie di Torino. Ed ecco un garzone muratore, che strascinava un carretto sovracarico, a cui si sentiva impotente; e lo dimostrava piangendo. D. Bosco senza dir nulla a' suoi compagni, li lascia, e con loro stupore lo vedono spingere avanti quel carretto per un tratto abbastanza lungo.
Egli nelle creature rimirava il loro Creatore e non faceva distinzione di persona, portando a tutti l'opera sua benefica, tanto fossero ricchi quanto poveri, sia spiritualmente sia corporalmente. Non guardava agli errori, alle colpe, alle inimicizie, alle ingratitudini, alle opinioni contrarie, o a qual partito appartenessero i supplicanti. Le simpatie o le antipatie non avevano prevalenza in lui. Qualora si potesse dire che avesse qualche predilezione, ciò era per i più miserabili e per questi, prima ancora di aprire il suo Ospizio, era di una generosità ammirabile, come già ci ripeteva D. Reviglio. Dal 1840 al 1860 una classe nuova di persone ebbe a provare le sue beneficenze e fu quella degli emigrati politici, venuti in Piemonte da varii stati d'Italia e specialmente dalle terre Venete e Lombarde per sottrarsi ai rigori de' restaurati governi.
Primo fra questi fu un notaio di Pavia, che aveva messo a rischio la sua agiata condizione di famiglia, ed ora per vivere dava spettacolo in piazza S. Carlo a Torino. Egli aveva addestrato un bel numero di canarini a fare giuochi singolari. Li poneva sopra una tavola e ad un suo segnale [417] uno di quelli cantava mentre tutti gli altri tacevano. Quindi faceva fare una sfida fra due di quelli uccelletti ed erano singolari gli sforzi di ciascuno per vincere nel canto l'avversario. Talora tutti insieme cantavano a coro, quindi continuava un solo; il coro poscia ripigliava i suoi gorgheggi finchè fatto silenzio lasciava che un duetto facesse udire i suoi trilli armoniosi; in ultimo un gran coro finale chiudeva la musica. Folla immensa assisteva alle prodezze di questi piccoli cantori, che tacevano, cantavano, a solo o all'unisono, ad un cenno del loro addestratore.
Si ricorda con particolare vaghezza una scena cui davano luogo con una comicità artistica. Uscivano due canarini l'uno contro l'altro con una spadina di cartone attaccata ad una zampetta, e incominciavano il duello. Grazioso il gesto di alzare la spada e colpire l'avversario. Uno, restato tocco, zoppicava come se fosse ferito. L'altro gli faceva le volte attorno mentre il ferito girava sopra se stesso spiando le mosse del nemico. Finalmente l'assalitore alzava la zampetta, calava un secondo fendente e l'altro toccato si lasciava cadere come morto, rimanendo immobile. Tutti gli altri canarini allora uscendo da ogni parte li correvano intorno e, cantando in suono lamentevole, giravano confusamente. Quindi lo prendevano col becco e lo strascinavano sopra un piccolo rialzo posto in mezzo al tavolino; e stando sempre immobile il finto morto, col becco gli stendevano sopra una piccola carta in forma di drappo funebre e su questa carta ponevano del fieno che stava riposto in un angolo del tavolo. Così sepolto e sotterrato il compagno correvano via alle estremità del tavolo con movimenti di testa, con rotti e lenti gorgheggi, in apparenza di orrore e dolore e di là alzavano il becco come per vedere il tumolo e movendo sempre il capo riprendevano il canto funebre. Ma ad un tratto il morto sbatteva da sè [418] carta e fieno, saltava in piedi e incominciava un lieto gorgheggio. Allora tutti gli altri canarini gli correvano intorno e gli facevano eco con un canto festoso.
Sembrava impossibile se non si fosse visto, che si potesse ammaestrare e rendere obbediente a quel punto una famiglia di volatili. D. Bosco ne avea sentito parlare, quindi mentre raccoglieva giovani per condurli nell'Oratorio a Porta Nuova, passando in piazza S. Carlo si era fermato alquanto per assicurarsi dell'abilità di quel notaio. Allora accadde un caso strano. Mentre quei canarini fuggivano all'appressarsi troppo di qualche spettatore, non si spaventarono all'avvicinarsi di Don Bosco, ma gli volarono sulle spalle, sulle braccia e sulla mano, e si lasciarono accarezzare da lui. Egli non tardò a farsi amico col giocoliere, interessandolo a raccontare i varii modi usati nell'addomesticare gli uccelli, le molte prove fatte con varie specie, e specialmente la riuscita coi canarini, che più di tutti si arresero facili a' suoi ammaestramenti. Era questa l'arte di D. Bosco per affezionarsi le persone: secondare il loro genio. Quel notaio perciò venne molte volte in Valdocco, e fu da lui invitato a fare la Pasqua e a mandare all'Oratorio festivo un suo figliuoletto che lo aveva accompagnato nell'esiglio. Egli era contentissimo della sua riuscita in questo esercizio e dell'amicizia con D. Bosco, senonchè venne a funestarlo la malignità e l'invidia. Un mattino trovò tutti i canarini morti asfissiati nella loro gabbia, nella quale un malvagio aveva introdotto denso fumo di tabacco. D. Bosco volle prendere sopra di sè parte della spesa pel mantenimento del figlio di quell'uomo disgraziato, e il giovanetto venuto all'Oratorio diceva a D. Bosco: - Mio padre aveva faticato tanto nell'addestrare quelli uccelli! quanto ha sofferto per questa cattiva azione! [419]
Il secondo emigrato che D. Bosco soccorse era tale che avrebbe riempiuto di sua fama il mondo. Nel 1852 D'Azeglio e Cavour non avevano ancora per gli emigrati politici quella tenerezza che mostrarono qualche mese più tardi. Si era proposto a Francesco Crispi dì scrivere nel Risorgimento, organo ufficioso di colore moderato, tanto moderato che contava fra i suoi abbonati un buon numero di cattolici sinceri; ma Crispi fieramente rifiutò. Avendo poi chiesto il posto di segretario comunale a Verolengo, non gli fu accordato. Crispi conobbe allora la miseria. Un giorno in Torino si fermò al passaggio di un gruppo di fanciulli accompagnati da D. Bosco, il quale avvertiti i tratti sofferenti di quell'osservatore e comprendendo che aveva fame, l'invitò a casa sua e gli diede da mangiare. Per un mese e mezzo sovente lo faceva sedere alla sua mensa; e s'intratteneva con lui dei suoi vasti progetti per l'educazione della gioventù, poichè vedeva come il povero emigrato non si fosse ancor potuto, nel corso della sua esistenza agitata, sottrarre completamente all'influenza della sua prima cristiana educazione. Crispi aveva presa a pigione una stanzetta presso la Consolata, e D. Bosco incaricava talora il Sig. Bargetti Castelnuovese, di portargli il pranzo. Gli diede inoltre del danaro, e un giorno visto che ormai le sue scarpe erano logore incaricò il proprio calzolaio a portargliene in dono a suo nome un paio di nuove. Crispi si confessò anche da D. Bosco e molte feste le passava con lui. Così ebbe occasione di studiare i miracoli che accompagnano la fede e la carità cristiana, provandone egli stesso i beneficii, che mai non dimenticò, sebbene per lunghi anni non desse segno di ricordarsene. Quando, mutata fortuna, ritornò a Torino ed ebbe preso alloggio in un nobile appartamento, una signora che lo aveva soccorso nei tempi di sventura andò a visitarlo per congratularsi con lui; ma egli non volle ravvisarla. Don [420] Bosco però non si fece allora vivo per lui; egli era un giusto conoscitore ed estimatore degli uomini.
Anche un tal M.... fu accolto da D. Bosco nell'Oratorio, mentre era sprovvisto del necessario. Certa gente però non cambia costume, perchè il loro cuore indurato non è più sensibile alle salutari influenze della religione. M.... adunque fece vedere al giovanetto Francesia un libretto di memorie della sua vita, ove descrivevansi geste poco onorevoli ed erotiche. Francesia ne riferì a D. Bosco, il quale subito risolse di toglierlo di mezzo ai giovani. Tuttavia non gli resse l'animo a gettarlo in mezzo ad una strada, e nel 1853 lo traslocò in due stanze che aveva prese a pigione presso la Giardiniera. Egli era un settario, che poi ebbe un lucroso impiego come scrittore dell'Opinione. Pesavano anche su di lui gravi sospetti che fosse un delatore. Essendo in compagnia di un amico, incontrò un giorno Francesia già chierico, e con aria d'importanza, disse all'altro: - Ecco una delle future speranze della patria! - Col libretto delle sue memorie aveva forse tentato di incominciare una educazione patriottica! Ma, levato lo scandalo, D. Bosco continuava la sua carità per amore di N. S. Gesù Cristo.
A questi tre va aggiunto un quarto. Così ci scrisse il nostro confratello D. Caimo. “Un celebre Professore di un Istituto Superiore di cui mi è fuggito il nome ebbe a dichiararmi quanto segue.
“Io era agli studii in Torino. Era indebitato, e non sapevo a chi rivolgermi per vivere. Mi recai all'Oratorio. Mi apersi con D. Bosco e lo pregai a venire in mio aiuto. Io l'avrei ricambiato facendo un po' di scuola a' suoi ragazzi. D. Bosco mi accolse con bontà più che paterna, mi soccorse come potè , disse che l'Oratorio era aperto per me ma a condizione che io mi adattassi alla vita comune e n'adempissi [421] i doveri …..Capirà che le mie idee religiose e politiche, diceva il professore, erano e sono diametralmente contrarie al prete mio benefattore. Io non potei stare con lui; la mia educazione, le mie convinzioni riluttarono. Me ne andai, ma colla persuasione e certezza che D. Bosco era un uomo singolare, un sagace e profondo conoscitore degli uomini, un vero e abilissimo educatore. Questa convinzione io l'ho tuttavia e non arrossisco nel riconoscerlo e dichiararlo mio benefattore, e nel proclamarlo un grande italiano e un santo sacerdote”.
Appare evidente come la carità di D. Bosco era simile alla bontà del Padre celeste, che fa sorgere il sole e cadere la pioggia egualmente pei giusti come per i peccatori. Tuttavia vi furono emigrati politici che gli diedero grande consolazione. Venne a battere alla porta dell'Oratorio, e vi rimase per lungo tempo, il Sac. D. Zattini uomo dotto e professore di filosofia, il quale a Brescia era stato impeso in effigie, condannato per ribellione. Dalle sue labbra non sfuggì mai nell'Oratorio parola di politica e volentieri accettò di fare scuola del leggere e scrivere ai rozzi giovanetti esterni. Egli era modello di umiltà e di pietà.
Venne pure a cercar rifugio il giovane e valente musico Suttil Gerolamo, ricercato a Venezia dalla polizia per incaute parole. Egli prese ad amare D. Bosco, rallegrò per molti anni l'Oratorio colle sue canzoni veneziane, e, andato in Francia, ritornò in Valdocco, sempre fervoroso cristiano e quivi finiva i suoi giorni. Omettiamo alcuni altri.
D. Bosco però pareva avesse uno speciale intuito per conoscere i veri poveri da quelli che tali si fingevano. Una sera ad ora già inoltrata D. Bosco passeggiava in una via remota di Roma, rischiarata languidamente da un fanale, quando una donna gli si avvicinò tenendo in braccio, come pareva, [422] un suo bambino fasciato e coperto. Con voce lamentevole quella donna chiedeva che si avesse compassione di una povera madre di famiglia nell'estrema miseria. D. Bosco non rispondeva e proseguiva il suo cammino. Noi che gli eravamo al fianco, commossi da quelle preghiere ripetute, gli facemmo osservare la convenienza di far elemosina. D. Bosco allora, che pure aveva una vista molto debole, alzò alquanto la voce e disse: Ma non vedete che quella donna c'inganna? Non è un bambino che tiene in braccio, ma un pezzo di legno che ha rivestito. - A quelle parole la donna si ritirò in fretta e scomparve in una via attigua.
Eccettuato adunque il caso nel quale fosse per lui evidente che lo si voleva ingannare, D. Bosco era sempre generoso coi poveri. Noi per certa scienza possiamo asserire che ogni anno, o in danaro per elemosine necessarie, o in condono di debiti a chi era nelle strettezze, versava più migliaia di lire a pro dei bisognosi. E non solo a questi, ma eziandio agli abbienti, specie quelli che venivano dai paesi in Torino, contadini ed operai, in modi diversi dava soccorso, particolarmente coll'ospitalità. Erasi proposto per fine di impedire le trasgressioni alle leggi di Dio e della Chiesa colle tristi conseguenze del rispetto umano. Tra le varie testimonianze del nostro asserto; rechiamo quella del negoziante Filippello Giovanni di Castelnuovo, la quale ci dà eziandio un bozzetto di D. Bosco e dell'Oratorio in questi anni.
“Venendo io moltissime volte a Torino, di tanto in tanto scendeva in Valdocco a visitare D. Bosco, ed ogni anno trovava sempre cresciuto il numero dei giovani ricoverati. Un giorno lo incontrai vicino al palazzo reale ed essendo giorno di venerdì, egli mi invitò con molta insistenza ad andare a pranzo all'Oratorio, per timore, mi diceva, che nell'osteria i cibi eziandio magri fossero conditi col grasso. [423] Incamminatici, tutti i momenti D. Bosco mi faceva cenno di arrestare il passo e di pazientare; ed egli si fermava a parlare con ogni sorta di persone. Entrato poi nell'Oratorio, tutti i giovani gli si affollarono intorno a baciargli la mano, dandogli tanti segni di rispetto e di affezione che io ne restai proprio commosso. Essendomi poi fermato nell'Oratorio anche nella susseguente notte, vidi al mattino che tutti i giovani si portavano in chiesa a sentire la messa detta da D. Bosco ed io pure ebbi il piacere di sentirla nell'antica chiesuola. Mi sono allora persuaso che i giovani erano molto buoni e credo che parte di essi, se non fossero stati ritirati e ben diretti da D. Bosco, avrebbero finito malamente”.
Ed è così che la carità di D. Bosco era ricompensata, chè Dio fa sempre buono con lui più che una madre.
DON Bosco intanto non perdeva di mira la Congregazione che doveva fondare. Sovente, e ciò per molti anni, trovandosi in mezzo ad un crocchio dei suoi giovani o dei chierici, scherzando al solito, finiva con sedersi in terra colle gambe incrociate e cogli alunni intorno a lui egualmente seduti. Egli teneva allora in mano il suo bianco fazzoletto e formatane come una palla la faceva saltare da una mano all'altra. I giovani silenziosi osservavano quel giuoco, ed: - Oh! esclamava ad un tratto; se potessi avere con me dodici giovani dei quali io fossi padrone di disporre come dispongo di questo fazzoletto, vorrei spargere il nome di N. S. Gesù Cristo non solo in tutta l'Europa, ma al di là, fuori de' suoi confini, nelle terre lontane lontane. E non aggiungeva altra spiegazione. Queste parole le ripeteva nel 1857 essendo presente e ancor giovanetto D. Piano, Oggi (1904) parroco della Gran Madre di Dio in Torino. [425]
Nello stesso tempo D. Bosco cercava nelle prediche, nelle conferenze e ne' discorsi d'insinuare l'amore per una vita tutta consecrata a Dio e alla salute delle anime. Talora parlava ai giovani del vantaggio della vita comune, del non dover pensare all'avvenire, del non aver fastidii nel procurarsi il necessario alla vita, della bontà della Provvidenza che non abbandona mai i suoi servi. Ragionava però sempre indirettamente, non facendo allusione alla vita religiosa. Descriveva eziandio qualche tratto glorioso dei santi che avevano consecrati a Dio i loro giorni nei conventi; ma dal lato poetico ed attraente, in modo che si comprendesse la perfezione di quello stato, e senza che per nulla sembrasse raccomandarlo. L'unico invito che faceva agli alunni si era di volerlo aiutare; e facendosi forte dell'amore che gli portavano, esprimeva il desiderio di averli sempre al fianco, di poterli sempre guidare verso il paradiso, di poter stare un giorno per sempre insieme con essi nella beata eternità.
Talora servivasi di motti misteriosi per provocare la loro curiosità. - Ho bisogno da te di una cosa: quando farai la confessione della vita futura?
Ad un altro: - Sei allegro? Stai bene? Ora adunque bisogna che ti prepari a fare la confessione di tutta la tua vita futura. - Con ciò intendeva parlare specialmente della loro vocazione ecclesiastica, insistendo sull'importanza di pensarvi seriamente e per tempo.
Di quando in quando a questo e a quello Vuoi ti tagli la testa? Ho bisogno che ti lasci tagliar la testa! Con ciò indicava la perfetta obbedienza al Direttore dell'Oratorio, della quale descriveva sovente i vantaggi ed i pregi; ma senza indicare in quale stato specialmente questa si può osservare. [426]
In quanto alla virtù, si prefisse di non esigere di più da essi di quello che si richiede ad un buon cristiano per salvar l'anima. Quindi non parlava di meditazioni metodiche, nè di ritiri spirituali prolungati. Già d'allora suppliva pienamente con altri mezzi, e si videro giovani salire al più alto grado di perfezione. Se avesse dato alla sua Casa un aspetto di vita troppo regolare o monastica, avrebbe perduto tutto. Nel decorso di questa storia lo vedremo ascendere sempre, ma insensibilmente, verso il suo ideale, cioè fino a condurre le cose al punto, da porre al pari di ogni altra Congregazione la Pia Società Salesiana.
Egli lavorava indefessamente a questo scopo, ma la parola Congregazione non la pronunziò se non dopo quattordici anni dacchè preparava il terreno. Prevedeva eziandio che appena avesse sollevato alquanto il velo che copriva il suo progetto, non pochi gli avrebbero mosso opposizioni e guerra ostinata, non solo il mondo, ma e vescovi e parroci e i parenti dei giovani e i giovani stessi. Aveva argomenti di prevederlo. E così fu. Infatti, se prima molti lo ammiravano, lo gridavano uomo grande e santo, dopo fu per essi un fanatico, un ostinato, un presuntuoso, un fautore di discordie, un uomo che voleva sottrarsi all'altrui giurisdizione e fare regno a parte. Ma Dio così voleva.
Quindi per superare gli ostacoli preveduti, studiava e si valeva di ogni vincolo possibile onde legare i giovani a sè ; ecco la ragione per cui di quando in quando parlava della sua persona, di quello che il Signore operava per mezzo suo, che raccontava certi sogni i quali si avveravano sotto gli occhi di tutti, che faceva intendere aver desso una missione speciale per vantaggio dei giovani, che dimostrava ad ogni istante la protezione speciale della Madonna sull'Oratorio. Tutto ciò dovea servire per far intendere quanto fortunati sarebbero quelli [427] che si fermassero a prestar l'opera loro in un luogo tante, prediletto a Maria.
Tuttavia a quando a quando raccontando a' suoi giovani i fatti antichi avvenuti all'Oratorio, per escludere l'idea dalle loro menti che in qualche modo egli potesse farlo per suo vanto, diceva: - Narro di tanto in tanto cose relative all'Oratorio antico ed anche riguardanti a me. Mi sembra di poter dire: Meminisse invabit, perchè questi fatti dimostrano mirabilmente la potenza di Dio. Non mi pare che in questi racconti ci entri la vanagloria; oh no, non c'entra, ringraziando il Signore. Questi racconti insegnano molte cose. Dio ha voluto compiacersi di operare cose grandi, servendosi di un misero strumento. Desidero che ciò si conosca, perchè innalziamo il nostro pensiero a Dio per ringraziarlo di quanto volle fare in nostro vantaggio.
Ed egli ringraziavalo continuamente il Signore, e non solo dei tanti benefizii che gli aveva largiti, sibbene delle molte grazie che sapeva essere per lui preparate. Basta che ricordiamo ciò che già abbiamo detto.
Quando D. Bosco nel 1846 e nel 1849 faceva adunanze con D. Pacchiotti ed i preti impiegati con lui al Rifugio, con D. Cocchis e con varii altri e si parlava e si discuteva sul modo di ordinare stabilmente l'Oratorio festivo, egli finiva sempre con rispondere alle difficoltà che gli erano mosse come e chierici e preti, tutti suoi, sarebbero venuti in suo aiuto e che avrebbero condotto ogni cosa a compimento. Allora varii di que' sacerdoti che sembravano tanto zelanti per gli Oratori, abbandonandolo un dopo l'altro, sembrava dessero una smentita anticipata alla profezia, che era per essi oggetto di risa. Eppure non tardarono a comparire i primi chierici predetti. Questi erano già benevisi ad ogni classe di persone, perchè in pubblico e in privato si prestavano a molte [428] opere di carità, sia pei loro compagni assistendoli, sia facendo scuola serale e il catechismo nei varii Oratorii festivi, sia raccogliendo i giovani sparsi alla Domenica per i prati, cercando per loro un padrone quando erano disoccupati, visitandoli sul lavoro, recandosi talvolta alle loro case quando erano infermi, secondo le indicazioni loro date da D. Bosco; e nello stesso tempo studiavano per sè , frequentando le rispettive scuole.
Nel 1852 il Teol. Pacchiotti predicava nell'Oratorio la novena dello Spirito Santo. Egli era molto amato dai giovani e il giorno della festa dopo la predica fu accompagnato a prendere qualche rinfresco in una camera a pian terreno. Vennero pure con lui otto chierici, e si assisero tutt'intorno. Entrò allora D. Bosco, e D. Pacchiotti dandogli una leggera palmata sulla spalla e fissandolo commosso, gli disse: Adesso credo che avrai preti e chierici. - Adesso credo che hai una chiesa ed una casa, gli ripetè ritornato un'altra volta a Torino quando la costruzione della casa nuova era alquanto avanzata. - E alcuni di quelli che gli davano prima del pazzo venuti a predicare nella chiesa di S. Francesco, non poterono a meno di ricordare come essi avessero creduto impossibile ciò che ora constatavano coi loro occhi. Eppure ciò che essi vedevano non era che un esiguo principio, un tentativo di ciò che avrebbero visto poi.
E D. Bosco prendevasi gran cura di preparare per quel giorno sospirato alcuni tra i più buoni e più fervorosi avvezzandoli a qualche pia usanza delle società religiose.
Quindi a quando a quando continuava a tenere a questi soli qualche conferenza. Fra essi era il Diacono Guanti Gioachino che faceva scuola di lingua latina. Il 5 giugno 1852 D. Bosco li radunava e li esortava a scegliersi fra i compagni un monitore segreto, il quale caritatevolmente [429] avvertisse colui che lo aveva scelto a questo uffizio dei difetti nei quali fosse caduto per guardarsene. Rua Michele per suo monitore segreto scelse Reviglio, e ci assicurava che gli avvisi dati dall'amico gli giovarono immensamente. Di questa conferenza abbiamo memoria in una cartolina scritta da Rua Michele in questi termini:
D. Bosco, D. Guanti, Bellia, Buzzetti, Gianinati, Savio Angelo, Savio Stefano, Marchisio, Turchi, Rocchietti 1°, Francesia, Bosco Francesco, Cagliero, Germano, Rua.
Si radunarono questi per la conferenza il sabato sera degli 5 giugno 1852. In questa conferenza si stabilì di dover dire ogni domenica le sette allegrezze di Maria SS. L'anno venturo si osserverà chi di questi avrà perseverato ad eseguire ciò che si è stabilito sino al sabato prefisso, cioè il primo sabato del mese di maggio.
O Gesù e Maria, fate tutti santi coloro che sono scritti in questo piccolo foglio.
Il motivo non palesato di queste preghiere era di poter dare vita alla Pia Società Salesiana. E furono perseveranti osservatori di ciò che aveva loro consigliato D. Bosco; persuasi che loro ne sarebbe venuto un gran bene.
Intanto i lavori della chiesa di S. Francesco si promossero con tanta alacrità, che nel mese di giugno del 1852 questa era terminata. Il dottor Francesco Vallauri, la signora sua consorte e il degnissimo loro figlio il sacerdote D. Pietro, provvidero l'altare maggiore. Il comm. Giuseppe Duprè fece abbellire la cappella a sinistra entrando, dedicata a S. Luigi Gonzaga, e procurò un altare di marmo. I nobili coniugi Marchese Domenico e Marchesa Maria Fassati si assunsero la spesa del secondo altare laterale ad onore della Santissima [430] Vergine, e lo adornarono di una bella statua della Madonna. Il signor Michele Scanagatti regalò candelieri eleganti; Don Giuseppe Cafasso pagò la spesa del pulpito; altro benefattore ordinò l'orchestra, fornita poscia di un piccolo organo. Insomma, se D. Bosco spiegò in quell'occasione una grande attività ed uno zelo straordinario, la pietà cittadina, o meglio la divina Provvidenza lo confortò sempre del suo validissimo appoggio.
Il 7 aprile il Provicario Generale Celestino Fissore aveva concesso a D. Bosco la facoltà di benedire un tabernacolo nuovo per servizio degli Oratorii, e nella domenica a sera 22 maggio il R. D. Gattino, Curato di SS. Simone e Giuda aveva benedetta la nuova campana che era stata posta sul campanile costrutto a fianco della Chiesa di S. Francesco di Sales.
Questa pure attendeva la sua benedizione e D. Bosco desiderava avere qualche Prelato per compiere la sacra funzione colla massima solennità. Quindi si rivolse prima all'Arcivescovo di Vercelli, e poi al Vescovo d'Ivrea, col quale si era già intrattenuto con un suo progetto di associazione di libri popolari. Ambedue però non potevano venire, per le ragioni che si leggono nelle loro risposte.
Ben volentieri lo verrei a prendere parte alla consolazione di V. S. M. R. al cui zelo va debitrice cotesta Capitale del nuovo Oratorio di S. Francesco di Sales, destinato all'istruzione della gioventù torinese e così trovarmi fra la schiera dei numerosi giovanetti, che allietano una festa così commovente. Ma alla vigilia di compiere 72, anni, perseguitato dalla tosse e da alcuni incomodi inseparabili compagni della grave età non sono in grado di poter corrispondere al grazioso di Lei invito. Quindi mentre ne La ringrazio nella speranza che [431] Ella ben converrà meco della ragionevolezza del motivo da cui sono impedito, La riverisco profondamente e mi professo con profonda stima....
Con singolare piacere in altre circostanze sarei venuto a compiere le sacre funzioni per la benedizione e l'apertura della nuova Chiesa da V. S. Pre.ma e dai zelanti cooperatori innalzata; e ciò avrei fatto con verace gioia per l'opera stessa, per Lei, e pel Sig. Dottore Vallauri Priore di quest'anno, a cui porto tanta stima. Ma è proprio così: non possum venire. Ho di già fissa per quel giorno una funzione pubblica in città coll'amministrazione della S. Confermazione; alla domane ricorre il mio giorno onomastico, ed altra funzione nel piccolo Seminario; poi l'anniversario del mio battesimo: giorni questi che passo volentieri ritirato in casa; e contemporaneamente occorrono gli esami finali dei chierici studenti di teologia e di filosofia. Mi rincresce veramente; non possum.
Gradirò moltissimo di leggere il manoscritto: Avviso ai Cattolici. Dal mio segretario ricevei altresì una nota sulle due Filadelfie. Parlai con alcun Ecclesiastico forestiero della piccola Biblioteca e tutti convengono della necessità e dell'immanchevole successo.
Desidero vivamente, e prego il Signore che sia bella e feconda d'ogni miglior bene quella festa a cui assisterò in ispirito; e frattanto ho caro di dirmi con distinta parzialissima stima....
Ricevute queste lettere, D. Bosco presentò la sua domanda in Curia.
La fabbrica della nuova chiesa per l'Oratorio di S. Francesco di Sales in Valdocco essendo ridotta a segno di potervi decentemente celebrare i divini misteri, il sacerdote D. Giovanni Bosco supplica umilmente V. S. Ill.ma e Rev.ma a permettergli la traslazione dei pii esercizi dal primo Oratorio nella suddetta chiesa, riducendo quello ad uso profano, come pure di degnarsi la S. V. Ill.ma a benedire la nuova chiesa, oppure delegare a questo uffizio qualche Ecclesiastico.
La Curia faceva pervenire sollecitamente il suo rescritto.
“V. Si delega il sig. Curato di Borgo Dora a benedire il nuovo Oratorio, secondo la forma del Rituale Romano, dopo la quale benedizione si dichiarano in esso trasportati i pii esercizi e le facoltà concesse all'antico, che si permette ridursi ad uso profano.
D. Bosco aveva intanto mandato ai benefattori l'invito perchè intervenissero alla funzione.
Giorno di grande consolazione per me, e credo altrettanto per V. S. Ill.ma, è la Domenica del 20 corrente giugno, in cui sono appagati i nostri desiderii, le nostre aspettazioni, [433] colla benedizione della novella chiesa di S. Francesco di Sales, al cui favore ha in tante guise voluto adoperare zelo e carità.
E’ vero che il sacro edifizio non è ancora ultimato, ma le operazioni sono al punto che già si può benedire, celebrarvi convenevolmente le sacre funzioni, e soddisfare così al grave nostro bisogno.
La sacra funzione comincerà alle ore 8 e ½ del mattino. Alla benedizione seguirà il santo sacrifizio della messa per tutti i benefattori dell'Oratorio; tra la messa alcuni giovani faranno la loro comunione. Indi avrà luogo analogo discorso e termineranno le funzioni colla benedizione del SS. Sacramento. La sera alle 3 e ½, ci sarà vespro, solita predica e benedizione col SS. Sacramento.
Nell'uscire di chiesa, Ella è pregata di recarsi nel locale della chiesa vecchia per trattenersi alcuni minuti cogli altri benefattori dell'Oratorio, e così insieme consolarci col Signore che in modo sì straordinario ci ha aiutati a compiere l'opera sua.
Ella avrà un posto stabilito per assistere comodamente alla sacra funzione, ed è mia precisa intenzione di usarle in tal giorno tutti i riguardi che la sperimentata di Lei carità e condizione si meritano se però nella moltiplicità delle cose non si potranno usare tutti quei tratti di rispetto, che per più titoli Ella si merita, La prego a volermi dare benigno compatimento, chè di certo non è mancanza di buona volontà.
Venga V. S. con quelle persone che Le sono di particolare conoscenza, e che sa essersi in qualche modo adoperate per quest'opera di cristiana pietà; comune è la festa, comune sia la gloria che in tal giorno al Signore si rende, comune spero che sia altresì il bene che ridonderà alle anime nostre.
Persuaso che nella sua carità voglia continuare a promuovere il bene di questo nostro Oratorio, coi sentimenti [434] della più viva gratitudine La ringrazio di tutto cuore, assicurandola che mi sarà sempre un grande onore tutte le volte che mi potrò dire
Dall'Oratorio, 16 Giugno 1852.
D. Bosco aveva pure invitato il sig. Sindaco di Torino. Egli vi sarebbe intervenuto di buon grado, come fatto aveva al collocamento della pietra fondamentale; ma ne venne trattenuto da impedimenti, che si degnò manifestare con lettera, la quale è testimonianza della religiosità del capo del Municipio Torinese e della stima che aveva dell'opera dell'Oratorio. Ecco che cosa scriveva a D. Bosco, in data del 18 giugno:
Egli si è con ben sentita soddisfazione che il Sindaco sottoscritto ha ricevuto il grazioso invito che la S. V. Ill.ma e M. R. gli porge coll'apprezzato di Lei foglio contro indicato; ed è pari il suo rincrescimento che la funzione religiosa al mattino per la ricorrenza della festività di M. V. della Consolata, cui deve intervenire insieme colla rappresentanza comunale, e la congrega al dopo pranzo della Congregazione di Carità di Reaglie, cui è chiamato altresì ad assistere, gli tolgano di profittarne come sarebbe suo ben vivo desiderio. Egli è lieto di veder instaurata la istituzione dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, per le di Lei zelanti sollecitudini sorta a vantaggio della nostra gioventù artiera, che troverà così modo di educarsi a religione ed a civile virtù.
Ei prega quindi la S. V. a voler accogliere l'attestato di sua ossequiosa devozione.
Consimili motivi trattenevano anche il Vicesindaco.
MUNICIPIO Di TORINO. GABINETTO DEL VICE SINDACO.
Torino, addì 17 di giugno 1852.
Domenica 20 alle ore 9 del mattino celebrandosi una messa nel Santuario della Consolata con intervento del Municipio il sottoscritto con suo rincrescimento non potrà assistere alla funzione per cui riceve il gentile invito dal V. Sac. D. Giovanni Bosco col foglio del 16 corrente. Quando la necessità di passare qualche ora nel palazzo civico per la spedizione delle cose urgenti, e parecchi doveri di famiglia gliene lascino il tempo si troverà molto volentieri alle 3½ pomeridiane nell'Oratorio, ed al successivo colloquio nel locale della Chiesa Vecchia.
Sa il sottoscritto distinguere nel cortesissimo invito la parte che ai suoi colleghi e non a lui può soltanto essere giustamente indirizzata: giacchè egli non solo fu il minimo dei cooperatori alla santa opera, ma anche come minimo conosce essere molto addietro da quelli che avranno il più poco operato. Se ha una parte eguale agli altri si è soltanto nel contento della bene riuscita impresa e nella sincera estimazione del promotore ed autore della medesima V. Sac. Bosco, al quale professa la maggior considerazione, e la gratitudine dì cittadino, e l'affezione di buon cristiano per tutto il bene che egli opera colla guida e protezione di Dio.
Anche il famoso naturalista ed archeologo Baruffi così scriveva a D. Bosco in questa occasione [436]
Ringrazio vivamente la S. V. del cortese invito per la bella solennità di Domenica, cui mi duole davvero di non poter intervenire, perchè devo assentarmi da Torino per un po' di giorni.
Mi associo però di gran cuore a quest'opera santa, e Le prego dal cielo la continuazione dei suoi favori, acciò Ella possa avere la consolazione di vedere compiuti così onesti ed evangelici desideri.
Il nome della S. V. resterà scolpito a caratteri indelebili nel cuore dei Torinesi e di quanti conoscono e sanno apprezzare le caritatevoli sollecitudini ed i sacrifizi continui che Ella fa a pro dei poveri giovani abbandonati per ricondurli sulla buona via e procurare loro col pane materiale anche quello dell'anima.
Aggradisca i miei rispetti e augurii cordiali di prosperità per la sua degna persona, acciò l'Oratorio da Lei fondato possa svilupparsi ogni dì vieppiù e produrre quei frutti che la civiltà e la religione si aspettano.
Mi è dolce la presente occasione in cui posso ripeterle l'espressione dei sentimenti della mia alta considerazione e professarmi
D. Bosco, sebbene in que' dì occupatissimo, tuttavia seppe invocare la musa, e compose un'ode di circostanza, soavissima nella sua semplicità e che noi qui riproduciamo. Portava questa intestazione: Nel giorno in cui si benediceva la nuova Chiesa dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, i giovani al [437] medesimo addetti, nel colmo della loro gioia, i sentimenti dello più sincera gratitudine verso i loro benefattori così esprimevano.
Come augel di ramo in ramo |
Ora lieti festeggiate, |
Va cercando albergo fido, |
Quai guerrier dopo vittoria, |
Per poggiare ansioso il nido |
Cui la vera e santa gloria |
E tranquillo riposar; |
Solo il merto procacciò. |
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Non si posa in valli o in monti, |
Il Signor v'ha compensati, |
Non per campo o per foresta, |
La fatica è coronata, |
Nol trattien turbo o tempesta |
Nostra chiesa è consacrata, |
Finchè il nido non formò: |
Che bramar possiam di più? |
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Così noi oltre dieci anni |
Presto adunque, o cari figli, |
Questo nido abbiam cercato, |
Corriam tutti al Tempio santo, |
Nè dal ciel mai ci fu dato |
Innalziamo a Dio un canto |
Di poterlo ritrovar. |
Pel favor che c'impartì. |
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Ora un prato, or un giardino, |
Oh! Signore onnipotente |
Or cortile, stanza o strada, |
Che al meschin mai nulla nieghi, |
Talor piazza oppur contrada |
Deh! benigno ai nostri preghi |
Oratorio era per noi. |
Tu ci ascolta in questo dì. |
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Quando alfin pietoso Iddio |
Fa' che questo nuovo tempio |
Volse a noi benigno un guardo, |
Al tuo nome consacrato, |
E due lustri di ritardo |
Mai non sia profanato |
Largamente compensò. |
Da chi fede in cuor non ha. |
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Compensò ci diè le scuole, |
Fa' che quanti qua verranno |
Un giardino per trastulli; |
Supplicanti tuoi divoti, |
Quasi nido per fanciulli |
Abbian paghi i loro voti; |
Una casa apparecchiò. |
Porgi aita, dà mercè . |
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Compensò …Ma che dir più? |
E tu, Vergine beata, |
Ogni speme fu appagata, |
Che appo Dio tutto puoi, |
Già la chiesa è consacrata, |
Benedici i figli tuoi, |
Sono paghi i nostri cuor. |
Fede, speme inspira e amor; |
|
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Egli è ver, signori amati, |
Fa' che mai per opra ria |
Per più mesi faticaste, |
Noi cessian d'esser tuoi figli, |
Caldo, freddo tolleraste |
Tu ci franca dai perigli |
Per la casa del Signor: |
Dell'incauta nostra età. |
|
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Negazion di spasso e sonno, |
Ma qual cosa tu darai |
Non disagi, affanno o stento, |
Ai benefici signori, |
Non la pioggia o turbo o vento |
Che lor pene e lor sudori |
Vostro zelo rallentò. |
Consacrarono al tuo onor? [438] |
Tesserai, Vergine bella, |
Noi intanto grato il core |
Su nel Ciel di fiori un serto, |
In caratteri dorati |
Che ricambi ogni lor merto, |
Scriveremo in tutti i lati |
Con quel ben che fin non ha. |
VIVA ETERNO QUESTO DÌ. |
Nè per tempo o per vicenda |
Non sia mai che si cancelli |
Questo dì, che fra' più belli |
Tra di noi sempre sarà. |
Quest'ode fu stampata a migliaia di copie, messa in musica, e i giovani l'avevano imparata.
In mezzo ai preparativi della festa nell'Oratorio, interni ed esterni erano tutti in gioia e questa manifestossi con impeto irresistibile il giorno 14 di giugno.
Così narrava il prof. Raineri che frequentò l'Oratorio dal 1846 al 1853.
“Era nel pomeriggio di una Domenica; D. Bosco ci aveva narrato con tanta evidenza, con quel suo modo espositivo naturale che incantava, la storia del pastorello Davide divenuto Re e terminò coll'esclamazione: Ecco il pastorello divenuto re! - Noi tosto esclamammo: - Evviva D. Bosco nostro Re! Detto fatto: i giovani più alti e robusti gentilmente sollevarono sulle spalle D. Bosco e lo portarono in trionfo per il cortile giardino, e noi seguendolo in giro cantammo la canzone imparata in quei giorni
Come augel di ramo in ramo |
Va cercando albergo fido ecc. |
con immenso nostro, e forse suo, diletto. Non altrimenti facevano i popoli antichi quando eleggevano a Duce un loro valente e lo alzavano sugli scudi. Oh sì! D. Bosco poteva ben essere nostro duce, nostro re! D. Bosco ne' suoi ammaestramenti ci dava regole auree, le quali, se s'addicono a tutti, sono però meglio indicate per la gioventù ed è bene ricordarle: eccone alcune: [439]
- Operate oggi in modo che non abbiate ad arrossire domani.
- Non mandate al domani il bene che potete fare oggi, perchè forse domani non avrete più tempo.
- Facciamo in guisa di star bene in questo mondo e nell'altro.
- Volete voi che il vostro compagno vi stimi? pensate sempre bene di tutti, e siate pronti ad aiutare il vostro prossimo e sarete contenti.
“E dopo le funzioni di chiesa passava un po' per tutto fra quei giovanetti differenti per età, indole, costumi, condizione ed educazione, tutti vispi ed intesi a giuocare, osservando l'indole di ciascuno, avendo una parola per ognuno, una parola cara, una parola che consolava, che ci rendeva contenti e pareva che egli ci leggesse nell'animo e ciascuno di noi tacitamente diceva: D. Bosco ci Vuol bene! - Oh sì, Don Bosco voleva bene a tutti... Come è bello riandare col pensiero que' nostri anni giovanili”
“E D. Bosco, aggiungeva Mons. Cagliero, a tarda sera li accompagnava egli stesso sino all'entrata della città per assicurarsi che andassero tosto per gruppi alle loro case. Nel passar pel Rondò, ove allora si eseguivano le sentenze capitali, più di una volta si udirono dirsi a vicenda i più giovani tra i figli del popolo: - D. Bosco ci vuol tanto bene, che se ci conducessero sulla forca, troverebbe egli ancora il modo di salvarci. - Lo stesso affermava D. Reviglio.
ULTIMATI i lavori necessarii e preparati gli oggetti occorrenti per benedire ed inaugurare al divin culto il sacro edifizio; fu scelto il 20 di giugno, terza domenica dopo Pentecoste, festa solenne in Torino ad onore di Maria Santissima sotto il dolce titolo della Consolata. Troppo lungo sarebbe il descrivere i particolari di quella giornata memoranda, giacchè per l'Oratorio fu una giornata più unica che rara. Un arco di colossale altezza erasi elevato all'entrata del cortile, portando scritte in cima con lettere cubitali queste parole:
IN CARATTERI DORATI |
SCRIVEREMO IN TUTTI I LATI: |
VIVA ETERNO QUESTO DI'. |
Fin dall'alba, da ogni parte dei prati e campi circostanti si udivano le turbe di giovani che venivano all'Oratorio cantare i seguenti versi scritti da D. Bosco:
Pria il sole dall'occaso |
Fia che torni al suo oriente, |
Ogni fiume alla sorgente[441] |
|
Prima indietro tornerà, |
Che dal cuor ci si cancelli |
Questo dì che tra i più belli |
Fra di noi sempre sarà. |
Benedisse la chiesa, secondo il rito, il Curato della parrocchia di Borgo Dora, il M. R. Teol. Don Agostino Gattino, il quale vi celebrò poscia la prima Messa e tenne un dotto discorso ad una grande moltitudine di giovanetti e di altri intervenuti della città.
Ma il più bello della festa si fu alla sera. Non ostante la sua capacità, la nuova chiesa fu letteralmente ripiena. Vi predicò il nostro D. Bosco, e tra le altre cose si ricorda che egli fece rilevare il mirabile mutamento che fatto aveva quel sito: da luogo di ricreazione, convertito in luogo di orazione; da luogo di schiamazzi, in luogo di lode e di ringraziamento al Signore; da luogo di baldoria ed anche di peccato, in luogo di amor di Dio e di santa allegrezza. Passò quindi ad esortare i giovani, che onorassero d'allora in poi quel luogo benedetto col divoto loro contegno, coll'intervento alle religiose funzioni e colla frequenza ai Santi Sacramenti. Infine fatto riflettere che le chiese materiali sono una figura delle anime, chiamate tempii dello Spirito Santo, spronò tutti a conservarle sempre pulite, cioè senza peccato, onde il Signore si compiacesse di porvi sua gradita dimora nel tempo presente, e degni li rendesse di entrare dopo morte nel gran tempio della sua eternità beata.
Una schiera della Guardia Nazionale venne pure ad assistere, sì per conservare il buon ordine, che a stento potè mantenere tanta era la calca, sì per onorare la festa e fare la salva colla sparata, che nel momento della benedizione del SS. Sacramento riuscì di un effetto mirabile. Con essa tentava di gareggiare la Guardia dell'Oratorio co' suoi fucili [442] di legno senza canne. Questo e più altre particolarità imposero alla festa una tinta così caratteristica da restarne consolate le anime pie e tratti in ammirazione gli stessi uomini di mondo.
In quella sera medesima erano intervenuti all'Oratorio i promotori e le promotrici della lotteria, varii membri del Clero e del Patriziato Torinese, e molte altre persone che avevano preso viva parte per la costruzione della nuova chiesa Quindi dopo le sacre funzioni Don Bosco tutti li raccolse in luogo appositamente preparato, che fu quello dell'antica cappella, ove nobili benefattori avevano provveduto l'occorrente per servizio di caffè e rinfreschi, e volse loro in comune una parola di ringraziamento. Toccò per sommi capi quello che si era fatto; segnalò la sollecitudine degli uni e la carità degli altri, per la buona riuscita della pia impresa, e con somma compiacenza mostrò come gli sforzi di tutti erano stati in quel mattino felicemente coronati colla benedizione del sacro edifizio. Disse che avrebbe desiderato di poter ricompensare ognuno e dei sacrifizi fatti e delle pene sofferte; ma che non potendo ciò fare di per sè , avrebbe pregato e fatto pregare i giovani dell'Oratorio il pietoso Iddio, che ne li rimunerasse coll'abbondanza delle sue benedizioni nella vita presente, e con una più splendida corona nella vita futura.
Alla cordiale allocuzione di Don Bosco tenne dietro un bel mottetto, musicato dal celebre maestro Giuseppe Bianchi di grata memoria, ed eseguito da un coro di giovanetti dell'Oratorio. Si rammenta che un giovanetto, per nome Secondo Pettiva, in sui 15 anni, fece in quel canto una parte da solo con una voce sì bella, che toccò le fibre di tutti i cuori e riscosse altissimi applausi.
In quell'occasione il nostro Don Bosco, ricolmo il cuore di una gioia indicibile, parve ritrarre la figura del profeta [443] Davide, che nel trasporto dell'arca del Signore, misto al suo popolo, fu udito a cantare e suonare divotamente. A nome di lui, de' suoi coadiutori e dei figli dell'Oratorio fu da un giovanetto letta l'ode scritta per la circostanza, ai detti signori, che l'ascoltarono con visibile compiacimento. Alla sera bei fuochi d'artificio fatti e diretti dal Teol. Chiaves nel campo in faccia alla porta dell'Oratorio posero termine alla fausta giornata.
La prefata solennità, e pel buon ordine con cui si svolse, e pel nobile scopo a cui mirava, fu riguardata di tale importanza, che persino un giornale politico di quei giorni, intitolato La Patria, credette di farne argomento di un suo articolo, che giudichiamo opportuno inserire in queste pagine, sì per completare le notizie di quel dì memorando, sì per far meglio rilevare con qual criterio fin d'allora gli uomini politici giudicavano l'opera dell'Oratorio in riguardo al benessere della civile società.
“Riputiamo nostra somma ventura, così La Patria, il venire augurando la carriera letteraria del nostro giornale col far parola di una di quelle opere, che sciolgono presso di noi l'arduo problema di essere comuni e di essere sempre interessanti, vogliam dire di un'opera di beneficenza. Nostra somma ventura, diciamo, di potere in mezzo a questa società, di cui cerchiamo giornalmente i difetti, di cui siamo tenuti a fare di quando in quando la critica, lasciare per un istante la penna mal temperata della politica, per un argomento, che incontrò sempre presso il popolo nostro sì generale simpatia.
Ma dove trovasi un animo generoso, come non troverebbe simpatia colui, che con lo zelo d'un filantropo, colla perseveranza di un apostolo, colla fede di un cristiano sacrifica i più belli anni di sua vita, supera numerosi ostacoli colla sola forza di una volontà tanto ferma quanto rassegnata, e giunge a compiere dopo molti anni di fatiche una di quelle [444] imprese, che possono onorevolmente mettersi sua traccia delle istituzioni di un Epée, di un Assarotti, di un Cottolengo? Imperocchè , se noi vogliamo por mente ai piccoli principii, a cui s'informarono le opere di quei sommi, scorgeremo facilmente come quella di D. Bosco loro s'assomigli, e come pell'immensa portata del suo beneficio sia degna di stare a lato di quella dei sommi, che abbiamo testè citato. Ma dopo aver parlato delle difficoltà incontrate, è nostro debito di non tacere gli aiuti, che in questi tempi calamitosi, in mezzo alle tempeste politiche, che raggrinzano la borsa del ricco e il cuore di tutti, vennero da ogni lato all'operoso coltivatore del campo di Dio. Nulla diremo di quelli uomini, che si unirono a Don Bosco e lo assecondarono col più illuminato zelo, ma ci piace rammentare le mille svariate forme, che assunse l'inesauribile carità cittadina per venire in soccorso a questa sant'opera; soccorso di ogni età, di ogni condizione, di ricchi e poveri, di grandi e piccoli; immenso socialismo solo attuabile e giusto, perchè eccitato da un santo ed ammirabile sentimento per cui ognuno pagò secondo le proprie forze, il pittore col suo quadro, il mercante cogli oggetti di mercatura, ma in cui la donna, sempre grande, sempre prima quando si tratta di carità, seppe spargere tutta la delicatezza della sua inesauribile bontà.
Voi vedete infatti nell'esposizione di oggetti donati alla lotteria, per cui si soccorre efficacemente l'Oratorio, il sacrifizio dei divertimenti, quello delle passeggiate, quei di giocattoli consecrati a seconda dell'età a sollievo del povero; vedete questa carità multiforme ed indiretta, qual si conviene a quelli esseri sensibili e delicati, che compongono la più bella parte delle opere di beneficenza, patronandole e mantenendole per lasciare all'uomo, specie più rozza e meno intelligente, l'aiuto, diremo, brutale del denaro. [445]
Abbiamo detto brutale, perchè crediamo che colui, il quale fornisce il mezzo materiale di compiere un'opera, sta a colui che la inizia e la tira a conclusione, come il soldato che combatte sta al generale che comanda; ma, dicendo brutale, non vogliamo menomare per nulla la santità del suo uffizio. Infatti la missione che Don Bosco ha posto sotto l'invocazione di San Francesco di Sales è grande e degna di considerazione. Sottrarre la gioventù agli ozi domenicali, per mantenerla in una religiosa od onesta occupazione, è cosa tanto bella, che noi crediamo dover ricorrere alla semplice e perciò sublime penna del suo autore per accennarla.
Egli si confessa di aver veduto “con profonda tristezza molti di coloro, che si sono dedicati per tempo all'esercizio delle arti e delle industrie cittadine, andare nei giorni di festa consumando nei giuochi e nelle intemperanze la sottile mercede guadagnata nel corso della settimana, e desioso di portare rimedio ad un male da cui sono a temere funestissime conseguenze, divisò di aprire una casa di domenicale adunanza, in cui potessero gli uni e gli altri aver tutto l'agio di soddisfare ai religiosi doveri e ricevere ad un tempo un'istruzione, un indirizzo, un consiglio per governare cristianamente ed onestamente la vita”.
Ecco quale sia l'opera che Don Bosco viene con tanta semplicità annunziandoci, e che intraprendevasi ieri, consecrando l'Oratorio di S. Francesco di Sales in Valdocco. L'Oratorio è semplice e modesto, come si conviene a chi aspetta e deve alla pubblica generosità il suo decoro, ma le sue navate sono piene di fedeli e la fede è il più bell'ornamento della Casa di Dio. Questi fedeli traevano ieri in folla illuminati da quel sole, i cui raggi sembrano una benedizione a coloro, che si vestono di una gioia religiosa e tranquilla. Tutto concorreva a far vivere in eterno quel giorno nel cuore [446] di ognuno, eterno in quelli che sono sottratti al vizio, e che devono la riconoscenza; eterno in quelli che patronarono l'opera e che ricevono questo tributo di gratitudine.
La funzione religiosa riuscì solenne come si conviene in simili circostanze. Una persona che colle eminenti sue virtù, colle vaste sue cognizioni forma l'onore del Clero torinese, il Pastore del gregge di Borgo Dora leggeva un'ammirabile composizione, in cui veniva svolgendo i sani caratteri della Chiesa, come Casa di Dio e come Casa di preghiera. Confessiamo che al sentire quelle parole in cui, spogliando la logica dai pretensiosi concetti di un'eloquenza stirata, egli ci esponeva la santità della nostra fede, la superiorità della nostra religione sulle credenze degli altri popoli, ci credevamo trasportati a que' tempi in cui predicavasi ai popoli radunati sotto l'immenso tempio del cielo o nelle viscere della terra la parola di quel Dio, che morì per la nostra salute.
Finita la funzione religiosa, tutti i promotori o membri della Commissione direttrice si ritirarono in una sala attigua, intrattenendosi sulle emozioni di sì bella giornata, e ben tosto venivano rallegrati da un'ode cantata da un coro di ragazzi, che l'eseguivano con molta perfezione. La Guardia Nazionale concorreva a dare maggior lustro alla festa, Onore a questa giovane istituzione, che merita tanta riconoscenza dallo Stato, e sa cogliere l'opportunità di confondersi col popolo nelle occasioni di comune allegria. L'Oratorio è dunque compiuto, la missione di Don Bosco è realizzata.
Noi non vorremmo dirlo, perchè temiamo che la carità cittadina si rallenti a questo annunzio. Eppure non è da credere i grandi soccorsi di cui abbisogna questa nascente istituzione, in cui la città nostra spera rinvenire un grande aiuto e un grande esempio da imitare nelle altre parti del Regno. Se pertanto non abbiamo potuto tacere la gioia che [447] abbiamo risentita all'annunzio della consacrazione dell'Oratorio, non vogliamo che le nostre stesse parole servano a raffreddare lo zelo dei cittadini, i quali potrebbero persuadersi che l'opera loro è compiuta.
Don Bosco ha intrapresa una nobile opera e l'ha condotta con perseveranza ed intelligenza; la popolazione di Torino, che apprezza i vantaggi di un'istituzione il cui scopo è di sottrarre al vizio tanti giovani cuori che non hanno nè l'esperienza, nè l'educazione necessaria per isfuggirlo, non vorrà lasciar l'opera sua incompleta, e vorrà mantenersi nell'altezza di quella voce di carità, di cui va giustamente superba”[23].
BENEDETTA la Chiesa di S. Francesco di Sales, nel regolamento dell'Oratorio festivo D. Bosco precisò alcune incombenze di varii uffiziali, dalle quali emergono le usanze di que' tempi. Si celebrava una sola messa e prima di questa gli alunni interni recitavano e cantavano il Mattutino dell'Ufficio della Beata Vergine. D. Bosco così prescriveva “I Sagrestani mentre s'incominciano le lodi della Beata Vergine, o al più tardi quando si intona l'inno, invitano il Sacerdote a vestirsi per celebrare la Santa Messa. - Il Monitore ogni giorno festivo, terminate le lodi della Beata Vergine reciterà a voce chiara ed alternata le solite preghiere; indi continuerà leggendo le preghiere che accompagnano la S. Messa. Dopo la messa gli atti di fede, speranza e carità. Dopo la predica reciterà cinque Pater e cinque Ave per i benefattori dall'Oratorio ecc., un altro Pater ed Ave a S. Luigi e finirà con intonare Lodato sempre sia ecc. Nelle feste di maggior solennità al Sanctus leggerà la preparazione [449] alla S. Comunione e quindi il ringraziamento”. (Art., 2, 3, 4 del primo Regolamento).
“Gli invigilatori saranno quattro. Uno prenderà ad invigilare la parte vicina all'altare della Beata Vergine: l'altro quella verso l'altare di S. Luigi, gli altri due il rimanente della chiesa nella metà verso la porta grande”.
Per ciò che riguarda i Catechismi: “Nel coro i promossi per sempre alla Comunione e che hanno compiuti i quindici anni. Alla cappella della Madonna e di S. Luigi gli altri che furono promossi per sempre alla Comunione, ma inferiori ai quindici anni. Le altre classi saranno divise per scienza e per età fino al più piccoli”.
“L'archivista riceve l'incarico di registrare particolarmente nel catalogo gli oggetti destinati o donati all'altare della Beata Vergine e di S. Luigi”.
Varie mutazioni in simili circostanze aveva anche subite la casa Pinardi. L'antica cappella-tettoia fu ridotta ad uso di dormitorio, scuole e sala di studio. In questa D. Bosco raccoglieva gli studenti, e siccome Deus scientiarum Dominus, volle fin d'allora che prima di incominciare i loro compiti continuassero a recitare il Veni Sancte Spiritus coll'Ave Maria e l'invocazione alla Vergine SS. Sedes sapientiae, ora pro nobis. Nell'ultimo quarto d'ora prima di cena si leggeva pubblicamente qualche libro di fatti edificanti, costumanza che durò molti anni. Don Bosco finchè potè andava coi giovani nello studio comune per scrivere e meditare i suoi scritti.
Ma per lui, che aveva così profondamente radicato nel cuore l'abito della fede, la nuova chiesa divenne soprattutto il centro delle sue affezioni. Domandò ed ottenne subito di conservare continuamente il SS, Sacramento, e non si può dire con quale ardore egli ne desse notizia agli alunni. Da quel punto quando aveva qualche po' di respiro, si portava ad adorare [450] il Divin Salvatore, ed allora pareva più un serafino che un uomo. Ed è perciò che quanto spettava al culto divino, era proprio l'anelito della sua anima. Come aveva egli fatto, costituito prefetto di sagrestia nel Seminario di Chieri, così ora si mostrava sommamente sollecito nell'esigere proprietà ed ordine nei vasi sacri e nelle sacre paramenta, e mostravasi attentissimo affinchè mai nè di giorno nè di notte si spegnesse la lampada davanti al SS. Sacramento. Era suo piacere torre i ragnateli, spolverare l'altare, scopare la chiesa, lavare la predella.
Egli, così povero, vagheggiava e poi innalzava chiese di una magnificenza sorprendente, e in queste, come fin d'ora ne' suoi Oratorii, esigeva tutto il decoro possibile e la massima nettezza anche nella sagrestia. Era sommamente premuroso nell'ornarle e del devoto contegno dei giovanetti. Insisteva perchè fossero esatti nel fare il segno della santa Croce e le genuflessioni. Non poteva tollerare che si mancasse della dovuta riverenza al luogo sacro e ai santi misteri, e raccomandava a tutti che riflettessero bene chi era Colui che abitava in quel tabernacolo. Provava gran pena quando vedeva o sapeva qualcuno starvi con poca divozione; e senza rispetto umano avvisava il negligente, fosse anche un estraneo. Si faceva scrupolo nell'eseguire tutti gli ordini che erano emanati dal Superiore Ecclesiastico Diocesano riguardo alle cose del culto. Nelle grandi solennità impediva che si chiamassero in aiuto musici esterni di teatro o di poca pietà, per la ragione che non stavano composti e perdevano il rispetto alla presenza reale di Gesù Cristo. Egli salutava tutte le chiese alle quali passava davanti, anche nei luoghi dove ne incontrava una ad ogni passo, ed essendo infermo fu visto farsi sovente il segno della croce e volgersi verso la chiesa in atto di adorazione. Ai Sacerdoti raccomandava che andassero [451] a recitare il breviario davanti al SS. Sacramento. Lo affliggeva il pensiero che Gesù fosse poco onorato in molte regioni della terra, e impegnava persone caritatevoli e pie a provvedere suppellettili e vasi sacri alle chiese povere e alle cappelle delle lontane missioni e a concorrere per la loro costruzione e conservazione.
Non ci ricordiamo d'averlo mai visto seduto in chiesa, eccettuato in tempo di predica. Nulla vedevasi di affettato nel suo atteggiamento. Genuflesso, immobile in tutte le parti del corpo, ritto sempre sulla persona, le mani congiunte appoggiate all'inginocchiatoio od al petto; la testa leggermente inclinata, lo sguardo fisso, il volto sorridente. Niun rumore che si facesse all'intorno bastava a distornarnelo. Chi gli stava vicino non poteva fare a meno di pregar bene anche lui. Sul suo viso riverberavasi la fede e la carità per la presenza del Divin Salvatore.
Lo studio della musica nell'Oratorio era in servigio della Chiesa, e talvolta D. Bosco stesso insegnava una laude quantunque avesse tanti altri a cui commettere tale ufficio. Per animare questo insegnamento, risolvevasi di ottenere da Pio IX particolari indulgenze per i maestri e per gli scolari, e mostrava speciale contentezza quando i giovani eseguivano bene il canto gregoriano.
Dava egli infatti la massima importanza a tutte le solennità religiose. La Messa della notte del Santo Natale non tralasciò mai di celebrarla egli stesso fino agli ultimi anni di sua vita, ed eccitava in tutti la più viva devozione colla gioia che traspariva dal suo volto. Eziandio nella settimana santa al mattino compiva tutte le funzioni prescritte e alla sera gli uffici delle tenebre e con tale raccoglimento che gli astanti ne restavano commossi. Ma prima spiegava con grande compiacenza a' suoi giovani tutte quelle ammirabili cerimonie. [452]
Ce ne parlava Villa Giovanni che udillo nel 1855. Le benedizioni delle candele, della gola, delle ceneri e dei rami d'olivo e, delle palme non erano mai ommesse. Aveva stabilito che ogni anno nell'Oratorio vi fosse per tre giorni l'esposizione delle Quarantore, e che un drappello di artigiani e di studenti con sacerdoti e chierici si alternassero continuamente per l'adorazione. La chiesa allora era aperta anche al pubblico ed ci vi si recava facendo come gli altri la sua ora. Finchè le forze glielo permisero si recava alla processione generale del SS. Sacramento della Metropolitana co' suoi giovani, i quali mandava eziandio alla parrocchia ed anche ad altre chiese nei giorni stabiliti per la stessa processione per renderla più decorosa.
Ma se D. Bosco in molte di queste funzioni riserbava per sè nell'Oratorio l'ufficio maggiore, non rifuggiva dal compiere gli uffici minori. Avendo invitato un Canonico a dare la benedizione, egli fece da turiferario. Passando vicino a qualche chiesa e sentendo il campanello che indicava mancare un serviente, egli tosto entrava e preso il messale invitava il prete a recarsi all'altare, Più volte trovandosi in Istituti di educazione, egli stesso compiè l'ufficio di accolito.
Essendo però delicatissimo in ogni suo tratto non avrebbe mai invitato ad un ministero infimo chi eragli superiore, benchè conoscesse in lui ali stessi suoi sentimenti. Tuttavia sapeva industriarsi senza mancare al rispetto dovuto.
“Un giorno nel 1851 circa, racconta il M. R. D. Giacomo Bellia, mi trovava con D. Cafasso e D. Bosco in via Doragrossa, ed era la festa della conversione di S. Paolo. Ad un tratto D. Bosco si batte la fronte colla mano e dice: Oh povero me; ho dimenticato di mandare quattro chierici a fare da accoliti per la benedizione del Santissimo al Deposito dell'Opera di S. Paolo. - Siamo ancora in tempo, osservò D. Cafasso. E perchè non possiamo andar noi? Se [453] non siamo in quattro siamo in tre; meglio che nessuno. - Detto, fatto. Eravamo vicini, tornammo indietro ed arrivammo nel punto che il prete procedeva all'altare col turiferario. Presa allora ciascuno di noi una torcia, entrammo con gravità in presbiterio. D. Cafasso rimase alla destra, D. Bosco alla sinistra ed io in mezzo ed assistemmo così alla benedizione. Dopo questa il pio Giacomelli, direttore dell'Istituto, non finiva di ringraziare D. Cafasso della sua degnazione; ma questi gli rispose che era sempre una gran ventura l'esercitare anche l'infimo dei ministeri nella casa di Dio. - Quale lezione a certi chierici schifiltosi”. Fin qui D. Bellia.
Da tanto spirito di fede per questi ministeri inferiori, si può argomentare l'ardore del nostro buon Padre negli uffici maggiori. Nel celebrare la santa Messa era così composto, concentrato, divoto, esatto che dava ai fedeli la più grande edificazione. Pronunciava le orazioni e le altre parti della S. Messa che debbonsi proferire ad alta voce, con gran chiarezza perchè fossero intese da quanti assistevano, e con molta unzione. Non impiegava mai nè più di mezz'ora e non meno della terza parte dell'ora, secondo le norme date da Benedetto XIV; e ciò rammentava a' suoi sacerdoti. La distribuzione delle sacre specie amava che si facesse piuttosto dopo la comunione del sacerdote che prima o dopo la Messa, per secondare lo spirito della Chiesa e uniformarsi all'usanza dei primi secoli del Cristianesimo; ed egli provava un gusto specialissimo nell'amministrare la S. Comunione e lo si udiva pronunciare le parole con grande fervore di spirito. Non lasciava mai di celebrare se non realmente per gravissima necessità. Dovendo intraprendere viaggi di buon mattino, anticipava la messa abbreviando il suo riposo, o la diceva con suo grande incomodo giunto a destinazione benchè l'ora [454] fosse molto tarda. Di quando in quando il suo volto era inondato di lagrime. Talvolta pareva interrotto, non sappiamo se da rapimenti o da altri fervori straordinarii. Accadde pure che dopo l'elevazione apparisse così rapito da sembrare che vedesse Gesù Cristo coi propri occhi. Non di rado consecrando, il suo volto cambiava colore e prendeva tale espressione da far dire che pareva un santo. Tuttavia, senza alcuna affettazione, sempre calmo e naturale nei movimenti della persona, non lasciava travedere, specie nelle chiese pubbliche, nulla di straordinario. I fedeli però, in Torino e ovunque andasse, in gran numero si facevano una premura e provavano un gran piacere di accorrere, sapendone l'ora, per vederlo celebrare e avere il soccorso delle sue preghiere. Le persone poi favorite dell'altare privato, si riguardavano fortunate quando potevano averlo a celebrare la messa in casa loro.
E sempre parlava dell'importanza del santo Sacrifizio. A' suoi per regola e a tutti gli altri per consiglio, suggeriva di assistervi ogni giorno, ricordando quelle parole di S. Agostino, che cioè non sarebbe perito di mala morte chi ascolta divotamente e con assiduità la santa Messa. A quelli che desideravano ottener grazie e ricorrevano a lui, raccomandava di farla celebrare, udirla, e parteciparvi colla frequente comunione. Diceva eziandio che il Signore esaudisce in modo speciale le preghiere fatte bene in tempo dell'elevazione dell'ostia santa.
Nel tempo stesso era esattissimo nel prendere subito memoria delle offerte per messe e nell'adempiere a quell'obbligo di giustizia. Ma trovandosi anni dopo sovente circondato da molte persone che per questo fine gli offrivano l'elemosina, nel dubbio che qualcuna potesse essere dimenticata si abituò a far celebrare ogni giorno una messa per compenso di quelle delle quali forse non si fosse ricordato. [455] Ma questo suo geloso impegno perchè i singoli fedeli non rimanessero privi di tante grazie celesti loro dovute, il suo costante fervore all'altare, devesi certamente attribuire a pensiero fisso continuamente nel grande atto che doveva compiere ogni mattino. E in primo luogo diremo che talora andava a pregare nella Chiesa di S. Francesco d'Assisi davanti alla cappella nella quale aveva celebrata la prima Messa, rinnovando i proponimenti fatti in quel giorno solenne. Poi recava sempre con sè il libretto delle cerimonie della Messa e spesso leggevalo per non dimenticarsi le rubriche anche minime. E su questo esemplare si formarono i suoi sacerdoti. Il buon marchese Scarampi disse a Mons. Cagliero: - Io vengo tanto volentieri a sentir messa nell'Oratorio perchè i preti giovani di D. Bosco dicono messa da vecchi: mentre vedo che in qualche altro luogo i preti vecchi dicono messa da giovani, cioè frettolosamente. E D. Bosco in tempo di esercizii spirituali li esortava a servirsi l'un l'altro la messa, per scoprire, avvisandosi fraternamente, quei difetti, di cui senza accorgersene, si fosse contratta l'abitudine. Egli stesso osservava e all'uopo li correggeva anche di cose piccolissime, e si raccomandava altresì che taluno avesse la carità di osservar lui pure e di correggerlo se lo scorgesse difettoso.
Al santo Sacrifizio premetteva la necessaria preparazione, facendone dopo il ringraziamento, eccettochè ne fosse impedito da qualche grave bisogno o spirituale o morale. In tal caso sacrificava il suo gusto spirituale alla carità del prossimo. Ma D. Savio Ascanio dicevasi intimamente convinto che D. Bosco trovandosi poi solo in camera od in chiesa lasciasse libero il suo cuore a sfogarsi con Dio. Egli sorvegliava che i sacerdoti della sua casa adempissero a questi doveri, e come preparazione remota osservava e faceva osservare un rigoroso [456] silenzio nella chiesa e nelle stesse sagrestie, quale si osserva ancora presentemente. Se doveva trattare di cose di spirito, parlava con voce dimessa, disapprovando chi faceva il contrario. - Fin da quando eravamo in Seminario, affermava D. Giacomelli, ei mi spiegò il significato delle lettere S. T. che si vedono nei chiostri antichi, cioè: Silentium tene. - Inoltre egli aveva comandato che dopo le orazioni della sera fino al mattino dopo la messa, nessuno più parlasse. Parecchie volte ci avvenne d'incontrarci in lui al mattino, quando discendeva dalla camera per recarsi in chiesa. In quel momento egli accettava il saluto con un sorriso, lasciandosi baciare la mano, ma non proferiva parola, tanto era raccolto in sè in preparazione della messa.
Questa voleva che fosse servita con grande esattezza e fu sempre sua passione insegnarne il modo ai giovanetti.
A Sassi nel 1902 alcuni vecchi raccontavano a D. Garino come avessero imparato da D. Bosco a servire la S. Messa allorchè infermiccio era stato ospite del loro parroco per qualche settimana. Stabilì quindi che ogni giovedì si insegnasse ai chierici a servire la Messa solenne e che ogni sera si facesse altrettanto ai giovanetti studenti ed artigiani affinchè imparassero a servir bene la messa privata e a pronunciare adagio e per intero le parole. Quando taluno servendo a lui la messa dava a divedere di non farlo esattamente, ritornato in sagrestia in bel modo ne lo avvisava ed incoraggiava ad imparar meglio, dicendogli gli sbagli che aveva commessi e promettevagli qualche bel regalo se si fosse corretto. Aveva però sempre modi cortesi e tutti suoi propri.
Un giovanetto servendo la S. Messa a D. Bosco mozzicava le parole. D. Bosco, ritornato in sagrestia e spogliati gli abiti sacri, gli disse sottovoce: - Ma tu hai sempre troppo appetito! [457]
- Perchè mangi perfino le parole della Messa.
Il giovanetto non rispose e lungo il giorno si esercitò a pronunciar bene le parole che era solito a ingarbugliare. L'indomani fu chiamato di bel nuovo a servirgli messa.
Finita che fu: - Ebbene! disse a D. Bosco il giovane; e l'appetito?
- Diminuisce, diminuisce, rispose D. Bosco.
Un altro giorno, narrava D. Milanesio, D. Bosco avvisò il serviente di uno sbaglio da lui fatto nel servirgli la santa Messa. Il giovanetto, che era vivacissimo e franco, gli rispose: - Anche Lei ha fatto uno sbaglio! - E gli disse quale. Forse per inavvertenza, cosa rara però, aveva benedetta l'acqua da mettersi nel calice celebrando la messa dei defunti. D. Bosco gli rispose amorevolmente Che cosa vuoi? Siamo due sciapin, cioè guastamestieri. E questa sua risposta è prova di grande umiltà.
Ricorderemo ancora che D. Bosco fu l'apostolo della comunione frequente e della visita quotidiana al SS. Sacramento. Non di rado predicando, nel descrivere l'eccesso di amore di Gesù per gli uomini, piangeva lui e faceva piangere gli altri per santa commozione. Anche in ricreazione parlando talora della SS. Eucaristia, il suo volto accendevasi di un santo ardore e diceva di spesso ai giovani: - Cari giovani, vogliamo essere allegri e contenti? Amiamo con tutto il cuore Gesù in Sacramenti - E alle sue parole i cuori sentivansi tutti compenetrati della verità della presenza reale di Gesù Cristo. Nessuno può descrivere la sua gioia quando nella chiesa potè riuscire ad avere tutti i giorni un certo numero di comunicanti i quali si alternavano. Ai giovanetti ed agli adulti raccomandava di conservarsi in tale stato di coscienza da potersi accostare con il consiglio del confessore alla santa [458] mensa anche tutti i giorni. Egli non esitava punto a dare questa licenza a chi era bastevolmente disposto. Quando però, discorreva della Comunione sacrilega, lo faceva con tali accenti, che i giovani si sentivano agghiacciare il sangue e concepivano un vero spavento di questo enorme peccato.
Avendogli D. Giacomelli fatto osservazione come egli fosse piuttosto propenso nel permettere con facilità la Comunione ai giovani, egli tosto gli rispose, che la Chiesa, come si legge negli Atti del Concilio di Trento, esorta che ogni qual volta si celebra la S. Messa, vi siano fedeli che si comunichino. E per raggiungere questo scopo egli istituiva associazioni e compagnie, invitava con più insistenza in occasione di tridui, di novene e di feste, stampava un bel numero di opuscoletti che spargeva tra il popolo, per poco o niun prezzo a più migliaia di esemplari, inculcandone a' suoi giovani la lettura. Per questo era instancabile nel confessare, impegnatissimo nel preparare i giovanetti alla prima Comunione, premuroso che questo grande atto avesse la massima importanza, eziandio talvolta con una speciale solennità.
Non è quindi a stupire se le comunioni dei giovanetti riuscivano di gradimento al Signore. Spesse volte D. Bosco, augurando la buona notte ai giovani li invitava a pregare e a fare l'indomani, quelli che potevano, con grande fede la Comunione, dicendo che aveva bisogno di grazie grandi per la Casa: e molte volte alla sera seguente si udiva adire che il Signore lo aveva esaudito. Il bene che egli ed i suoi facevano, le grazie concesse dalla Madonna e le elemosine dei benefattori, diceva essere effetto dell'intercessione e delle comunioni de' suoi alunni. Nulla attribuiva mai a suo merito. Quante volte l'abbiamo udito esclamare: Non nobis, Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam; e ripetere: La Divina Provvidenza ci ha inviato questo o quel soccorso. [459]
Finalmente noi faremo osservare quanto, e dal già detto, risulta, fosse grande il suo spirito di unione con Dio, anche nella vita che si direbbe esteriore. Nell'esaminare la sua prodigiosa attività, occupatissima in opere innumerevoli dì carità e di religione, si sarebbe indotti a credere che fosse uomo tutto di calcolo e di azione, e che si contentasse delle preghiere obbligatorie. “Ma no; ci diceva il Prof. Maranzana, suo alunno; fu sempre da me osservato tanto raccolto in sè , coll'animo sì quieto e tranquillo, da sembrare di essere in continua contemplazione delle cose celesti: egli era su questa terra per operare il bene, ma il suo spirito era in altra vita”. E la sua vita era Gesù Cristo.
I segretarii lo videro sempre incominciare i suoi lavori colla elevazione più intensa della mente a Dio. Finchè potè e le forze glielo permisero recitava coi giovani le orazioni della sera, ritto sulla persona ed inginocchiato sul nudo pavimento dei portici, e se scorgeva qualche ragazzo farsi il segno della croce meno regolarmente non tralasciava di avvertirnelo. Anche le minute preghiere che si solevano fare prima e dopo il cibo erano da lui recitate con grande compostezza. - Molte volte, scrisse D. Rua, lo sorpresi raccolto nella preghiera in quei brevi istanti, che bisognoso di respiro, trovavasi nella solitudine. Egli disse eziandio ad un confratello nel quale aveva grande confidenza: Alcune volte non posso attendere regolarmente alla lettura spirituale, ed allora prima di andare a letto inginocchiato per terra rileggo o almeno ricordo posatamente alcuni versetti dell'Imitazione di Gesù Cristo.
Insomma collo spirito e col cuore fisso in Gesù Sacramentato viveva in continua preghiera.
NELL'ORATORIO era un continuo avvicendarsi di feste. A S. Giovanni, che per l'ultima volta aveva in quest'anno visto il tradizionale falò in piazza Castello, il 29 giugno tenea dietro S. Luigi, al quale D. Bosco aveva dedicato un altare nella sua nuova chiesa. - Egli in questi giorni, diceva D. Savio Ascanio, non faceva che parlare ai giovani, con grande tenerezza, della purità di coscienza di questo santo, proponendolo per modello da imitarsi, e noi potevamo dalle sue stesse parole dedurre quanto egualmente pura fosse l'anima sua. E per sfogo della sua vivissima devozione, stando in mezzo a noi, frequentemente intonava egli stesso la lode di S. Luigi. - Lasciò scritto Brosio. “La festa fu un non plus ultra. La chiesa era tutta tappezzata dentro e fuori, con un così grande numero di candele all'altar maggiore e ai due altari laterali, che pareva un paradiso. Le Comunioni oltrepassarono le 300, numero assai grande poichè nelle settimane precedenti vi erano già state due comunioni generali. Ottocento e più giovani ebbero pane e salame a colazione. Un Vescovo del quale non ricordo più il nome [461] celebrò i sacri riti. Non mancò il santo spettacolo di una bella processione. Accorsero molti invitati. Nel tempo delle sacre funzioni io di quando in quando faceva la questua dentro e fuori del luogo sacro, ed ho raccolto circa 80 lire.
Di servizio per il buon ordine non vi fu più solo la mia grande armata coi fucili di legno e la semplice tromba del bersagliere, ma eziandio una compagnia della guardia nazionale in grande tenuta co' suoi tamburi, comandata dall'ufficiale sig. Dasso, negoziante di nastri e nostro amico. Tutti i collegi ed oratorii passati, presenti e futuri non ebbero e non avranno mai tanti divertimenti quanti ne abbiamo avuti noi nel dopo pranzo di quel giorno; semplici sì, ma causa di grande unione, di grande vivacità e cordialità in chi li godeva. Vi era la corsa nel sacco, giuochi di bussolotti, evoluzioni militari, ginnastica, fontane nel cortile che gettavano zampilli rossi e bianchi per le droghe infuse nell'acqua, e globi areostatici. I piccoli divertimenti erano poi senza numero.
Sotto una tenda stava una grande dispensa, la quale con certe condizioni distribuiva caramelle, confetti, frutta, gazeuse, birra, acque dolci e via via; e in tutte le parti del cortile si vedevano altre piccole dispense ambulanti per comodo dei compratori. Il Conte Cays, il Barone Bianco di Barbania, il Cav. Gonella Marco, il cav. Duprè , il Conte d'Agliano, un generale d'armata, il March. Gustavo di Cavour, il Conte Viancino, i sacerdoti Teologi Carpano, Chiaves, Murialdo Roberto, Borel, Vola l'juniore, Marengo, e i semplici preti D. Giacomelli, D. Merlo, D. Trivero cappellano della Basilica Mauriziana e moltissimi altri ad ogni istante mandavano a comperare qualche cosa da distribuire ai giovani. Io solo ho distribuito, così alla spicciolata, circa dieci lire di caramelle per ordine di D. Bosco e di altri signori. Questi e molti altri dolciumi erano di soprappiù dei gran fondo che era disposto nella dispensa fissa. [462]
In mezzo a tanta abbondanza D. Bosco non gustò la più piccola cosa. Io gli aveva data una caramella affinchè si inumidisse la gola, essendo affranto per il caldo soffocante; ma egli ne regalò la metà ad un giovine. Tutto per noi, niente per lui.
Un arco trionfale di frondi eretto in mezzo al prato, vicino alla tettoia affittata dal Sig. Visca, al cadere della notte apparve splendidamente illuminato con fiammelle, e la festa si chiuse con bellissimi fuochi artificiali e con grandi evviva a D. Bosco. Mille e più giovani, dei quali almeno trecento toccavano od oltrepassavano i 20 anni, rinchiusi in un cortile non ebbero la più piccola questione, ma erano tutti d'accordo ed uniti come tanti fratelli”. Fin qui il giovane Brosio.
Tuttavia siccome nelle cose umane anche le più liete interviene sempre qualche circostanza che disturba, così la bella festa era incominciata con una nota buffa ed era terminata con un caso doloroso.
D. Bosco al mattino aveva fatto portare all'Oratorio da una bottega della piazza della Consolata, cioccolata, caffè, latte con le paste dolci per venti persone. Faceva le spese il banchiere Cav. Cotta priore della festa. Il garzone caffettiere essendo andato ad ascoltare la santa Messa, aveva lasciato senza guardiano la camera nella quale aveva deposta la colazione. Finita la Messa, gli invitati trovarono quasi vuote le caffettiere e poche le paste. Chi grida, chi ride, chi esclama rimaner i giovani cantori senza colazione, e intanto giunge D. Bosco dalla cappella. Si dovette mandare in fretta alla bottega, che era abbastanza lontana, per provvedere l'occorrente. Il caffettiere non sa che dirsi, s'impazienta, ma provvede. Intanto, che è che non è , D. Bosco è avvertito che il giovane esterno Vilietti giace infermo disteso in un campo vicino. Va e lo trova in un fosso: - Che cosa hai? gli dice. [463]
- Ma di' la verità. Hai mangiato qualche cosa che ti ha fatto male?
- Non ho mangiato altro che un po' di quella roba che era in sagrestia. - Poveretto! In fretta e in furia per non essere sorpreso aveva divorato e sorbito in una scodella almeno la metà di quanto era stato preparato per venti.
D. Bosco sorrise alla sua risposta, e Vilietti da lui aiutato si alzò per avviarsi a casa sua. Ma tutta quella roba in corpo aveva incominciato a fermentare. Si trovava in aperta campagna, e pochi erano gli alberi. Cercava di nascondersi dietro a questi, ma da tutte parti si avanzava la gente. I giovani lo osservavano dal cortile, ridendo della sua confusione e delle conseguenze della sua ghiottoneria. Fu condotto a casa e stette infermo per più giorni. Ma risanato rare volte tornò all'Oratorio perchè tutti lo burlavano. Egli prima era catechista, sagrestano, cantore, faccendiere e confidente dei Superiori ed ora accadde nei compagni una reazione in suo danno, tanto più grande quanto prima era più ammirato ed invidiato. Gli mutarono il nome e lo chiamarono quello della cioccolata e incontrandolo gli chiedevano: - Ti piace la cioccolata?
Alla sera poi il giovane Chiesa Giovanni girava tra la folla presso l'Oratorio vendendo molti piccoli razzi, che teneva in un canestro appeso al collo. Questi accesi e slanciati in aria col loro scoppio accrescevano il rumore festivo. Ed ecco che alcune scintille partite da un razzo, che imprudentemente un vicino compagno teneva in mano, caddero nel canestro. In un istante tutte quelle polveri divamparono, gli abiti del Chiesa [464] si accesero ed egli, gettato il canestro, e pieno di ustioni corse a tuffarsi nell'acqua di un canale. Fu portato all'Ospedale. Era in tale stato, che i medici credettero morisse in quella stessa notte, e gli fecero cedere il letto da un convalescente, poichè tutti i posti erano occupati. D. Bosco si recò subito a visitarlo e lo benedì. Chiesa guarì lentamente, ma quando da se stesse si staccarono dalla faccia le croste e la pelle, avevano insieme la forma di una vera maschera. E fu, diremmo, un miracolo se i suoi occhi rimasero illesi.
Queste feste non interrompevano le incombenze della lotteria. Circolari su circolari, e a migliaia, prima annunziavano l'estrazione dei premi pel 30 di giugno e poi avvisarono, essere protratta al 12 di luglio.
I Vescovi continuavano a prestare a D. Bosco il loro aiuto.
Mons. Galvano gli scriveva: “Io fo sincero plauso al commendevolissimo ed edificante zelo che la S. V. M. R. spiega nell'erezione di un adatto Oratorio, che non si poteva meglio dedicare che a quel Santo, che è protettore munificentissimo di questi Stati, e che liberò una distinta parte della Savoia dalla peste dell'eresia, che al momento par che voglia eruttare la velenosa sua bava nel nostro Piemonte. Sia adunque la dovuta lode alla specchiata pietà di Lei, che son certo troverà ostacoli al compimento della nobile impresa; ma non le mancheranno que' conforti e sussidii che la divina Provvidenza non mai niega a quanti pongono piena confidenza in Essa.
Accetto intanto di buon grado gl'inviati duecento biglietti, che procurerò di dividere co' miei diocesani, ed Ella riceverà bentosto l'ammontare dei medesimi per mano amica. Prosegua con alacrità l'opera sì bene incominciata e che verrà dal Signore benedetta in modo particolare, come quella, che non [465] poteva esser più opportuna alle circostanze dei tempi. Aggradisca le cordiali mie felicitazioni, ecc. ecc.
E Monsig. Jourdain: “Ho ricevuto la sua lettera insieme coi centi biglietti di lotteria. Guarderò di esitarli, ed in ogni caso, metterò a conto della S. V. le lire cinquanta. Mi rallegro che la sua chiesa sia terminata, e che già vi si celebri la Santa Messa; questo deve tornare di grande consolazione alla S. V. ed alle persone dabbene. L'amabile Provvidenza ha benedetto l'opera e ricompensato lo zelo della S. V.
La ringrazio sinceramente per ciò che già ha fatto, per ciò che fa, e per quello che farà in avvenire pei poveri miei diocesani.
Spedivagli eziandio un suo foglio Mons. Gentile: “Avendo in questi giorni domandato conto ad un tale che aveva incombenzato dello smercio dei biglietti della di Lei lotteria, trovo che non ne avrebbe esitato se non una dozzina circa, perchè mi dice esserne stati mandati da costì ad altri per lo stesso fine.
Vedendo però vicino il giorno dell'estrazione, non posso ritardare di più a dare alla S. V. M. R. relazione dell'esito. Già in vista specialmente che alcuni giovani di questa diocesi, come Ella accennava, frequenteranno l'Oratorio eretto dallo zelo della S. V., io aveva preso un centinaio di detti biglietti, come già scrissi altra volta, ed oggi mi determinai a prenderne altrettanti. [466]
Colla posta di domani Le spedirò l'importo dei biglietti con un vaglia.
E Mons. Biale: “Unitamente al pregiatissimo suo foglio dei 9 giugno p. p. ho ricevuto i 200 biglietti che Ella con tanta carità e zelo ha voluto affidarmi per l'esitazione in mia diocesi. Mentre io lodo sommamente l'opera buona da Lei intrapresa in questi tempi, son pago poterla riscontrare aver esitato tutti gli anzidetti biglietti, il di cui ammontare non essendo per anco del tutto in mia mano, starò alquanto attendendo, per quindi in una sol volta inviarlo alla S. V., oppure rimetterlo a chi si compiacerà indicarmi.
Intanto La prego, appena fatta l'estrazione degli oggetti indicati, in un solo involto spedire alla mia direzione quelli che saranno per toccare in sorte agli acquirenti degli anzidetti 200 biglietti coll'indicazione di ciaschedun numero, che subitamente loro farò tenere.
Nè i Vescovi si contentavano delle lettere e delle offerte, ma colla loro presenza onoravano la povera casa di Valdocco. Era presente Tomatis Carlo quando venne Mons. Fantini Vescovo di Fossano. D. Bosco lo accolse festosamente facendo cantare da Gastini Carlo, che aveva una bellissima voce, alcune strofe come romanza, che D. Bosco stesso aveva scritte in onore del Prelato. [467]
Poche Domeniche dopo la solenne benedizione della chiesa giungeva all'Oratorio il Vescovo di Biella Mons. Losanna. Salito il pulpito, fece una stupenda allocuzione, infiammata dal sapere come centinaia di quei giovanetti fossero garzoni muratori biellesi. Ringraziava la Provvidenza, ringraziava Don Bosco, incoraggiava quel popolo di piccolini a frequentare l'Oratorio, loro scudo e difesa contro l'immoralità e l'iniquità protestante. Concludendo esclamava. Ma non è qui solo che D. Bosco è chiamato ad edificare una chiesa. Là vicino al corso del Re, là a Portanuova, là vicino alla sinagoga dei seguaci di Lutero, Calvino e Pietro Valdo, D. Bosco ne deve innalzare una seconda. È necessario, Dio lo vuole, D. Bosco lo farà. - E fu profeta.
Intanto tutti i biglietti della lotteria erano stati spacciati. Vi fu chi ne andava in cerca offrendo di pagarli cinque lire l'uno, ma non potè più rinvenirne anche perchè i promotori non avevano ancor restituiti quelli non venduti. Finalmente venne fatta l'estrazione dei premii pubblicamente nel Palazzo di città. Quanta diligenza e fatica costasse questa operazione si comprende al solo leggere il verbale che ne fu redatto[24], al pensare alle altre circolari di ringraziamento [468] agli oblatori, ai fogli stampati coll'elenco dei numeri vincitori e colla corrispondente indicazione del premio vinto, alle spedizioni di molti doni, alle risposte per lettere manoscritte a coloro che domandavano informazioni, spiegazioni, o facevano reclami. [469]
Molti che guadagnarono qualche dono lo lasciarono con gran piacere a beneficio della chiesa e così si potè ricavare altro provento. Non piccole però erano state le spese. Moltissimi biglietti erano andati dispersi e smarriti e quindi se ne ricavò il prezzo di settantaquattromila: somma nondimeno considerevole. Ma D. Bosco, come aveva promesso, nella sua generosità ne fece parte eziandio, alla Piccola Casa della Divina Provvidenza, consegnandola al Can. Luigi Anglesio.
D. Bosco alcuni giorni dopo l'estrazione della lotteria aveva dato contezza a Mons. Luigi Fransoni della solenne benedizione della nuova chiesa; e questi ne dimostrava il suo gradimento con una lettera da cui traspira l'alta stima e la paterna benevolenza che quell'illustre prelato nutriva sempre per l'Oratorio. Mancheremmo al compito nostro se la interdicessimo ai nostri lettori.
Voglio ben supporre che la chiesa sia della più stretta semplicità, ma il pensare che in undici mesi fu fabbricata e resa uffiziabile, mi pare un prodigio. Ne sia benedetto e [470] ringraziato il Signore, che Le diede l'inspirazione d'innalzarla e la grazia di poterla compiere a vantaggio di tanti giovani, che premurosi vi accorrono.
Mi spiace che Ella non abbia potuto smaltire tutti i centomila biglietti, perchè gli esitati 74 mila, oltrechè debbono soffrire la deduzione delle spese della lotteria, sono ben lungi dal produrre per la sua chiesa lire 32 mila, dappoichè la metà venne da Lei generosamente ceduta a favore della Piccola Casa.. Sono due stabilimenti vicini, per i quali si può dire visibile la mano del Signore.
Ignoro ancora se i miei cento biglietti abbiano guadagnato qualche oggetto postabile. Nell'elenco, ossia catalogo, ne ho visto un certo numero da riuscire graditi, ma in generale a me suol toccare qualche parafuoco o porta-salviette. Vorrei che fosse di un valore tal quale per farne godere la sua chiesa.
Nel desiderio che tutti i suoi Oratorii continuino a prosperare, e confidando nella misericordia del Signore, me Le protesto col più cordiale attaccamento
D. Bosco aveva ricevuta questa cara lettera dopo il suo ritorno con D. Cafasso dagli esercizii spirituali a S. Ignazio. Per qualche tempo se ne erano dettati quattro corsi all'anno, ma nel 1852 si dovettero ridurre a soli due corsi, l'uno per i preti e l'altro per i laici, essendo mancati i sussidii che soleva dare l'Opera di S. Paolo. Era questa una vittoria del nemico del bene.
La Compagnia di S. Paolo per varii secoli aveva recati prodigiosi frutti mantenendo nel popolo l'unità e la purità della fede e nel sovvenire ad ogni generazione di miserie. [471] Ora però si erano fatte correre voci calunniose contro i suoi amministratori, cittadini dei più commendevoli per onestà e religione. I settarii volevano avere luogo nell'amministrare il ricco patrimonio dell'Opera che saliva a più di sei milioni. Il Sindaco adunque aveva avocato al Comune l'amministrazione di quell'Istituto di beneficenza a termini di una legge del 1848: e un decreto reale stabiliva che la nuova direzione si comporrebbe di venticinque membri estranei alla Compagnia nominandi dal Municipio e di quindici da scegliersi tra i Confratelli. Era questa una flagrante violazione della volontà dei testatori. I Confratelli della Compagnia protestarono e respinsero le pretese del Municipio e il decreto reale; chiesero poi che almeno i consiglieri eligendi fossero eguali in numero a quelli dati dal Municipio. Ma non si ammisero ragioni. E il 17 gennaio 1832 il Rettore era stato costretto a consegnare ad un Commissario regio e gli atti e i libri dei conti.
DON Bosco ritornato di Lanzo in Torino diè subito principio all'attuazione di altro suo disegno. Colla nuova chiesa di S. Francesco di Sales si possedeva un sacro edifizio sufficiente al numero dei giovani, che nei giorni festivi da varie parti della città intervenivano alle religiose funzioni; e nell'antica cappella si aveva eziandio un acconcio locale per le scuole serali e diurne frequentate sempre da più centinaia di ragazzi di ogni età e condizione. Ma un sito mancava tuttavia per dare albergo a molti poveri fanciulli derelitti, che ad ogni ora del giorno si presentavano a D. Bosco e chiedevano di essere tolti di mezzo alla strada e caritatevolmente ricoverati. Le poche camerette esistenti, alcune delle quali pressochè rovinate dallo scoppio della polveriera, più non bastavano al bisogno. Per il che considerata per bene la cosa D. Bosco disse un giorno: “Dopo di aver provvista una casa al Signore, è necessario prepararne un'altra pei suoi figli. Dunque mettiamoci all'opera”. Furono eseguiti i disegni. La nuova costruzione doveva occupare lo spazio della fabbrica Pinardi, e protendersi fino [473] alla casa Filippi, con doppia fila di stanze a tre piani e uno stretto corridoio nel mezzo, e colle cantine. A questa estremità un braccio parallelo ed uguale in lunghezza alla sporgenza della chiesa di S. Francesco di Sales con tre stanze in una sola linea ad ogni piano limitava il cortile a levante. Come abitazione di campagna poteasi dir vasta. Era con soffitte e portici sostenuti da pilastri a pian terreno. Un voltone nel mezzo lasciava il passaggio ai carri per entrare nella striscia di terreno dietro alla casa. A destra di questo eravi l'unica scaletta interna, per la quale salivasi fino alle soffitte mettendo ai balconi di prospetto, e scendevasi nei sotterranei, una parte dei quali dovevano poi essere destinati per le cucine, le cantine ed i refettorii. Una seconda scaletta nella torre del campanile doveva mettere anche nei corridoi, nelle soffitte e in due stanze poste sulla cappella della Madonna e sulla sagrestia. In tutta la lunghezza dei due piani superiori, avanti e dietro la casa, correvano due balconi in pietra con ringhiera di ferro, per i quali si entrava nelle stanze che avevano le finestre ad invetriata. Il corpo principale della casa misurava in lunghezza circa 40 metri, in larghezza11 e 64. Il braccio a levante lungo metri 12 e 1/2 e largo 6. L'altezza fino al sommo del tetto 16 metri.
Il disegno non solo nulla aveva di grandioso, ma anzi era mancante delle necessarie comodità. I chierici e i giovani stessi, specialmente Cagliero Giovanni, aveano fatto osservare a D. Bosco che i corridoi erano troppo angusti ed oscuri, le scale e le porte troppo strette per un collegio di giovani, e i dormitorii del sottotetto molto incomodi in causa della loro bassezza. Ma egli sempre rispondeva: - Contentiamoci di poco, lasciamo il bello ed il comodo, e saremo più ben visti ed aiutati dalla Divina Provvidenza! - E disse loro assai di più, cioè che la nuova casa, appunto perchè meschina e [474] povera, sarebbe stata rispettata un giorno dalle Autorità civili e militari, e i giovani non ne sarebbero scacciati. Infatti, alcuni anni dopo, nel 1859, il Municipio di Torino chiedeva a D. Bosco, a titolo di patriottismo, le stanze dell'Oratorio per mettervi i feriti dopo la battaglia di Solferino. Annuì Don Bosco, ma i commissarii avendo trovato troppo strette le scale, i corridoi e le porte, lo ringraziarono e lo lasciarono in pace.
Ma non si poteva distruggere la primitiva casipola, non essendovi altro locale per dormire. D. Bosco pertanto deliberò di erigere per primo quel tratto di fabbricato verso levante, incominciando dal punto ove era disegnata la scaletta, presso il portone. Vi si accinse di quell'estate medesima pochi giorni dopo la benedizione della chiesa.
Messo mano all'impresa, i lavori progredirono con ardore. Chi non conosceva appieno le vie e le fonti della divina Provvidenza a suo favore, vedendo ogni giorno tanti operai e materiali raccolti, e l'edifizio venir su come per incanto, domandava: - Ma D. Bosco dove prenderà i denari per pagare tanta gente, e per fare una casa così presto? La stessa domanda continuossi a ripetere dai profani in tutte le imprese dell'uomo di Dio, il quale sempre rispondeva: La Provvidenza li manderà. Il Signore conosce i nostri bisogni e ci aiuterà.
Spinti avanti questi lavori, nei primi giorni di settembre D. Bosco conduceva oltre a cinquanta de' suoi giovani a fare gli esercizi spirituali nel seminario di Giaveno. Parte erano alunni dell'Ospizio, parte dell'Oratorio festivo. Fino a Rivoli andarono tutti in omnibus, e passando per Avigliana proseguirono la strada a piedi. Non entreremo in minuti particolari; solo diremo Cagliero e Turchi aver asserito come essi e i compagni restassero molto compresi delle prediche del [475] Can. Arduino e di D. Bosco; e che eziandio fra gli esterni artigiani vi erano modelli di virtù. Fra questi Morello Giuseppe, il quale nell'Oratorio alla Domenica assisteva alle ricreazioni, godeva dei divertimenti altrui, ma di rado vi prendeva parte; e quando tutto il cortile era in movimento, egli in bel modo, credendo di non essere osservato, si ritirava in chiesa, e senza essere disturbato pregava per le anime del Purgatorio, faceva la visita al SS. Sacramento, recitava la terza parte del Rosario, percorreva le stazioni della Via Crucis. Tuttavia malgrado la sua precauzione nel sottrarsi agli sguardi altrui, alcuni compagni, dati anch'essi alla divozione, se ne accorsero e ne seguirono l'esempio. Da ciò ne derivò l'uso, che si conservò nell'Oratorio, di recitare la terza parte del Rosario dopo la benedizione del SS. Sacramento a cui prendeva parte chi voleva senza ve ne fosse alcuna obbligazione.
D. Bosco raccontava del Morello: “Una sera sul farsi della notte mi recava a casa passando pel viale che da Po conduce a Porta Palazzo. Giunto ad un certo punto della strada, raggiunsi un giovinetto che portava una lunga e pesante stanga di legno, armata di grosse cavicchie di ferro. Pareva che il portatore, oppresso dal peso, gemesse, pareva che parlasse. - Povero giovane (dissi tra me), bisogna ch'egli sia ben affaticato. - Quando gli fui più vicino, vidi che di quando in quando chinava il capo, come si suol fare al Gloria Patri, o quando si nomina qualche cosa di grande venerazione: sicchè potei accorgermi che pregava. Costui era Morello.
- Giuseppe (gli dissi), mi sembri molto stanco!
- Non tanto, sono andato a fare una commissione pel mio padrone; porto il cilindro di una macchina, che si era guastata, e che ora fu fatta aggiustare.
- Mi pareva che tu parlassi; con chi l'avevi? [476]
- Eh! veda, questa mattina non ho potuto andare a Messa, perciò non ho detto il Rosario, e poichè mi trovo solo per questo viale, lo vado qui recitando, e mi dò particolarmente premura di recitarlo, perchè oggi è martedì, giorno in cui morì una mia zia che mi voleva tanto bene, e che mi aveva fatto motti favori. Non potendo altrimenti dimostrarle la mia gratitudine, recito ogni martedì la terza parte dei Rosario per l'anima di lei”.
Or dunque in questi esercizi spirituali a Giaveno si videro due meraviglie. La prima fu lo stesso Morello e Don Bosco diceva ancora di lui:
“In principio di ciascuna predica Morello collocavasi in qualche cantuccio come per osservare quale argomento fosse per trattare il predicatore. Io vedeva che talvolta si avanzava più in su verso il predicatore, e talvolta usciva di chiesa frettolosamente. Avendo notato ciò farsi ripetutamente, volli saperne la ragione.
- Giuseppe, gli dissi un giorno, perchè tal novità, e non vai dirittura cogli altri al posto assegnato? A che ti arresti in fondo alla chiesa?
- Ciò faccio, egli rispose, per non recar disturbo a' miei compagni.
- In che maniera, replicai, temi di recar disturbo a' tuoi compagni?
Ed egli: - Veda, se il predicatore fa la predica sul peccato mortale, io non posso reggere; mi sento straziare in tal maniera il cuore, che debbo uscire o gridare.
Allora conobbi perchè talvolta uscisse improvvisamente dalla chiesa dell'Oratorio, e con tutta fretta, e talora rompesse anche in grida, o facesse moti strani. Per questo motivo se mi accorgevo che egli era presente alla predica, procurava di temperare le mie espressioni; ma bastava [477] profferire la parola peccato mortale con un po' di emozione, e tosto balzava dal banco e fuggiva. Per tale ragione in tempo di predica soleva restarsi vicino alla porta della chiesa.
Il suo cuore era così buono ed affettuoso, che provava la più tenera e sensibile impressione udendo ragionare di cose spirituali. Bastava parlargli del paradiso, dell'amor di Dio o de' suoi benefizi, che egli sentivasi tutto commosso. Un dì standomi attorno con altri suoi compagni, gli indirizzai queste parole: - Giuseppe, se tu sarai sempre buono, che gran festino faremo un giorno su nel cielo col Signore! Saremo sempre con lui, lo godremo e lo ameremo eternamente! Queste parole, dette quasi a caso, produssero sopra di lui tale impressione, che tosto fu veduto impallidire, svenire, e sarebbe certamente caduto a terra se i suoi compagni non lo avessero sostenuto”.
La seconda meraviglia fu una predica di D. Bosco sulla castità. Così la ricordava Mons. Cagliero:
“Nei santi spirituali esercizii che D. Bosco ci diede nel Seminario di Giaveno nelle vacanze autunnali del 1852 ci parlò della castità con tanto calore e santo trasporto, che ci trasse a tutti le lagrime e proponemmo di voler custodire così bella virtù sino alla morte”. E poi soggiungeva:
“Posto sotto la sua spirituale direzione conobbi in lui più che un Direttore, un padre zelantissimo pel bene delle anime, e desiderosissimo di infondere nei nostri cuori un amore grande e puro alla bella virtù della castità.
Ricordo che nelle prediche e nelle conferenze che spesso ci teneva, era delicato al punto che non osava parlare della disonestà, e per parecchi anni non lo sentii mai a discorrere su questo argomento, il quale però veniva trattato dal Teol. Borel e dal Canonico Borsarelli e da altri Sacerdoti suoi cooperatori ed amici. [478]
Egli perciò preferiva trattenerci sulla virtù della castità, dicendola fiore bellissimo di paradiso, e degno di essere coltivato nei nostri giovani cuori, e giglio purissimo che col suo candore immacolato ci avrebbe fatti somiglianti agli angeli del cielo. Cori queste ed altre belle immagini D. Bosco ci innamorava di questa cara virtù, intantochè il suo volto raggiava di santa gioia; la sua voce argentina usciva calda e persuasiva, ed i suoi occhi inumidivansi di lagrime, per timore che ne appannassimo la bellezza e preziosità anche solo con cattivi pensieri o brutti discorsi. Noi giovanetti, mentre lo amavamo come un tenerissimo padre ed usavamo con lui una più che figliale confidenza e famigliarità, nutrivamo tale rispetto e venerazione per lui che stavamo alla sua presenza con un religioso contegno; e ciò perchè eravamo intimamente compresi della santità di sua vita”.
D. Bosco, reduce da Giaveno donde, come altre volte poi, aveva condotto i giovani a visitare il santuario di Trana, seppe che Bartolomeo Bellisio, allievo suo e della scuola di pittura, era stato messo a ruolo come militare. Egli, che in ogni bisogno de' suoi giovani per quanto gli era possibile, prestava loro aiuto, gli scrisse a Cherasco ove quegli passava le sue vacanze autunnali. Erasi adoperato, perchè stante varie circostanze di famiglia non fosse chiamato sotto le armi, e ad una sua lettera così rispose:
Ho ricevuto la cara tua lettera, e mentre ammiro e lodo la tua disposizione per adattarti alla Divina Provvidenza che ti chiama al servizio militare, ho tuttavia stimato bene di raccomandarti ancora al Signor Conte Lunel tuo grande benefattore, per fare ancora una prova. [479]
Intanto tu pregalo e raccomandati nuovamente, e nel tempo stesso non cessa di rinforzare e duplicare le istanze a quella nostra cara Madre Maria onde in ogni cosa si faccia la divina volontà.
Il Signore ti accompagni; prega per me e credimi in ogni cosa
P. S. Una moltitudine de' tuoi compagni ti salutano.
Al Sig. Bellisio Bartolomeo. - Cherasco.
E Bellisio andò soldato. La sera prima, che si trovò nella caserma della Cittadella in Torino, suonato il silenzio, udì vicino a sè come un sommesso mormorio. Era la preghiera del suo vicino, che ben presto riconobbe per fervoroso cattolico. Non tardò a scoprirne altri, e fecero insieme come un rosario vivente, prendendosi ciascuno un giorno del mese per recitarlo. A lui toccò il 23 del mese. Due altri si erano provvisti di una scatola da tabacco che si chiudeva ermeticamente, e la riempivano nelle chiese di acqua benedetta e poi di nascosto si facevano il segno della croce. Bellisio dopo otto mesi ebbe il suo congedo, per pratiche che fece D. Bosco. D. Bosco diceva di lui: - Sfido tutti i giovani insieme a trovare in Bellisio un difetto!
Fu lui che ritrasse dalla fotografia D. Bosco nell'atto di confessare, e che nel 1855 fece il ritratto di Mamma Margherita e lo presentò a D. Bosco nel giorno del sua onomastico. Se non l'avesse fatto Bellisio sì sarebbe perduta la memoria di quella simpatica fisonomia. [480]
Ricordiamo il Bellisio, perchè è uno degli antichi allievi che trasmise molte notizie a D. Bonetti per scrivere i cinque lustri di storia dell'Oratorio Salesiano e perchè la lettera suesposta, è una delle prime in ordine di tempo che noi possediamo, scritta da D. Bosco ad uno de' suoi figli.
Bellisio nel mandarcela così esprimevasi:
Ho letto nel Bollettino che si desidera per il processo di Beatificazione del nostro amatissimo D. Bosco di ven. memoria che si spedisca alla Sig. Sua Rev.ma o lettere od altro suo scritto che uno può possedere; perciò, avendo questa, mi faccio dovere di inviargliela. In essa non vi è alcuna data, perchè , se ben ricordo, sarà stata messa in altra lettera diretta al mio grande benefattore Abbate Conte Lunel, il quale in aprile del 1850 mi aveva collocato all'Oratorio. - Confrontando l'epoca in cui fui arruolato soldato, essa è stata scritta nelle mie vacanze autunnali del 1852. -E’ ingiallita dal tempo, non ostante che l'abbia sempre tenuta gelosamente chiusa tra le più accurate carte. I molteplici atti veduti, sentiti, spettanti ad altri o a me, relativi a Don Bosco nella dimora di oltre sei anni nella pacifica sua Visione, li notificai nella relazione in scritto che feci quando, anni sono, si richiese per circolare agli antichi allievi di partecipare quanto videro, sentirono od esperimentarono - le quali relazioni saranno negli archivii dell'Oratorio. - Come lessi che saranno rimandati gli originali, mi sarà graditissimo il di nuovo riceverla, e mi sarà sempre di maggior prezioso tesoro stante la sperata sua Onorificenza sugli Altari. - Mia somma gloria si è quella di essere stato da esso grandemente beneviso [481] e beneficato. - Ciò che mi rincresce e che mi accora, è quando leggo il bisogno e la richiesta di offerte per l'Opera sua in generale, e il non poter corrispondere come cordialmente desidererei stante le circostanze critiche e le malattie, non restandomi che offrire a Dio il mio desiderio ed attendere da Esso un tempo più propizio per soddisfarlo.
Offrendole intanto i miei cordialissimi rispetti, estensibili all'amatissimo Superiore generale D. Rua Michele ecc.... mi pregio di professarmi di Sua Signoria molto Rev.da
Um.mo dev.mo oss.mo Suddito in D. Bosco
IL 22 settembre Rua Michele, per consiglio di D. Bosco, dopo aver consultato D. Cafasso per la sua vocazione, entrava definitivamente come alunno interno nell'Oratorio di S. Francesco di Sales. Egli fin dai primi suoi anni aveva nutrito per D. Bosco un grande affetto, che andava crescendo, unito a grande devozione, a misura che coll'età poteva meglio apprezzare le sue virtù e le sue opere. Il 23 partiva da Torino con D. Bosco, Mamma Margherita e ventisei compagni recandosi ai Becchi, e vide come anche la buona Margherita godesse una gran stima non solo in quella borgata, ma eziandio in Castelnuovo.
Di questa stima dei terrazzani onoravasi anche la famiglia di questa santa donna, poichè oltre le virtù individuali non scorgevasi alcun miglioramento nella loro condizione che potesse destare invidia.
Benchè i parenti di D. Bosco fossero di fortuna molto ristretta, ed ei li amasse svisceratamente, non volle mai [483] venire in loro aiuto con largizioni, dicendo le elemosine dei benefattori essergli date per i suoi giovani e non per i suoi parenti. D. Bosco reputavasi un semplice distributore dei beni della Provvidenza, dei quali sentiva che avrebbe a Lei dovuto rendere uno stretto conto. Di tale povertà de' suoi parenti egli provava un gusto particolare, ne parlava con piacere ed esprimeva la più grande fiducia che vivendo essi distaccati dai beni di questo mondo, avrebbero avuto in possesso il regno dei cieli, secondo la promessa di Gesù Cristo.
Il fratello Giuseppe, per quanto grandi fossero talora le sue strettezze, nulla mai chiese a D. Giovanni, che pur eragli riconoscente, avendo egli tanto contribuito a lasciargli percorrere gli studii per la carriera ecclesiastica, e a lui ceduta la sua parte di asse paterno perchè gli si potesse formare in Curia il patrimonio necessario per entrare negli ordini maggiori. Eppure D. Bosco aveva nel suo fratello maggiore un'intiera e affettuosa confidenza, lo metteva a parte così delle sue gioie come delle sue pene, e formava con lui un cuor solo ed un'anima sola.
Benchè gli obblighi del suo stato costringessero Giuseppe ad abitare lontano dalla madre, non mancava di venir più volte all'anno in Torino per fermarsi all'Oratorio, più o meno lungamente secondo che gli era possibile. Il suo fine era di godersi alcune ore in compagnia di D. Giovanni e di Margherita, alla quale il suo arrivo cagionava grande allegrezza. Aveva ben motivo la buona madre di andar gloriosa eziandio di questo figlio. Egli era piissimo cristiano, solerte e affettuoso padre di famiglia, di cuore generoso e benefico oltre ogni dire; e, benchè avesse numerosi figliuoli, tenne sempre come suoi i giovanetti dell'Oratorio.
Non contento di spedire ogni anno del suo proprio provviste di commestibili, nel tempo dei raccolti, andava in cerca [484] di soccorsi presso i parenti e gli amici, e sapeva così bene muoverli a sentimenti di carità verso i figli di Don Bosco, che riusciva a caricare varii carri di noci, grano, patate, uva e mandavali all'Oratorio.
Un giorno egli arrivava in Valdocco per far visita al fratello, e col disegno di comperare due vitelli sul mercato di Moncalieri. Ma vista la penuria nella quale trovavasi l'Oratorio e come in quel giorno si dovessero pagare debiti pressantissimi: “Vedi! disse a D. Bosco traendo fuori di tasca la sua borsa: io son venuto per spendere 300 lire alla fiera di Moncalieri; ma vedo che il tuo bisogno è assai più urgente del mio. Perciò di tutto cuore ti cedo questo denaro. D. Bosco frenò a stento una lagrima di riconoscenza: - E tu?
- Aspetterò altri tempi per fare la mia compra.
- Ma non sarebbe meglio che tu me, li dessi solo ad imprestito? Io te li restituirò appena possegga questa somma.
- E quando l'avrai questa somma, tu che sei sempre oppresso di debiti? No, no! Te li dono e basta. Io saprà ingegnarmi, troverò modo per avere il mio necessario e tu non pensare ad altro”.
Era di maniere così amorevoli, che quando compariva nell'Oratorio tutti i giovani gli andavano incontro con affetto e confidenza come ad un padre. Lo chiamavano il signor Giuseppe. Nelle fattezze aveva molta somiglianza con D. Bosco e di statura era presso a poco eguale. Il suo aspetto manifestava la bontà del suo gran cuore. D. Bosco onoravala sempre eziandio in presenza dei più distinti personaggi. A quando a quando lo invitava a parlare ai giovani dalla cattedra sulla quale egli soleva fare il sermoncino dopo le orazioni della sera. Giuseppe, essendo un semplice contadino, dobbiamo supporre che sulle prime si mostrasse alquanto restio; ma pure finiva con andarvi, e in dialetto piemontese [485] vi si tratteneva alquanto, esponendo qualche buona massima. Egli era animato dallo stesso spirito di suo fratello. D. Giovanni Garino fu presente una volta nel 1858.
Giuseppe teneva la sua casa a disposizione di D. Bosco, il quale conduceva ai Becchi tutti gli anni, ora trenta, ora cinquanta, ora cento de' suoi giovanetti per farvi un po' di vacanza, e Giuseppe davasi attorno per provvedere tutto a tutti. Questa visita era una gran festa per lui. I giovanetti che per la prima volta erano condotti da quelle parti, restavano così presi dalle sue belle maniere e cordiali, che subito divenivano i suoi amici. Per tante spese non volle mai accettare ricompensa alcuna.
Tuttavia ebbe un vantaggio, perchè la sua casa subì un ampliamento indispensabile e relativamente grande, benchè restasse sempre povera. Questo fu un camerone, innalzato sulla casa medesima per dare ricovero ai giovani che andavano alla festa del S. Rosario. Ma nulla fece D. Bosco per migliorare o abbellire le stanze primitive. Ampliato però il locale, crebbe il numero degli ospiti, e maggiore fu quindi la premura di Giuseppe anche per vigilarli, poichè dimoravano ai Becchi un quindici o venti giorni. Siccome fra i molti saggi non manca mai qualche spensierato, egli cercava d'impedire che nessuno dei proprietari confinanti avessero motivo di lagnanze. Perciò, dopo averli ammoniti, teneva d'occhio i giovani perchè non si sbandassero per i campi e le vigne altrui. Egli era obbedito; ma non mancò qualche rara infrazione ai suoi ordini. Un mattino di domenica vide un ragazzetto nel cortile, e senz'altro lo rimproverò di esser andato nelle vigne. Quegli negava, e lui a replicargli: - Ma non hai con te la spia? Non vedi l'erba che rimase attaccata a' tuoi calzoni? - D. Bosco faceva gran conto della prudente assistenza di suo fratello, e con animo tranquillo poteva attendere [486] alla predicazione della novena del santo Rosario. Non dimenticava però i giovanetti rimasti a Torino, sui quali sorvegliava il Teol. Borel; e da buon padre provvedeva a quelli che erano con lui ai Becchi.
Castelnuovo d'Asti, 29 settembre 1852.
Prima di partire da Torino bisogna che procuri di farmi alcune commissioni.
1. Dire a Giovanni Ferrero se vuol venire con te. Tu gli pagherai il vapore come pure a Pettiva.
2. Portare teco una bottiglia di vino bianco per la messa.
3. Fare un fagotto in cui vi siano sei paia di ghette, un paio di pantaloni, una giacchetta, tre paia calzette, il quale se è troppo grave puoi consegnarlo al solito Minin se c'è : oppure all'omnibus.
4. Di salutare il sig. Gagliardi da parte mia e dire che raccomando alla sua bontà l'Oratorio pel giorno di Domenica specialmente. A Marchisio Giuseppe raccomando la sorveglianza per la ricreazione e quel che può per la chiesa. Ad Arnaud che mi assista il canto. - A Fumero che ho fatto la sua commissione.
5. Saluta distintamente il sig. Teol. Borel, e digli che, permettendolo il tempo, se verrà a trovarmi qui ci farà un grande piacere, e la sua venuta non sarà inutile pel sacro ministero.
Noi qui stiamo tutti bene; la chiesa è sempre zeppa di gente, ma siamo imprigionati dalla pioggia. Deo gratias. Saluta tutti i figli della casa ed abbimi nel Signore
Il sig. Ch. Giuseppe Buzzetti all'Oratorio di S. Francesco di Sales. Valdocco. Torino.
Intanto giungeva il giorno 3 di Ottobre, Domenica della Madonna del Rosario, nella quale dovevano farsi due solenni vestizioni clericali. I giovani prendevano parte alla viva gioia di D. Bosco. Il Vicario Teol. Cinzano celebrava la Messa solenne ai Becchi e quindi benediceva due vesti talari. Egli con una ne rivestiva il giovane Rocchietti Giuseppe, e D. Bertagna Giovanni aiutava Michele Rua ad indossare l'altra. Il Vicario sedendo poi a mensa, si volgeva a D. Bosco esclamando: - Ti ricordi quando, essendo tu ancora chierico mi dicevi: Io avrò dei chierici, dei preti, de' giovani studenti, dei giovani operai, avrò una musica ed una bella chiesa? Ed io ti rispondeva che eri matto? Adesso si vede proprio che sapevi quello che dicevi!
E fissò quindi il giorno nel quale aspettava a pranzo in Castelnuovo tutta la comitiva dei Becchi. Cagliero Giovanni fece gli onori di casa. Ci scriveva Germano Giovanni notaio nel 1887: “Ho sempre impresso Mons. Cagliero nella sua giovinezza, nell'occasione che ci vedemmo la prima volta a Castelnuovo, ove i giovani in numero di ventisei si recarono dal parroco del luogo in campagnia del sig. D. Bosco. Ivi si allestì una polenta così grossa (a mio mezzo specialmente) che ve ne fu per tutti; e il giovine Cagliero ci condusse, alla buona, nella cantina del parroco, offrendoci come cosa sua, il vino delle botti, anche il bianco, quello che serviva per la Messa. La cordialità giovanile del Cagliero non si dimentica”. [488]
Dopo la bella giornata goduta col Teol. Cinzano, Don Bosco si dispose a ricondurre all'Oratorio i giovani coi due nuovi chierici, dai quali sperava grande aiuto.
Infatti Rua si consacrò tutto alla missione che il Signore aveva destinato a D. Bosco, e il suo nome significherà sempre un'anima ornata di ogni virtù, semplice, ma di grande ingegno, infaticabile, capace di imparare tutte quelle scienze alle quali dovrà attendere. I sogni si avveravano. D. Bosco potè dire finalmente: Questo chierico è mio. Di lui esso fece più volte questo splendido elogio: “Se Dio mi avesse detto: immagina un giovane adorno di tutte quelle virtù ed abilità maggiori che tu potresti desiderare, chiedimelo ed io te lo darò, io non mi sarei giammai immaginato un Don Rua”.
Anche Rocchietti Giuseppe era giovane di grande intelligenza e di costumi illibati, nutriva gli stessi ideali per consecrarsi tutto all'Oratorio; ma la sua sanità era molto cagionevole.
D. Bosco frattanto, ritornato da Castelnuovo, trovò che aspettavalo una lettera della Regia Segreteria del Gran Magistero dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro.
S. M. riconoscendo il nobile e pio scopo dell'istituzione degli Oratorii da V. S. M. R. fondati a benefizio della gioventù abbandonata in questa capitale, i morali vantaggi che ne derivano e l'instancabile zelo che Ella consacra a promuoverne lo sviluppo, si è compiaciuta di accogliere con particolare bontà le istanze di Lei ed accordarle per il corrente anno a pro di questa eccellente opera una sovenzione di lire trecento sul tesoro dell'Ordine de' SS. Maurizio e Lazzaro. [489] Nel porgere annunzio alla M. R. S. V. colgo con piacere questa circostanza per offrirle gli attestati della mia distinta considerazione.
Il primo segretario di S. M. pel Gran Magistero
D. Bosco ringraziò, mentre il Conte Cibrario gli preparava qualche tempo dopo una sorpresa gentile. Per attestato di benemerenza volle conferirgli la croce di cavaliere dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. Ma D. Bosco non amava gli onori di questo mondo, benchè fosse compiacentissimo nel riconoscere e chiamare coi titoli dovuti i suoi benefattori e gli altri personaggi coi quali doveva trattare. Ed ecco un mattino venire all'Oratorio un signore, mentre D. Bosco era con Francesia e Cagliero e presentargli un plico contenente il diploma firmato dal Re e la croce. D. Bosco non lo aprì alla presenza dei giovani, poichè dai bolli e per aver compressa colle dita la busta, aveva indovinata la cosa. Si recò pertanto al Magistero dell'Ordine Mauriziano e presentatosi al Conte Cibrario, incominciò a ringraziarlo dell'onore conferitogli, e poi dolcemente gli fe' intendere, alla buona e colla più delicata semplicità, come a lui non convenisse quell'onorificenza. E gli diceva: - Se ciò si fa per riguardo alla mia povera persona, non saprei quali meriti si possano in me riconoscere che mi distinguano da tanti altri, e quindi è mio dovere, professando riconoscenza, di non accettar questo titolo. Se poi con questa croce il Governo intende dare un segno di aggradimento e di approvazione per l'opera che Don Bosco istituì in favore della povera gioventù di Torino, e di favorirla, accetto con gratitudine, chiedendo però che il titolo [490] di cavaliere sia sostituito con una sovvenzione per i miei giovani.
Cibrario insisteva perchè D. Bosco accettasse; ma egli alludendo ai debiti di cui era gravato, rispondeva scherzando: - Senta, signor Conte: se io fossi cavaliere la gente crederebbe non aver D. Bosco più bisogno d'aiuti; e poi di croci io ne ho già, e tante... mi dia piuttosto qualche danaro per comprare il pane agli orfanelli. - Il Conte finì con approvare; il decreto non comparve sulla gazzetta ufficiale e piacque in Corte la carità di D. Bosco. L'Ordine Mauriziano gli fissò allora la pensione di 500 lire all'anno, che fu puntualmente pagata fino al 1885; nel 1886 fu ridotta a 300 e nel 1887 a sole 150, apportandosi per ragione di questa diminuzione la mancanza di fondi per essere affittate a prezzo infimo le case in proprietà dell'Ordine. E questa pensione cessò solamente nel 1894, benchè D. Bosco fosse morto da sei anni.
Ma non fu mai che D. Bosco fregiasse il petto con la decorazione avuta, o menomamente accennasse alla distinzione offertagli dal Governo. L'amabile umiltà di D. Bosso avevagli affezionato il cuore del Conte Cibrario, il quale per venticinque anni mantenne con lui relazioni di cordiale amicizia.
Il povero Vincenzo Gioberti a D. Bosco che un giorno aveagli fatta qualche rimostranza sopra il suo Gesuita moderno, aveva risposto: - Ma voi laggiù, confinato in quell'angolo di Valdocco, che cosa potete sapere di politica, delle mene dei partiti e delle cause di tanti avvenimenti? - Cibrario invece era persuaso che là in Valdocco vi fosse qualche cosa da imparare, e non di raro veniva a intrattenersi per ore sane con D. Bosco, colla sua grossa pipa in bocca, come lo vide Mons. Cagliero. Molto egli fece per D. Bosco. Essendo primo segretario dell'Ordine Mauriziano, poteva disporre [491] delle decorazioni a suo piacimento, e volontieri le faceva concedere dal Re a quelli che D. Bosco gli indicava come degni, per le loro beneficenze. Questo era un mezzo valevolissimo per fare aprire gli scrigni di certi signori, i quali avrebbero pagata qualunque somma per vedere soddisfatto il loro amor proprio e anche premiati i loro meriti. D. Bosco sapeva pure a tempo opportuno far offrire ad un suo creditore una croce da cavaliere purchè gli rimettesse in tutto o in parte un debito. Talora perveniva all'improvviso una decorazione a chi gli aveva fatte generose oblazioni, e si può argomentare con quale gradita sorpresa di chi ne aveva desiderio. D. Bosco invitava anche a pranzo solenne qualcuno, al quale, inconscio, aveva preparato un titolo onorifico, ed alle frutta fra il suono della banda musicale e i battimani dei convitati gli indirizzava qualche affettuosa parola e gli presentava la croce di cavaliere. Non poche furono le onorificenze che D. Bosco ottenne per mezzo del Conte e distribuì, le quali fruttarono ai ricoverati grosse elemosine, o servirono di ricompensa a segnalati servigi resi all'Oratorio. Noi stessi abbiamo udito il Cibrario, che fu più volte Ministro, verso il 1875 compiacersi degli aiuti che con tali mezzi aveva prestati a D. Bosco, e narravaci che egli stesso aveva posto per condizione a certi ambiziosi stranieri che smaniavano per essere fatti cavalieri, di versare prima una somma cospicua, che egli poi destinava per D. Bosco.
Questo fatto è una prova di più come Iddio avesse preparati per D. Bosco potenti protettori in ogni dicastero dei Governo. Mancava uno, sorgeva un altro.
D. Bosco però stava attento a non abusarne; pazientava nelle difficoltà, ma sovratutto non dimenticava mai la sua condizione e le loro suscettibilità. Narra Mons. Cagliero: “Ricordo che, quando io ero piccolo alunno dell'Oratorio, mi [492] meravigliava del modo rispettoso, riverente e dell'umile contegno col quale egli sacerdote visitava o riceveva certi personaggi secolari. Solo passava il mio stupore quando veniva a sapere esser quello un'autorità, Ministro, Prefetto, Magistrato, Sindaco, Consigliere del Municipio, Provveditore agli studii o anche semplici loro segretarii. Del resto, tanto ne' suoi scritti quanto nelle sue parole e ne' suoi atti, fu sempre ossequente ai Reggitori secolari, eziandio quando lo avversavano, riconoscendo in essi il principio d'autorità proveniente da Dio. Spesse volte l'ho sentito a dire: Obedite praepositis vestris etiam dyscolis. Altre volte soggiungeva: “Molti ci osteggiano, ci perseguitano, ci vorrebbero annientati, ma noi dobbiamo avere pazienza. Finchè non esigono da noi cose contrarie alla coscienza, sottomettiamoci ai loro ordinamenti. Sosteniamo però sempre in date circostanze i diritti di Dio e della Chiesa, chè sono superiori alle autorità della terra”
DON BOSCO aveva acquistati due nuovi chierici, ma purtroppo ne perdeva quattro. Carlo Gastini per mancanza di sanità, che rendevagli troppo pesante lo studio, aveva deposto l'abito clericale. Due altri, quasi contemporaneamente, si erano decisi di entrare nella Congregazione degli Oblati di Maria, attratti dal fervore e dallo spirito che vi regnava e persuasi che tale fosse la loro vocazione. D. Bosco però, da loro consultato, rispondeva essere ottima l'idea e la volontà, ma che Dio non li chiamava a quella Congregazione. Essi vollero tuttavia, entrarvi. Don Rua è testimonio di quanto siamo per narrare, e come D. Bosco prevedesse con sicurezza l'avvenire. “Un mattino, ci scrisse C. Tomatis, Savio Ascanio, oggetto di santa invidia pel suo amore allo studio ed alla virtù, era scomparso dall'Oratorio, e poi si venne a sapere che erasi fatto Oblato di Maria Vergine alla Consolata. D. Bosco nel congedarlo gli disse: - Va', ma non vi resterai lungo tempo! - Infatti dopo qualche anno, per atroci dolori di testa, sicchè parevagli che fosse divisa in due, e minacciato, secondo il giudizio dei medici, da [494] un colpo d'apoplessia, dovette uscirne, ed essendosi rimesso in sanità, fu in Torino per scienze teologiche uno splendido ornamento del sacerdozio. Lo stesso Teol. Savio ci narrò il suo caso, venendo all'Oratorio, per far scuola di morale ai sacerdoti.
Il Ch. Vacchetta volle alcun tempo dopo seguire il Savio, e le ultime parole di D. Bosco furono: - Va pure anche tu, giacchè vuoi andare; ma se ora tu non sei privo di senno, diventerai tale. - Il povero giovane, assorto ne' suoi disegni, non fece conto di queste parole, partì per la casa del noviziato, fece la professione religiosa, e rimase. Impazzito però e rinchiuso nel manicomio, divenne quasi inutile alla sua Congregazione, sicchè dopo lunghe cure appena poteva occuparsi del catechismo ai fanciulli: così attesta D. Paolo Albera, che incontrollo a Nizza Marittima, a S. Pons dopo la morte di D. Bosco.
Così eransi avverate le predizioni di D. Bosco.
Del quarto chierico daremo qualche maggior notizia, perchè s'intendano certe e non rare contrarietà che incontrò più di un giovane desideroso di consacrarsi all'Opera di D. Bosco. Il suo Curato D. Gattino, esigendo che i chierici dell'Oratorio andassero in maggior numero ed ogni volta che li richiedeva, a servire in parrocchia, si recò in Curia ed espose le sue lagnanze. Il Can. Vogliotti gli rispose: - Intendete bene che D. Bosco si è fatti lui que' chierici, ed è giusto che se ne serva per custodire i suoi giovanetti de' quali laggiù in Valdocco ne ha una nidiata. Se lei vuole dei chierici a' suoi comandi, se ne faccia e ne avrà.
Il Curato restò punto da questa risposta e investigando le condizioni sociali ed economiche dei chierici dell'Oratorio, venne a conoscere che il Ch. G... apparteneva a famiglia benestante, era figlio d'un capomastro muratore e quindi non aveva bisogno che altri gli facesse la carità: concluse pertanto [495] che D. Bosco questo chierico non se l'era fatto. Tale ragionamento non era giusto, poichè se G... aveva studiata la lingua latina, suo maestro era stato D. Bosco; se aveva indossata la veste chiericale, D. Bosco ne aveva ottenuta la facoltà dall'Arcivescovo. Il giovanetto poi era tutto di Don Bosco, dal quale era trattato con singolare confidenza, e da lui mandato a scuola di filosofia. Egli passava le intiere giornate all'Oratorio ritirandosi alla sera nella casa paterna presso il Rifugio; e il padre era pronto a pagargli pensione.
Il chierico viveva felice, quando vi fu chi prese a parte suo padre e cercò persuaderlo di allontanare il figlio dall'Oratorio; poichè , dicevagli, ei non poteva nutrire speranze che restando con D. Bosco, potesse riuscire teologo, parroco, canonico; affermava il giovane aver tanto ingegno, da riuscire ottimamente, e l'unica via per fare splendida carriera essere quella di compiere gli studii, entrando come alunno in un seminario.
Il capomastro era un uomo leale, ed amico di D. Bosco, il quale compiacevasi di chiamarlo col nome di padre. Aveva eseguiti i primi lavori nell'Oratorio, e per la costruzione della chiesa di S. Francesco aveva formata società coll'impresario Bocca. Erasi però ritirato, avvisando D. Bosco, poichè vedeva come fossero malmenati gli interessi dell'Oratorio, benchè l'ingegnere facesse i disegni gratuitamente. E l'assistente, messo da D. Bosco per invigilare i contratti e l'esecuzione dei lavori, forse teneva più dalla parte dell'impresario che dalla sua.
Tuttavia quel buon padre era stato ferito nel suo amor proprio, dalle abili insinuazioni sovradette; essendo però uomo prudente, prima di risolversi sì recò in seminario a Chieri per chiedere il parere di quel Rettore.
La risposta fu: essere certamente il seminario il luogo dove il giovane poteva sperare con maggior probabilità di [496] far carriera: essendo egli capomastro del Seminario, non sembrargli conveniente che mantenesse il figlio chierico in altra casa di educazione; in seminario potersi sperare un posto a mezza pensione e anche un posto interamente gratuito in favore dell'alunno.
L'uomo fu vinto. Ritornato a casa, venne in vettura nel cortile dell'Oratorio, e chiamato il figlio gli comandò: - Prendi il cappello e vieni con me. - Il figlio obbedì senza conoscere le intenzioni del padre e fu subito condotto nel Seminario di Chieri. D. Bosco sofferse molto nel vedersi tolto così bruscamente un giovane che amava, nel quale aveva riposte tante speranze e che era stato suo segretario, scrivendo sotto la sua dettatura le prime sue opere. Aveagli pochi mesi prima donato un breviario e le Institutiones del Rebaudengo.
Il chierico intanto, assuefatto alle usanze dell'Oratorio non si trovava bene in Seminario; D. Bosco più volte andò a visitarlo, e come era suo costume, non cercò distoglierlo dal nuovo tenor di vita al quale era stato costretto, ma lo incoraggiò a proseguire, rimettendosi alle disposizioni della Divina Provvidenza. Le maniere concilianti di D. Bosco erano conosciute nel Seminario, sicchè il Rettore concedevagli di condurre per Chieri il suo giovane amico, e una volta fu con lui a pranzo dal Can. Luigi Cottolengo. Da queste visite il buon chierico ritraeva un grande conforto; ma nello stesso tempo esse gli facevano poi rimpiangere i suoi ideali svaniti; finchè essendosi alterata la sua sanità fu restituito alla famiglia. Ma qui gli fu proibito di volgere il passo all'Oratorio, e anche di andarsi a confessare da D. Bosco. Egli prese allora a frequentare il Santuario della Consolata, e a poco a poco s'innamorò della pace che godevano gli Oblati di Maria in quel convento. Parendogli che Dio lo chiamasse fra que' religiosi. [497]
Andò a visitare D. Bosco per manifestargli il suo pensiero. D. Bosco lo sconsigliò di fare quel passo: - Tu sei chiamato, gli disse, ad appartenere a D. Bosco. - E gli raccontava come il consiglio di D. Cafasso avesse a lui stesso indicata la sua vocazione; quindi lo esortò ad aver pazienza ed attendere, e gli ripeteva non essere quella da lui vagheggiata la scelta migliore. Ma il chierico non seppe resistere alle assicurazioni di altri consiglieri, chiese di essere accettato fra i novizi degli Oblati, e il padre, benchè a malincuore, gli diede il proprio consenso.
Prima però di partire per Nizza Marittima, ove era la casa di noviziato, egli volle salutare ancora D. Bosco, il quale gli disse: - Va' pure, ma la tua testa avrà a patirne, e non potrai perseverare in quello stato.
Vicino a fare la professione, scrisse una lettera a D. Bosco per chiedere anche una volta consiglio, il quale gli rispose: - Farai del bene, ma non quel bene che vuole da te il Signore. - Egli fece i voti perpetui, ma non andò molto che fu preso da scrupoli e poi da tale esaltazione di mente da credersi chiamato a grande perfezione di virtù, sicchè era in pericolo d'impazzire. Per questa cagione e per motivi di famiglia, dopo dieci anni che aveva professato, consigliato dal Padre Berchialla, del quale era segretario, chiese ed ottenne di essere sciolto dalla Congregazione degli Oblati. Ritornato in Torino, guariva perfettamente, riconoscendo di aver ottenuto una grazia segnalata dal Signore.
I fatti avevano data ragione a D. Bosco, e G... che era stato ordinato sacerdote ne faceva spesso testimonianza: “Essere un grande imprudente chi si arrischia a scegliere da se stesso la sua vocazione”. Suo ardente desiderio era di rientrare nell'Oratorio; ma l'Arcivescovo Fransoni non lo ricevette in Diocesi, avendo stabilito di non ammettervi [498] quelli che uscivano da un ordine religioso. Allora D. Bosco stesso lo raccomandò al Vescovo di Biella, il quale accettollo a condizione che rimanesse presso di lui.
Passarono molti anni; e mutate le condizioni nella diocesi di Torino, il buon sacerdote, che sempre mantenevasi affezionato all'Oratorio, sentendosi tuttavia risvegliare l'idea di riunirsi a D. Bosco ascrivendosi alla Pia Società, gliene fece domanda per lettera. D. Bosco gli rispose: - Aspetta che tuo padre sia chiamato dal Signore all'eternità, e allora verrai. - Il padre si avvicinava agli 80 anni e per molte sofferte disgrazie aveva bisogno per sua consolazione della presenza del figlio prete.
Quanto era delicata la bontà di D. Bosco, anche per coloro i quali di propria elezione o costretti lo abbandonavano nei momenti nei quali maggiormente aveva bisogno dell'opera loro! E nel ritirarsi di questi chierici il suo dispiacere era grande perchè apprezzava le esimie virtù onde erano ornati; tuttavia da questa perdita seppe anche ritrarne una lezione di umiltà. D. Giacomelli udillo esclamare quando partiva Savio Ascanio: - Vana salus hominis! dando a divedere che egli doveva confidare più in Dio che negli uomini. Quindi con inalterabile calma continuò a scegliere nuovi alunni per lo studio.
Nell'ottobre i giovani dell'Ospizio erano trentasei, perchè anche i chierici della diocesi occupavano una parte di quel povero abituro. Dai registri di D. Bosco noi tracopiamo il nome di alcuni che ci importa di non dimenticare. Nel 1851 erano stati accettati Gioliti, Calamaro, Gurgo Pietro; nel 1852 entravano Mattone Francesco, Bonino, Savio Bernardo da Castelnuovo d'Asti, Turco Giovanni da Montafia, Fusero Bartolomeo da Caramagna, Benovia Giovanni, Vittorio Turvano, Bertagna, Fontana, Gio. Batta Bonone. Quasi tutti i nominati andavano a scuola dal Prof. Bonzanino, col giovanetto [499] Francesia Giovanni, che incominciava il corso di latinità, venuto allora come interno nell'Oratorio, ma assiduo già da tempo alle radunanze festive.
Fra questi giovani uno vi fu, la cui accettazione è degna di memoria. Nell'anno antecedente suo padre non aveva ascoltato il consiglio dato da persone prudenti ed amiche, di metterlo in educazione nell'Oratorio. Collocavalo invece in un di que' collegi alla moda, che hanno fama di scienza e disciplina, ma dove la preghiera è brevissima e si recita in piedi una sol volta al giorno; alla S. Messa non si assiste fuorchè nei giorni festivi; e ai Sacramenti si va alla Pasqua, e non di più. Il povero giovane, d'indole molto pieghevole, di carattere dolce, non aiutato da soccorsi spirituali, a poco a poco famigliarizzò coi compagni cattivi, si diede a letture perverse, gli venne in uggia lo studio e la religione e in fin dell'anno non fu promosso alla classe superiore.
Ritornato a casa per le vacanze autunnali, il padre ebbe a mettersi le mani nei capelli nel riconoscere a sue spese lo sproposito fatto consegnando suo figlio ad istitutori di poca religione. Il figlio, che prima era molto buono, ora lo vedeva essere divenuto disobbediente, sfrontato, giuocatore, avverso alla Chiesa e peggio. Non tollerava nè castigo nè rimprovero. Il padre era già sul punto di farlo chiudere in una casa di correzione, ma sì appigliò a più mite consiglio. Siccome il giovanetto conservava un affetto ardentissimo per sua madre morta da poco tempo, sicchè tutti i giorni soleva fare una preghiera per l'anima di lei prima di andare a letto, egli volle tentare un'ultima prova, ormai persuaso che senza religione non si può educare la gioventù. Si avvicinava la fine di ottobre ed era giuocoforza scegliere un altro collegio per suo figlio. Perciò, smesso ogni rimprovero, gli procurò doni che sapeva riuscirgli graditi; e condottolo ad una bella [500] scampagnata, ritornato a casa lo chiamò in sua camera, e prese a ricordargli gli ultimi istanti di vita della santa sua madre. Il giovanetto a queste rimembranze diede in un pianto dirotto, e il padre allora gli svelò come la madre sua avesse manifestato vivo desiderio che fosse scelto per luogo di sua educazione ed istruzione l'Oratorio di S. Francesco di Sales. Quindi gli chiedeva se in quest'anno avrebbe gradito di entrare in quel collegio. Il figlio non esitò e senz'altro rispose: - Son nelle vostre mani. Tutto ciò che avrebbe fatto piacere a mia madre, piace anche a me; sono pronto a fare qualunque sacrifizio per eseguirlo.
Il padre non si pensava di poter così presto risolvere il figlio a quella mutazione, e la riconobbe come una benedizione del cielo. Affinchè poi l'indugio non generasse difficoltà, volle il dì seguente condurlo nell'Oratorio di Valdocco per trattarne l'ammissione.
D. Bosco fu non poco maravigliato alla prima comparsa di quel giovanetto che aveva nome Giovanni. Abiti nuovi e fatti con eleganza, un cappellotto alla calabrese, un cannino in mano, una catenella luccicante sul petto, una lisciata scriminatura dei capelli azzimati erano gli indizi che rivelavano lo spirito di vanità che regnava nel cuore del giovane. Il padre si accordò facilmente intorno alle condizioni di accettazione; di poi adducendo aver altro a fare lasciò il figlio solo a discorrere con D. Bosco. Alla vista di un giovanetto così atteggiato, D. Bosco non giudicò opportuno parlargli di religione; ma discorse soltanto di passeggiate, di corse, di ginnastica, di scherma, di canto, di suono. Le quali cose facevano bollire il sangue nelle vene al vanerello allievo al solo udirne parlare. Ritornato poi il padre, appena potè discorrere liberamente con Giovanni, - Che te ne pare, gli disse, ti piace questo luogo, che ne dici del direttore? [501]
- Il luogo mi piace assai, il direttore sembra tutto di mio genio, ma ha una cosa che mi è affatto ripugnante.
- Che mai? dimmelo, siamo ancora in tempo a provvedere diversamente.
- Tutto in lui mi piace, ma egli è un prete, e questo me lo fa mirar con ribrezzo.
- Non bisogna badare alla qualità di prete: piuttosto bada al merito ed alle virtù che l'adornano.
- Ma venir con un prete vuol dire pregare, andarsi a confessare, andarsi a comunicare. Da alcune parole che egli mi disse, parmi che già conosca i fatti miei.... basta.... Ho promesso, manterrò la parola, il resto vedremo.
Pochi giorni dopo Giovanni entrò nell'Oratorio. Il padre giudicò d'informare D. Bosco di quanto era avvenuto del figlio, e come nutrisse tuttora una grande affezione verso la defunta genitrice. Separato dai compagni, distolto dalle cattive letture, la frequenza dei buoni condiscepoli, l'emulazione in classe, musica, declamazione, alcune rappresentazioni drammatiche in un teatrino, fecero presto dimenticare la vita dissipata che da circa un anno conduceva. Il ricordo poi della madre, - fuggi l'ozio ed i cattivi compagni, - gli ritornava sovente alla memoria. Anzi con facilità ripigliò l'antica abitudine alle pratiche di pietà. La difficoltà era nel poterlo risolvere a fare la sua confessione. Aveva già passati due mesi in collegio. Si erano già fatte novene, celebrate solennità, in cui gli altri allievi procurarono tutti di accostarsi ai santi Sacramenti; ma Giovanni non potè mai risolversi a confessarsi. Una sera D. Bosco lo chiamò in sua camera, e memore della grande impressione che faceva sopra il suo cuore la memoria di sua madre, prese a dirgli così: - Mio buon Giovanni, sai di quale rimembranza ti è la giornata di domani? Sì che lo so. Domani è anniversario della morte di [502] mia madre. O madre amatissima, potessi una sola volta vedervi, od almeno una volta ancora udire la vostra voce!
- Faresti tu dimani una cosa che sia di gradimento a lei e di grande vantaggio a te stesso?
- Oh se lo farei! Costasse qualunque cosa!
- Fa' dimani la tua santa comunione in suffragio dell'anima di lei, e le recherai grande sollievo qualora ella si trovasse ancora nelle dolorose fiamme del purgatorio.
- Io la farei volentieri, ma per fare la comunione bisogna confessarsi.... Se per altro questo piace a mia madre, lo farò, e se lo giudica a proposito io mi confesso subito in questo momento da lei.
D. Bosco, che altro non aspettava, lodò il divisamento, lasciò che si calmasse la commozione, di poi lo preparò e con reciproca consolazione lo confessò; e il dì seguente Giovanni si accostò alla santa Mensa facendo molte preghiere per l'anima della compianta genitrice.
Da quel giorno la vita di lui fu di vera soddisfazione a D. Bosco. Conservava ancora Giovanni alcuni libri parte proibiti, parte dannosi ai giovanetti, e li portò tutti al direttore perchè li consegnasse alte fiamme dicendo: - Io spero che bruciando essi non saranno più cagione che l'anima mia bruci nell'inferno.
Conservava eziandio alcune lettere degli antichi compagni, colle quali essi gli davano parecchi cattivi consigli; ed egli le ridusse in minutissimi pezzi.
Ripigliò di poi gli studi, e scrisse sopra la coperta dei libri i ricordi di sua madre, fuga dall'ozio e dai cattivi compagni. Mandò quindi una lettera di buon capo d'anno al padre, che provò grande consolazione nel vedere il figlio ritornato ai pensieri che per tanti anni aveva nutriti. Così passò il tempo di ginnasio. [503]
Richiamando alla memoria come nella casa paterna vi erano parecchi libri e giornali cattivi, scrisse Giovanni tante lettere a suo padre, seppe tanto accarezzarlo soprattutto in tempo di vacanza, fecegli tante promesse, che lo risolse a disfarsi di tutto. Inoltre per alcuni frivoli pretesti il padre mangiava grasso nei giorni proibiti. Giovanni col suo contegno, con parole, raccontando esempi, e facendone umile richiesta al padre, riuscì a farlo desistere, inducendolo ad osservare le vigilie comandate dalla Chiesa, appunto come deve fare ogni buon cristiano.
L'educazione data da D. Bosco produsse infinito numero di volte simili trasformazioni.
LAVORI della fabbrica procedevano alacremente e Don Bosco curava intanto la riforma morale dei muratori.
Da più mesi al dopo pranzo stava in mezzo ai giovani, e raccontava loro parabole, novelle, aneddoti per tenerli allegri. I muratori e i loro garzoni venivano anch'essi dietro agli alunni; e finchè durava il tempo del loro riposo, stavano ad ascoltarlo, ridendo di gran cuore alle sue facezie. Ma D. Bosco di quando in quando, quasi senza che apparisse porre egli mente agli operai, con arguzie dirette ai giovani, e con raccomandazioni più o meno esplicite, accennava con pochissime parole, alla bellezza o ai premi della virtù, alla bruttezza o al castigo del peccato, alle consolazioni di una buona confessione, al pensiero dell'eternità, al pericolo di una chiamata improvvisa al tribunale di Dio. Ciò produceva grande effetto e la maggior parte dei muratori andarono a confessarsi. Ma qualcuno di essi dimostrava chiaramente, dall'espressione del viso, non gradire il ricordo di certe verità, e un giorno che D. Bosco aveva incominciato i suoi racconti, [505] uno di quelli lo interruppe, dicendogli freddamente: - Crede Lei che io non veda dove vadano a parare i suoi discorsi? Ma non mi coglie, sa! -Il Ch. Buzzetti, che era presente, compatì quell'infelice! D. Bosco non rispose.
Si era sul finir dell'ottobre e il Canonico Lorenzo Gastaldi, venuto da Stresa, faceva una visita carissima a Don Bosco; e s'intratteneva con lui parlando a lungo sull'avvenire dell'Oratorio, che tanto stavagli a cuore. Perciò come fu di ritorno al noviziato dei Rosminiani, per qualche timore che erasi in lui destato, sul legale possesso della casa Pinardi, per tranquillarsi scriveva una lettera a D. Bosco. Il quale così rispondevagli:
Ecco a V. S. Car.ma il desiderato riscontro riguardante alla mia posizione in faccia al Governo. Il locale essendo mio proprio, io credo che a qualsiasi evento un novello edifizio sia sempre del padrone del suolo; tuttavia per togliere anche questo dubbio, ho fatto si che le offerte fattemi dalla carità dei privati, compresa la Lotteria, fossero tutte impiegate per la costruzione della chiesa, riserbando una somma ricavata da un piccolo corpo di casa, alcuni anni fa in queste vicinanze venduta, come pure quanto ricavo dal sito ivi posto in vendita, tutto affatto per la costruzione della casa. Così sono dai migliori avvocati assicurato che il Governo in nulla può mischiarsi in questa proprietà.
Ma... e morto D. Bosco? Qui stava la difficoltà. Attese le circostanze dei tempi, non potendosi la durazione della proprietà assicurare altrimenti, ho invitato il Sig. Teol. Borel, il Teol. Murialdo, D. Cafasso ad intervenire alla compra di quanto sopra; quindi fu fatta disposizione testamentaria a vantaggio [506] reciproco, dimodochè , alla morte di uno, la proprietà passa ai tre superstiti, i quali certamente sono liberi di associarsi un altro individuo: ben inteso così convien pagare il diritto di successione per la parte del defunto.
Ho consultato parecchi legali di mia confidenza e non ho potuto avere altro espediente in proposito. In quanto poi al novello acquisto di cui si tratta, io mi rimetto intieramente a quanto il Sig. Ab. Rosmini nella sua prudenza stimerà conveniente, offerendomegli pronto ad impiegare ogni mio debole sforzo per cooperare in tutto che possa tornare a gloria di Dio ed a vantaggio delle anime.
Voglia intanto offerire li miei umilissimi ossequî al prelodato Sig. Ab. Rosmini, e raccomandandomi alle preghiere di Lei, Le auguro ogni bene dal Signore con dirmi
P. S. Mentre scrivo, la signora sua madre lavora nella camera degli oggetti per pulirli e aggiustarli: la sua visita l'ha imparadisata.
Chi legge questo foglio, intende come D. Bosco fosse pieno di fiducia nella stabilità della sua fondazione; ma non gli può venire neppure il sospetto, che egli si trovasse in quei giorni sotto il peso di una prova inaspettata e ben dolorosa. Il sabato 20 novembre un tratto della sommità del braccio, a levante, dell'edifizio in costruzione, per la rottura di un ponte, rovinava dall'altezza del terzo piano. Tre operai ne furono gravemente feriti, dei quali uno dava poche speranze di guarigione. Grande era stata la costernazione e lo spavento [507] di tutti; ma D. Bosco nell'angoscia di quei momenti, alzando rassegnato gli occhi al cielo, aveva pronunziate quelle parole che aveva sempre sulle labbra: - Sia fatta la volontà di Dio i Tutto come Dio vuole! - Il suo dolore tuttavia era tanto più vivo in quantochè amava i suoi operai.
Egli però, cui rendeva leggiero ogni sacrifizio la speranza di vedere terminata quella fabbrica specialmente per uso delle scuole serali agli artigiani, senza sgomentarsi per il grave danno che aveva patito, comandava che si rialzasse con prestezza quel tratto di muro caduto.
Ma pur troppo che una più grave perdita era riserbata a lui, ed ai caritatevoli che a nome di Dio gli porgevano la mano,
La fabbrica era al coperchio. Già le travature collocate a posto, i listelli inchiodati, le tegole ammonticchiate sul culmine per esservi ordinatamente deposte; quando un violento e prolungato acquazzone fece interrompere ogni lavoro. Nè qui fu il tutto; chè la pioggia diluviò più giorni e più notti, e l'acqua, scorrendo e colando dalle travi e dai listelli, rose e trasse seco la fresca e fors'anche cattiva calcina, lasciando le muraglie come un mucchio di mattoni e di pietre senza cemento e legatura.
Era già inoltrata la sera del 1° dicembre, e più centinaia di giovanetti della città stavano raccolti nell'Oratorio per la scuola serale. Usciti dalle rispettive classi verso le nove ore, prima di recarsi alle proprie case, solevano trattenersi ancora cogli interni per alcun tempo, divertendosi e scorrazzando nei vani del nuovo fabbricato. È vero che D. Bosco, essendo ogni cosa bagnata dalla pioggia, aveva loro proibito di andarvi, pel timore che sdrucciolassero e si facessero del male; ma in quella sera gli spensierati più non si ricordarono; salirono, corsero su e giù per le scale dei muratori, qua e [508] là per i ponti, mentre molti giocavano a pian di terra, fra assi e travi fradici.
Gli alunni esteri eransi restituiti alla città; D. Bosco e i suoi giovani erano profondamente immersi nel primo sonno; quando, passate di poco le undici, un orribile fracasso, che ad ogni istante si fa più intenso e rumoroso, viene in un subito a destarli. Lo scroscio aveva fatto traballare l'antica casa attigua a quella in costruzione, della quale una parte del muro situato a mezzogiorno si sfasciava e rovesciava a terra. Fu una terribile catastrofe; ma, nell'ora segnata al disastro, incominciò a spiccare la misericordia del Signore verso di tutti. Se mai il rovesciamento fosse accaduto due ore innanzi, chi sa quante vittime avrebbe fatte. Ma il buon Dio vegliava alle sorti di D. Bosco e de' suoi giovanetti.
Stava in quel mentre la madre di D. Bosco per andare a riposo, e frettolosa uscì piangendo dalla sua cella. Temeva, e non senza ragione, che il figlio fosse rimasto sepolto sotto le rovine e gridava con quanta voce aveva in petto: - Don Bosco, D. Bosco, alzati, esci, salvati! - Corse all'uscio della camera, chiamò, ma non udiva risposta; spinse la porta, ma questa non si apriva. Intanto vide che una grossa pietra cadendo aveva offeso un angolo di quella camera e, rompendo le tegole, vi aveva praticato un buco pel quale penetrava la pioggia. Allora con tutta celerità scese la scala che metteva in cucina per prendere un'altra chiave e tentare l'apertura di quella porta.
Il Ch. Rua, destato allora dal fracasso e udita quella voce che gridava disperatamente, non seppe subito discernere donde venisse e di chi fosse; ma come la riconobbe per quella di Mamma Margherita, temendo che qualcuno fosse caduto ferendosi gravemente, si vestì e le andò incontro.
Intanto i giovani, pieni di spavento, balzarono da letto, [509] chi in mutande e chi in camicia, e nella piena confusione, ignorando ancora che cosa fosse accaduto, ciascuno si era ravvolto alla meglio nelle coperte e lenzuola; ed erano usciti dai poveri dormitori a pian terreno senza saper dove. Gli uni corrono verso la porta della cinta per fuggire, gli altri nella chiesa per trovarsi un rifugio ai piedi degli altari; altri si rannicchiano presso gli alberi vicini, altri finalmente si fermano in mezzo al cortile. Era uno spettacolo compassionevole vedere, nel tetro orror della notte, al cupo rumore della pioggia che dirottamente cadeva, cinquanta giovani correre qua e là. Chi singhiozzava da una parte, chi urlava dall'altra, chi dava dei ginocchio in una panca, chi s'intoppava in uno sterpo e cadeva, chi si sprofondava di qua e s'impiastricciava nel fango, chi di là s'ingolfava in una gora. Intanto si erano accorti ben presto della causa di quel rumore, perchè travi, tegole e materiali ingombravano il terreno.
E D. Bosco? Mentre tutti i giovani chiamavano, e stavano aspettando mamma Margherita che prese le chiavi risaliva la scala, ecco che si fa udire il suono conosciuto di un piccolo campanello e quindi di lì a non molto apparire un lume in fondo alla loggia. Era D. Bosco che tranquillo, tranquillo se ne usciva dalla sua camera e discendeva a visitar le rovine. Egli, tra la veglia e il sonno, udito in confuso il primo scroscio, si era messo in ascolto ed ecco risuonare un altro gran colpo. Egli pensava: Che tuoni ancora in questa stagione! - Ma non vedendo il lampo, apprese il suo pericolo, essendo di stanza il più prossimo alla fabbrica nuova. Sceso da letto, non era però riuscito ad orizzontarsi e non trovava la porta per uscire ed i zolfanelli per accendere il lume.
Appena egli comparve, da ogni parte gridavano i giovani: - D. Bosco! Oh D. Bosco! D. Bosco è salvo! - E dimentichi del fango e degli intoppi gli corsero incontro. [510]
Circondatolo, uno gli diceva: - Ebbene, D. Bosco, non ha sentito il rovesciarsi delle mura e le grida di sua madre? Un altro: - D. Bosco, ha sofferto molto? Si è fatto male? - Un terzo: - Come va che non è subito uscito? - Un quarto Veda come siamo ben conciati nei piedi e nelle gambe. E ognuno andava a gara nel narrargli la propria destrezza, i giuochi ginnastici e i salti mortali di quella notte. E a tutti D. Bosco, senza punto scomporsi e con quella pacatezza che è solo propria dei veri servi di Dio e degli uomini così detti della pace, porgeva ascolto e rispondeva consolanti parole. Aveva chiesto in primo luogo se era accaduta qualche disgrazia alle persone; ma udito che nessun sinistro, fuori della caduta del fabbricato, aveva turbati i figli dell'Oratorio, tutto giulivo prese a scherzare, canzonandoli delle loro grottesche figure, ridendo sulla paura dell'uno, sull'improvvisato abbigliamento dell'altro, e in fine invitandoli a far partita, correndo nel cortile per raggiungersi. Il suo spirito calmo giovò moltissimo a rasserenare i giovani in mezzo a quel grande sgomento. Indi li conduceva nella sala da pranzo e loro narrava come l'Oratorio avesse già sofferte persecuzioni, sforzati traslocamenti, e come tuttavia fosse andato ognora fiorendo e crescendo. Perciò li eccitava tutti a mantenere ferma la fiducia nella Divina Provvidenza. - Su, via, diceva loro, ora che abbiamo ricevuta grazia così segnalata, che tutti siamo incolumi, recitiamo le litanie. - A questo invito tutti si posero in ginocchio, recitando insieme con lui le litanie, in rendimento di grazie al Signore, il quale non avea permesso che neppur uno venisse schiacciato sotto le rovine.
Ma D. Bosco in quell'istante pensava seriamente: - E ora dove andare? Che cosa fare? - La notte era buia, pioveva sempre, faceva freddo. Da un po' di tempo però non si udivano [511] più sinistri rumori. - Dunque, continuò a riflettere Don Bosco: ciò che si è spostato, ormai ha finito di cadere. Dalla parte della casa ove si dorme non appaiono danni rilevanti.
Era già scorsa una mezz'ora dopo la mezza notte, e Don Bosco, volendo che ognuno prendesse il necessario riposo, disse ai giovani: - È tempo che andiate tranquillamente a dormire. State sicuri che non vi accadrà nessuna disgrazia. Togliete adunque i vostri letti da quella camera pericolante, e con tutta la possibile cautela portateli parte in sagrestia e parte qui in refettorio. - Detto fatto. In un batter d'occhio tutti spariscono e volano a caricarsi sulle spalle il proprio letticciuolo. Chi avesse visto con quanta facilità e prestezza gli artigiani trasportavano i loro bagagli, li avrebbe creduti altrettanti bersaglieri, tanto si mostrarono svelti. In meno di un quarto d'ora furono disposti venti letti al luogo provvisoriamente loro destinato.
Mamma Margherita dava prova di un coraggio virile degno di alto encomio. Stava attenta perchè nessuno si avvicinasse al luogo del pericolo, distribuiva i giovani quali in una e quali in altra camera, e vegliava fino all'alba, passando intrepida da un luogo all'altro come un generale in campo di battaglia. Si vedeva una vera madre resa dall'amore dimentica di se medesima e solamente sollecita de' figli suoi. Anche D. Bosco per parte sua mostrossi figlio ben degno di una tal madre; poichè per assicurare la vita loro espose più volte la sua a grande repentaglio, andando a constatare se vi fosse minaccia di nuove rovine. E fu d'uopo che la tenera non meno che coraggiosa Margherita, ne lo allontanasse come per forza e lo costringesse a rientrare in casa.
D. Bosco tornò dove i giovani finivano di assettare i dormitori; ciascuno rovistava le scarselle dei proprii abiti temendo in quella furia di aver perduto qualche cosa. [512]
In quel frattempo un lepido episodio sopravvenne ad esilararli. Fra i ricoverati uno ve n'era, sarto di professione, per nome Innocenzo Brunengo; era storpio delle gambe, già mezzo calvo per malattia e munito della parrucca, ma di bell'umore e molto faceto. Nel maggior rischio, come gli altri, era balzato in fretta dal letto, dimenticando sotto il capezzale la pagnotta della colazione che si distribuiva a ciascuno la sera pel mattino; poichè vari giovani dovevano prima dell'alba trovarsi dai padroni in città. Ed ora nel rimuovere il suo materasso, la pagnotta, senza che egli se ne avvedesse, era caduta per terra. Addolorato per quella dimenticanza, egli non bada a se stesso, nè alle voci di chi tenta dissuaderlo; ma a dispetto di tutti ritorna nella camera abbandonata, trova la cara pagnotta, l'afferra e via ratto quanto può uno zoppo. Ed eccolo giungere tutto allegro ove erano i compagni ed esclamare di gran cuore: - Poffare! la mia colazione è salva! Don Bosco, D. Bosco, la mia colazione è salva! - E così costringe i compagni, in allora ed in appresso, alle risa più saporite. Finchè visse, il primo saluto che gli facevano incontrandolo era: È salva, è salva! e piacevolmente si celiava sopra l'eroica prodezza da lui spiegata in quella notte per amore di una pagnotta.
D. Bosco intanto, poichè era già passata un'ora del 2 dicembre, esortò i giovani a coricarsi, e fatta breve preghiera egli pel primo si ritirò nella sua carriera che era la più esposta al pericolo. Tutti gli altri a poco a poco l'imitarono, eccetto qualcuno che ritirossi in chiesa a pregare, e distesi sui loro letticciuoli provaronsi a riprendere il sonno.
Ma fenomeno singolare! Nelle stanze del piano superiore tre chierici, Viale, Reviglio e Vacchetta Stefano, che poi si ascrisse fra gli Oblati di Maria, nulla avevano udito di tanto trambusto e se ne stavano dormendo placidissimamente. Il Ch. Rua [513] Michele, dopo aver aiutato D. Bosco a ristabilir l'ordine, saliva alla sua cella con altri due. Il Ch. Vacchetta descrivendo minutamente questo fatto in una sua lettera, che noi possediamo, diretta al Ch. Bellia nel venerando Seminario di Chieri in data 25 dicembre 1852, narrava:
“Entravano nelle mia camera i chierici Danussi, Buzzetti e Rua, i quali, col loro ridere smoderato, perchè io non mi ero svegliato, mi turbarono il sonno. Chiesi allora se la levata era già suonata e mi stupivo di non aver udito il suo prolungato tintinnio. Ma Danussi, prorompendo in risa maggiori: - Eh! non hai sentito la nuova casa a crollare? - No, no, risposi io: sono però contentissimo, poichè l'impresario la fabbricherà nuovamente da capo a fondo. Provvidenza, provvidenza è questo fatto. Il Signore vuole che l'Oratorio sia fondato non sulla sabbia, ma sopra sode fondamenta. Ha fatto cadere, o meglio, ha permesso che a cagion della calce già poco tenace in se stessa, venisse a rovesciarsi a terra il fabbricato, ed ha fatto benissimo. Esso vedeva che D. Bosco è troppo buono e che forse le cose già si aggiustavano a danno dell'Oratorio, e quindi ha così saggiamente provveduto. Provvidenza, provvidenza! - Detto ciò si impose silenzio e si tacque.
I giovani si erano coricati per riposare; ma, poveretti, qual riposo abbiano potuto prendere ben te lo potrai immaginare da ciò, che al mattino tutti raccontavano i continui rumori causati dalla caduta, ora di mattoni o di pietre ed ora di travi od assi che erano rimasti in alto sospesi.
Suonatele cinque ore, mentre la maggior parte di giovani già stava nel cortile osservando le rovine e la minore era ancora assopita dal sonno, si sentì crollare verso le cinque e mezzo la parte situata a mezzanotte, la quale battendo su quella di mezzo di altezza più elevata, fe' rovesciare anche [514] questa con un rumore quadruplo del primo, con tale scossa, che fece tremare l'attigua casa per alcuni minuti secondi. Coloro che sonnacchiosi stavano ancora nel letto balzarono in piedi e vestitisi in tutta fretta discesero a far numero e compagnia a tutti i curiosi”.
Ma D. Bosco, abbandonandosi nelle mani di Dio, calmo ed impassibile, essendo egli già disceso in chiesa, fece radunare i giovani, e invitandoli di bel nuovo a ringraziare il Signore per averli scampati così miracolosamente, celebrò la S. Messa. Uscito poi di chiesa in mezzo a tutti gli alunni raccolti, sorrideva esclamando: - Il diavolo me l'ha fatta: egli non vuole, che allarghi l'Istituto e raccolga nuovi giovani; ma noi lo faremo a suo dispetto. - E poi ripetè : - Il demonio ha voluto darci un calcio; ma state tranquilli, il Signore è più forte di lui, e il demonio non riuscirà ad impedire l'opera sua.
Di lì a non molto il cortile fu zeppo di gente, accorsa per la curiosità di vedere l'edifizio diroccato. Ed ecco in una vettura accorrere il sindaco con due ingegneri municipali, il quale prese a confortare D. Bosco, assicurandolo che l'Oratorio non avrebbe avuto danno da quella disgrazia. Subito i due ingegneri iniziarono un'ispezione sulla natura e sulla causa del disastro. La nuova costruzione, come abbiamo detto, aderiva al basso e vecchio abitato e sulla camera di D. Bosco soprastava di parecchi metri un alto e grosso pilastro della cadente fabbrica, il quale, nel rovinio, smosso dalla sua base pendeva spaventosamente sul povero abituro. Il Cav. Gabbetti, uno degli ingegneri, esaminato attentamente quel pilastro, mordendosi le labbra, domandò a D. Bosco: - Chi dormiva questa notte in quel sito? -Dormivo io, rispose D. Bosco, e una trentina de' miei giovanetti. - Allora quel perito prese D. Bosco pel braccio e disse: - Vada pure co' suoi [515] giovani a ringraziare la Madonna, che ne ha ben motivo. Quel pilastro si regge là contro tutte le ragioni dell'arte e se cadeva avrebbe schiacciato lei e i giovani nel proprio letto. Sfido io tutti gli ingegneri dei mondo a far stare in piedi una torre con tale pendenza. È un vero miracolo! Si diede tosto ordine di demolirlo; ma come far ciò senza mettere a cimento la vita degli operai? Colle necessarie precauzioni i muratori lo legarono con grosse funi, lo assicurarono per bene e poi, saliti sui ponti, lo disfecero poco per volta, liberando dall'estrema rovina la povera casupola.
Altro bel tratto della visibile protezione del cielo, fu questo. Erano le 8 ore. Della nuova casa rimaneva tuttavia in piedi una parte del muro respiciente il cortile a mezzogiorno cogli archi dei portici ancora intatti. Or mentre colla commissione municipale D. Bosco e vari giovani, fra i quali Cagliero, Turchi, Tomatis, Arnaud, stavano come trasecolati, guardando e lamentando quella immensa rovina, uno di essi, vedendo muoversi i pilastri, alza un grido dicendo: Fuggite! Tutti in un baleno si allontanano in mezzo al cortile, dove appena giunti il muro precipita con un fragore spaventoso, gettando travi, pietre e mattoni a più metri di distanza. Come ognuno si rimanesse, a quella vista, è agevole l'immaginarlo. Tutti senza parola e D. Bosco per un istante attonito e pallido in volto. Al tremito del suolo come per scossa di terremoto, nuova folla di cittadini accorse da tutte parti e circondavano D. Bosco deplorando la disgrazia. Ma egli già calmo e sorridente diceva al signor Duina: - Abbiamo giuocato al giuoco dei mattoni! - alludendo al divertimento dei ragazzi, che drizzano, vicino l'uno all'altro, una fila di mattoni e toccato il primo cadono tutti.
L'impressione che tanto disastro lasciò nei ricoverati fu tale, che per più mesi un piccolo rumore, come il passare di [516] un carro, o il rovesciarsi di una corba di pietre e simili, rimescolava loro il sangue, li faceva tremare e diventar pallidi come la morte. Ma D. Bosco, sempre pronto ad assoggettarsi colla più profonda sommessione a tutte le disposizioni del Signore, così allora come in altre cento e cento dolorose circostanze, non si udì uscire in parole di lamento, nè si vide mostrarsi triste e melanconico, nè trepidante e pauroso, ma col suo volto ilare e la sua dolce parola incoraggiava gli alunni. Disse in pubblico: - Sicut Domino placuit; sit nomen Domini benedictum. Pigliamo tutto quanto ci accade dalla sua mano e vi assicuro che il Signore terrà in gran conto la nostra rassegnazione. - E ripeteva: - Sì, dobbiamo proprio ringraziare il Signore e la Beata Vergine che in mezzo alle tristi vicende che opprimono l'umanità, avvi sempre la mano benefica e provvidenziale di Dio che mitiga le nostre sventure. - Diceva, ed anche a se stesso: Niente ti turbi; chi ha Dio, ha tutto. Il Signore è il padrone di casa; io sono l'umile servo. Ciò che piace al padrone, deve piacere anche a me.
Della santa pace che regnava nell'anima sua reca testimonianza una lettera da lui scritta al Prevosto di Capriglio.
Ho già parlato coi Sig. Cav. Curtine 1° Ufficiale nella Sacra Religione dei SS. Maurizio e L., e lo conobbi molto propenso a suo riguardo: faccia il giorgio nuovo e, senza nominar me, scriva un'altra lettera al prefato Cavaliere ed un'altra al Sig. Cav. Cibrario e spero qualche buon esito: repetita iuvant.
Ho qui una scuola di greco ed ho bisogno di alcuni libri analoghi che sono a mia casa ai Becchi.
Mi farà un gran piacere se andasse oppur mandasse alcuno p. e. D. Duino a scegliermi tali libri e spedirmeli al più [517] presto e questo per risparmiare alcuni centesimi a comperarne altri. Ho avuto una disgrazia: la casa, posta in costruzione, rovinò quasi intieramente mentre era già quasi tutta coperta: tre soli furono lesi gravemente, niuno morto, ma uno spavento, una costernazione da far andare il povero Don Bosco all'altro mondo.
Mi ami nel Signore, saluti l'ottimo suo Sig. Vicecurato e se valgo a qualche cosa mi comandi e mi troverà
Intanto la caduta della casa, oltre al danno materiale recava più altri disturbi. La stagione avanzata non permetteva più, non diremo terminare, ma neppure ricominciare i lavori. A stento si poteva coprire e riparare il braccio a levante non ancor finito che rimaneva in piedi. Come dunque prov- vedere alla strettezza di locali? La carità è industriosa, e tale era quella di D. Bosco. Rassicurate le mura della Cappella antica, questa venne ridotta a dormitorio; e le scuole diurne e serali; colle dovute cautele e pii riguardi si trasferirono nella chiesa nuova, la quale perciò nei giorni festivi e tutte le mattine serviva pel divin culto e per le pratiche religiose, e lungo la settimana dopo il mezzodì si convertiva in collegio e in palestra letteraria.
Si stabili pertanto una classe in coro, un'altra in presbiterio, una terza ed una quarta nelle due cappelle degli altari laterali, altre nel corpo della chiesa. Tutto ciò rendeva un insieme imbrogliato e confuso, ma di un'apparenza così romantica e singolare, che tutti i giovani vi accorrevano con un [518] vero entusiasmo. E l'ambiente per certo non era caldo. Ma D. Bosco ebbe sempre questo di mira: mostrarsi contento in ogni contrarietà, e in queste trovare il lato lepido; ordinando qualche variazione nell'ordine della casa, farlo con una cert'aria d'allegria che fosse prova dell'utilità grande che sarebbe per provenire da quella disposizione. Con questo sistema tutti i giovani accoglievano sempre colla miglior voglia del mondo qualunque cambiamento occorresse, fosse pure strano ed incomodo.
Essi stessi senza accorgersene, seguendo il suo esempio, sentivansi inclinati per costante abitudine di trovar argomento da ridere anche nelle proprie avversità. In fatti, passato lo spavento e la pena prodotta da quel disastro, Carlo Tomatis, essendo di facile e lepido ingegno, compose una poesia in piemontese, la quale recitata molte volte anche sul teatro, faceva ridere a più non posso.
Questi celebri versi furono stampati nel Bollettino Salesiano. Noi qui li riportiamo, ma tradotti dal nostro confratello Dottore D. Gio. Batt. Francesia, onde siano intesi anche da chi non conosce il dialetto del Piemonte.
Ero lì che sognavo, e mi parea |
Veder tutta fumante in sul tagliere |
Una bella polenta, che mi fea |
Rider l'anima lieta pel piacere; |
Quando la mamma con dolente voce |
Grida: Cade la casa! Ahi caso atroce |
|
Io mi sveglio intronato nella testa |
Da un forte scroscio, che sentir si fece |
E con la mente ancor non bene desta, |
Gli abiti cerco, e del cappello invece |
Prendo a Brunengo il sarto la parrucca; |
Frettoloso così salvo mia zucca. |
|
Uscito fuori, cerco invan le stelle, |
La bella luna luminosa in cielo, [519] |
Che invece piove a furia, a catinelle; |
Trovo D. Bosco, con paterno zelo, |
A cercar, a contar tutti i suoi figli |
Scampati per prodigio dai perigli |
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In chiesa ci raduna, e poi ci esorta |
A confidar nella celeste aita: |
Ognuno nel sentirlo si conforta, |
Nè teme davvantaggio della vita: |
Mentre un colpo all'orecchio s'avvicina |
Come il mondo n'andasse alla rovina. |
|
Che sarà mai? gridammo spaventati, |
Guardandoci l'un l'altro con orrore; |
Saremmo in questa notte sotterrati? |
Un trave e poi un altro con rumore, |
Come la paglia che si porta il vento, |
Col muro eran caduti in quel momento. |
|
E là pochi dì prima aveva il letto |
Posato, ove dormiva i sonni belli; |
Di me che saria stato, poveretto, |
E della tavolozza e dei pennelli? |
Sarei andato con i padri antichi, |
Nè più la pancia serberei pei fichi. |
|
Che ne dici, Gastini, e tu, Buzzetti? |
Che vi pare di questo gran periglio? |
Mi trema l'alma se penso a Rocchietti; |
Mi ride invece in osservar Reviglio |
A pregar, o gridar con vivo affetto, |
Tenendo in testa il berrettin da letto. |
|
Ed Arnaud il guantaio, e poi Battista, |
Colui cioè che pela le carote, |
E Marchisio, e ben altri in lunga lista |
Stavano bianchi in ambedue le gote. |
Di quella notte è degno che la storia |
Ne serbi in bella pagina memoria. |
|
All'alba intanto rovinava in tutto |
Con orrendo frastuono quella mole, |
Che il buon Padre erigeva, e in mezzo al lutto |
Ci disse, e le ricordo sue parole, |
Con la calma dell'anima sicura: |
Risorgeranno un dì coteste mura! |
SEMPRE nuove trame e sempre guerra contro la Chiesa. Il 4 novembre il Conte Camillo Benso di Cavour veniva nominato presidente del Ministero. Nell'agosto egli era andato a Londra a tener consiglio con i lords Palmerston, Russel e Gladstone, dei quali è difficile dire chi più di essi odiasse la Chiesa Romana, o aiutasse con ogni mezzo la rivoluzione; e passato a Parigi, s'intratteneva lungamente col Presidente della Repubblica Luigi Bonaparte e si accordava sull'Unità d'Italia e sulla Questione Romana. I settari d'Europa lo spingevano ad intimare al Papa una guerra di religione, e il i dicembre Bonaparte col nome di Napoleone III era proclamato imperatore.
Intanto in Piemonte erasi continuata la lotta contro i diritti di Dio; e il 5 luglio i deputati avevano approvata la legge sul matrimonio civile con 94 voti contro 34. Petizioni [521] al Parlamento, firmate da innumerevoli cittadini, chiedevano che questa legge non andasse in vigore; e il Governo aveva tentato impedirle, accusando il clero di usare frodi, artifizii, violenze per ingannare il popolo sulle intenzioni del legislatore. Nella diocesi d'Ivrea tre zelanti parroci furono messi in prigione. Alcuni signori, per aver stampati opuscoli che dimostravano quella legge essere anticattolica, vennero processati e destituiti dalle loro cariche. Il Papa aveva scritto al Re dichiarandogli la dottrina cattolica sul matrimonio, e i Vescovi della Provincia Piemontese avevano protestato, annunziando le pene canoniche fulminate contro chi osasse contrarre matrimonio civile; e tuttavia in Senato si aperse la discussione. La Vergine Consolatrice però non permise per allora simile scandalo. Il 20 dicembre, benchè Camillo Cavour avesse parlato caldamente in favore della legge, il Senato con 39 voti contro 28 ne respingeva il primo articolo, e il 22 un decreto reale ritirava l'infausto progetto. E i cittadini, secondo la promessa fatta, ringraziarono la Madonna, costruendo la facciata al Santuario della Consolata, colle oblazioni di oltre 60.000 lire.
Nello stesso tempo i protestanti continuavano la loro propaganda e più volte avevano cercato di venire a dispute con D. Bosco.
“Nel 1852, narrò D. Bosco, venne nell'Oratorio un famoso protestante, e dopo alcune parole mi porse un libro dicendo a più riprese: - Ecco un buon libro il quale fa toccare con mano le infamità della Chiesa Romana; - e mi presentava un libro del Trivier, le cui menzogne e calunnie superano di gran lunga il numero delle parole. Richiesto di accennarmi, alcune di queste infamità, mi rispose: - Non è una infamità che il Papa si faccia adorare qual Dio e più che Dio? Non è un'infamità da pagano l'adorare i santi e [522] le immagini quali altrettanti dei? Non è un'infamità quella di proibire la lettura del Vangelo?
A tali accuse io lo pregai pacatamente di cercarmi nel libro, che aveva tra le mani, un solo decreto di Papi, di Vescovi, di Concilii o di Santi Padri in cui si rinvenisse una sola espressione che comandasse alcuna delle tre cose da lui accennate. Chi accusa infatti deve recar le prove di quanto afferma.
L'altro volta e rivolta pagine e fogli, scorre paragrafi e capitoli; ma siccome non poteva trovare quello che io domandava, - Ritornerò, mi disse, e sarò munito di testi e di ragioni da soddisfarvi.
- Andate, io replicai, leggete a vostro agio tutti i libri del mondo, i manoscritti o gli stampati che volete; e se mi saprete provare quanto m'asserite, vi do tutta ragione, altrimenti....
- Altrimenti avrò io pienissima ragione di affermare che i protestanti sono calunniatori.
Il ministro si allontanò, io lo attendeva, ma egli più non fece ritorno”.
D. Bosco però non si appagava di sole dispute. Ponderava le ingiustizie, le calunnie e gli errori coi quali nella mente dei popoli, per opera dei politicanti, de' settarii e de' Valdesi, si falsava l'idea della Chiesa di Gesù Cristo, de' suoi diritti, della sua dottrina; e meditava nuove imprese, molto maggiori di quelle che aveva incominciate, colle quali a poco a poco avrebbe fatto, col suo genio benefico, stupire ed illuminare il mondo.
“La via dei giusti è simile alla luce che incomincia a risplendere, la quale si avanza e cresce fino al giorno perfetto”[25]. [523]
Fin dall'anno 1850 D. Bosco si era prefisso d'innalzare un argine contro l'irruzione della stampa eretica, pubblicando una collezione di libretti popolari sotto il titolo di Letture Cattoliche. L'ispirazione di fondarle fu tutta sua. Ma poichè nulla intraprendeva senza ricorrere a Dio, chiedere ed ascoltare il sentimento di personaggi autorevoli, e ponderare lungamente il pro e il contro, era stato alquanto lento nel determinarsi. Ma in quest'anno la risoluzione era presa e nessuno ostacolo avrebbe bastato a distornarnelo. Sempre devoto ed ossequente al suo Arcivescovo, egli, compilato un programma di associazione, lo aveva sottoposto a Mons. Luigi Fransoni in Lione, e l'egregio Prelato non solo approvava, ma encomiava altamente il provvido pensiero. La Direzione delle Letture Cattoliche avrebbe avuta la sua sede in Torino.
D. Bosco però non poteva da solo affrontare gli impegni di cosiffatta impresa, occorrendo unire alla sua molte altre volontà di persone a lui eguali, per la necessaria cooperazione e che talora avrebbero forse tollerata di mala voglia la sua supremazia, e la sua riputazione accresciuta a loro spese. Egli perciò in qualche circostanza riusciva a vincere certe riluttanze, nascondendo se stesso, e proponendo una cosa, non come sua, ma come suggerita da altri. Talvolta sapeva a poco a poco insinuare con destrezza le proprie idee, e le rispettive ragioni, nelle menti di persone doviziose o di grande autorità ed influenza, in modo che le facessero loro proprie, persuase dì avere il vanto e il merito di quel disegno, e quindi, come proprie, le sostenevano con animo alacre. Erano questi sacrifizii di umiltà, ma largamente ricompensati, per la gloria che ne veniva al Signore.
D. Bosco adunque aveva già discusso con Mons. Moreno, Vescovo d'Ivrea, il progetto di questa divisata pubblicazione, pregandolo a favorirla colla sua autorità, ed era stato deciso [524] il piano da eseguirsi, poichè colle Letture Cattoliche volevasi discendere in campo aperto contro il Protestantesimo. Mons. Moreno approvava con entusiasmo, e prendeva sotto il suo patrocinio l'esecuzione del progetto e D. Bosco l'ebbe così per potentissimo e zelantissimo alleato.
Un nuovo lavorio indefesso dava a D. Bosco la fondazione di questa biblioteca; e la sua fede gli faceva passare le notti intere a scrivere libri di religione e d'istruzione pel popolo sulle dottrine cattoliche più attaccate dai protestanti, smascherando l'errore con argomenti accessibili alla gente più ignorante.
Si domanderà come D. Bosco trovasse tanto tempo e riuscisse in tanti negozii, che fanno sbalordire pel loro numero. Era questo, risponderemo, il suo segreto, che avea imparato nel Convitto alla scuola di D. Cafasso. D. Bosco scrivendo di D. Cafasso, in una sua memoria, dipinge senza volerlo se stesso:
“Il primo segreto era la costante tranquillità. Egli avea famigliare il detto di S. Teresa: - Niente ti turbi! - Perciò, colla dolcezza propria delle anime sante, disimpegnava con energia ogni affare, anche prolungato, difficile e seminato talvolta di spinose difficoltà; ma ciò senza affannarsi, senza che la moltitudine o la gravezza delle cose recasse il menomo turbamento a quell'anima nobile e veramente grande. Questa meravigliosa tranquillità faceva si che egli potesse trattare molti e svariati affari senza affanni e senza detrimento delle facoltà intellettuali.
Il secondo segreto era la gran pratica degli affari, acquistata colla sua pazienza, congiunta ad una grande confidenza in Dio. La sua prudenza, la sua esperienza, il lungo studio del cuore umano gli avevano rese famigliari le più elevate questioni. I dubbi, le difficoltà, le domande più complicate [525] dinanzi a lui scomparivano. Fattagli una domanda, comprendevala al solo annunziarla; quindi alzato un istante il cuore a Dio, rispondeva con prontezza e giustezza tale che una lunga riflessione non avrebbe fatto pronunciare miglior responso.
Il terzo segreto per fare molte cose era l'esatta e costante occupazione del tempo. Nello spazio di trenta e più anni che io lo conobbi, non mi ricordo di averlo veduto passare un istante che potesse dirsi ozioso. Terminato un affare, tosto ne intraprendeva un altro. Non mai prendevasi un momento di ricreazione, non mai un trastullo per sollevarsi lo spirito, non una facezia, o parola inutile. Per il solo fine di dare svago a' suoi convittori, assisteva talvolta ai loro divertimenti e questo era per lui un dovere.
L'unico vero sollazzo per lui era il cangiamento di occupazione allorchè erane oppresso dalla stanchezza. Quando era stanco dal predicare andava a pregare, quando era stanco dallo scrivere andava a visitare gli ammalati o andava a confessare nelle carceri o altrove.
Quarto segreto era la temperanza, che meglio chiameremo la sua rigida penitenza. Fin da giovanetto fu sempre sobrio nel mangiare e nel bere, sicchè dopo il cibo egli era in grado di intraprendere qualsiasi occupazione scientifica o letteraria. Qualche volta gli fu detto di avere un po' di riguardo alla sua sanità, ma egli rispondeva: - Il nostro riposo sarà in paradiso! Oh paradiso! Oh paradiso! Chi pensa a te in questo mondo non patisce più stanchezza. - Altre volte diceva: - L'uomo è veramente infelice a questo mondo! L'unica cosa che lo potrebbe consolare, sarebbe il poter vivere senza mangiare, senza dormire per occuparsi unicamente a lavorare pel paradiso!
Un giorno, riprendendo un sagrestano dell'essersi alzato [526] troppo tardi da letto, gli disse: - Per un uomo dedicato al servizio di Dio, basta un sonno, e una volta svegliato, qualunque sia l'ora bisogna alzarsi. - D. Cafasso doveva certamente tenere una tale regola”.
Ma di un quinto segreto non scrive D. Bosco, il quale era premio di una vita instancabile e mortificata per la gloria di Dio. Volere o non volere, la giornata di questi ammirabili sacerdoti era così piena di opere, che avrebbero bastato ad occupare da mane a sera cinque o dieci uomini volonterosi ed intelligenti. Dunque? Nella biografia del generale Gastone de Sonis, uomo tutto del Signore, si legge aver egli constatato, per esperienza propria, una grande verità: - Il Signore moltiplica il tempo per coloro che lo servono.
Egli intanto, aveva messo sotto la protezione di Maria SS. il suo disegno delle Letture Cattoliche. Ricordandosi dell'invito fattogli dal Rettore del Santuario d'Oropa, vi si recò nel mese di luglio per passarvi qualche tempo ed ultimare alcuni manoscritti; ma trovò essere stato mutato quel Rettore e non ebbe quelle liete accoglienze che si aspettava. È forse quest'anno che avvenne ciò che siamo per dire, essendo certo il fatto, ma incerta la data. D. Bosco era giunto ad Oropa col Teol. Golzio e aveva chiesti al Can. Pezzia Bernardino alcuni documenti, bramoso di stampare un libretto sulla storia di quel Santuario. Il Canonico non acconsentì alla sua domanda, dicendogli che tutte le notizie erano già divulgate. Domandò eziandio ospitalità per sè e pel compagno; ma un amministratore si rifiutò di dar loro alloggio nelle stanze destinate per i preti, sicchè dovettero ambedue contentarsi delle camere preparate per i pellegrini secolari. D. Bosco e il Teol. Golzio soffersero in pace quella contrarietà, non dissero parola di rimprovero o di lamento, e si fermarono qualche giorno per soddisfare alla loro divozione. [527]
Andato poi D. Bosco a S. Ignazio, scriveva di là a Monsignor Moreno, mandandogli il suo manoscritto: Il Cattolico Provveduto, perchè lo esaminasse e correggesse. Erano i primi fascicoli delle Letture Cattoliche.
E il Vescovo d'Ivrea rispondevagli:
“La sua lettera ben gradita, da V. S. Preg.ma favoritami dal luogo degli esercizi, mi arrivò al Santuario di Piova, dove stavo appunto attendendo anche agli esercizi. La ringrazio di tutte le gentili cose che mi dice, e mi rallegro che la sua chiesa sia già in così buon assetto, e l'assicuro che verrò con singolar piacere a vederla, quando abbia occasione di recarmi a Torino. Di tutto buon grado mi sono occupato del manoscritto che si compiacque comunicarmi e unito al medesimo troverà un foglio di variazioni e piccole giunte, che parmi si possano farvi. Del resto io non pongo importanza ad alcuna, ed Ella potrà giovarsene secondo il suo genio. Gradirò sommamente di conoscere le variazioni da Lei ideate al programma dei libretti da stamparsi e divulgarsi ogni mese. Quest'impresa mi preme assai assai, e La prego di occuparsene con quella maggior sollecitudine che potrà. Diggià io ottenni l'adesione di persone zelanti, e taluna mi diede la sua firma in bianco anche per concorrere nelle spese. Finisco col ringraziarla delle copie che mi favorì della sua bella poesia per la benedizione della chiesa. L'Avvocato e D. Gallenga La ringraziano ugualmente e La riveriscono, ed io ho caro di dirmi, ecc.
Dal castello d'Albiano, 4 agosto 1852.
Passati pochi giorni, Mons. Moreno altra lettera scriveva a D. Bosco. [528]
“Il sig. Matteo Rho, direttore della biblioteca dell'esercito, S° Segretario al Ministero della guerra, mi scrisse con foglio del 9 andante che di questa settimana si poneva mano alla stampa del libro Il soldato cristiano; prima di rispondergli e di prendere qualche azione per la medesima prego V. S. Preg.ma di dirmi se tale operetta è quella di cui il Teol. Vallinotti mi comunicò la traduzione, cominciata sotto l'ispezione di Lei.
Il bisogno si fa sempre maggiore: mettiamo dunque mano alla piccola biblioteca.
Col ritorno del latore favorisca comunicarmi le modificazioni che mi accennava poter occorrere al programma.
D. Bosco fece sapere a Monsignore che egli sarebbesi recato ad Ivrea per chiedere il suo consiglio intorno al programma, alla scelta dei fascicoli, e all'ordine col quale fosse conveniente darli alle stampe. Ma siccome tardava a mantenere la sua promessa, ecco giungergli un altro foglio.
“Attendo con impazienza la S. V. Preg.ma secondo la promessa fattami e spero che potremo concludere definitivamente per la biblioteca.
Non Le scrivo altro per adesso. Se gradisse, o meglio, se potesse favorire di dettare gli esercizi alle suore di carità qui in Ivrea si porti li suoi manoscritti.
LUIGI, Vescovo d'Ivrea”. [529]
Predicati gli esercizi spirituali a Giaveno, D. Bosco si, recò ad Ivrea per contentare quel Prelato e riceverne gli ordini; e furono stabilite le ultime decisioni per dar vita alle Letture Cattoliche. Mons. Moreno, prese tutte quelle disposizioni che per sè aveva riservate, ne dava notizia a D. Bosco:
“Ogni cosa sarebbe disposta per dare principio alla nota pubblicazione periodica. Vengo perciò a sollecitare V. S. R. di completare il programma col Teol. Can. Vallinotti e di mandarmelo prontamente, affinchè si possa stampare e distribuire. Se uno o l'altro vengono a portarmelo sarà meglio ancora.
Bisogna pensare ad una terza persona ecclesiastica o laica che aiuti. Suppongo che avrà finito il lavoro di ampliazione dei noti avvisi ai cattolici e che avrà parlato con tutti quei personaggi coi quali desiderava conferire, giacchè a questi dì niuno più rimarrà in campagna. Pur troppo la propaganda protestante si manifesta vieppiù ardimentosa: facciamo per parte nostra una propaganda cattolica.
Con rammarico intesi la rovina di porzione del suo fabbricato, e gradirò di sapere di sue notizie, poichè fummi supposto che sia stata incomodata.
Preghi e faccia pregar per me, che ho caro ripetermi con parzialissima stima, ecc.
D. Bosco gli mandò il chiesto programma e nello stesso tempo faceva atto di obbedienza alla Suprema Autorità della Chiesa, la quale vieta ai cattolici le opere eretiche. La facoltà di leggere e ritenere libri proibiti gli era già stata prima [530] concessa con restrizione. Ma ora, a motivo di dover scrivere contro i Protestanti, era indispensabile una facoltà illimitata e la domandò e gli fu concessa dal Santo Padre.
Il sacerdote Bosco Giovanni torinese, nel trovarsi alla Direzione degli Oratori per la gioventù eretti in Torino, gli accade spessissimo che tali giovani gli portano ogni genere di libri, che in questi tempi calamitosi si spandono in copia perversissimi.
Umilmente prostrato ai piedi di V. S. implora la facoltà di leggere e ritenere qualsiasi libro proibito essendone tale il bisogno.
Alla Santità di Nostro Signore
Feria sexta, die 17 Decembris 1852.
Auctoritate SS. D. N. Pii PP. IX nobis commissa liceat Oratori (si vera sunt exposita) attentis litteris testimonialibus, et quoad vixerit, legere ac retinere, sub custodia tamen ne ad aliorum manus perveniant, libros quoscumque prohibitos, exceptis de obscenis ex professo tractantibus.
Nello stesso tempo da Roma gli perveniva il più grande conforto e compenso che potesse desiderare. Era la firma [531] autografa di Pio IX in un documento solito a segnarsi da un segretario. Con ciò il Papa gli aveva dato prova straordinaria della sua affezione, Non si può dire quanto D. Bosco desiderasse gli autografi del Sommo Pontefice e come esultasse nel riceverli, coi segni della massima reverenza. Noi fummo più volte testimonii di questi suoi affettuosi trasporti. Un secondo Rescritto adunque rispondeva ad una nuova supplica di D. Bosco.
Il sacerdote Bosco Gio. Direttore dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, prostrato ai piedi di Vostra Beatitudine, supplica umilmente che gli sia rinnovata la facoltà di fare la santa comunione nella messa solenne di mezzanotte, nella vigilia del SS. Natale, come suole da parecchi anni praticare, assicurando V. B. che un tale favore riuscirà di grande utilità e di eccitamento ai giovani che intervengono.
Umilmente prostrato spera la grazia.
Così terminava l'anno 1852 colle sue gioie e co' suoi dolori, segnalato per la fiducia dei Torinesi in Maria SS. Consolatrice.
SUL principio del 1853 ogni cosa era pronta per la pubblicazione delle Letture Cattoliche. D. Bosco aveva cercata ed ottenuta l'adesione di varii sacerdoti e di altri personaggi dotti, i quali erano pronti a collaborare con lui preparando opuscoli. Sua occupazione incessante: far viaggi, visitare persone influenti di varie città e paesi, tener con esse conferenze, affinchè si conoscesse e diffondesse la nuova associazione nelle famiglie, trovare corrispondenti i quali si incaricassero di iscrivere gli associati e di ricevere le quote, scrivere, stampare, e spedire da ogni parte circolari, stringere contratto colle tipografie.
Dopo aver informati i Vescovi del Piemonte e ottenuto il loro consenso, distribuiva il seguente programma a migliaia di esemplari.
Piano dell'Associazione alle Letture Cattoliche.
1. I libri, che si propongono a diffondere, saranno di stile semplice, dicitura popolare, e conterranno materia, che riguarda esclusivamente alla Cattolica Religione. [533]
2. In ciascun mese si pubblicherà un fascicolo di pagine da 100 a 108 e più, secondo comporterà la materia di cui si tratta. La carta, i caratteri ed il formato è pari al presente.
3. Il prezzo di associazione è di cent. 90 ogni semestre da pagarsi anticipatamente, il che forma la tenue somma annua di L. 1,80. Per coloro che desiderano di ricevere i fascicoli per la posta è di L. 1 cent. 40 per sei mesi, di L. 2 cent. 80 per un anno.
4. Per fare tutte le agevolezze possibili a tutte le benemerite persone ecclesiastiche e secolari, che vorranno prestare la mano a quest'opera di carità, saranno loro spediti i fascicoli, franchi di porto, per tutti i Regii Stati, e per l'Estero fino ai confini, purchè gli associati formino un centro, ove si possano indirizzare non meno di fascicoli cinquanta.
5. Nelle città e luoghi di provincia, le associazioni si ricevono da quelle persone, che sono designate dai rispettivi Ordinarii Diocesani, a cui l'Opera è in modo particolare raccomandata e dei quali diamo il nome e l'indirizzo ecc.
Da questo istante in tutte le sue lettere, di qualsivoglia argomento trattassero, in tutti i pacchi che doveva spedire metteva un foglietto stampato col piano d'associazione e vi scriveva sopra di propria mano: Ne raccomando caldamente la diffusione. E ovunque andasse, spargeva copie di tale programma, e così continuò per tutto il tempo della sua vita. Incaricò eziandio qualche buon uomo, venditore ambulante, il quale, fatta provvista di questi opuscoli, li portasse sulle piazze e sui mercati di molti paesi, li vendesse a mitissimo prezzo e li distribuisse anche gratuitamente quando così credeva.
Il suo zelo accendevasi sempre più pensando al bene che avrebbe operato, ma non sappiamo se allora ne comprendesse tutta l'estensione. Dalla sola sua penna dovevano uscire un centinaio di operette, morali, apologetiche, di controversia, [534] contro i protestanti e specialmente contro i valdesi, per confermare il popolo nella fede, per istillare massime cattoliche nella gioventù, coll'amore alla Chiesa ed al Papa. Se il protestantesimo in Torino e nel Piemonte farà pochi progressi, o meglio se non potrà stabilmente attecchire, lo si dovrà a lui, che spargerà eziandio in tutta l'Italia e nelle isole adiacenti le sue Letture Cattoliche.
Dal 1853 al 1860 almeno più di novemila, come si legge sui registri, furono ogni anno gli associati e parecchi rappresentano gruppi di numerose famiglie concorse con qualche soldo ad una sola associazione; nel 1861 cresceranno a circa diecimila e dal 1870 si manterranno poi sempre nel numero dai dodici ai quattordici mila.
Le copie stampate degli opuscoli sorpasseranno in media ogni mese le 15.000. Cinquecento saranno altre operette diverse, composte dai collaboratori e di queste, e di quelle di D. Bosco, si faranno edizioni a parte in gran numero, sicchè si moltiplicheranno continuamente nelle mani del popolo cristiano. Il totale di questi fascicoli nel primo cinquantenario dalla fondazione assommerà un numero complessivo di oltre nove milioni e duecento mila. Si aggiunga che queste stesse Letture si pubblicheranno poi contemporaneamente più tardi eziandio in francese, in spagnuolo, portoghese e si spediranno a parecchie migliaia di associati di ciascuna lingua. Ebbero principio nell'Argentina (Buenos Aires) nel 1883; nel Brasile (Nictheroy) nel 1889; nella Spagna (Sarrià) nel 1893; in Francia (Marsiglia) e in Colombia (Bogotà) nel 1896. Grande adunque era anche quest'opera alla quale D. Bosco si accingeva.
Intanto in Piemonte la propaganda valdese faceva sforzi disperati. Spandeva somme ingenti per comprar proseliti, massime fra gli operai. I settarii usavano arti così iniquamente velate e pur così efficaci che a più migliaia si contavano [535] gli apostati. Turpi commedie, che facevano l'apologia delle più tristi passioni e schernivano perfino il principio della domestica autorità, si recitavano impunemente nei teatri di Torino. Con giornali venduti allo scisma, libri, conferenze predicanti mandati attorno, s'insultava e calunniava continuamente il clero. Le Bibbie falsificate si spacciavano a profusione, e si aprivano biblioteche di libri eterodossi. E la baldanza dei settarii andava crescendo poi per connivenza di chi avrebbe dovuto metter loro un freno. In un'adunanza generale tenuta in Torino nel palazzo di città per la nomina di un comitato di beneficenza per soccorrere alla miseria dei poveri, ne venne eletto membro il Rabbino degli Ebrei e il Pastore della Chiesa Valdese, ma nessun prete cattolico. A questa adunanza erano convenuti il Presidente del Ministero, il Ministro dell'Interno e il Presidente della Camera dei Deputati con parecchi altri personaggi.
I Vescovi da tempo combattevano con un coraggio da apostoli tante forze micidiali e riunite, affrontando minacce, pericoli e danni. Conferenze, predicazioni, lettere pastorali ai popoli, proteste al Governo, richiami al Sovrano, libri date alle stampe, tutto ponevano in opera per arrestare il male, coadiuvati da un clero fedele. Tuttavia pareva che i nemici prevalessero.
Ed ecco che mentre i cattolici con occhio rattristato tenevano dietro al progresso delle ree dottrine, le quali ogni dì più profondamente penetravano nel seno delle moltitudini pervertendo le menti, corrompendo i cuori, impadronendosi delle anime, ecco per la terza volta, come ultimo squillo di tromba che sfida il nemico, uscire la terza edizione degli Avvisi ai Cattolici, che dovevano servire come di prefazione al primo fascicolo delle Letture Cattoliche. D. Bosco aveva detto: - Io non temo i protestanti, e sarei felice se potessi dare [536] la mia vita per la fede Qualche personaggio, troppo prudente, aveva tentato di distoglierlo da questa nuova impresa, ma egli, invece di sgomentarsi, decise di porre, e pose il suo nome sugli opuscoli usciti dalla propria penna.
Ricomparvero adunque gli Avvisi ai Cattolici coi Fondamenti della Cattolica Religione, recando nel frontispizio il Motto: I NOSTRI PASTORI CI UNISCONO AL PAPA; IL PAPA CI UNISCE CON DIO. In questo libretto D. Bosco, apponendo la sua firma, aveva aggiunto tre ricordi particolari per la gioventù.
“1. Fuggire per quanto è possibile la compagnia di coloro che parlano di cose immodeste o cercano di deridere la nostra Santa Religione.
2. Se per motivo di studio, di professione odi parentela vi toccherà trattare con costoro, non entrate mai in dispute di religione; e se cercano di farvi difficoltà a questo riguardo, dite loro semplicemente: Quando sono infermo vo dal medico, se ho liti vado dall'avvocato o dal procuratore, se ho bisogno di rimedii vado dal farmacista, in fatto poi di religione vado dai preti, come quelli che di proposito studiarono le cose di religione.'
3. Non leggete mai e poi mai libri o giornali cattivi. Se per avventura taluno vi offerisse libri o giornali irreligiosi, abborriteli e rigettateli da voi con quell'orrore e disprezzo con cui rifiutereste una tazza piena di veleno. Se a caso ne aveste qualcuno presso di voi, consegnatelo al fuoco. E meglio che il libro o giornale bruci nel fuoco di questo mondo, che andare l'anima vostra a bruciare per sempre nelle fiamme dell'inferno”.
Le Letture Cattoliche si stampavano in Torino nella Tipografia diretta da P. De Agostini, Via della Zecca, N. 25, casa Birago, piano terreno. Quivi era anche l'ufficio del giornale L'Armonia, il quale nel suo numero di martedì 8 febbraio 1853 pubblicava il seguente articolo. [537]
I nostri associati avranno ricevuto coll'ultimo numero e supplemento dell'Armonia un libretto che serve d'introduzione alle Letture Cattoliche.
Da questo e dal programma distribuito qualche tempo prima risulta l'idea di quei generosi cattolici, i quali hanno messo mano a tale opera che loro dovrà costare di molti e gravi sacrifizi, ma che riuscirà certamente di gran vantaggio al Piemonte.
Quest'associazione si propone di diffondere libri di stile semplice e dicitura popolare, riguardanti esclusivamente la Religione Cattolica. In ciascun mese uscirà un fascicolo di 108 pagine e il prezzo di associazione non è che di L. 1,80 all'anno. Di modo che gli associati avranno un volume di 1296 pagine per L. 1,80. Ciò come ben si vede non potrà tornare che a scapito della Società. Pure essa è pronta a rimettervi del proprio. Ma raccomandiamo intanto ai nostri concittadini di associarsi a questa nuova produzione, ricorrendo perciò alla nostra tipografia, al Sig. Giacinto Marietti, o agli eredi Ormea.
D. Bosco però dovette fare nel suo programma un leggiero cambiamento, accondiscendendo alle proposte del Vescovo d'Ivrea. Restando mantenuto il numero annuale promesso delle pagine, i fascicoli invece di dodici sarebbero ventiquattro, cioè due al mese. Altri progetti erano stati fatti sulla disposizione della materia da trattarsi, ma il fatto prova che il Vescovo non insistette, e D. Bosco seguì quell'ordine che credette più conveniente. Ecco la lettera di Monsignore.
“Lunedì scrissi al sig. Teol. Vallinotti di comunicare a V. S. Preg.ma la richiesta fatta da taluni di più frequenti pubblicazioni, di 24 o 36 pagine per volta; e così senza [538] aumentare la spesa degli associati. Adesso Le comunico una mia idea che potrà partecipare anche ai colleghi. Siccome taluni non amano tanto le scritture dirò di polemica contro l'errore, e bramano molto più letture edificanti, si potrebbe, al fine di soddisfare anche al gusto di costoro, pubblicarne qualcuna in ciascun mese. Feci il calcolo che in un foglio delle Letture si potrebbero dare le vite dei santi di tutto il mese, ridotte a compendio come si usa dai padri Filippini. Se vuolsi aggiungere la massima e la pratica, si potrebbero dare le vite dei primi quindici giorni del mese, e nell'anno venturo si darebbero quelli degli altri quindici giorni. E perchè il foglio di 36 pagine non conterrebbe altro, ciascun associato potrebbe poscia riunire tutti i fogli in due volumetti. Oltre le Vite stampate dai Filippini havvi il Diario Cristiano, pubblicato da Marietti, credo per due anni. Il manoscritto volentieri lo farei preparare qua senza aggiungere lavoro a Lei ed ai colleghi. Ne discorrano dunque, e nella prossima settimana potrà poi scrivermene qualche cosa.
Dal Teol. Vallinotti avrà comunicazione dei riscontri favorevolissimi da me ricevuti.
Adesso bisogna procurare di corrispondere alla simpatia che ci venne dimostrata.
Mi raccomando a Lei affinchè non risparmi diligenza e cautela per la prossima pubblicazione. Suppongo che si sarà posta in relazione col signor Can. Zappata, e che questi vorrà prestarsi a rivedere con molta attenzione le cose da pubblicarsi: amo non abbiansi ad incontrare osservazioni e critiche.
Siccome Le dissi, mandino pure qua a me quei tali scritti o stampati che si desiderano esaminati con qualche premura.
D. Bosco riceveva questa lettera mentre era tutto intento, come se avesse null'altro a fare, nel correggere la seconda edizione della sua Storia Sacra. Stampavasi identica alla prima, non avendo ancora la carta geografica; ma però migliorata; ed il racconto prendeva una forma espositiva, lasciando quella dialogica o catechistica. Ma non è a dire quanta attenzione poneva D. Bosco nell'osservare che non gli sfuggisse parola che fosse meno castigata. In ogni nuova edizione aveva sempre da correggere ciò che prima aveva giudicato ben corretto; la sua anima candida non poteva soffrire che un menomo neo facesse comunque sia la meno santa impressione ne' suoi figli. Della sua casta parola si può dire in certa maniera: - Argento passato pel fuoco, provato nel crogiuolo di terra, raffinato sette volte[26].
Chi nol conosceva, al veder comparire alla luce tante sue opere, doveva certamente essere persuaso che avesse molte giornate libere, e, non avendole lette, supporre che fossero compilate con poca accuratezza. Eppure egli non si accingeva a pubblicazioni, senza prima aver consultati molti autori e di maggior grido; poi scriveva tutto di proprio pugno, o dettava, esaminando attentamente il lavoro del suo amanuense. Le sue pagine arricchiva sempre di fedeli citazioni. Anche le bozze di stampa erano da lui stesso corrette più volte con scrupolosa diligenza.
Ma come poteva egli riuscire a tanto? È caro saperlo e ci sarà dato collo scorrere, d'uno sguardo complessivo, più anni della sua vita.
Dovunque egli si trovasse, o in casa o fuori ogni ritaglio di tempo era consacrato a questo scopo. In casa, non avendo tempo di giorno, vi impiegava una parte della notte. [540]
Fuori di casa, andando sempre attorno a predicare, si recava nella valigia quaderni, bozze di stampe e una provvista di matite; e quando viaggiava in carrozza, finchè ci si vedeva era un continuo scrivere. Quando poi la notte impedivagli di scrivere o leggere, saliva in cassetta col carrozziere; prima parlava con lui di cose lepide o indifferenti, poi di cose dell'anima. Quando vi era scambio di vetture o di cavalli egli, o sopra un muriccio o in una sala dell'osteria, continuava in mezzo al frastuono della gente la sua scrittura. Anche andando a piedi, se era solo continuava a meditare e prendere note sulle sue carte. Negli scompartimenti della ferrovia si adagiava tranquillo come se fosse in sua camera e, tratti fuori i suoi manoscritti e postili sul sedile, li ripassava a suo agio ad uno ad uno. Nelle stazioni non cessava dal suo studio, come se fosse stato in un gabinetto di lettura. Giunto poi sul luogo, tra una predica e l'altra, non perdeva un minuto di tempo, occupandolo al tavolino. A questo modo senza accorgersene si trovava talora al fine di un opuscolo, di un volume, con sua grande meraviglia e contento.
Accadde anche talvolta che, avvicinandosi il giorno nel quale un opuscolo delle Letture Cattoliche doveva uscire alle stampe, il tipografo insisteva per avere il manoscritto. Di questo però D. Bosco non aveva ancor vergata una sola linea; ed egli allora nella stessa sera mettevasi a tavolino, scriveva tutta l'intera notte e al mattino verso il mezzogiorno consegnava al proto l'opuscolo o tutto o quasi compiuto.
E qui ci cade in acconcio d'aggiungere che tali composizioni non gli impedivano di sbrigare l'interminabile corrispondenza epistolare. Il lavoro per D. Bosco non era fatica, sibbene passione.
Le lettere da lui ricevute o spedite sono incalcolabili. Tra la giornata e la notte ne scriveva e postillava fino a 250. [541]
Sbalordisce la moltitudine e la varietà delle materie sulle quali era obbligato a rispondere o a trattare; ed erano tutte lettere ricolme dello spirito di colui che le scriveva. L'umiltà, la dolcezza, il disinteresse, l'amore alla giustizia, la saggezza, la rettitudine, la carità, la sottomissione a tutte le volontà di Dio, sono l'impronta uniforme colla quale vengono contrassegnate. Ne ricevette da ogni parte del mondo, e siamo persuasi che non vi ha quasi città in Europa nella quale non siano pervenute, qua poche, là moltissime, delle sue lettere. Anche in ciò la sua vita è perfettamente conforme a ciò che egli aveva scritto di S. Vincenzo de' Paoli. Non tralasciava mai di rispondere a tutti, fossero prelati, principi, nobili, comunità, fossero operai, donniciuole, fanciulli. Di tante lettere non ce ne rimane più che una piccola parte, circa un migliaio e mezzo, prezioso tesoro che ci fa conoscere sempre meglio D. Bosco. Nel corso della nostra storia si vedrà quanto ampia dovrebbe essere la trattazione su questa occupazione di D. Bosco.
Ma ciò che fa spiccare più sorprendente la sua attività è un altro dono del quale, oltre alla memoria prodigiosa, l'intelletto robusto e la mente non facile a distrarsi, il Signore aveva favorito il suo servo fedele. Era questo la facoltà più unica che rara di occuparsi simultaneamente in cose diverse e disparate, reggendo senza sforzo la sua mente ferma e serena al presentarsi contemporaneo di varie idee e senza confondere l'una coll'altra. Confessando per intere giornate, nello stesso tempo ordinava tutto l'intreccio di una Lettura Cattolica, si preparava una predica, svolgeva un progettò nuovo, pensava ad una o più risposte da farsi o a varie lettere da scriversi, senza che mancasse della necessaria attenzione a ciò che in quel momento aveva in atto. Una domenica egli diceva a D. Berto, nel 1869: - Questa mattina mentre predicava esponendo la storia ecclesiastica nella mia [542] mente ho composto un fascicolo per le Letture Cattoliche ed ho pensato il modo più efficace di provvedere alla tale necessità della casa. - E alla moltiplicità delle sue operazioni mentali corrispondeva la moltiplicità delle sue opere, mettendo egli a profitto tutte le cognizioni acquistate. Era tale la sicurezza e vastità delle sue idee da cogionare stupore. In quanto alle lettere, ne poteva dettare o scrivere fino a dieci in una volta, interrompendo, o ripigliando ora l'una ora l'altra, senza che ne confondesse gli argomenti, le ragioni, le particolarità e ricordando ciò che in ciascuna era stato messo prima o che doveva venir esposto dopo.
Senonchè fra tutti questi pensieri, dominante era sempre quello dei bene de' suoi giovani, come il sole, si direbbe, che per la sua luce primeggia fra le stelle. Infatti sopra il suo scrittoio, tra gli opuscoli, le lettere e i programmi stava un regolamento per l'Ospizio di S. Francesco di Sales che incominciato nel 1852, dopo lunghe meditazioni, egli finiva di elaborare nel 1854.
Abbiamo già detto che sul principio della fondazione dell'Oratorio non vigeva altra regola fuori di quella che lega naturalmente insieme i membri di una famiglia. Cinque anni dopo furono stesi alcuni articoli per norma di ogni camerata, nei quali si esponevano le cose più necessarie da osservarsi per la buona condotta morale, religiosa e laboriosa degli alunni.
D. Bosco intanto di mano in mano che vedeva la necessità di prevenire un disordine, non tralasciava di prendere alcune note, lo sviluppo delle quali aveva prodotto l'intiero ordinamento dell'Ospizio. Queste furono le regole primitive, che poi egli ritoccava, migliorava, ampliava, istruito dall'esperienza, mentre scancellava alcune prescrizioni che coll'andare del tempo, per varie circostanze, eransi rese inutili. Tale [543] regolamento andava in vigore nell'anno scolastico 1854 e 1855; al principiare delle scuole se ne dava solenne lettura in pubblico, ed ogni domenica se ne faceva leggere un capitolo agli alunni. Solo nel 1877 fu dato alle stampe, ma con molte variazioni; ed è perciò che noi in fine del volume riporteremo quello del 1852, perchè è un documento storico di quel tempo e vi sì manifesta lo spirito dei nostro ammirabile fondatore.
Base di questo regolamento era il santo timor di Dio. Non vi erano castighi corporali, non celle di rigore. D. Bosco rappresentante di Dio comandava in nome di Lui, e ciò bastava perchè i giovani schivassero il male e si dessero al bene. E rendeva molto facile l'adempimento dei loro doveri l'affettuosa e continua sorveglianza del buon Direttore il quale ne' suoi subalterni infondeva la carità verso gli alunni non solo coll'esempio, ma eziandio con un scritto intitolato: IL SISTEMA PREVENTIVO NELL'EDUCAZIONE DELLA GIOVENTÙ. Questo regolamento e questo Sistema col quale egli riusciva a guidare senza sforzi e violenze migliaia di giovani, avevano principio nella legge del Signore. Iddio aveva rimproverati gli antichi sacerdoti perchè comandavano alle sue pecorelle con rigore e prepotenza; e quindi proseguiva - “Io pascerò le mie pecorelle sui monti, presso a' rivi, in abbondantissimi pascoli, ed io le farò riposare; andrò in cerca di quelle che erano smarrite, e ricondurrò quelle che erano abbandonate, e fascerò le piaghe di quelle che avranno sofferto frattura, e ristorerò le deboli, ed avrò l'occhio a quelle che sono pingui e robuste; e ognuna di esse pascerò con saggezza[27]”.
DAL COMPLESSO di quanto abbiamo esposto nei volumi precedenti, i nostri lettori si saranno formati un criterio esatto del sistema tenuto da D. Bosco nell'educare la gioventù. Questo non era il così detto sistema repressivo, ma sibbene il preventivo, sistema più consentaneo alla ragione ed alla Religione. Infatti la Religione insegna la carità che combatte la superbia, l'egoismo, rende socievoli, grati e rispettosi gli uni verso gli altri, obbedienti spontaneamente a coloro che hanno diritto ed obbligo di comandare, e adorna persino di una certa ingenua gentilezza anche i più rozzi perchè esclude il timore.
La ragione poi dimostra coll'esperienza che senza vera affezione è inutile il ministero dell'educatore. La prima felicità di un fanciullo è il sapere di essere amato. Ed egli corrisponde a questo amore, si persuade di quanto il maestro asserisce, ama tutto ciò che il maestro insegna, a lui piace quello che piace al maestro, si affeziona per tutto il tempo della vita alla verità e alla dottrina da lui apprese, e sentesi perfino inclinato alla stessa professione, anche sacerdotale o religiosa del suo educatore, e lo ama come il padre dell'anima sua.
Per giunta in questi anni il sistema preventivo era divenuto una necessità. Le aspirazioni popolari ad un governo [545] più mite, assecondate dai rispettivi Principi, facevano sì che i giovanetti ancora esigessero dai loro superiori una direzione più affettuosa e paterna. Quindi un sistema di educazione ruvido e repressivo, quale in qualche altro tempo erasi praticato, sarebbe stato ripugnante alla natura dei tempi, e tra gli altri avrebbe prodotto due gravissimi mali. Avrebbe allontanati i giovani dall'Oratorio, dove si portavano spontaneamente, e donde potevano eziandio partirsene di pieno arbitrio senza che alcuna legge od autorità ne li trattenesse; e per soprappiù avrebbe confermate presso di loro le male dicerie, che prezzolati giornalisti, saltimbanchi e teatranti andavano largamente spargendo, essere cioè i sacerdoti altrettanti tiranni, nemici della libertà e del popolo. Ma col mezzo del suo sistema D. Bosco impedì che un tanto malanno s'infiltrasse tra i suoi giovanetti. Perciò l'Oratorio fu sempre frequentatissimo, da rendere necessaria l'apertura di nuovi in varie parti della città; e per altro lato se qualche lingua maledica veniva a sparlare dei sacerdoti alla presenza dei giovani che vi usavano, bastava che si richiamassero alla mente i tratti di squisita bontà che praticava D. Bosco, per dare ai maldicenti una solenne mentita. Difatto nelle officine accadde loro più volte di addurre questo argomento contro di coloro che tagliavano le legna addosso ai preti, e parecchi ricordano che allora, non sapendo più che rispondere, i mormoratori rispondevano: Se i preti fossero tutti come il vostro D. Bosco, avreste ragione; ma non è così. Essi per altro, che vedevano un Teol. Borel, un Teol. Chiaves, un Teol. Carpano, un Teol. Murialdo, un Teol. Vola, un Teologo Marengo e più e più altri esemplarissimi sacerdoti a far splendida corona a D. Bosco, e studiarsi d'imitarlo nel volere bene e trattare i giovani e persino i monelli da amici e da padri, persistevano saldi nelle loro convinzioni, e [546] giudicavano le maldicenze siccome calunnie, quali erano, e tiravano innanzi. In siffatta guisa, insieme coll'amore e attaccamento alla Religione Cattolica, nutrivano sempre verso i suoi ministri un'alta stima e una profonda venerazione; e non vi è da peritarsi nel dire che questi frutti erano dovuti all'educazione che loro impartivano D. Bosco e i suoi pazienti coadiutori.
Questo sistema D. Bosco lo aveva sperimentato di sì felice riuscita pel benessere morale dei giovanetti, che dopo averne instillata la pratica a tutti i suoi aiutanti e tenutene varie conferenze col Teol. Eugenio Galletti Canonico del Corpus Domini, in fine ne scrisse brevemente dimostrando in che consistono i due sistemi preventivo e repressivo, adducendo le ragioni per cui è da preferirsi il primo, insegnandone la pratica applicazione e svelandone i grandi vantaggi. Questo utilissimo scritto vide poi la luce nel Regolamento per le Case Salesiane; e noi crediamo dell'interesse dei lettori il qui riprodurlo per loro norma e governo.
“Due sono i Sistemi, così D. Bosco, in ogni tempo usati nella educazione della gioventù: Preventivo e Repressivo. Il Sistema Repressivo consiste nel far conoscere la legge ai sudditi, e poscia sorvegliare per conoscerne i trasgressori ed infliggere, ove sia d'uopo, il meritato castigo. In questo Sistema le parole e l'aspetto del Superiore debbono sempre essere severe e piuttosto minaccevoli, ed egli stesso deve evitare ogni famigliarità coi dipendenti. Oltre a ciò il Direttore per accrescere valore alla sua autorità dovrà trovarsi di rado tra i suoi soggetti, e per lo più solamente quando si tratta di punire e di minacciare. Questo Sistema è facile, meno faticoso, e giova specialmente nella milizia, e in generale tra le persone adulte ed assennate, che devono da sè stesse essere in grado di sapere e ricordare ciò che è conforme alle leggi e alle altre prescrizioni. [547]
Diverso e, direi, opposto è il Sistema Preventivo. Esso consiste nel fare conoscere le prescrizioni e i regolamenti di un Istituto, e poi sorvegliare in guisa, che gli allievi abbiano sempre sopra di loro l'occhio del Direttore o degli assistenti, che come padri amorosi parlino, servano di guida ad ogni evento, diano consigli ed amorevolmente correggano, che è quanto dire: Mettere gli allievi nella impossibilità di commettere mancanze. Questo Sistema si appoggia tutto sopra la ragione, la religione e l'amorevolezza; perciò esclude ogni castigo violento, e cerca di tenere lontani gli stessi castighi leggeri. Sembra che questo Sistema sia preferibile per le seguenti ragioni:
I. L'allievo preventivamente avvisato non resta avvilito per le mancanze commesse, come avviene quando esse vengono deferite al Superiore. Il giovane non si adira per la correzione fatta o pel castigo minacciato od inflitto, perchè vi è sempre una parola amichevole, che lo ragiona, e che per lo più riesce a persuaderlo e guadagnargli il cuore, cosicchè il colpevole conosce la necessità del castigo e quasi lo desidera.
II. La ragione più essenziale è la mobilità del giovane, che in un momento dimentica le regole disciplinari e i castighi, che quelle minacciano. Perciò spesso un fanciullo si fa trasgressore di una regola e meritevole di una pena, alle quali nell'istante dell'azione punto non badava, ed avrebbe per certo diversamente operato, se una voce amica l'avesse ammonito.
III. Il Sistema Repressivo potrà impedire disordini, ma difficilmente farà migliori gli animi. Si è osservato che i giovanetti non dimenticano i castighi subiti, e per lo più conservano amarezza con desiderio di scuotere il giogo ed anche di farne vendetta. Sembra talora che non ci badino, ma chi tien dietro ai loro andamenti conosce che sono terribili le reminiscenze della gioventù. Dimenticano facilmente le punizioni [548] dei genitori, ma assai difficilmente quelle degli educatori. Vi sono fatti di alcuni, che in vecchiaia vendicarono bruttamente certi castighi, toccati giustamente in tempo di loro educazione. Al contrario il Sistema Preventivo rende amico l'allievo, che nell'assistente ravvisa un benefattore che lo avverte, vuol farlo buono, liberarlo dai dispiaceri, dai castighi, dal disonore.
IV. Il Sistema Preventivo tratta l'allievo in modo, che l'educatore potrà parlargli sempre col linguaggio del cuore e in tempo della educazione e dopo di essa. Con siffatto Sistema l'educatore guadagnandosi il cuore del suo protetto potrà esercitare sopra di lui un grande impero, avvisarlo, consigliarlo ed anche correggerlo allora quando si troverà negli impieghi, negli uffizi e nel commercio.
Per queste e molte altre ragioni pare che il Sistema Preventivo debba preferirsi al Repressivo”.
Dopo ciò D. Bosco passa a dire della sua applicazione e continua così:
La pratica di questo sistema è tutta appoggiata sopra le parole di S. Paolo che dice: Charitas patiens est, benigna est, omnia suffert, omnia sperat, omnia sustinet; ed anche sopra queste altre dirette ai genitori: Padri, non provocate ad ira i vostri figliuoli, affinchè non si perdano d'animo. Perciò soltanto il cristiano può con successo applicare il Sistema Preventivo. Ragione e Religione sono i mezzi, di cui deve costantemente far uso l'educatore, se vuole ottenere il suo fine. Ecco pertanto le principali regole di applicazione del suddetto Sistema.
I. Il Direttore deve essere tutto consacrato ai suoi educandi, nè mai assumersi impegni, che lo allontanino dal suo uffizio; anzi deve trovarsi sempre co' suoi allievi tutte le volte, che non sono obbligatamente legati da qualche occupazione, eccetto che siano da altri debitamente assistiti. [549]
II. I maestri e gli assistenti devono essere di moralità conosciuta. Studino di evitare come la peste ogni sorta di affezione od amicizie particolari cogli allievi, e si ricordino che il traviamento di un solo può compromettere un Istituto educativo. Si faccia in modo che gli allievi non siano mai soli. Per quanto è possibile gli assistenti li precedano nel sito dove devonsi raccogliere; si trattengano con loro fino a che siano da altri sorvegliati, non li lascino mai disoccupati neppure in tempo di ricreazione.
III. Si dia ampia libertà di saltare, correre, schiamazzare a piacimento. La ginnastica, la musica, la declamazione, il teatrino, le passeggiate sono mezzi efficacissimi per ottenere la disciplina, giovare alla moralità ed alla sanità. Si badi soltanto che sia ben scelta la materia del trattenimento, siano oneste e non pericolose le persone che v'intervengono, e non biasimevoli i discorsi che vi hanno luogo. Fate tutto quello che volete, diceva il grande amico della gioventù S. Filippo Neri, a me basta che non facciate peccati.
IV. La frequente Confessione e la frequente Comunione sono le colonne, che devono reggere un edifizio educativo, da cui si deve tenere lontana la minaccia e la sferza. Non mai costringere i giovanetti alla frequenza dei santi Sacramenti, ma soltanto incoraggiarli e porgere loro comodità di approfittarne. In occasione poi di Esercizi spirituali, tridui, novene, predicazioni e catechismi, si faccia rilevare la bellezza, la grandezza la santità di quella Religione, che presenta dei mezzi così facili, così utili alla civile società, alla tranquillità del cuore, alla salvezza dell'anima, quali appunto sono i santi Sacramenti. In questa guisa i fanciulli restano spontaneamente invogliati di queste pratiche di pietà, vi si accosteranno con convinzione e con frutto.
V. Si usi la massima sorveglianza per impedire che [550] nell'Istituto s'introducano compagni e libri cattivi, o persone che facciano mali discorsi. La scelta di un buon portinaio è un tesoro per una casa d'educazione.
VI. Ogni sera dopo le preghiere comuni, e prima che gli allievi vadano a riposo, il Direttore, o chi per esso, indirizzi alcune affettuose parole in pubblico, dando qualche avviso o consiglio intorno a cose da farsi o da evitarsi; studii di ricavare le massime da fatti avvenuti in giornata nell'Istituto o fuori; ma il suo discorso non oltrepassi i cinque minuti. Questo sermoncino ben condotto è come la chiave della moralità e del buon successo della educazione.
VII. Si tenga lontana la pestifera opinione di taluno, che vorrebbe diferire la prima Comunione ad un'età troppo inoltrata, quando per lo più il demonio già ha preso possesso del cuore di un giovanetto a danno incalcolabile della sua innocenza. Secondo la disciplina della Chiesa primitiva si solevano dare ai bambini le ostie consacrate, che sopravanzavano dalla Comunione degli adulti. Questo serve a farci conoscere quanto la Chiesa ami che i fanciulli siano ammessi per tempo alla santa Comunione. Quando un giovanetto sa distinguere tra pane e pane, e palesa sufficiente istruzione, non si badi più all'età, e venga il Sovrano celeste a regnare in quell'anima benedetta.
VIII. Riguardo alla Comunione i catechismi ne raccomandano la frequenza. San Filippo Neri la consigliava ogni otto giorni ed anche più spesso. Il Concilio di Trento dice chiaro che desidera sommamente che ogni fedele cristiano quando va ad ascoltare la santa Messa faccia eziandio la Comunione, non solo spirituale, ma sacramentale, affinchè ricavi maggior frutto da questo augusto e divino Sacrificio”.
L'utilità di questo Sistema di educazione non può sfuggire alla considerazione di una persona assennata; tuttavia a fine di meglio persuadernela D. Bosco prosegue: [551]
“Taluno dirà che questo Sistema è difficile in pratica. Osservo che da parte degli allievi riesce assai più facile, più soddisfacente, più vantaggioso. Da parte poi degli educatori racchiude alcune difficoltà, che però restano diminuite, se l'educatore si mette con tutto zelo all'opera sua. L'educatore è un individuo consacrato al bene dei suoi allievi; perciò deve essere pronto ad affrontare ogni disturbo, ogni fatica, per conseguire il suo fine, che è la civile, morale e scientifica educazione dei suoi alunni. Oltre ai vantaggi sopra esposti aggiungo ancora i seguenti:
I. L'allievo sarà sempre pieno di rispetto verso l'educatore e ricorderà ognora con piacere la direzione avuta, considerando quali padri e fratelli i suoi maestri e gli altri superiori.
II. Qualunque sia il carattere, l'indole, lo stato morale di un giovanetto all'epoca della sua accettazione, i parenti possono vivere sicuri che il loro figlio non potrà peggiorare, e si può dare per certo che si otterrà sempre qualche miglioramento. Certi fanciulli che erano la desolazione dei parenti, e persino rifiutati dalle case correzionali, coltivati invece secondo i principii di questo Sistema, cangiarono indole, mutarono carattere, si diedero ad una vita costumata, e presentemente occupano onorati uffizi nella società, e sono il sostegno della famiglia e il decoro del paese.
III. Gli allievi che per avventura entrassero in un Istituto con tristi abitudini non possono danneggiare i loro compagni. Nè i giovanetti buoni potranno ricevere nocumento da costoro, perchè non avvi nè tempo, nè luogo, ne opportunità, per essere sempre amorevolmente assistiti e protetti”.
D. Bosco conchiude il suo trattatello con una parola sui castighi: Che regola tenere, egli domanda, nell'infliggere castighi? E risponde: Se è possibile, non si faccia mai uso dei [552] castighi; ove poi la necessità chieda repressione, si ritenga quanto segue:
“I. L'educatore tra gli allievi cerchi di farsi amare, se vuol farsi temere. In questo caso la sottrazione di benevolenza è un castigo, ma un castigo che eccita l'emulazione, infonde coraggio e non avvilisce mai.
II. Presso ai giovanetti è castigo quello che si fa: servire per tale. Si è osservato che uno sguardo non amorevole sopra taluni produce maggior effetto, che non farebbe uno schiaffo. La lode per una bell'azione, il biasimo per una colpevole trascuratezza, può servire ottimamente di premio o di castigo.
III. Eccettuati rarissimi casi, le correzioni, i castighi non si diano mai in pubblico, ma privatamente e lungi dalla vista dei compagni. Si usi poi la massima prudenza e pazienza per fare che l'allievo comprenda il suo torto colla ragione e colla religione.
IV. Il dare titoli villani, il percuotere in qualunque modo, il mettere in ginocchio con posizione dolorosa, il tirare le orecchie ed altri atti consimili, debbonsi assolutamente evitare, perchè sono proibiti dalle leggi civili, irritano grande- mente i giovani, ed avviliscono lo stesso educatore.
V. Il Direttore faccia ben conoscere le regole, i premi ed i castighi stabiliti dai Regolamenti di disciplina, affinchè l'allievo non si possa scusare dicendo: Non sapevo che ciò fosse comandato o proibito.
VI. Prima d'infliggere una qualunque punizione si osservi quale grado di colpabilità si trovi nell'allievo, e dove basta l'ammonizione non si usi il rimprovero, e dove questo sia sufficiente non si proceda più oltre.
VII. Nè in parole nè in fatti non si castighi mai quando l'animo è agitato; non mai per falli di semplice inavvertenza; non mai troppo sovente”. Così D. Bosco. [553] Il sopradescritto sistema, seguito da lui e raccomandato sin dal principio dell'Oratorio e dell'Ospizio, è quello che si studia e si pratica ancora oggidì in tutte le Case Salesiane; e i Superiori sanno che esse appunto maggiormente fioriscono e danno buoni frutti, quanto più il detto sistema è meglio conosciuto e più esattamente eseguito.
I principii di questo sistema di educazione davano a Don Bosco argomento perle conferenze che teneva ai suoi coadiutori. Ricordava sovente le parole di San Francesco di Sales: “Si colgono più mosche con un cucchiaio di miele che con un barile d'aceto”. E pativa se alcuno mostravasi duro coi giovanetti e colle persone dipendenti, volendo che tutti fossero guadagnati colla carità. - Non dimenticate mai, ei diceva continuamente a chiunque avesse autorità sugli alunni, che i ragazzi mancano più per vivacità che per malizia, più per non essere ben assistiti che per cattiveria. Bisogna aver di essi sollecita cura, assisterli attentamente senza aver l'aria di farlo, e prendere anche parte ai loro giuochi, tollerare i loro schiamazzi e le noie che arrecano, poichè eziandio il Divin Salvatore disse in tali circostanze: Sinite parvulos venire ad me. - Ed egli vigilavali attentamente ovunque fossero. Con frequenza veniva nello studio e andava nelle officine. Mai che accadesse la più piccola infrazione alle regole, senza che egli subito se ne avvedesse e vi rimediasse con prontezza. Conferiva sovente cogli altri superiori informandosi della condotta dei giovani e dando sempre norme pel buon andamento della disciplina. Prescrisse che ogni settimana si desse a ciascun alunno il voto di condotta, di studio e di lavoro, ed egli stesso leggeva pubblicamente i voti alla domenica sera, incoraggiando i diligenti e ammonendo i negligenti.
Don Bosco aveva la certezza che ordinariamente colla riflessione si riducono tutti i giovani a riconoscere i propri [554] mancamenti ed a correggerli. Quindi non stancavasi mai di avvisare e consigliare; e la sua pazienza fu veramente eroica. Quando alcun superiore era incerto della buona riuscita di un giovane per accettarlo o per congedarlo, egli suggeriva di mettere in pratica, anche in questo caso, la massima di San Paolo: Omnia probate, quod bonum est tenete; e a ciò doveva condurre la vigilanza e l'avviso opportuno. Sul principio dell'anno, se veniva a subodorare che taluno dei nuovi accettati potesse recar danno ai compagni, lo chiamava a sè , lo avvisava colle più vive espressioni di dolore, lo faceva sorvegliare in modo speciale. Con tale sollecitudine riuscì a corregerne molti, che venendo dal mondo, portavano seco il mal vezzo, pur troppo comune, del turpiloquio.
Difficile enunciare a parole il segreto che aveva D. Bosco di guadagnare i giovani a sè e tirarli al servizio del Signore. Egli possedeva nell'ordine della natura e della grazia tali doti e prerogative, che, preso a sè un giovane e parlatogli in confidenza in un orecchio, per quanto fosse discolo o ribelle alla grazia difficilmente avveniva che non si arrendesse a' suoi paterni consigli ed ammonimenti. E questi non potevano riuscire inefficaci, poichè D. Bosco per le anime avrebbe data cento volte la vita se fosse stato mestieri.
Le sue parole aprivano i cuori, ed egli sovente insisteva sulla sincerità da usarsi specialmente coi superiori nelle cose dell'anima, ne descriveva i vantaggi, la chiamava la chiave della pace interna, l'arma più efficace per cacciare la melanconia, il segreto più sicuro per trovare la contentezza in vita ed in morte e di giungere a gran perfezione. Con tale raccomandazione non mirava ad altro che ad impedire il peccato, o distruggerlo colle sue conseguenze.
Era solito a dire a' suoi coadiutori: - Bisogna che teniamo lontano il peccato dalla casa e che i nostri giovani si [555] mettano tutti in grazia di Dio: senza di questo le cose non possono andar bene. - E soggiungeva sovente: - Ricordatevi che il primo metodo per educar bene, è il far buone confessioni e buone comunioni. - Egli nella frequenza di questo sacramento riponeva tutta la forza della sua missione in mezzo alla gioventù. Procurava che i suoi alunni vi si accostassero regolarmente, anzi con molta frequenza, ma senza pressione di sorta. Li esortava e voleva che fossero esortati, ma non li obbligava. Quantunque egli si trovasse tutte le mattine a confessare, e fosse generale il desiderio di confessarsi da lui, tantochè non aveva tempo di soddisfare al desiderio di tutti, tuttavia voleva che si trovassero altri confessori esterni, specialmente nelle feste e loro vigilie. Lasciava a tutti la massima libertà; non faceva osservazioni e non voleva che se ne facessero intorno a chi si confessava da lui o chi da altri sacerdoti. E anni dopo diede per norma ad un suo sacerdote: -Fa' in modo di non dare mai alcun segno di parzialità verso di chi si confessa a preferenza più da uno, che da un altro. - Così pure non si piegò mai a permettere che nei giorni di comunione generale si facessero uscire i giovani dai banchi ordinatamente per fila per andare all'altare, acciocchè chi non era preparato, non si lasciasse vincere con suo gran danno dal rispetto umano, o fosse segnato a dito dagli altri. Meglio la libertà e un po' di confusione. Alla messa quotidiana della comunità erano così numerose le comunioni, che parecchi forestieri chiesero più di una volta quale festa si celebrasse perchè loro sembrava di aver assistito ad una comunione generale.
Del resto il bene che operò D. Bosco per mezzo della confessione è tanto, che oseremmo chiamarlo l'apostolo della confessione. Egli ispirava tale tranquillità e fiducia in Dio e nelle sue misericordie, che molti, lasciato l'Oratorio stentavano [556] quasi ad abituarsi ad altri confessori. Egli inculcava ai penitenti la massima di S. Filippo Neri: - Peccati e malinconia non voglio in casa mia - e con ciò voleva che confidassero pienamente nella eterna loro salvezza.
E la frequenza ai sacramenti era la molla potente che spingeva tutti per la via dell'obbedienza con pace ed allegrezza. Quindi la nota caratteristica dell'Oratorio era una chiassosa spigliatezza di modi, una vivace distribuzione di giuochi, unita ad una religiosità e moralità somma e diligenza nei proprii doveri. Questa era personificata in un gran numero di ottimi giovani, veri modelli ed esemplari per gli altri compagni. Centinaia di antichi allievi, sacerdoti e laici, attestano non ricordarsi essere accaduto ai loro tempi alcun grave disordine.
Scrisse il Can. Ballesio “Il freno al male, l'eccitamento al bene, la giocondità e la soddisfazione nostra, l'ordine nella casa, la nostra riuscita nello studio e nel lavoro, tutto nasceva dalla pietà razionale, intima e fervorosa che il servo di Dio sapeva infonderci, col suo esempio, colle prediche, colla frequenza de' sacramenti a quei tempi quasi nuova fra i giovani, co' suoi discorsi e coi racconti vivi ed edificanti. Nello stesso tempo, con certe sue parole, con cenni, con sguardi, dissipava le tenebre, le ansietà dello spirito, c'innondava l'anima di gioia e ci infervorava all'amore della virtù, del sacrificio e dell'obbedienza”.
Oh! come risuonavano care sulle sue labbra quelle espressioni a lui così famigliari mentre traspariva dal suo volto la fede che aveva in cuore: - Come è buono il Signore con noi che non ci lascia mai mancar nulla! Serviamolo volentieri! - Amiamo Iddio; amiamolo perchè è nostro padre.
Tutto passa: ciò che non è eterno è niente!
Risalta adunque evidente, e in molte altre pagine ne riparleremo, come il metodo di educazione scelto da D. Bosco [557] fosse la bontà adattata sapientemente e soavemente all'età giovanile. Ma oh quanto sarebbe desiderabile che tal sistema venisse introdotto in tutte le famiglie cristiane, in tutti gli istituti di educazione pubblici e privati, maschili e femminili! Quanto più facile si renderebbe l'esercizio del bene alla gioventù, come pronta sarebbe la medicina al primo apparire del male, quale sicurezza per i fanciulli onesti ed innocenti contro i cattivi esempi dei pervertiti Allora non si tarderebbe ad avere una gioventù più morigerata e pia; una gioventù che sarebbe la consolazione delle famiglie e un valido sostegno per la civile società. E così l'intesero un gran numero di educatori di varie nazioni e specialmente dell’Inghilterra. Qui molti collegi, destinati alla gioventù povera e cattolica, presero a modello, dopo la morte di D. Bosco, l'Oratorio di Torino e il suo regolamento: i fondatori studiarono la vita di D. Bosco e il suo sistema pratico di educazione, seguirono i suoi esempi con gran frutto per le vocazioni ecclesiastiche, e il ritratto dell'uomo di Dio occupa in quegli istituti il posto d'onore ed anche ne' seminari.
Pure fra i protestanti D. Bosco ebbe imitatori. Don Giovenale Bonavia il 12 giugno 1903 ci scriveva dalla nostra Casa di Londra. “Le spedisco due periodici che contengono qualche osservazione su D. Bosco; non sono cattolici, ma appartengono a quanto pare alla sezione anglicana detta Chiesa Alta ossia ritualista o puseista. Lo scrittore, certo Norman Potter, credo sia la stessa persona della quale mesi or sono uno dei nostri sacerdoti fece personale conoscenza. Egli si trova Direttore di un Ospizio di giovani non molto distante da noi e chi lo visitò vide nella camera di ricevimento il ritratto di D. Bosco coi motto: Da mihi animas, caetera tolle; Questo signore ha viaggiato in Italia, visitate alcune nostre case e l'Oratorio di Torino. Imita D. Bosco in quanto può. [558]
Ha un cappellano (protestante) nel suo Istituto. Credo che legga anche il Bollettino Salesiano.
“Egli adunque nei due articoli suddetti dà un cenno storico di D. Bosco.
“Il primo Goodurtl (Buon volere), stampato nel 1900 è il più breve con ritratto. Il secondo Common wealth (Bene pubblico) fu stampato quest'anno, è più diffuso e dà anche uno schizzo del sistema preventivo tratto dal regolamento delle nostre case. Dove si parla della frequente confessione e comunione e della messa giornaliera, traduce la parola Messa in Eucharist per evitare forse la parola Mass che è offensiva a molti anche Anglicani. Conchiude tutti e due gli articoli facendo voti che il Signore susciti qui in Inghilterra uomini collo spirito di D. Bosco, di cui vi è tanto bisogno”.
IL TEOL. SAVIO ASCANIO diceva: - D. Bosco aveva saputo dominare, talmente il suo naturale bilioso, da parere flemmatico; e così mansueto da accondiscendere sempre a' suoi alunni, sempre che non ne andasse di mezzo la gloria di Dio o il bene delle anime. Era sua massima che si evitasse possibilmente ogni castigo; ma se un giovane lo meritava, sapeva a tempo e luogo correggerlo. Egli esercitava la giustizia in grado eminente; ma il suo zelo era ispirato a carità e dolcezza, e la punizione veniva come secondaria, cioè quando non bastavano i mezzi preventivi a correggere un colpevole. Non lo si vedeva mai inquieto quando doveva muovere rimproveri a qualcheduno, ritenendo che non in commotione Dominus, e attendeva a farli sempre in privato. - Io non mi ricordo, affermava Giuseppe Buzzetti, che Don Bosco abbia mai corretto alcuno ingiustamente. Quando ci correggeva, noi dovevamo subito confessare: D. Bosco ha ragione.
La prima punizione che dava D. Bosco era quella di mostrarsi un po' serio ai giovani restii all'obbedienza, che avevano mancato scientemente a qualche norma del regolamento, o non curato un avviso o un consiglio. E D. Bosco ora non li faceva partecipi di certi segni di benevolenza che [560] praticava verso i più buoni, ora li privava di un suo sguardo benevolo e simulava di non vederli; o non permetteva che gli baciassero la mano, ritirandola con pacatezza, mentre sorridendo acconsentiva che gli altri gli dessero quel segno di rispetto; o non rispondeva quando gli si avvicinavano per augurargli il buon giorno e la buona notte. Talvolta li interrogava se fosse vero che non gli volevano più bene. Se il fallo era segreto, egli usava questo contegno in modo che se ne avvedesse solo il colpevole. I giovani temevano queste sue maniere come il più grave dei castighi, e molti ne provavano tanta pena di prorompere in pianto per lunghe ore e talora dalla sera fino all'alba.
Francesia Giovanni in tempo delle passeggiate una notte dormiva presso un giovane dei più adulti. Costui fremeva, mordeva le lenzuola, sospirava.
- Che cosa hai? gli disse Francesia.
- E con questo? Che cosa c’è di strano o di nuovo che D. Bosco ti abbia guardato.
- Mi ha guardato in un certo modo
Francesia l'indomani raccontò il fatto a D. Bosco e poi gli chiese:
- Oh! lo sa ben lui, rispose D. Bosco.
Un giorno D. Bosco aveva detta una parola alquanto severa ad un disobbediente. Il fanciullo si ritirò pensieroso; nella notte fu preso dalla febbre e incominciò a vaneggiare, ed il delirio durò fino all'indomani a sera. Il nome di Don Bosco accompagnato da un gemito continuo risuonava sulle sue labbra: - D. Bosco non mi vuol più bene! - Don Bosco dovette andare a visitarlo in infermeria. Alla sua voce [561] a poco a poco l'infermo si calmò; D. Bosco lo assicurò che l'affezione sua per lui era sempre la stessa, e che badasse a guarire chè sarebbero sempre stati amici. La gioia produsse allora nel giovane una crisi, e la febbre cessò. Era un po' superbietto, ma illibatissimo di costumi e tale si mantenne sempre.
D. Bosco con moltissimi de' suoi cari figliuoli doveva usare molta precauzione nel misurare una parola di giusto rimprovero, poichè le mancanze, che in apparenza talora sembravano alquanto gravi, nell'intenzione del giovane e per la sbadataggine dell'età non erano avvertite come tali e quindi alcuni sembravano impazzire temendo di aver dato causa di grave dolore a D. Bosco. Nello stesso tempo egli usava una grande avvertenza continua per corrispondere agli atti di ossequio e di affetto degli stessi alunni più buoni, poichè una sua distrazione o dimenticanza faceva temere egualmente al giovanetto di avergli recato qualche dispiacere, e benchè sentisse in sè di non aver commesso alcun fallo, pure rimaneva inquieto.
Quelli poi che avevano meritata tale lezione, quasi tutti mutavano subitamente condotta. E non appena il colpevole era umiliato ed aveva promessa sincera ammenda, D. Bosco restituivagli subito la sua benevolenza esterna, giacchè l'interna non la perdeva mai, che anzi era questa che lo conduceva a diportarsi in tal modo a fine di migliorarlo, e di allontanarlo dai pericoli del male.
Ma se qualcuno mostravasi indifferente a queste paterne riprensioni o se era recidivo nelle sue mancanze, non transigeva e lasciava che fosse punito con qualche piccolo castigo; segreto se tale era la sua mancanza; pubblico e grave, benchè raramente, se la colpa richiedeva tale misura per riparazione al cattivo esempio. In questi casi però non infliggeva egli stesso il castigo, e lasciava che ciò facessero [561] a poco a poco l'infermo si calmò; D. Bosco lo assicurò che l'affezione sua per lui era sempre la stessa, e che badasse a guarire chè sarebbero sempre stati amici. La gioia produsse allora nel giovane una crisi, e la febbre cessò. Era un po' superbietto, ma illibatissimo di costumi e tale si mantenne sempre.
D. Bosco con moltissimi de' suoi cari figliuoli doveva usare molta precauzione nel misurare una parola di giusto rimprovero, poichè le mancanze, che in apparenza talora sembravano alquanto gravi, nell'intenzione del giovane e per la sbadataggine dell'età non erano avvertite come tali e quindi alcuni sembravano impazzire temendo di aver dato causa di grave dolore a D. Bosco. Nello stesso tempo egli usava una grande avvertenza continua per corrispondere agli atti di ossequio e di affetto degli stessi alunni più buoni, poichè una sua distrazione o dimenticanza faceva temere egualmente al giovanetto di avergli recato qualche dispiacere, e benchè sentisse in sè di non aver commesso alcun fallo, pure rimaneva inquieto.
Quelli poi che avevano meritata tale lezione, quasi tutti mutavano subitamente condotta. E non appena il colpevole era umiliato ed aveva promessa sincera ammenda, D. Bosco restituivagli subito la sua benevolenza esterna, giacchè l'interna non la perdeva mai, che anzi era questa che lo conduceva a diportarsi in tal modo a fine di migliorarlo, e di allontanarlo dai pericoli del male.
Ma se qualcuno mostravasi indifferente a queste paterne riprensioni o se era recidivo nelle sue mancanze, non transigeva e lasciava che fosse punito con qualche piccolo castigo; segreto se tale era la sua mancanza; pubblico e grave, benchè raramente, se la colpa richiedeva tale misura per riparazione al cattivo esempio. In questi casi però non infliggeva egli stesso il castigo, e lasciava che ciò facessero [562] i suoi dipendenti, riserbandosi poi di mitigarlo, per rendersi sempre più padrone dei cuori e fare ad essi maggior bene. Ma voleva sempre escluse le percosse, le privazioni del cibo sufficiente, le punizioni umilianti od irritanti, i rimproveri accompagnati da espressioni ingiuriose. Prescriveva una grande benignità nei modi. Egli diceva: - Non umiliarli i colpevoli, ma procurare che si umiliino da se stessi.
I castighi si riducevano alla sottrazione di una parte dei companatico per i poltroni, all'isolamento in silenzio dai compagni nel luogo stesso della ricreazione per i disobbedienti, all'esser messo fuori dal refettorio, chi avesse saltato il muro di cinta per uscire senza licenza, ma colla sua porzione di pranzo, Queste punizioni sebbene non molto gravi, D. Bosco procurava che fossero tali nell'apprezzamento dei giovani. Perciò, con poco, otteneva molto.
Egli poi era solito date norme agli assistenti ed ai maestri perchè secondo le mancanze sapessero infliggere ai colpevoli un graduale aumento di pena senza uscire dai limiti da lui tracciati. Egli diceva: - Quando è assolutamente necessario castigare, per la prima volta i puniti si facciano stare in piedi al loro posto in tempo di pranzo, ma colla pietanza. Se ricadono nel fallo, si puniscano col farli venire a pranzo in refettorio dopo gli altri. In ultimo, se i primi castighi non bastano, si pongano in una tavola a parte nel mezzo del refettorio. La pietanza però sia l'ultima cosa a togliersi e di rado. E in questo caso si dica in privato ai giovani stessi che non se ne servano, ma si metta loro innanzi come a tutti gli altri. In generale ubbidiscono, perchè intendono che il Superiore usa con essi il riguardo di risparmiar loro una brutta figura al cospetto di tutta la comunità.
Tuttavia anche in questi casi, quando D. Bosco vedeva un allievo sincero nel riconoscersi colpevole di un fallo del [563] quale fosse accusato, dopo avergli dati gli avvisi opportuni, ordinariamente gli condonava il castigo se i disordini non erano assai notevoli. Faceva il contrario se scopriva sotterfugi, tergiversazioni o menzogne. Ma dopo una correzione se il colpevole si pentiva, egli diceva sempre una parola di conforto e dimenticava tutto. La stessa pratica raccomandava di fare a chiunque esercitasse qualche autorità nella casa.
Ma nonostante la sua mitezza abituale ricordavasi in qualche circostanza più unica che rara, che qui parcit virgae odit filium suum. Il suo movente era perciò l'amore della giustizia e delle anime, non già la passione.
D. Bosco tra le mancanze più gravi annoverava la disobbedienza nel punto di assumere quasi l'aspetto di rivolta. Un giorno un allievo già adulto, non ostante gli ordini reiterati, uniti a preghiere ed esortazioni longanimi, rifiutavasi con ostinazione e con insolenza ad obbedire, in cosa di grande importanza. Erano presenti i suoi compagni. D. Bosco in quel momento non poteva e non doveva cedere: era necessario che impedisse uno scandalo, ma non reggeva all'idea di rovinare, espellendolo quel suo figliuolo. Perciò, dopo essersi concentrato alquanto, invocando il Signore, lasciògli andare uno schiaffo. Fu quello come un colpo di fulmine. Un vivo orrore invase tutti i giovani per la disobbedienza, non avendo mai visto il Superiore punire in quel modo. Don Bosco intanto si era coperto il volto colle due mani. Il giovane, sbalordito, abbassò il capo, obbedì all'istante e divenne da quel punto uno dei migliori giovani dell'Oratorio. D. Bosco molti anni dopo narrandoci questo fatto diceva: - La cosa andò bene, ma non consiglierò ad altri di mettersi a questo rischio!
Gli era però difficile frenarsi quando udiva certi insulti [564] contro Dio, i quali sembrava che fossero stati insegnati agli uomini dai demonii.
Mons. Cagliero ci scrisse: “Un monello di strada dei più sfacciati per fargli dispetto una domenica a sera innanzi a lui pronunciò una brutta bestemmia. D. Bosco deposta allora la sua inalterabile calma e dolcezza, acceso di santo zelo, gli diede alcuni scappellotti, dicendogli: - Prendi questi, biricchino, ed impara a non più bestemmiare il santo nome di Dio, se no, il Signore te ne darà a suo tempo dei più salati. Non mi ricordo che altre volte abbia usato di questo mezzo sia in casa che fuori”.
“Un'altra volta, ci confermava D. Rua Michele, nei primi tempi che dimorai con lui lo vidi dare qualche scapaccione a certi impertinenti che avevano proferita una bestemmia. In quell'istante gli si vedeva sul volto tutto l'orrore che gli inspirava quella mostruosità. Egli mi disse un giorno: - Anche quando in confessione sento ripetere l'accusa di una bestemmia mi sento come ferire il cuore e mancare le forze. - Del resto colle ammirabili virtù, la temperanza e la fortezza, per trenta e più anni della sua vita nol vidi mai neppure conturbato”.
Finora abbiamo detto di punizioni alle quali erano assoggettati i singoli individui; ma quando si trattava di mancanze commesse da un'intera classe o anche da una gran parte della comunità, come faceva D. Bosco a richiamar tutti all'ordine, e a castigare gli spensierati? Ci affrettiamo a dire che nell'Oratorio mai non accaddero scene disgustose, come quelle che per insubordinazione si lamentarono in certi collegi. Erano fanciullaggini e nulla più, alle quali però era necessario mettere rimedio per la gran regola principiis obsta.
D. Bosco adunque ascoltava con attenzione le lagnanze degli assistenti, investigava le cause che essi esponevano di quel disturbo, loro inculcava giustizia ed imparzialità e di [565] guardarsi bene dal lasciarsi guidare dalla passione della collera o da affetto particolare, e sovratutto di rifuggire da castighi violenti. Respingeva perciò l'idea di un castigo generale, anche di una sola camerata, perchè ciò irrita gli innocenti che si trovano sempre in questi casi in mezzo ai colpevoli, e riserbava a sè la correzione. Si trattava di molti voti scadenti che indicavano svogliatezza nello studio, di poca osservanza del regolamento colla facilità di parlare nei luoghi ove era prescritto il silenzio, di mancanze ripetute contro l'amore fraterno per qualche futile dissensione, o anche di noncuranza agli ammonimenti di coloro che li sorvegliavano?
Ed ecco D. Bosco appigliarsi ad un mezzo che sempre raggiunse il suo fine. Incominciava a dimostrarsi freddo, preoccupato e di poche parole trovandosi in mezzo ai giovani; li privava del racconto di qualche fatto straordinario che aveva già promesso e che era aspettato con viva curiosità. Più di una volta dopo le orazioni della sera, montato in cattedra, invece di fare il solito sermoncino, volgeva attorno con serietà quel suo sguardo che aveva sempre una forza particolare sull'animo dei giovanetti, e pronunziava queste sole parole: - Non sono contento di voi! Questa sera non vi posso dire altro!
E discendeva dalla cattedra nascondendo le mani nelle maniche della veste, non permettendo che gli fossero baciate, e lentamente si avvicinava verso la scala per la quale salivasi in sua camera, senza più indirizzare parola ad alcuno. Nella folla dei giovani qua e là si udiva qualche singhiozzo represso, molte facce si vedevano rigate dalle lagrime e tutti andavano a dormire meditabondi e pentiti, imperocchè per essi offendere e disgustare D. Bosco era lo stesso che offendere e disgustare il Signore.
Questo bastava per rimettere in casa un ordine perfetto, [566] e quando D. Bosco ricompariva, tutti sentivansi felici nel rivederlo a sorridere.
Ma se D. Bosco era facile a perdonare le mancanze dei ravveduti, contro la disciplina, la carità, e l'obbedienza, e il rispetto dovuto a' Superiori; se riteneva e sopportava con pazienza qualcuno che egli sapesse essere cattivo purchè non recasse danno agli altri, adoperandosi alla sua conversione; era poi rigoroso verso di coloro che avessero rubato, offesa gravemente la religione o la moralità col loro modo di parlare o di operare. Non sapeva assolutamente tollerare l'offesa di Dio.
Nelle sue deliberazioni però non precipitava mai. Voleva che nelle denunzie fatte contro qualcuno non si proferisse sentenza senza aver prima udite le due parti, o come si esprimeva, senza sentire le due campane.
Tuttavia nella maggior parte dei casi non si veniva a decisioni dolorose, poichè colui che era sordo alla voce della coscienza, ai paterni avvertimenti di D. Bosco e de' suoi collaboratori, chi non sentiva la forza del biasimo immancabile dei compagni, finiva per andarsene da sè .
Allorchè si trattava di soli sospetti, ma abbastanza ragionevoli non spaventavasi e cercava di prevenire quel male che si temeva.
Talora anche nell'Oratorio entravano giovani già guasti, con false idee in testa, insofferenti di giogo, amanti del piacere, poco curanti delle cose di chiesa, poltroni e giudicati pericolosi. Il sistema che con costoro teneva D. Bosco era quello che raccomandava poi sempre a' suoi Direttori. L'espulsione essere l'ultima cosa, adoperati e veduti vani tutti gli altri mezzi. Prima cosa isolarli dai più piccoli ed ingenui, da coloro che avessero simili propensioni, o si conoscessero deboli nella virtù, e circondarli di amici sinceri e sicuri. [567]
Ciò fatto non stancarsi di avvisarli ad ogni mancanza. La frase che adoperava D. Bosco cogli assistenti e prefetti che si lamentavano della condotta di qualcuno era sempre questa: - Parlare, parlare! Avvertire, avvertire! Avessero mancato tutti i giorni, tutti i giorni mandarli a chiamare, anche più volte al giorno, se tale fosse stato il bisogno. Amorevoli nei modi, ma fermi nell'esigere da essi l'adempimento dei proprii doveri. Così facendo, o costoro cambiavano condotta, ovvero annoiati finivano con andarsene a casa, senza che si dovessero adoperare con essi misure coercitive. Ed è punto di grande importanza che i giovani non partano dall'Oratorio col fiele nel cuore, poichè venendo il tempo del disinganno, ricordano allora la carità colla quale furono trattati, ritornano in sè , pensano ai buoni consigli ricevuti, all'affetto che loro venne dimostrato, riconoscono chi fossero i loro veri amici, e spesse volte, dopo anni ed anni, se risolvonsi a fare una buona confessione, sì è proprio e solamente nella chiesa dell'Oratorio da coloro che li accolsero negli anni della loro gioventù. Essi ritornano perchè sanno che spontaneamente se ne sono allontanati. Invece se il superiore fosse ricorso ad un inconsulto e precipitoso rigore, senza prima averli avvisati, allora si accende in tanti un'avversione che non manca presto o tardi di avere le sue conseguenze. Tanto più se talora qualche assistente si fosse lasciato andare a menar le mani per sfogo di rabbia.
Quando però certi giovani erano stati avvertiti perchè fra di loro erano strette leghe che in un modo o nell'altro se non vengono sciolte, finiscono con essere una peste per la comunità, e D. Bosco stesso, ma inutilmente li aveva chiamati a sè individualmente e avvisati, ricorreva ad un altro mezzo. Li mandava a chiamare tutti insieme in sua stanza, e fattili aspettare qualche tempo in anticamera perchè riflettessero [568] sul motivo della chiamata, incominciava a parlare come la carità sapeva suggerirgli.
- Non vi ho fatti avvertire, e non vi ho avvertiti abbastanza? Si dice di voi questo e questo; debbo crederlo? E perchè volete darmi tanti dispiaceri? Perchè volete costringermi ad un passo che tanto mi dà pena? Perchè da voi stessi non aiutate D. Bosco a salvarvi? Protestate di far nulla di male! E la disobbedienza è un bene? Obbedite una volta. Non fate che vi vedano più insieme. Lasciate quei discorsi! fatemelo per piacere. È l'ultima volta che io vi avviso. Andatevene prima che io abbia il dolore di dovervi mandar via. Se vedo che voi continuate ad essere cattivi, la mia decisione è presa. Allora piangerete! - Talora usava frasi più serie. In generale riusciva bene questa prova, come ci asserì lo stesso D. Bosco.
Ma se accadeva che qualcuno avesse dato scandalo, si accendeva di santo zelo. Egli che in ogni disgrazia materiale era sempre calmo e tranquillo, appena avutane notizia, esclamava rattristato: - Oh che disastro! che disastro! - E tosto senza clamori mettevasi all'opera riparatrice, dicendo talora: - Ho pregato tanto il Signore perchè queste disgrazie non avessero mai a succedere Pazienza! sia fatta la volontà di Dio nel bene e nel male - Poi eseguiva ciò che più volte era solito di protestare innanzi a tutta la comunità radunata: - Guardate! D. Bosco è il più gran bonomo che vi sia sulla terra; ma non date, scandalo, non rovinate le anime perchè allora egli diventa inesorabile. - E infatti, riconosciuto e convinto un tale per scandaloso, lo allontanava senz'altro dalla casa, e non solamente lui ma anche i suoi complici.
Narra il Can. Anfossi che a' suoi tempi gli rimase impresso nell'anima un discorsetto che D. Bosco fece una sera parlando di persona già alquanto avanzata in età, che egli [569] aveva ricoverato e che per tanto tempo aveva date prove di pietà; e all'incontro si era venuto a sapere come fosse un lupo vestito da agnello, il quale nascostamente aveva rubata un'anima al Signore; perciò quella persona essere stata all'istante allontanata dall'Oratorio. - D. Bosco, dopo aver fatto intendere l'accaduto con molta prudenza, parlò dei gravi danni che arreca lo scandalo in rovina delle anime; e piangeva. D. Bosco aveva così parlato, perchè dagli altri si era venuto a sapere la cosa.
Talora, se per imperiose circostanze doveva sospendere l'esecuzione della sua sentenza, avvisava una volta sola lo scandaloso, talora isolavalo rigorosamente dalla compagnia degli alunni e procurava che fosse di continuo sorvegliato; ma se ricadeva cacciavalo di casa, checchè potesse accadere. Essendo egli venuto a conoscere che un alunno avea tra mano qualche libro non troppo castigato, procuratosi di nascosto, lo chiamò a sè , lo rimproverò, facendosi consegnare i libri, e perchè non desistette da quelle letture, l'allontanò dall'Oratorio, sebbene dotato di particolarissimo ingegno.
Usava riguardo ad una vittima. Il pensiero che, tornando in mezzo al mondo, avrebbe peggiorata la sua condizione morale e religiosa e forse anche perduta la fede e fatta una mala morte, lo consigliava a far di tutto per ritenerlo presso di sè , ma se non riusciva nel caritatevole intento di ridurlo sulla buona via, ei non tardava a rimandarlo. - Da un canestro pieno di frutti sani, ci diceva, bisogna togliere un frutto guasto, per evitare la corruzione degli altri.
La sua prudenza però spiccava sempre in queste delicate circostanze. Il Teol. Leonardo Murialdo un giorno gli chiese quale fosse il suo metodo di procedere quando avvenissero mancanze contro i buoni costumi nell'Istituto. D. Bosco gli rispose: “Avvenendo tali casi io chiamo a parte nella mia [570] camera il giovane accusato, osservandogli che mi obbliga a parlare di quell’argomento di cui S. Paolo non vuole che si tenga parola; quindi gli faccio notare la gravità del male commesso. Se così esige la carità verso gli altri, alla chetichella lo faccio restituire ai suoi parenti. Ma non infliggo nessun castigo, evitando maggiori mali, quali sarebbero i discorsi che naturalmente ne farebbero gli altri allievi”.
Così quando poteva salvava eziandio l’onore dei colpevoli. Si vide talvolta scomparire all’improvviso qualcuno dall’Oratorio, e nessun vi badò, neppure i chierici, perchè rimase sconosciuto il vero motivo di quella partenza. Tutto al più si credette attribuire ciò alla volontà dei parenti o ad affari di famiglia, o a malattia.
D. Bosco, posto in questa dura necessità, a stento tratteneva le lagrime pensando alla mala sorte del colpevole, e non licenziavalo senza dargli per ultimo ricordo: “Hai un’anima sola: salvata, tutto è salvato; perduta, tutto è perduto per sempre”.
Concludiamo colle parole di Mons. Cagliero: “Io sempre osservai che gli stessi giovani che avevano meritato l’espulsione dall’Oratorio conservavano pur sempre l’affetto e la gratitudine verso D. Bosco, che era stato loro padre e benefattore”.
LE PREMURE di D. Bosco per l'Ospizio non impedivano la prosperità degli Oratorii festivi e per nulla lo distraevano dall'intrattenersi coi biricchini, coi monelli, colla gente più meschina. Ciò era per lui una vera delizia non solo nell'Oratorio ma anche per Torino. Perfin sulle piazze e sulle pubbliche strade continuava a far sentire la parola del Signore. “Più volte in varii anni mi avvenne, testifica D. Rua, di accompagnarlo per le vie della città. I fanciulli vedendolo, correvano chi a baciargli la mano, chi a domandargli medaglie; e gli facevano larga circolo intorno intorno. Gli adulti, al vedere quella numerosa schiera di giovanetti in mezzo alla quale stava in piedi un sacerdote, si fermavano per curiosità, e D. Bosco non si lasciava sfuggire così bella occasione per indirizzare a tutti esortazioni adattate allo stato di ciascuno. Parecchie altre [572] volte, giungendo egli ad un crocchio di giovani che si divertivano, mettevasi a partecipare ai loro divertimenti; ma dopo pochi istanti io lo vedevo ritto in piedi, in mezzo ad una turba silenziosa, far intender loro una salutare istruzione”. Era a tale scuola che si accendeva lo zelo de' suoi catechisti, e fra questi di Giovanni Cagliero, che ora da secolare e poi da chierico all'Oratorio, a S. Luigi di Portanuova e in Vanchiglia farà le prime prove di apostolato.
La festa di S. Francesco di Sales con questi mezzi aveva dato il solito frutto di numerosissime comunioni. D. Bosco lamentava però l'assenza di D. Chiatellino Michelangelo e a suo nome il Ch. Reviglio, presentandogli i saluti come pure quelli del Ch. Danusso, di Mamma Margherita e di tutta la casa, scrivevagli a Carignano: “Fummo tutti offesi sommamente, ed ha illusa l'aspettazione dei più; e ciò basti!”.
Venuta la quaresima, che aveva principio col 9 febbraio e finiva col 27 marzo, preparava i giovani ai catechismi per la pasqua colla santificazione degli ultimi giorni di carnovale. E in questi giorni mandava il Ch. Rua ed altri chierici alla ricerca di giovani in tutti i dintorni coll'incarico di condurli alle funzioni; e perchè li allettassero a venire, rifornivali preventivamente di regalucci da distribuire.
Ma l'oratorio che aveva bisogno di speciale sostegno, era quello di S. Luigi a Portanuova, sì perchè il più vicino ai Valdesi e sì perchè difettava alquanto di personale dirigente. Il Sac. D. Pietro Ponte aveva avuto per successore il teologo Felice Rossi, uomo di molto zelo, ma di precaria salute.
Per questo motivo D. Bosco per più anni, mentre nella quaresima non aveva requie nel confessare i giovani di Valdocco, volentieri si prestava ad ascoltare anche le confessioni di una parte di quelli di S. Luigi. “Mi rammento, narrava il Teol. Leonardo Murialdo, che allorquando trattavasi di [573] compiere il precetto pasquale, molti giovani venivano raccolti all'Oratorio di S. Luigi a Portanuova, e di là attraversando tutta la città erano accompagnati all'Oratorio di Valdocco ove D. Bosco li confessava. Questi giovani erano già grandicelli, e generalmente discoli e scapestrati. Ma D. Bosco aveva un'attitudine speciale per allettarli ai sacramenti e per migliorare anche i più cattivi”.
Del resto D. Bosco non mancava di visitarli nel loro oratorio, come anche quelli di Vanchiglia. Talora mandava ad avvisarli una settimana prima della sua venuta, e quel giorno era festa solenne, accompagnata dal pane e salame.
Incominciava il mese di marzo 1853, e mentre egli coi giornalieri catechismi istruiva nella quaresima una moltitudine di figli del popolo, ecco uscire alla luce dalla tipografia De Agostini il primo fascicolo delle Letture Cattoliche. Aveva per titolo: Il Cattolico istruito nella sua religione: trattenimenti di un padre di famiglia co' suoi figliuoli, secondo i bisogni del tempo, epilogati dal Sacerdote Bosco Giovanni. Il padre di famiglia rappresentava per D. Bosco l'avv. Luigi Gallo da Genova, col quale aveva amichevoli relazioni quando componeva questo libro, di 452 pagine diviso in sei fascicoli in 32. Era un trattato, si può dire completo, ma popolare sulla vera religione. Confutava gli errori, le empietà, le contraddizioni dei ministri protestanti e valdesi, dimostrava la loro malafede e le sacrileghe alterazioni introdotte nei testi della Bibbia; e intanto narrava la vita scellerata ed oscena dei Capi della Riforma. D. Bosco però riputava suo dovere di far osservare qua e là, che le espressioni le quali potessero a taluno sembrare un po' vibrate, riguardavano unicamente agli scritti eretici ed escludevano qualsiasi allusione alle persone dei Valdesi. Concludeva il suo lavoro rivolgendo alcune parole ai Ministri Protestanti, dimostrando loro la tremenda [574] responsabilità che si assumevano al tribunale di Dio, strappando le pecorelle al suo ovile. “Queste sono parole di un vostro fratello che vi ama, e vi ama assai più che voi nol credete. Parole di un fratello, che offre tutto se stesso e quanto può avere in questo mondo pel vostro bene Tutto compreso da terrore e da spavento per l'incertezza della salute dell'anima vostra e dei vostri seguaci, alzo gli occhi e le mani al cielo, invitando voi e tutti i buoni a pregare il Dio delle misericordie onde vi voglia tutti illuminare coi raggi della sua celeste grazia, sicchè facendo ritorno al paterno ovile di Gesù Cristo, possiamo procurare una grande allegrezza a tutto il paradiso, pace alle anime vostre, e fondata speranza di salvezza per tutti”.
Questi sei fascicoli si pubblicarono dal marzo all'agosto alternati da altre operette, e raccolti poi in un sol volume tutta la loro edizione fu presto esaurita. D. Bosco però la ristampava nel 1882, notevolmente aumentata e corretta sotto il nuovo titolo che oggi giorno ritiene: Il Cattolico nel secolo ecc. Si legga questo prezioso libro e si intenderà come D. Bosco giustamente sia stato chiamato il martello dei Protestanti.
Nel mese di aprile si distribuiva la vita di Santa Zita serva e di S. Isidoro contadino, con un'appendice di tre racconti morali.
Contro i protestanti così si ragionava: “Fra i molti argomenti che dimostrano la santità della Chiesa Cattolica havvi pur questo, che in ogni tempo molti de' suoi membri risplendettero per insigni virtù e per miracoli, e che tutti i suoi figli sono chiamati alla santità.
Le altre religioni al contrario portano con sè improntato il marchio del vizio. Nella stessa loro origine, ben lungi dall'essere predicate da uomini distinti per virtù e santità, [575] furono predicate da uomini viziosi o apostati; e se qualche virtù si scorge ne' seguaci delle medesime, si deve attribuire ai sentimenti da Dio Creatore inseriti nel cuore dell'uomo coi dotarlo di ragione, oppure a ciò che ritennero dalla SS. Religione cattolica.
Del resto noi possiamo sfidare i Calvinisti, i Luterani i Valdesi, gli Anglicani, tutti insieme gli eretici d'ogni setta a mostrarci tra loro una sola persona cosi eminentemente virtuosa in grado eroico come esige la Chiesa Romana ne' suoi figli per innalzarli agli onori degli altari.... E sono mai essi i protestanti stati da tanto di saper mostrare un miracolo fatto, o dai loro capi o da altri loro settarii? Non mai! Invece nel seno della Chiesa Cattolica Romana si sono operati e tutt'ora si operano veri miracoli, e chiunque il voglia, può farsene certo e sicuro leggendo i processi apostolici Ora chi non sa che i miracoli sono un'evidente prova della verità e della santità della Religione?.... Dio non può concorrere con prodigi ad autorizzare una Chiesa, che non sia quella stabilita da Lui, unico fonte di verità e di santità; altrimenti egli stesso spingerebbe all'errore. Ma nella Cattolica Chiesa Romana vi sono e santi e veri miracoli; dunque necessariamente essa è la vera Chiesa di Dio sovrano autore di ogni santità e di tutti i miracoli”.
Questa libertà di parola, ispirata dal praedicate super tecta comandato dal Divin Salvatore, metteva in serii pensieri la Curia Arcivescovile, la quale conosceva i propositi feroci delle sette. D. Bosco, dopo aver preparati i fascicoli, prima di darli alle stampe li presentava per la debita revisione; ma, fatto singolare! i soli fascicoli dei primi sei mesi portano la scritta: Con approvazione della Revisione Arcivescovile, ma nessuno dei delegati aveva voluto apporvi la propria firma. In fine niuno accettava di assumersi l'uffizio di Revisore. [576]
Adducevano per ragione essere affare pericoloso in quei giorni lanciarsi in battaglia contro i Protestanti e Framassoni, che, per disfarsi dei loro avversarii, si facevano lecita qualsiasi arma. In prova del che, ricordavano l'assassinio del Conte Pellegrino Rossi, di Mons. Palma e dell'Abate Ximenes, Direttore del giornale il Labaro di Roma, e di altri molti difensori della verità, pugnalati in quel tempo. Nè per una parte avevano tutto il torto a temere così: poichè quello che poco dopo accadde nella stessa Torino all'intrepido Direttore dell'Armonia di allora, il Teol. Giacomo Margotti, diede a divedere ciò che da certi settarii poteva aspettarsi un cattolico scrittore[28]. Tuttavia, dopo alcuni riflessi di D. Bosco, [577] il Can. Giuseppe Zappata si compiacque di arrendersi alle sue domande, e prese a rivedere un manoscritto; ma ne aveva letto appena un mezzo fascicolo, quando tutto atterrito, fattolo chiamare a sè , gli ritornò il quaderno dicendo: “Si riprenda il suo lavoro. Ella piglia di fronte e sfida i nemici. In quanto a me non giudico di sottoscrivermi ed entrare in lizza, perchè non posso mettere a cimento la mia vita”.
Che fare adunque? D'accordo con Mons. Vicario Generale, D. Bosco espose la cosa all'Arcivescovo, il quale dal suo esiglio non cessava di porgergli ogni possibile aiuto. Sapute pertanto queste difficoltà, lo zelante Prelato inviò a D. Bosco una lettera da presentarsi a Mons. Luigi Moreno, Vescovo d'Ivrea. Con quella l'esimio Arcivescovo pregava il suo suffraganeo a voler assistere le Letture Cattoliche colla sua Revisione, e Mons. Moreno vi si prestò di buonissimo grado. A quest'uopo delegò l'avv. Pinoli suo Vicario Generale per rivedere i fascicoli da pubblicarsi, permettendogli tuttavia di tacere il proprio nome nella sottoscrizione.
D. Bosco stava adunque fermo al suo posto di battaglia. “Aveva ricevute minacce per lettera ed a parole, afferma D. Rua, ma egli confidando in Dio non desistette. Era suo gran conforto che le Letture Cattoliche, appena erano state come assaggiate, avevano contentato il gusto di tutti gli associati”. Pei mesi di Aprile e di Giugno egli faceva stampare un volumetto anonimo diviso in due fascicoli, che portava il titolo: La buona madre di famiglia: conversazioni morali [578] adatte alle classi del popolo più semplice. È questa una signora, che raduna in casa alcuni abitanti del suo villaggio e spiega loro con avvisi morali il simbolo apostolico. L'autore anonimo così scriveva al cristiano lettore: “Sebbene non mancarono in ogni tempo nemici della salvezza eterna delle anime, tuttavia questi formarono ai giorni nostri tale formidabile lega, che forse non incontrasi nel passato.
Uomini rotti ad ogni vizio, mal sapendo sopportare il giogo della verità, guidati da basso e vile interesse, con sottili e perfide cavillazioni, non arrossiscono di attaccare e calunniare quella Santa Religione nella quale per tratto speciale della divina misericordia nacquero e furono educati. Costoro sotto aspetto di illuminare e condurre il popolo a soda virtù, spargono in questa classe più semplice, negli operai, negli artieri e nei contadini le massime della più perversa e falsa dottrina; si affannano con iscritti e stampe immorali a propagare l'incredulità, insinuando l'indifferentismo, il peggiore di tutti i mali; blandiscono le passioni, e fanno bere agli incauti e semplici il pervertimento dei costumi, la seduzione e la corruzione dei cuori, facendoli partecipare a vizii che insidiano e rovinano sordamente la umana società...
A confortarvi pertanto, o cristiani lettori, nel turbine di tante procelle, negli assalti di tanti nemici, mentre avete nei trattenimenti: Il Cattolico istruito nella sua Religione, i principii fondamentali della nostra santa Religione, alla quale dovete inalterabilmente essere attaccati colla fede, nelle presenti semplici conversazioni vi sono date salutari istruzioni, le quali vi metteranno in grado di operare costantemente secondo la medesima e di render ragione a voi stessi della vostra credenza....”.
D. Bosco strenuamente combatteva l'eresia, ma questa alzava sempre più tracotante il suo capo. La sera dell'8 maggio, [579] festa dello Statuto, il novello tempio dei Valdesi fu illuminato con gran lusso e sfoggio, e gli studenti, ordinati a drappelli e guidati dai loro professori, seguiti da molte delle società operaie, istrutti nei principii di libertà della Gazzetta del popolo, compiuta una fragorosa ovazione al monumento Siccardi, in sfregio al Clero, trassero al tempio Valdese, rispondendo con Evviva a certe voci stentoree che proferivano le acclamazioni edificanti: Viva la libertà dei culti! Viva la libertà di coscienza!
Nel maggio il fascicolo era scritto dallo stesso D. Bosco.
NOTIZIE STORICHE INTORNO AL MIRACOLO DEL SS. SACRAMENTO avvenuto in Torino il 6 giugno 1453, con un cenno sul quarto centenario del 1853.
“Al lettore. - In mezzo alla comune esultanza cui prendono parte tutti i buoni Cattolici per la solennità del Centenario in memoria del miracolo del SS. Sacramento da Dio operato in questa nostra città, spero non debba riuscire discaro un racconto storico, breve e semplice per modo che possa rendere abbastanza istruiti i meno colti, e quelli cui mancano libri opportuni, e non hanno tempo a percorrere i volumi stampati intorno a questo glorioso avvenimento.
Chi desiderasse di avere più estese cognizioni di tal fatto potrebbe leggere qualcuno degli autori notati in fine del libretto dai quali furono ricavate queste notizie. Qui io mi limito ad un racconto storico del miracolo aggiungendo alcune cose che riguardano alla prossima solennità, coll'aggiunta di un dialogo famigliare intorno ai miracoli.
Benedica il Signore tutti i Torinesi e conservi tutti i Cattolici nella Santa Cattolica Fede, unica religione che possa presentare veri miracoli in conferma delle verità che professa.
Solenne il miracolo che i Torinesi si preparavano a celebrare. La sera del 6 giugno 1453 passava per Torino un uomo, conducente un mulo carico di mercanzia. Egli veniva da Exilles, luogo vicino a Susa che per alcuni trambusti di guerra era in quell'anno stato messo a sacco. Fra le spoglie poste sul mulo vi era un ostensorio, derubato alla chiesa di quel luogo con entro un'ostia consacrata. Ed ecco che giunto in Torino innanzi alla chiesa di S. Silvestro il mulo diviene restio, traballando si ferma e cade a terra. Il condottiere si adopera a più non posso perchè si alzi il giumento e cammini. Intanto scioltesi le fasce dell'involto, s'innalza in aria il sacro vaso e risplendente più che il sole compare alla vista di tutti gli astanti. Avvisato, il Vescovo Monsignor Ludovico dei Marchesi Romagnano accorre col clero e con gran folla di popolo, alla cui presenza cade prima l'ostensorio rimanendo raggiante in aria l'Ostia divina, la quale poi mentre si esclamava da tutte parti: Dimorate con noi, o Signore, a poco a poco scende nel calice presentatole dal Vescovo e viene solennemente portata al duomo. Nel luogo dove seguì così prodigioso avvenimento fu eretta la chiesa del Corpus Domini. - Questa fu l'origine della singolare divozione che i Torinesi mostrano verso il SS. Sacramento.
Non si poteva dare prova più splendida contro i Valdesi della presenza reale, permanente di Gesù Cristo nella SS. Eucarestia. D. Bosco nel suo libretto non tralasciava di riportare alcune frasi di un'apposita pastorale che Mons. Fransoni da Lione aveva indirizzata al clero e al popolo. L'Arcivescovo, accennati i gravi pericoli in cui si trovavano i suoi diocesani per le insidie colle quali gli eretici si sforzavano di sedurre gli incauti, ricordava loro che il primo potentissimo mezzo, per non cadere vittima dell'errore, era quello “di legarsi indissolubilmente all'autorità della Chiesa Cattolica e perciò [581] al Romano Pontefice suo Capo visibile, successore di San Pietro”.
D. Bosco epilogava l'operetta, esponendo l'Orario delle sacre funzioni del Corpus Domini il quale comprendeva un triduo ed un ottavario solennissimi.
Il libretto fu presto esaurito; ma D. Bosco, con quella intuizione dei futuro, che ben si può dire, gli era propria, un giorno ritornando col Ch. Michele Rua dalla villa del prof. D. Matteo Picco, ove soleva ritirarsi per alcuni giorni attendendo a lavori di tavolino, giunto nel Borgo detto allora dei Santi Bino ed Evasio dietro la Gran Madre di Dio, fece cadere il discorso sulle feste centenarie di Torino e sulla buona accoglienza e larga diffusione del suo opuscolo. Quindi portando il suo pensiero più avanti disse al buon chierico che gli faceva da segretario: - Quando nel 1903 si celebrerà il cinquantenario del miracolo, io non ci sarò più, ma tu ci sarai ancora; fin d'adesso ti affido l'incarico di ripubblicare questo libretto.
- Ben volentieri, rispose il Ch. Rua, accetto così dolce incarico; ma se la morte mi facesse qualche scherzo e mi togliesse da questo mondo, prima di quell'epoca?
- Sta' tranquillo: la morte non ti farà nessun scherzo, e tu potrai compiere l'incarico che ora ti affido.
Il Ch. Rua, inteso D. Bosco a parlare con tanta sicurezza, ne mise in disparte una copia, e superate varie gravi malattie, nel 1903 traevala fuori e ne faceva l'edizione affidatagli.
Splendidissime riuscirono queste feste. La chiesa del Corpus Domini era stata riccamente ristorata. Da ogni parte del Piemonte vi confluirono le confraternite coi popoli per fare la loro comunione. Nel giorno della solennità il Re e la sua famiglia in grande gala vi si recava ad assistere alla Santa Messa. Dodici tra Arcivescovi e Vescovi accorsero al [582] triduo ed all'ottavario. Per due notti la città fu tutta una luminara e forse per l'ultima volta si videro i palazzi del Municipio, del Senato e della Accademia delle Scienze adorni di lumi per feste religiose. La sola Camera dei Deputati, il ghetto degli Ebrei, il tempio in costruzione dei Valdesi brillarono per la perfetta oscurità. Due volte si incominciò la processione trionfale, nel giorno 6 di giugno e in quello dell'ottava; tuonavano le artiglierie, suonavano tutte le campane; ma ambedue le volte violenti procelle non permisero che proseguisse. La fazione dei libertini, che a quello spettacolo di fede si rodeva dalla rabbia, se ne riscattò con un battimano contumelioso e con fischiate quando videro sbrancarsi la processione. Ma quello sfogo di dispettosa compiacenza, meritava qualche compatimento. Credevano Torino mezzo protestante e la videro tutta cattolica. La Gazzetta del Popolo in quei giorni era stata oscenamente ed impunemente blasfema, e con essa la stampa liberale. D. Bosco, che aveva preso parte al sacro corteo, era tornato due volte all'Oratorio cogli abiti così impregnati d'acqua, che faceva compassione ai giovani.
D. Bosco in quei giorni trattando le cose grandi non dimenticava le cose piccole. Intendeva dar prova di sua riconoscenza a D. Michelangelo Chiatellino, maestro di metodica a Carignano, che in tante occasioni avealo aiutato nell'Oratorio. Incontratolo per Torino, gli disse graziosamente: - Mi paghi una tazza di caffè? - D. Chiatellino guardò meravigliato l'amico, che facevagli una domanda per lui così strana e inaspettata, e: - Volentieri, volentieri, gli rispose. Entrarono adunque in una bottega da caffè e D. Bosco gli espose come fosse mancato il maestro alla scuola di Borgo Cornalense e aver egli pensato essere quel posto adattato per un sacerdote come lui amante della tranquillità. [583] Nello stesso tempo egli sarebbe cappellano della Signora Duchessa di Montmorency proprietaria della scuola e che a Borgo abitava nel suo palazzo. Arrise l'idea a D. Chiatellino, ringraziò; ma propose che prima di accettare fosse consultato D. Cafasso. Questo fu il motivo delle seguenti lettere.
Carissimo Sig. D. Chiatellino,
Ho parlato a D. Cafasso del nostro affare senza dire che ne aveva già parlato con Lei, e senza alcuna esitazione mi rispose essere questo un posto conveniente, e di scriverle immediatamente per avere il suo parere; sicchè di qui non havvi più difficoltà. Ci pensi, e qualora mi dia un'affermativa, andremo, statuto tempore, a fare una visita alla Signora Duchessa.
In fretta, ma di tutto cuore me le offro nel Signore.
Ieri fu qui a Torino la Signora Duchessa Laval Montmorency, e fu conchiuso quanto riguardava alla sua magistratura. Ora Ella desidera di parlare con V. S. per intendersi per la scuola, modo di farla, vitto, modo di farselo ecc. C'è locale per Lei e per una persona di servizio; pare che gradirebbe anche una sua sorella; ma, Ella dice, che questa sorella servisse il prete e non fosse servita. Ma queste sono cose di poca entità, le quali si aggiusteranno con facilità parlandosi. Se può fare una passeggiata a Borgo per giovedì 23 corrente, è aspettato; io non ci posso andare, ma [584] comincerebbe andare V. S. Se ha insieme il Teol. Appendini, potrebbe essere bene; del resto aetatem habes, interroga et videbis. Non ho tempo a scrivere di più. Saluti i suoi parenti e gli altri miei amici e mi ami nel Signore.
E D. Chiatellino, finchè visse la Duchessa, abitò in Borgo Cornalense edificando colle sue virtù la scuola, il paese ed il palazzo. La sua virtù si faceva ammirare per una speciale santità di costumi ed una esattezza nel compiere i suoi doveri. I suoi allievi lo amavano come un padre, e imparavano il modo di vivere in famiglia e in società. Di quando in quando veniva a trovare i giovanetti di Valdocco e portava tra essi la gioia, come la visita di un amico. D. Bosco se ne serviva in tempo di vacanze, per alcune predicazioni di esercizi spirituali e non ne ricevette mai ripulsa. Per anni ed anni la novena del Santo Rosario ai Becchi fu sempre riservata a D. Chiatellino. La sua parola ispirata alla salute delle anime riusciva a guadagnarne molte al Signore.
DON BOSCO, appena la stagione lo permise, aveva fatto sgombrare dalle macerie della casa caduta lo spazio sul quale si dovevano dalle fondamenta riprendere i lavori di costruzione. Il suo danno era stato valutato a 10.000 lire, sebbene molto più grave doveva essere quello del capomastro, che aveva accettata la costruzione ad impresa ed era stato condannato dalla commissione edilizia a rifare meglio i lavori. D. Bosco però pieno di compassione gli aveva promesso di aiutarlo. Intanto, forse in conseguenza di questo disastro, con atto 26 gennaio 1853 rogato dal notaio Turvano, le ragioni e i diritti che D. Borel, D. Murialdo, D. Cafasso e D. Bosco avevano acquistati colla compra di casa Pinardi, si consolidavano nei sacerdoti Giovanni Bosco e Giuseppe Cafasso. I primi due si ritiravano dalla società addossando agli altri due comproprietarii la loro parte del debito Rosmini.
D. Cafasso adunque continuava a prestare garanzia per [586] D. Bosco; e dacchè ci si presenta questo nome benedetto, vogliamo fare speciale memoria di chi per circa venticinque anni guidò e soccorse D. Bosco nella vita spirituale e nelle materiali e morali necessità. Era santo il maestro e fu santo il discepolo che avealo scelto per suo confessore, e che ogni settimana si recava a confidargli lo stato della sua coscienza.
D. Cafasso, in S. Francesco d'Assisi, teneva il suo confessionale presso l'immagine della Madonna delle Grazie, ed era sempre assiepato ai lati da una folla che attendeva il suo turno. D. Bosco si inginocchiava per terra vicino ad un pilastro di rimpetto al confessionale per fare la sua preparazione, e vi rimaneva finchè D. Cafasso lo avesse veduto. Allora il confessore, perchè il venerando prete non avesse da perdere troppo tempo, gli faceva cenno alzando la tendina, e quegli a capo chino ed in atteggiamento divoto si approssimava e faceva la sua confessione sul dinanzi del confessionale con edificazione degli astanti. Il Ch. Bellia Giacomo lo accompagnava sempre, finchè frequentò l'Oratorio; e dopo lui altri chierici, e tutti ammiravano il suo contegno, dal quale traspariva la sua fede e la sua umiltà.
D. Bosco amava e venerava D. Cafasso, e il suo affetto per lui era come quello di un figlio, e D. Cafasso lo contraccambiava con viva carità paterna.
D. Bosco era pressochè ogni giorno al Convitto Ecclesiastico, e frequentava, potendo, le conferenze di morale. Sovente vi andava al mattino; e poi mutando ora, verso le quattro pomeridiane, e non ne partiva che verso le nove accompagnato da alcuno dei servi del Convitto stesso. Quelle cinque ore le passava in gran parte nella biblioteca, ove faceva i suoi studii senza disturbo e vi preparava i suoi libri così fecondi di spirituali vantaggi in difesa della religione. Non mancava mai di visitare D. Cafasso, dei quale godeva [587] tutta la confidenza. In certe settimane, nelle quali sentivasi così stanco che a stento poteva trarre il respiro, una parola, uno sguardo, un sorriso, un gesto di D. Cafasso, ravvivava le sue forze, e ispiravagli sempre maggior coraggio nel continuare la sua missione. E dipendeva da lui in ogni cosa, sia nel regolare la propria coscienza, sia nell'indirizzo delle opere esterne che andava svolgendo; e a lui obbedì, finchè visse, interamente e senza osservazioni. Spesso D. Bosco trattenevasi con lui in lunghi e segreti colloqui; ed è in uno di questi che sul principio del 1851 egli disse a D. Cafasso, che avevalo interrogato: il tempo che a lei ancor rimane di vita non oltrepasserà i dieci anni. E il fatto riuscì secondo la previsione.
Scrisse D. Savio Ascanio: “E’ là nella camera di Don Cafasso che D. Bosco andava concertando con lui la compera della casa e del cortile Pinardi e la erezione della chiesa di S. Francesco che ora si chiama la chiesa vecchia, l'acquisto di altri terreni per bastare al bisogno e l'impianto di laboratorii e di una stamperia, e la fondazione delle Letture Cattoliche. Venendo poi a casa, parlando co' suoi alunni, si lasciava sfuggir parola di questi nuovi piani progettati, e diceva cose che parevano sogni ed ora sono realtà”.
Ma coll'aiuto di Dio non poteva essere altrimenti. Maestro e discepolo erano concordi nello stesso scopo, nelle stesse viste e nello stesso pensiero.
“In una cosa sola, disse un giorno D. Bosco ad un personaggio distinto, sembrò che non fossimo d'accordo ed ebbimo a proposito una discussione passeggiando sul piazzale del Santuario di S. Ignazio. Egli diceva che il bene doveva farsi bene, ed io sosteneva che talora bastava farlo così alla buona in mezzo a tante miserie”. E tutti due avevano ragione poichè D. Cafasso parlava della cosa per se stessa; D. Bosco invece dimostrava che quando non si può fare altrimenti, è [588] meglio operare come si può, ma con retto fine piuttosto che abbandonare un'impresa.
Tuttavia il buon accordo fra essi non era per nulla turbato da qualche diversità di apprezzamento; che anzi D. Cafasso prendeva sempre le difese del suo discepolo allorchè qualcuno si permetteva di criticarlo.
Alcuni rispettabili e dotti ecclesiastici gli fecero rimostranze perchè D. Bosco non si piegava a' consigli dati da loro, quando questi non erano conformi ai suoi disegni ed alle sue viste. D. Cafasso rispose in modo da metter in particolar luce la vita sacerdotale del suo penitente: “Sapete voi bene chi è D. Bosco? Per me, più lo studio, meno lo capisco! Lo vedo semplice e straordinario, umile e grande, povero ed occupato in disegni vastissimi e in apparenza non attuabili, e tuttavia benchè attraversato e direi incapace, riesce splendidamente nelle sue imprese. Per me D. Bosco è un mistero! Sono certo però ch'egli lavora per la gloria di Dio, che Dio solo lo guida, che Dio solo è lo scopo di tutte le sue azioni”.
D. Cafasso era persuaso che il Signore conducesse D. Bosco per vie nuove e straordinarie, e ciò era causa eziandio che largheggiasse nel soccorrerlo.
D. Bosco usciva di raro dalla stanza di lui a mani vuote, come egli stesso asserì. Sovente sul finir di un mese dovendo saldare un debito per il pane di duecento o di trecento lire, e non avendo egli denaro, D. Cafasso glieli sborsava. D. Bosco intanto prometteva che pel mese seguente avrebbe studiato il modo di pagare egli stesso; ma dopo qualche tempo eccolo presentare con bel garbo un'altra nota del panettiere. Don Cafasso con tono di celia allora dicevagli: - Voi, D. Bosco, non siete un galantuomo. I galantuomini mantengono la parola data; voi in quel cambio, tutti i mesi promettete di pagare, ma intanto chi paga sono sempre io. Caro mio, pensate [589] a mettervi in coscienza. - E gli porgeva la somma richiesta.
Sperimentando la bontà di D. Cafasso, D. Bosco ebbe una prova di più dei doni sovranaturali dei quali Iddio avevalo fornito. Un giorno aveagli esposto come si trovasse in strettissimo bisogno di soccorsi. D. Cafasso gli rispose rincrescergli di non avere nulla da dargli, ma poi, dopo aver riflettuto alquanto: - Andate, gli disse, verso piazza San Carlo, seguite chi vi chiamerà per nome e troverete ciò che desiderate. - D. Bosco obbedì, e giunto in piazza S. Carlo, ecco un servitore fermarlo e dirgli: - È lei D. Bosco? - E alla risposta affermativa, aggiunse come la sua signora desiderasse parlargli. D. Bosco si accompagnò al servo e introdotto in un palazzo, fu nella camera di una ricca matrona inferma, la quale dopo aver chieste notizie del suo Oratorio, gli diede una cospicua somma.
Ciò palesava D. Bosco stesso al Ch. Bellia, e, certo che il santo suo maestro era illuminato dal Signore nel dare consigli, spesse volte mandava a lui i suoi giovani perchè ne decidesse.
Nel 1853 gli indirizzava gli alunni Giovanni Cagliero e Savio Angelo per l'esame sulla vocazione. “D. Cafasso, scrive Mons. Cagliero, dopo averci esaminati, ci parlò della vocazione allo stato ecclesiastico con parole e concetti sublimissimi, e con tale senso pratico ed unzione, da farci comprendere, che grande era tale grazia ed altissimo il ministero del sacerdote. Ed animatici a corrispondere, aggiunse con santo entusiasmo: - Oh vedete! io mi sono fatto prete una volta sola; ma se fosse necessario, mi farei tale ancora cento altre volte!”.
Altro giorno mandò al Convitto Massaia e Fusero. Essi per istrada attaccarono questione su qualche punto di controversia [590] non sapremmo se Scolastica o religiosa. Appena furono alla presenza di D. Cafasso, questi senza lasciar loro aprir bocca, disse: - In quanto alla vostra questione di cui disputavate lungo la strada, è così e così: quindi tu avevi ragione e tu avevi torto. In quanto alla vocazione state a quello che vi dirà Don Bosco. - Mirabile risposta e prova colla quale egli faceva intendere per lume soprannaturale che D. Bosco era giudice sicuro sulla prudente elezione dello stato.
I due giovani rientrati nell'Oratorio narrarono a Don Bosco il fatto meraviglioso, il quale a sua volta confermava l'opinione di santità che tutti nutrivano verso D. Cafasso. D. Bosco infatti, narrò il Can. Anfossi, parlava frequentemente delle azioni, delle parole, delle virtù eroiche e della generosità di quel gran servo di Dio. E ripeteva ai giovani e ai chierici i suoi ammonimenti, così efficaci per far amare la mortificazione cristiana: “Fuggite ogni abitudine anche la più indifferente: dobbiamo abituarci a fare il bene e non altro: il nostro corpo è insaziabile: più gliene diamo più ne domanda, meno gliene si dà meno egli domanda”.
D. Bosco non tralasciava di eccitare i suoi a lavorare gagliardamente e a non desiderare sollazzi e riposo, e aggiungeva: - Invitato D. Cafasso a prendersi qualche divertimento, sapete voi che cosa rispose? - Ho ben altro da fare che a divertirmi. Quando non abbia più alcuna cosa di premura, allora andrò a divertirmi. - E quando sarà questo tempo? - Quando saremo in paradiso.
Lo proponeva eziandio ad esempio per la salute delle anime e lo descriveva nelle missioni rurali, nel Convitto, nelle carceri, negli ospedali e nei varii altri offizii del sacerdotale magistero. Fra l'altro narrava un giorno: “D. Cafasso avendo saputo (1856) che a Vercelli un condannato a morte si era dato alla disperazione e non volea saperne di sacramenti, [591] partì subito da Torino con qualche confratello della Misericordia verso le ore 4 pomeridiane, e giunto ove era il condannato, riuscì a calmarlo, e confessatolo e comunicatolo lo accompagnò al luogo del supplizio. Quindi, ristoratosi in un albergo volle subito partire per Torino e rientrato al Con. vitto alle ore 6 e ½ di sera, invece di prendere un po' di cibo, andò all'istante a fare la conferenza ai convittori poichè la campana ne dava il segno. A chi invitavalo a prendere un po' di riposo: - Ci riposeremo quando saremo nella tomba, - rispose: - Regnum coelorum vim patitur. - Questa era la sua abituale esclamazione”.
Inoltre interessava specialmente i suoi alunni narrando come D. Cafasso prendevasi sollecitudine dei poveri giovanetti, e come questi istruisse nelle verità della fede, quelli provvedesse di abiti affinchè potessero decentemente venire in chiesa; altri collocasse al lavoro presso onesto padrone, a non pochi pagasse le spese dell'apprendimento, o somministrasse pane finchè avessero potuto guadagnarsi di che campare colle proprie fatiche. - Io conosco molti, soggiungeva, che per la povera loro condizione o pei gravi disastri avvenuti in famiglia non potevano percorrere carriera alcuna. Ora di costoro parecchi sono parroci, viceparroci, maestri di scuola. Alcuni sono notai, avvocati, medici, farmacisti, causidici. Altri sono agenti di campagna, padroni di bottega, negozianti e commercianti. E tutti costoro debbono a D. Cafasso la loro fortuna.
Ma oltre a ciò egli ricordava ai giovanetti dell'Oratorio l'obbligo che loro spettava di essere riconoscenti a D. Cafasso e di pregare per lui. Mons. Cagliero ci scriveva: “Ricordo che sovente D. Bosco ci disse: - È per obbedienza a Don Cafasso che mi fermai a Torino; è dietro suo consiglio e sua direzione che presi a radunare ogni dì festivo i monelli di [592] piazza per catechizzarli; fu mediante il suo appoggio ed aiuto che incominciai a raccogliere nell'Oratorio di S. Francesco di Sales i più, abbandonati perchè fossero preservati dal vizio e formati alla virtù. Ricordatelo! Il primo catechista di questo nostro Oratorio fu D. Cafasso, e ne è costante promotore e benefattore. - E noi amiamo e veneriamo il nostro caro padre; ma non amiamo meno e non veneriamo meno il Sac. D. Cafasso”.
GIUNTA la primavera si pose immediatamente mano a rialzare la fabbrica rovinata. Ma le finanze di D. Bosco erano esauste, anzi egli era gravato di debiti. Questi però non lo sgomentavano, nè veniva meno la sua confidenza in Dio. E in fatti ci voleva fede ben viva, poichè sempre si trovava in gravissime angustie anche per le calamità che oppressero continuamente le nazioni. Ora è ancor sul principio, ma a misura che le difficoltà diverranno maggiori e alle volte ingigantiranno, egli diventerà gigante nell'affrontarle e vincerle; e come adesso così allora dirà, scherzando in dialetto piemontese: Andand per la strà s'aggiusta la somà. Andando per la via si aggiusta la soma dell'asinello.
E veramente in D. Bosco si compivano continuamente le promesse fatte da Gesù a chi prega con fede. Quella divina Provvidenza che aveva ispirati i benefattori a mostrarsi generosi con Don Bosco per incominciare l'edifizio, continuò a [594] muoverli in suo aiuto per riprenderlo e condurlo a fine. Fra questi si segnalarono l'egregia Duchessa di Montmorency e il nobile signor Marchese e Marchesa Fassati, sua degna consorte. Anche il Conte Cays di Giletta e Caselette, che veniva assiduamente nell'Oratorio a fare il catechismo nei giorni festivi, dava a D. Bosco in quest'anno un attestato della sua carità. Don Bosco fra gli altri debiti ne aveva uno di lire 1200 col panattiere, il quale minacciava ormai di far vedere la fame a lui e ai suoi orfanelli, se non venisse pagato. Ciò inteso, il Conte soddisfaceva a quel vistoso debito, ed essi proseguirono a soddisfare il loro giovanile appetito. Anche il Re Vittorio avevagli mandato un sussidio[29].
Tuttavia queste somme essendo insufficienti, D. Bosco andava attuando varii suoi disegni. Il primo fu quello che fece pubblico l'Armonia nel numero del martedì 12 aprile 1853.
“Lotteria di una cassa di ferro con vari segreti offerta a benefizio dell'Oratorio maschile di Valdocco, approvata dall'Intendenza generale con decreto del 2 marzo 1853.
L'esposizione ha luogo nel caffè della Borsa, via di Porta Nuova, vicino piazza S. Carlo.[595]
L'estrazione avrà luogo il 31 del prossimo mese di maggio nella casa dell'Oratorio suddetto.
Il prezzo di ciascun biglietto è di franchi 1; e chi ne prende una cinquina avrà un contentino del valore di lire due”.
Anche il clero concorreva con generosità, ma le sue rendite andavano assottigliandosi. Il 28 aprile 1853 era stata introdotta la legge della tassa mobiliare e personale ai parroci e ai beneficiati, e nel settembre un decreto reale rimaneggiava le congrue parrocchiali stabilite dal Breve Pontificio del 1828. Alla chetichella e senza trambusti si procedeva all'incameramento dei beni ecclesiastici.
Frattanto le mura dell'Ospizio si erano già elevate ad una certa altezza, quando un ordine del Municipio ne faceva sospendere i lavori.
Dal Palazzo Municipale, addì 21 Marzo 1853.
Con avviso dell'Ufficio di Polizia Municipale veniva il 5 corrente diffidato il R. Sacerdote D. Bosco, che se voleva avere il permesso di continuare le intraprese opere di costruzione era necessario che producesse un certificato di un ingegnere od un architetto patentato, con cui questo si assumesse sotto la sua responsabilità la direzione di tali opere da eseguirsi giusta il disegno stato approvato dal Consiglio Edilizio, e che rimanesse così affatto estraneo alla direzione delle opere chi non ha le necessarie cognizioni in fatto di costruzioni.
Malgrado tale diffidamento risulta allo scrivente che continuano le opere di costruzione sotto la direzione del Capo Mastro Bocca, il quale sebbene diffidato ieri di cessare il [596] lavoro, sorpreso stamane a praticare opere di costruzione, fu per ciò dichiarato dalle guardie municipali in contravvenzione.
In tale stato di cose, importando alla pubblica sicurezza che venga assolutamente sospesa ogni opera, il sottoscritto invita il R. Sacerdote Don Bosco a far cessare immediatamente ogni lavoro di costruzione od altro, finchè , dietro la presentazione del richiestogli certificato, non abbia riportato il voluto permesso dall'Ufficio di Polizia Municipale.
Ad un tempo, siccome l'esperienza dell'anno scorso avrebbe dimostrato che l'attuale assistente non sarebbe in grado di dirigere colla voluta attenzione tali opere, lo scrivente crederebbe bene che venisse surrogato da un altro più capace ed attivo.
D. Bosco deferì alle prescrizioni del Sindaco, ma volle intercedere per l'impresario. Certamente questi non aveva contraccambiato la fiducia che in lui era stata riposta. Per la sua avidità di guadagno, e per le prestazioni che certa persona interessata esigeva dai fornitori, la costruzione della chiesa di S. Francesco avea costato più di quel che valesse. Eppure D. Bosco non si piegò a sciogliere il contratto finchè tutti i lavori convenuti non fossero finiti. Rifuggiva dalle liti, ed estrema era la sua delicatezza nel non giudicar male del prossimo, anche quando erano trascurati i proprii interessi. Dopo le prudenti informazioni assunte, posta fiducia in qualcuno, non così facilmente credeva che potesse esserne tradito o ingannato. La carità faceva velo alla sua perspicacia, che pure era così penetrante. Con molta facilità [597] accettava ragioni e scuse nelle cose materiali, e ne diede prove in molte circostanze. Tuttavia da parte sua non intendeva mai permettere lo spreco, neppur di un centesimo, perchè sarebbe stato un'offesa alla giustizia. Egli però aveva pronta a soccorrerlo una tesoriera celeste, che garantivagli i suoi sussidii e che permetteva di quando in quando certe perdite, anche notevolissime, perchè voleva con ciò fosse con evidenza dimostrato che non gli uomini, ma ella stessa era quella che edificava.
La fiducia in Maria SS. gli toglieva ogni turbamento nell'accudire agli affari anche più spinosi. Non di rado andava ne' paesi de' dintorni di Torino, ora per far panegirici, ora per le quarantore, e a confessare e talora a suonar l'organo. Spesse volte era accompagnato dal coro de' suoi cantori. Si ricorda che il 16 maggio recossi a S. Vito, dove erano stati condotti gli alunni di scuole elementari per celebrarvi una festa in onore di S. Luigi Gonzaga.
Gli operai intanto avevano riprese le costruzioni, mentre D. Bosco e i suoi benefattori volgevano il pensiero anche alla chiesa. Il Cav. Duprè comprava una balaustrata di marmo e ne faceva abbellire la cappella e l'altare di S. Luigi. Il signor Marchese Fassati provvedeva una balaustrata anche in marmo, e una muta di candelieri di ottone bronzato per la cappella della Madonna. Il campanile mancava ancora di una conveniente campana poichè l'antica era troppo piccola. Il Conte Cays però rimediava a quel difetto. Eletto per la seconda volta Priore della Compagnia di S. Luigi, egli lasciava un segno duraturo della sua carica, provvedendo una sonora campana, che co' suoi acutissimi squilli continuò per anni a chiamare i giovanetti della città all'Oratorio festivo. Nel giorno che fu benedetta e collocata a posto, si fece una particolare solennità con un gran concorso di gente appositamente [598] invitata. Compiè la religiosa cerimonia il Teologo Gattino, Curato di Borgo Dora, per domanda di D. Bosco delegato da Mons. Fransoni a quella funzione[30]. Lo stesso Curato tenne poscia un acconcio discorso, spiegando l'origine e i tre principali uffizi della campana espressi nel verso:
Laudo Deum verum, voco plebem, congrego clerum.
Dopo la sacra funzione venne rappresentata una commediola, che fu causa di molta allegria.
Il Conte Cays regalò pure il baldacchino col suo pendaglio ed altri drappi e tappeti, ed imprestò otto ricchissimi lampadarii, che avevano già servito di ornamento e fatta [599] splendida figura nelle sale della regina Maria Adelaide in occasione di sue nozze. Quindi la nuova chiesa dell'Oratorio, fornita degli oggetti più necessari al divin culto, potè prestarsi per la solenne Esposizione del SS. Sacramento nelle Quarantore, che si celebrarono per tre giorni consecutivi, con uno straordinario concorso di giovanetti e di altri fedeli. Per secondare il religioso trasporto e dare a tutti la comodità di soddisfare la propria divozione si fece a quei tre giorni seguire un ottavario di predicazione alla sera, il cui frutto si fu un numero incalcolabile di confessioni e comunioni, come se fosse stato in occasione di Esercizi spirituali o di sacra Missione. Quell'insolito fervore di pietà diede motivo a continuare le Quarantore negli anni successivi con regolare predicazione ed altre divote pratiche.
Ma le gioie dell'Oratorio non facevano dimenticare a D. Bosco l'afflizione di un suo venerando amico. Era continua la guerra del giornalismo settario contro il Vescovo di Asti Mons. Filippo Artico, e D. Bosco cercava di sollevarlo per quanto poteva dalle sue amarezze. Il buon Prelato era venuto alcune volte all'Oratorio di Valdocco e vi aveva passato qualche giorno. D. Bosco in tale occasione fece recitare da Francesia e da Tomatis la commediola da lui composta intitolata Lo Spazzacamino, e Monsignore ne fu tanto contento che, domandata licenza a D. Bosco, donò al protagonista un intero vestito nuovo.
Ora tra i preparativi delle feste di S. Luigi e di San Giovanni in Valdocco, D. Bosco invitò Mons. Artico alla solennità del santo titolare dell'Oratorio di Porta Nuova. Venne il Vescovo e da una sua lettera che scrisse a Don Bosco si intende la parte che egli prese alla festa, le basse e continue contumelie dei giornali contro di lui, il loro maligno spionaggio di ogni suo passo, le calunniose insinuazioni, le [600] angoscie che ormai avevano stremato di forze l'affranto suo spirito, come pure il conforto che riceveva dalle lettere e dalle visite di D. Bosco.
Camerano, dal Palazzo Vescovile, il dì 9 Luglio 1853.
In buon punto mi giunse la carissima e cortesissima lettera sua per mitigarmi l'amarezza prodottami dalla lettura del giornalaccio da trivio L'Operaio d'Asti. Più che non mi offendano le ingiurie dei maligni, mi confortano le benevoli espressioni dei savi, ed appunto leggendo la sua affettuosa lettera provai una soave consolazione.
Iddio pietoso in questi sette anni, in cui son fatto bersaglio delle calunnie de' miei persecutori, ha sempre fatta a me la grazia che contemporaneamente ricevessi insulti e conforti, lettere o articoli infernali, lettere o visite angeliche. Finora tacqui sempre rimettendo la causa mia nelle mani del Signore, e posso ben dire anch'io col cantico di Zaccaria: Salutem ex inimicis nostris.
Infatti l'articolo a lei già noto dell'Operaio, che lesse in Torino, e quello che si stampò nella scorsa domenica, porge a Lei, D. Giovanni carissimo, l'opportuna occasione, ed apre la via per scrivere e dare in luce nella Gazzetta Ufficiale, ciò che la modestia sua non le avrebbe permesso parlando di sè . Giacchè nella pagina 4ª, colonna 1ª dell'Operaio 3 Luglio N. 40 (che c’è Germando qui impiegato) si osò scrivere da un corrispondente di cotesta capitale, come vedrà, che io non potei predicare, e giacchè si ebbe l'impudenza di mentire così sfacciatamente, citando il nome suo, tanto rispettato in Torino e fuori, ed il suo Oratorio ecc., ritengo necessario che Ella [601] nel modo che più crederà conveniente, smascheri e confuti il bugiardo corrispondente, e narri ciò che Ella con centinaia di persone vide ed udì. Sa il cielo se io ambiva di funzionare e predicare; ed Ella pure il sa, o D. Giovanni carissimo, se colla tosse che mi tormentava e col calore che mi opprimeva aveva io voglia d'improvvisare alcun discorso.
Invece è di fatto che mi dispensai da molti inviti fattimi in altre chiese, e sol o per sentimento di affetto verso di Lei e de' suoi cari artigianelli, ho assistito alla sua festa, perchè invitato e non intruso in essa. Insomma, poichè Ella mi si offerse spontaneamente di scrivere all'Operaio, se ardiva parlare di me per ragione della festa ed Oratorio di S. Luigi, e poichè lo stesso Avvocato Torelli ed altri la richiesero di ciò, parmi che tutto concorra per obbligarla a confutare le menzogne e calunnie de' miei perpetui nemici (benchè pochi) narrando solo l'accaduto e citando fatti. La prego però a tacere della colezione del mattino e della lotteria della sera, perchè non sembri aver io comprato il favore de' suoi artigianelli; al più può dire che partendo dopo la festa (come è di fatto) volli pur io lasciare una memoria al Pio Istituto, ove giungendo incognito e all'improvviso nella Domenica (26 Giugno p. p.) fui accolto e salutato con Viva spontanei, potendosi dire che mentre l'Operaio in Asti stampava e pubblicava un crucifigatur contro di me, in Torino s'intuonava l'Osanna dai figli spirituali di D. Bosco. Io invece imponeva silenzio e pregava a non più gridare: Viva Monsignore.
Mi sembra che anche in nome di tutti i suoi artigianelli possa Ella protestare contro l'Operaio ed il calunnioso corrispondente di Torino, che è un certo professore Gatti, per quanto si assicura.
Si provochi a declinare il suo nome e frattanto lo si denunzi al pubblico come diffamatore e bugiardo ecc. Basterebbe, [602] è vero, la benedetta lettera che Ella mi scrisse ieri, cioè in data del 6 corrente e da me ricevuta il dì 8, per chiudere la bocca a certuni; ma nè posso nè devo io lasciarla stampare.
Per confutare poi le indegne calunnie dello stesso Operaio che asserì tante falsità, e sopra tutto che io non fui ricevuto dai Ministri, potrebbe firmarsi sotto all'articolo anche il Teologo Granetti, testimonio oculare dell'accoglienza fattami dai Ministri; anzi è necessario che esso Granetti, nella sua qualità di segretario o pro-segretario di Mons. Vescovo Renaldi, protesti contro la calunnia lanciata nella pagina 1ª dello stesso Operaio qui unito, contro di me e del Vescovo di Pinerolo, a cui si fece dire ciò che non disse; ed attestare invece che mi trattò ed abbracciò come fratello e mi trattenne seco tre are circa e ben lungi dal dirmi, abdicate, mi aggiunse, anzi ecc. Forse a Mons. Renaldi non conviene un tale atto, benchè sarebbe un gran bene se si degnasse fare inserire nella Gazzetta Ufficiale due linee, dicendo: Dichiaro tutta falso e calunnioso quanto il giornale l'Operaio (3 Luglio p. p. N. 40) scrisse intorno alla conferenza da me tenuta con Mons. Artico Vescovo d'Asti, o simili altre espressioni.
Se poi il Teol. Granetti volesse scrivere invece un articoletto a parte da inserirsi nella stessa Gazzetta Ufficiale, narrando ciò di cui fu testimonio, e confutando la calunnia intorno a Gioberti, avendo esso letto le lettere a me scritte (il che può fare anche D. Bosco se crede) forse andrebbe meglio.
Ella allora, anzichè il Teol. Granetti, potrebbe firmare la relazione che Ella scriverà, o D. Giovanni carissimo, il Rettore dell'Oratorio, il Conte Cays ed il Regolatore Radicati di Brozzolo.
Ma io chiudo rimettendomi pienamente a Lei.
Tempus tacendi et tempus loquendi; fiat lux; mentita est iniquitas sibi. [603]
Mi saluti i suoi chierici e buoni artigianelli, alle orazioni loro raccomandandomi, ed alle sue, o D. Giovanni carissimo. Legga e consegni al Teol. Granetti il qui annesso foglio.
Mons. Artico e Mons. Fransoni, finchè vissero, furono i Vescovi più odiati e perseguitati dai nemici della Chiesa.
SE LE belle feste degli Oratorii di D. Bosco attraevano migliaia di giovani all'istruzione religiosa, un numero anche più grande dei figli del popolo imparavano a vivere secondo le leggi di Dio e della Chiesa dai Fratelli delle Scuole Cristiane: quand'ecco questi ricevere dal Governo una dispiacente comunicazione.
Il Ministro della guerra, il 30 luglio, con una circolare, li informava essere revocate le concessioni fatte loro da Carlo Alberto nel 1839 e nel 1842 con cui li esonerava dall'obbligo del servizio militare. Erano quindi sottoposti alla legge comune. Non si tenne conto della loro infaticabile operosità, dello zelo, della religione, del merito segnalato nell'educazione del popolo minuto. Questo era un colpo da maestro contro le scuole dei buoni Fratelli. La gioventù torinese a poco a poco avrebbe perduto molti de' suoi catechisti.
Ma quasi per mettere riparo ai gravi danni che avrebbe recato la deficienza di tali maestri, il Ministro Cibrario pubblicava il 21 agosto 1853 un'Istruzione per l'attuazione dei [605] programmi nelle scuole elementari. Notiamo qui ciò che riguarda il Catechismo e la Storia Sacra, non senza lamentare l'esclusione dell'autorità ecclesiastica da ogni ingerenza nel pubblico insegnamento. Nello stesso tempo rileviamo quanto grande importanza si desse ancora in questi anni da un Ministro del regno all'educazione religiosa della scolaresca.
Per la prima elementare si leggono i seguenti articoli
“Art. III. Spiegazione e studio dei Piccolo Catechismo.”
Siccome la prima parte del Catechismo non è la stessa nella varie Diocesi, perciò onde togliere ogni dubbio e mantenere l'uniformità nell'insegnamento, nella 1a elementare si insegnerà: - Gli esercizi del Cristiano per la mattina e per la sera, l'Orazione Domenicale e la Salutazione Angelica anche in latino; le lezioni del Catechismo che trattano dell'unità di Dio, del mistero della SS. Trinità, dell'Incarnazione del Figliuolo di Dio, della venuta di Gesù Cristo alla fine del mondo, e dei due giudizi, universale e particolare.
Per insegnare bene e con frutto il Catechismo deve il Maestro por mente alle seguenti cose: 1° che questo insegnamento venga dato nelle scuole con quella serietà e con quel raccoglimento con cui si insegna la preghiera. Quindi il Maestro prepari con diligenza le sue spiegazioni, affinchè non gli esca di bocca parola od esempio che non risponda convenientemente al delicato soggetto che ha per le mani; e dove s'incontri in qualche proposizione che ben non comprenda, ricorra ai consigli delle persone religiose e dotte, e curi di rendersi ragione di ogni verità o precetto che nel Catechismo si contenga.
2° Non ponga mano ad esso senza aver insegnato le prime lezioni di Storia Sacra, cioè quelle che trattano della [606] Creazione del mondo, della caduta di Adamo, della promessa del Redentore ecc., poichè il racconto di questi fatti giova assaissimo ad illustrare le verità fondamentali della dottrina cristiana: quindi l'insegnamento della Storia Sacra deve camminare di conserva con quello del Catechismo.
3° Non costringa i fanciulli a mandare a memoria le domande e le risposte senza avere sì le une che le altre acconciamente dichiarato in modo facile e piano e senza essersi assicurato per mezzo di dialoghi maestrevolmente condotti, che gli alunni attribuiscono alle parole di cui consta la domanda e la risposta un preciso significato.
4° Ottimo precetto è pur quello che viene raccomandato da parecchi scrittori di far riunire insieme le varie risposte e recitare di seguito, affinchè gli alunni si avvezzino a collegare le cognizioni imparate ed a passare con facilità dalle une alle altre senza l'aiuto delle domande.
Art. IV. Storia Sacra - Racconti orali fatti prima dal Maestro,
poi ripetuti dagli alunni, di alcuni fatti principali del
L'insegnamento della Storia Sacra deve camminare di conserva con quello del Catechismo. E perchè nella 1a elementare non si ingombrino le tenere menti degli allievi con molti e minutissimi fatti e lunga serie di nomi e di date, il Maestro esporrà colla massima semplicità e chiarezza: la creazione del mondo e dell'uomo, la caduta di Adamo e la promessa d'un Redentore, la morte di Abele, il diluvio, la dispersione dei popoli, la vocazione d'Abramo, il sacrificio d'Isacco, la schiavitù del popolo Ebreo in Egitto e la sua liberazione per opera di Mosè , la nascita del Salvatore. [607]
Nel dare questo insegnamento il Maestro si varrà di autori “approvati” e ridurrà le sue lezioni a semplici e brevi racconti. Ciascuno dei quali egli esporrà con precisione, e spiegando all'uopo quei vocaboli che fossero nuovi pei fanciulli: 2° per mezzo di interrogazioni condurrà gli allievi a scomporre il racconto medesimo, accompagnandolo con quelle riflessioni che si presenteranno opportune, e traendo dal medesimo quei principii morali, che sono di cotanto aiuto nell'indirizzo pratico della vita, e quei documenti che servono a provare la verità della dottrina cristiana, Finalmente farà ricomporre il racconto così esaminato e si ripeterà intiero da uno o più allievi.
Fra la seconda e terza elementare è divisa la restante materia, del Catechismo fino al fine; e della storia sacra per la seconda elementare i fatti dei patriarchi fino alla divisione dei regno di Giuda, e per la terza fino alla venuta del Redentore.
Il maestro di queste due classi doveva al principio dell'anno ripetere e spiegare in modo più ampio le lezioni, sia sul catechismo sia sulla storia sacra, date nell'anno antecedente.
Riguardo al Catechismo nota l'Istruzione: “Il maestro della seconda potrà pure esercitare i giovani ad interrogarsi a vicenda su quelle parti del catechismo che già furono spiegate; cosicchè essi ne apprendano non solo le risposte, ma ancora le domande, ne ritengano il nesso e sappiano discorrere con facilità e prontezza dal principio alla fine di qualunque paragrafo.
Per la 4 classe elementare: - Istruzione religiosa - La terza e quarta parte del grande catechismo della Diocesi, cioè quelle che trattano diffusamente dei comandamenti di Dio e della Chiesa e dei Sacramenti - e - Storia Sacra del nuovo testamento. [608]
Chi mai colla sua esperienza avrà consigliato ed aiutato, il Ministro Cibrario a formare un programma così opportuno? Chi vi fece inserire la prescrizione che i libri di Storia Sacra fossero approvati e, naturalmente, da quella sola autorità che ne aveva il diritto? Non sappiamo; ma è certo che il Cibrario veniva in quest'anno più volte in Valdocco e s'intratteneva con D. Bosco in lunghi e serii ragionari; e lo videro tutti gli alunni dell'Oratorio. Senza dubbio non parlavano di politica.
Ma se il Ministro ordinava provvedimenti di ordine generale pel bene della gioventù, D. Bosco doveva anche studiarne altri di non poco rilievo, d'interesse suo proprio e de' suoi giovani. Aveva risolta la distruzione della Giardiniera, bettola impiantata in casa Bellezza, divisa da un solo muriccio dal nostro cortile. Come abbiamo già detto, colà convenivano nei giorni di festa i buontemponi, i giuocatori ed i bevoni, ed altra gente di simil fatta, compresi alcuni discepoli dei protestanti ai quali l'apostasia aveva rifornita la borsa. Organini, pifferi, clarinetti, chitarre, violini, bassi e contrabassi, ed omne genus musicorum da piazza e da trivio vi si succedevano nel corso della giornata; anzi non di rado e in certe ore del pomeriggio erano contemporaneamente tutti insieme raccolti a far concerti, sicchè avveniva che i cantori della Cappella restassero confusi e come soffocati dai rumori e dagli schiamazzi. Erano al vivo rappresentati i figli del secolo da una parte, e i figli della luce dall'altra, la città del diavolo e la città di Dio. Il nostro D. Bosco, per cancellare la mala impressione che poteva lasciare nell'animo dei giovani quel disordine, ne coglieva sovente l'occasione di ricordar loro le parole del Vangelo: Il mondo esulterà e voi sarete nella tristezza; ma fatevi animo, chè la tristezza vostra sarà convertita in gaudio: Mundus gaudebit; [609] vos autem contristabimini; sed tristitia vestra vertetur in gaudium.
Ma era uopo far cessare affatto quel disordine, e Don Bosco vi si applicò con tutto l'ardore. Vedeva i pericoli per i suoi cari giovani e conosceva pure quelli che a lui sovrastavano se avesse cercato impedire le riunioni scandalose. Però la sua virtù abituate rendevalo imperterrito. Da prima egli cercò di fare acquisto di quella casa; ma poichè la padrona, la signora Teresa Catterina Novo vedova Bellezza, non aveva intenzione di venderla, non si potè far nulla. Allora le propose di prenderla a pigione; ma l'affittaiuolo che vi aveva aperta la bettola reclamava dalla padrona danni favolosi, pretendendo una indennità spaventosa. Solito a confidare negli aiuti della divina Provvidenza e nella carità dei benefattori, D. Bosco non si arrestava alla grave difficoltà di questa nuova spesa. In quel mentre però veniva a morire l'esercente di quella malabolgia; e sua moglie, benchè più di lui onesta, continuava a tener aperta l'osteria.
D. Bosco cominciò ad amicarsela col salutarla, poi con pregarla ad imprestargli qualche utensile di cucina, in ultimo col comprare da lei a quando a quando qualche pietanza cotta, specialmente nei giorni di festa. Questa donna a poco a poco acquistò grande stima per D. Bosco, il quale un giorno avutala a sè le disse, se pensava di continuare per tutto il tempo di sua vita a tenere osteria e se non aveva ancora riflettuto come ogni giorno fosse un accrescimento continuo di legna per l'inferno, nel quale sarebbe caduta.
La donna rispose: - Lo so, lo capisco; ma come faccio altrimenti a vivere?
- Io avrei un progetto per assicurarvi un'esistenza senza rimorsi. [610]
- Sentiamo; chè io sarei ben contenta di cessare da questo mestiere.
- Il mio progetto sarebbe di rilevare a mio conto la vostra osteria.
- Bisogna vedere se madama Bellezza sarà contenta.
- Quanto a questo ci penso io e sono sicuro che si contenterà.
- Se la cosa è così, dice benissimo; ma e che cosa io farò dì tutto il mobilio dell'osteria? Bottiglie, litri, piatti, pentole, padelle, bicchieri, banchi, tavolini, botti, seggiole, ecc.?
- Io comprerò pure tutta questa roba; sceglieremo due periti, ed io vi darò quella somma che essi stabiliranno.
- Ma ho ancor da pagare qualche mese di fitto!
- Ben parlato: io tengo l'affare come conchiuso.
Fatta la perizia del mobilio dell'osteria, ogni cosa fu generosamente pagata. Quando mamma Margherita vide trasportare in sua casa centinaia di bottiglie vuote di ogni forma e valore, e litri e mezzi litri, e mastelli e panche ed altri oggetti che pel momento sembravano inutili, esclamò: - E che cosa ne faccio di tanti turaccioli, tavolini da caffè, caffettiere, bicchieri?
- Lasciate fare, mamma, rispondeva Don Bosco, ogni cosa a tempo e luogo verrà opportuna. Ciò che facciamo è pel meglio.
Intanto l'albergatrice continuava ad occupare alcune stanze, e D. Bosco temendo che si pentisse e si ritraesse da un contratto fatto solamente a voce, le fece suggerire da alcune persone di sua fiducia come la prudenza richiedesse di non riporre cieca fiducia nella promessa dell'indennizzo abbastanza vistoso che D. Bosco doveva sborsarle, e che perciò si facesse [611] stendere per iscritto due linee di obbligazione. E il contratto venne firmato da ambe le parti, colla condizione che l'ostessa sloggiasse.
Ma i frequentatori di quell'osteria non è a dire come imbizzarrissero a questa novella e tante ne dissero con malignità a quella buona donna contro i preti, che dopo pochi giorni venne piangendo a trovare D. Bosco, dicendogli che era stata ingannata. - Non so dove andare, gridava; rompiamo il contratto.
- Non è il caso, rispondevagli D. Bosco. Procurerete di cercarvi qualche altra abitazione.
“In quel mentre, ci raccontò Giovanni Cagliero, entrai per caso nella retrosagrestia e vi trovai D. Bosco, Buzzetti ed una vecchia donna che noi chiamavamo la Giardiniera. Essa era adirata contro D. Bosco, perchè aveala licenziata dalle stanze della sua osteria. - D. Bosco le rispondeva pacatamente di aver bisogno di quelle stanze perchè le voleva occupare per scuole di giovanetti esterni. Tale infatti era il suo primo disegno. La vecchia allora preso un aspetto come di una furia, urlò: - Lei è un bugiardo! - D. Bosco le rispose: - Oh infelice! Una donna dare dei bugiardo ad un prete! Buzzetti, Buzzetti! conducila fuori questa donna!
Ed io corsi subito a presentargli una sedia, perchè lo vidi impallidire e bisognoso di sedersi, tanta era la violenza e lo sforzo che dovette fare a se stesso per dominarsi, e conservarsi calmo”. Infatti rientrata in sè poco dopo quella donna e con sentimenti più miti, D. Bosco potè toglierle ogni prevenzione che simile contratto avesse qualche cosa di odioso per lei, e la persuase a cercarsi in Torino alcune stanze, concludendo: - Io vi pagherò il fitto di tre mesi E così fece, e quella donna si pacificò.
D. Bosco accomodato così il negozio andò subito a visitare la proprietaria che abitava in Torino, le narrò quanto [612] aveva fatto, e quella buona cristiana approvò. A questo modo D. Bosco potè dirsi padrone di metà di quella casa. E più non si udirono risuonare bestemmie e canzonacce scandalose. D. Bosco appigionò immediatamente quelle stanze a gente quieta e di timorata coscienza: ma questa, non ostante mille promesse antecedenti, o non poteva pagar pigione o si abusava della pietà compassionevole del prete, sapendo che non avrebbe fatto ricorso ai tribunali. Intanto l'altra metà della casa, benchè più tranquilla, continuava ad essere un covo d'iniquità E D. Bosco si presentò di nuovo alla padrona e le chiese di voler appigionare a lui solo tutto quell'edifizio. La signora esitò. Non trovava il suo conto a concedere tutte quelle stanze ad un solo inquilino temendo che gli restasse ad un tratto spigionata tutta la casa. Soleva affittare ogni stanza mese per mese. D. Bosco allora le propose di stendere un contratto di affitto per più anni, e così madama fu contenta.
“Lo stabile, scrisse il notaio, consisteva in due cantine verso mezzogiorno. Al piano terreno tre camere a mezzogiorno, altra nel corridoio, due altre verso mezzanotte. Al primo piano tre camere verso mezzogiorno e tre altre verso mezzanotte. Al secondo piano quattro camere a mezzogiorno ed altra nel corridoio e due a mezzanotte. Due pergolati grandi, tutti e due in buono stato, sostenuti dai rispettivi pali pure in buono stato; e una lunga siepe verso mezzanotte”. L'affittamento incominciava col 1°di ottobre 1853 fino a tutto settembre 1856, mediante l'annua somma di lire 950. Fu poi rinnovato per altri tre anni dal 1° ottobre 1856 a tutto settembre 1859 per l'annua somma di lire 800, colla clausula però che il contratto fosse risolvibile di anno in anno, previo avviso tre mesi prima della scadenza. [613] D. Bosco, appena avuta per sè tutta quella casa, licenziò gli antichi inquilini. Ma alcuni non vollero sgombrare, mentre altri andarono ad allogarsi altrove, allettati da grosse mance. Fu lunga impresa e dispendiosa poichè per giunta nessuno volle pagare la pigione arretrata dovutagli; anzi vi fu chi trascorse a insulti, a minacce e perfino ad attentati alla sua vita, come diremo. Tuttavia egli non guardava a sacrifizii, piuttosto che desistere dall'opera di premunire i suoi figli.
Fatte sgombrare quelle stanze D. Bosco dovette dar mano alle riparazioni e al ripulimento di quei locali[31], non badando a far altre spese; e vi collocò subito nuovi inquilini di sua fiducia, per assicurarsi che non avrebbe più ai fianchi nessun vicino pericoloso. Desiderava però, come era giusto, [614] di ritrarre da quella casa la somma necessaria per pagare la proprietaria. Non volendo mettersi egli in persona a questionate per i fitti, pose alla testa di questo suo affare un certo
Mar….., facendo patto che costui si prenderebbe cura di riscuotere le pigioni, e pel suo disturbo avrebbe il dieci per cento sulle somme riscosse. Ma l'amico intascava e teneva tutto per sè . Invano D. Bosco lo invitava a versargli le somme dovute, invano lo mandava a chiamare perchè rendesse i conti. Ora con un pretesto, ora con un altro, il suo agente temporeggiava sempre. Così la cosa andò per ben quattro anni, senza che D. Bosco ritraesse un centesimo dagli inquilini. Finalmente messolo D. Bosco alle strette con una intimazione risoluta, Mar…., che abitava in quella stessa casa, rispose:
Se vuole, vado via! - E gli consegnò le chiavi, e se ne andò senza restituire nessun danaro a D. Bosco, cui toccava pagare tutta la pigioni a madama Bellezza.
Il danaro che dovette spendere D. Bosco per causa della Giardiniera, a conti fatti, oltrepassò la somma di 20,000 lire; pure, sebbene sprovvisto di tutto, ebbe il necessario in maniere sempre provvidenziali.
Finalmente la signora lo tolse da quel gravoso impaccio col venir ella stessa ad abitare in quella casa. È vero che per il suo naturale pretendente D. Bosco ebbe a sostenere non poche liti e intimazioni per mezzo di usciere, poichè le era limitrofo; ma ciò era nulla a petto delle passate vicende cogli antichi inquilini. Tuttavia D. Bosco cercò di comperare quella casa, ma inutilmente perchè la padrona non volle saperne di vendere. I suoi figli però essendo favorevoli a quella vendita, morta la madre nel 1883, stipularono il contratto con D. Bosco il 22 febbraio 1884 per 110,00 lire, che rimase finalmente padrone della casa e di tutto il podere annesso così raddoppiando quasi lo spazio dell'Oratorio. [615] In questa guisa egli aveva distrutto il secondo baluardo del diavolo, che s'innalzava vicino alla casa del Signore, aveva disseccata la mala sorgente di iniquità, che scorreva in quei dintorni, e si era fatto padrone assoluto del campo nemico. Oggidì in quei luoghi stessi, dove Iddio in passato ebbe a ricevere tante offese, si innalzano al Cielo preghiere e canti di gloria.
MENTRE D. Bosco adoperavasi a tutt'uomo nel distruggere l'osteria della Giardiniera, la Divina Bontà ricompensavalo colle consolazioni da lui più desiderate. Un certo Sig. L.….. era annoverato fra i migliori commercianti della città dì Torino. Aveva un'ottima moglie, un'eccellente figlia ed un figlio di nome Luigi in sui 14 anni, di bell'aspetto, docile ed ubbidiente. Egli però era uomo dato ai bagordi, conduceva sempre cattiva gente in casa, cagione questo di gravi dissapori con sua moglie. Tutti i danari che guadagnava erano spesi in giuoco, mangiare e bere. Se aveva danaro, era sempre ubbriaco; se non ne aveva faceva il matto e batteva quei di casa. Aveva fatti molti debiti, e non sapeva come pagarli nè da qual parte rivolgersi. Il suo commercio andava male, tantochè ben presto [617] si trovò nella miseria. Qualche buona persona lo consigliò a ricorrere al parroco ed alle opere di beneficenza; ma egli respinse sdegnosamente quella proposta. Non era mai stato di quelli che avvicinano i preti e non sentivasi il coraggio di porgere la mano e domandar l'elemosina.
Finalmente un perfido amico conoscendo il suo caso gli disse che presso i protestanti avrebbe trovato grande carità fraterna e che bastava frequentare le loro prediche e dar loro il proprio nome, per essere soccorso, senza umiliazioni. Così fece quel disgraziato negoziante; ascoltò le prediche dei protestanti, e dai loro danari avendo conosciuto il tornaconto di quella religione, non esitò di darvi il suo nome e così cominciò ad essere protestante. Da quel momento più non gli mancò il necessario per la famiglia.
Un bel giorno però il ministro protestante lo fece chiamare e gli disse: - Buon cittadino, debbo avvisarvi di una cosa, ed è che non possiamo più dare sussidii a quelli che appartengono alla nostra chiesa, se anche la loro famiglia non vi è ascritta; onde finchè vostra moglie, vostra figlia, vostro figlio non siensi fatti anch'essi protestanti, io devo sospendere quel tanto che vi dava in fine di ciascuna settimana.
Il negoziante acconsentì, e persuaso che la moglie non avrebbe fatta alcuna difficoltà ad abbracciare la religione di suo marito, ritornato a casa radunò la famiglia e fece la sua proposta.
La moglie non potè contenere la sua indignazione e chiamando il marito apostata, traditore della sua religione, conchiuse che sarebbesi piuttosto lasciata fare a pezzi, anzichè farsi protestante.
Il marito, montato sulle furie, gridò di avere stabilito che tutta la famiglia abbracciasse la religione della Riforma, che egli nominava la santa riformata. [618]
- Come! la moglie gli rispose: quella religione che si gloria di avere un vostro pari, io la chiamo non religione riformata, ma la chiamo religione degli ubbriaconi!
Non avesse mai parlato così quella povera donna! Il marito diede mano ad un bastone e al primo colpo la distese a terra come morta. Quella non diede un grido, non emise un lamento. Ma il figlio Luigi: - Papà, gridò; papà, che cosa volete fare? Volete uccidere mia mamma? - Aveva appena proferite quelle parole, che un violento calcio lo spinse sin fuori dell'uscio. Per quel giorno il marito si tenne di quel furore. La moglie rinvenne, ma risoluta di non rinnegare la sua religione. Essa però tollerava finchè fu possibile le maniere del brutale marito. Ogni giorno erano nuove scene d'inferno.
Una sera egli venne a casa ubbriaco, mentre la famiglia aveva passato tutto il giorno con un po' di pane; era dopo mezzanotte ed egli conduceva seco più altre persone di bel tempo e con uno che suonava l'organino.
- Su via, egli disse con gran voce, alzatevi tutti, è tempo di ballare e non di dormire.
La moglie addusse che l'ora era tarda, che essa era alquanto ammalata, e che simile cosa li avrebbe messi in burla presso i vicini. Tutto invano. Fu giuocoforza levarsi di letto, fare alzare gli altri e mettersi a ballare. Nessuno può immaginarsi il disgusto che cagionò a tutta la famiglia una somigliante follia. Per tutte queste pazzie, unite ad una continua minaccia di percosse e di morte se non si abbracciava la religione protestante, la moglie fuggì di casa e la figlia la seguì. Ambedue presero a servire in una casa, amando meglio esporsi a patire qualunque male piuttostochè vivere in pericolo di perdere l'onore e la religione.
Così quel negoziante rimase solo in casa col figlio Luigi, che ogni settimana conduceva alla predica dei protestanti. [619] Da prima Luigi piangeva, dicendo di non voler assolutamente continuare, poi s'acquetò e sembrava non andasse mal volentieri. Il padre finalmente lo interrogò se era deciso di farsi anch'esso protestante, facendogli osservare che con questo mezzo si sarebbe procurato un pezzo di pane.
Luigi si pose a ridere e non di più. Il padre, supponendo quel ridere un segno di affermazione, avvisò il ministro protestante che il giorno seguente il figlio avrebbe rinunciato al Cattolicismo e si sarebbe fatto scrivere nel suo catalogo. Ma Luigi aveva meditati altri disegni. Ammaestrato dalla saggia sua madre e dalla sorella, consigliato da D. Bosco, quando il padre entrò in casa per condurlo al tempio, non lo trovò più. Senza far parola con nessuno, era fuggito di casa lasciando scritto sopra un pezzo di carta: Piuttosto la morte che farmi protestante.
Pensate in quali smanie diede il padre nel vedersi così scornato. Riflettendo al disonore e alle beffe cui era esposto presso a' suoi compagni, si diede a cercare il figlio da tutte parti, per vincere il suo punto; ma per fortuna non gli fu dato di trovarlo.
Dov'era egli fuggito? Nell'Oratorio di S. Francesco di Sales presso D. Bosco. Quivi nelle prime settimane stette quasi nascosto; poi essendosi messo coi compagni che incominciavano a parlare di quel fatto, Don Bosco raccomandò maggior precauzione a Luigi e segretezza agli altri. Avendo saputo più tardi che il padre continuava ostinatamente nelle sue ricerche, lo allontanò per qualche tempo mandandolo in luogo sicuro. Finalmente, svanito ogni pericolo, si potè richiamarlo e vivere tranquilli.
Poco tempo dopo i compagni conducevano a D. Bosco un giovanetto di diciassette anni nato protestante valdese, il quale di bell'ingegno, percorse con profitto le scuole, aveva [620] studiato la Bibbia e letti molti libri ostili al Cattolicismo ed era stato imbevuto dei loro pregiudizii. Il suo cuore però nobile e generoso si sentì attrarre dalla bontà di D. Bosco. Tenute con lui alcune conferenze, sentì dileguarsi ogni avversione contro la vera Chiesa di Gesù Cristo. Fattisi perciò chiarire tutti i dubbii che gli avevano posto in campo i ministri, dopo aver superate molte difficoltà per parte de' parenti, abiurò infine i suoi errori e si rese cattolico. Quei della sua casa sdegnati lo scacciarono dalla famiglia; ma egli rimase saldo nella fede. D. Bosco gli diede ospitalità nell'Oratorio, ed il giovane imparò un mestiere e col suo lavoro potè guadagnarsi onestamente il pane della vita.
Dopo queste due perdite uno smacco maggiore ebbero a soffrire i protestanti e quelli che seguivano il loro partito. Con arti sataniche avevano tentato di insinuare il loro veleno nelle menti della scolaresca cattolica.
La Giunta incaricata di rivedere i libri di testo in uso nelle pubbliche scuole, trovando che la traduzione dei Racconti di Storia Sacra del Canonico Schmid non era in buona lingua, ne aveva procurata una nuova edizione, che venne fatta in Genova. Ma in questa erasi adoperata la versione dell'eretico Diodati per tutti i testi che il Canonico Schmid aveva tratto dalla Bibbia. I Vescovi, scoperta quella frode, ne avvertirono i fedeli; e poi lo stesso Ministro Lanza vietò che si usasse nelle scuole quell'edizione.
Intanto D. Bosco, egli che faceva dettare ogni anno gli esercizi spirituali a' suoi giovani per infervorarli sempre più nella pietà e nell'amor di Dio, recavasi a S. Ignazio. Ci scrisse il Sig. Spinardi Pasquale:
“Io feci ancora gli esercizi spirituali al Santuario di Sant'Ignazio presso Lanzo Torinese, ed a pranzo io era alla tavola di D. Bosco, incaricato dai superiori di tenere il buon [621] ordine e la sobrietà. Per quei dieci giorni santi, D. Bosco era il nostro Lumen Christi. Al dopo pranzo, andavamo a fare la ricreazione nei prati, sotto il Santuario, ma non potevamo passare oltre le tre case poste sul confine di questi. Seduto D. Bosco sopra l'erba, allora verdeggiante, noi tutti gli facevamo circolo attorno, ascoltando ottimi esempi, sapientissime massime.”
Da S. Ignazio egli sorvegliava sempre il suo Oratorio ed era ferma persuasione non solo dei giovani ma anche dei chierici che in questo tempo facesse varie visite alla Comunità, e vedesse, benchè lontano di persona, quanto in essa accadeva. Giungevano infatti biglietti di D. Bosco che avvisavano un disordine avvenuto, come per es. di alcuni che invece di recitare le orazioni coi compagni alla sera, eransi appartati per giuocare, e dal fatto avvenuto, al giungere dell'avviso, non era possibile che D. Bosco in nessun modo ne avesse ricevuta relazione da Torino.
Ritornato in città, faceva distribuire, pel mese di agosto, agli associati delle Letture Cattoliche un suo nuovo opuscolo intitolato: Fatti contemporanei esposti in forma di dialoghi. Egli così lo incominciava:
“Al Lettore. - La materia contenuta in questo fascicolo sono fatti storici che vidi io stesso o furono riferiti da persone che ne furono testimoni oculari. Io non ho fatto altro che esporli in forma di dialogo.
Per motivi ragionevoli ho stimato di omettere i nomi di alcune persone a cui si riferiscono.
Io mi raccomando ai padri e alle madri di famiglia, affinchè facciano leggere e spieghino alla loro figliuolanza questi fatti, che potranno servire di norma nell'operare e di preservativo nelle critiche circostanze in cui l'incauta gioventù in questi procellosi tempi si trova.” [622]
Sette erano i dialoghi: Un ministro protestante che alletta col denaro un infelice ad abbandonare la Chiesa Cattolica; un apostata che racconta ad un buon amico le cause della sua perversione; un ravveduto che narra i motivi del suo ritorno al Cattolicismo, specialmente per la lettura degli Avvisi ai Cattolici e per le ragioni udite da un buon Sacerdote sul dogma dei Sacramento della penitenza; un infermo grave che domandati invano i soccorsi religiosi per morir bene al suo ministro, manda a chiamare un prete suo antico confessore; un moribondo che, agitato dai rimorsi, supplica il Ministro protestante a permettergli l'assistenza di un prete cattolico, e muore, barbaramente abbandonato, senza Sacramenti: in fine i lamenti di una madre con un sacerdote per la mutata condotta di un suo figliuolo, che era prima un eccellente cristiano; incontro del figliuolo suddetto, ingannato dalla lettura di libri cattivi ed ascritto ad un'empia società di operai, col sacerdote stato suo amico intimo fin dall'infanzia, e suo commovente ravvedimento.
Finita la spedizione di questa operetta e consegnata al tipografo quella del mese venturo, così scriveva al suo professore Teol. Appendino in Villastellone:
“Direzione centrale delle Letture Cattoliche.
Dunque siamo alle spese di V. S. car.ma. Domani pel vapore delle 10 sono da lei con un chiericotto segretario per doppio scopo; per fare una dormita e scrivere; perciocchè sono sopraccarico di lavoro e sfinito di forze. [623] Tolleri questo disturbo in nomine Domini e il Signore ne le darà ricompensa. La saluto con tutta effusione di cuore e mi creda
I saluti alla rispettabile di lei sorella.”
D. Bosco aveva bisogno di vivere qualche giorno tranquillo. Aveva compiuti i primi dodici fascicoli di Letture Cattoliche, e di questi circa 120.000 copie erano state diffuse tra il popolo e lette avidamente di mano in mano che uscivano. Furono per i protestanti quello che in un combattimento sono i cannoni a mitraglia. Di qui le ire si sollevarono come un incendio. Essi provaronsi a combatterli sui giornali e colle Letture Evangeliche; ma era impossibile competere con la verità, e colla inarrivabile semplicità di stile e chiarezza di D. Bosco, quindi presso i loro adepti facevano una pessima figura.
Allora coll'intento di far desistere D. Bosco dall'opera sua si appigliarono alla disputa con lui, persuasi che a quattr'occhi lo avrebbero o convinto o svergognato. Gli stessi proseliti, tanto superbi quanto ignoranti, credevano che nessun prete cattolico potesse resistere alle loro ragioni. Pertanto presero a recarsi all'Oratorio ora in due, ora in parecchi insieme, per iniziare discussioni religiose. In generale le loro dispute consistevano nel gridar forte, e saltare di questione in questione senza mai venire a termine di alcuna. Egli per altro non dava mai a divedere di essere stanco di loro; ma li riceveva ogni volta cortesemente, ne udiva con molta [624] pazienza e calma le difficoltà e gli strafalcioni, e poi rispondeva loro con ragioni così chiare e forti da metterli, come si dice, al muro. A quest'uopo stava sopratutto attento a non lasciarli saltare di palo in frasca, da un argomento all'altro, come cercano di fare gli eretici nelle dispute coi Cattolici; ma obbligavali a rimanere sulla questione finchè non fosse appieno esaurita, facendo loro, per così dire, mettere la mano sulla verità o sull'errore. Alcuni, che erano di buon conto, si ritrattavano pur anche; altri, non sapendo che rispondere, nè volendo darsi per vinti, uscivano in ischiamazzi e villanie, a cui D. Bosco si contentava di soggiungere: “Miei cari amici, le grida e le ingiurie non sono ragioni”; e così li rimandava confusi. Si raccomandava eziandio perchè esponessero le difficoltà ai loro ministri e poi gli fossero cortesi di comunicargli lo scioglimento dato.
In una di quelle tornate un interlocutore per nome Pugno, confessando di non saper tenere fronte a Don Bosco, conchiuse: “Noi non sappiamo rispondere, perchè non abbiamo studiato abbastanza: ma se fosse qui il nostro Ministro! Egli è un'arca di scienza, e con due parole fa tacere tutti i Preti”. A cui D. Bosco: “Dunque fatemi un piacere, soggiunse; pregatelo che un'altra volta venga ancor esso con voi. Ditegli che io lo attendo con vivo desiderio”. La commissione fa fatta, ed ecco un bel giorno presentarsi all'Oratorio il ministro Meille con due altri principali Valdesi residenti in Torino. Dopo i soliti complimenti di buona educazione, si cominciò la disputa che si protrasse dalle undici ore antimeridiane sino alle sei della sera. Troppo lungo sarebbe il riferire in questo luogo quanto fu detto in quella circostanza; ma di un fatto giova fare particolare menzione. La discussione, dopo essersi raggirata sulla autenticità della Sacra Scrittura, sulla tradizione, sul primato di S. Pietro e [625] suoi Successori e sulla Confessione, era finalmente caduta sul dogma del Purgatorio. D. Bosco aveva provata questa verità di fede colla ragione, colla storia, colla Scrittura dell'antico Testamento e pur col Vangelo, servendosi all'uopo del testo latino e della traduzione italiana. - Queste conversazioni furono poscia scritte da D. Bosco, ed uscirono nei fascicoli delle Letture Cattoliche nei primi anni di loro pubblicazione. - Or bene, uno dei contradditori non volendosi arrendere disse: “Il testo latino ed italiano non basta, bisogna andare alla fonte genuina; bisogna consultare il testo greco”. A queste parole D. Bosco dà tosto di piglio alla Sacra Bibbia stampata in greco, ed “ecco, disse a colui, ecco, signore, il testo greco; consulti pure e vi troverà il pieno accordo col testo latino ed italiano”. Quel poverino, che sapeva meno il greco che il cinese, non osando confessare la propria ignoranza, tolse con gran sussiego il libro, e si pose a sfogliarlo da capo a fondo, simulando di cercare il passo in questione. Ma che? Il caso volle che egli prendesse il libro a capo volto. D. Bosco, che se n'era accorto, lo lasciò sfogliare per un buon pezzo, e poi accostatoglisi: “Scusi, amico, gli disse, ella non trova la citazione perchè tiene il libro a rovescio: lo volti così”, e glielo pose in mano pel suo verso. Come si rimanesse colui è più facile immaginare che dire. Fattosi rosso in faccia come un gambero cotto, gettò il libro sul tavolo; e così fu terminata la disputa. Venne a visitarlo anche Amedeo Bert per ottenere da lui che cessasse dal tenere e dallo stampare i suoi trattenimenti, cosa che eccitava i protestanti a massima rabbia; ma non riuscì.
Da queste ed altre simili prove i Protestanti si avvidero, che colla persuasione indarno si lusingavano di far desistere D. Bosco dalle sue pubblicazioni contro la loro setta. Perciò risolvettero di ricorrere ad un altro mezzo, che credevano [626] più efficace; ricorsero cioè alla venalità e poi alle minacce. Era dunque una domenica mattina del mese di agosto 1853, verso le ore 11, quando si presentarono nell'Ospizio due signori, domandando di parlare con D. Bosco. Quantunque stanco per aver poc'anzi detto Messa e predicato, egli li fece tosto andare in sua camera, pronto ai loro cenni. Intanto, per un sinistro sentore che ispiravano quei due sconosciuti, parecchi giovani interni, tra cui Giuseppe Buzzetti, non poterono trattenersi dal montare la guardia all'uscio di Don Bosco. Dopo i primi convenevoli, uno di quei due signori, che forse era un ministro valdese, prese a dire così:
Ministro. - Lei, sig. Teologo, ha sortito dalla natura un gran dono, quello cioè di farsi capire e farsi leggere dal popolo: perciò noi siamo a pregarla che voglia impiegare questo prezioso talento in cose utili alla scienza, alle arti, al commercio.
D. Bosco. - Veramente, secondo le deboli mie forze, ho fatto finora quello che Lei mi suggerisce; ho pubblicato un compendio di Storia Sacra, di Storia Ecclesiastica, un opuscoletto sul Sistema metrico decimale e più altre operette, che l'applauso, con cui furono accolte, mi fa arguire che non fossero inutili. Ora il mio pensiero è rivolto alle Letture Cattoliche, di cui intendo di occuparmi con tutto l'animo, perchè te giudico appunto di sommo vantaggio alla gioventù ed al popolo.
M. - Sarebbe assai meglio che Lei si applicasse a comporre qualche operetta per le scuole, come per es. un libro di storia antica, un trattatello di geografia, di fisica, di geometria, e non di Letture Cattoliche.
D. B. - E perchè non di queste Letture?
M. - Perchè quella, che vi si tratta, è una materia già fritta e rifritta le tante volte e da molti. [627]
D. B. - È vero; questa materia fu già trattata da molti, ma in grossi volumi di erudizione, che fanno pei dotti e non pel basso popolo, a cui mirano di proposito i piccoli e semplici opuscoletti delle Letture Cattoliche.
M. - Ma questo lavoro non Le reca alcun vantaggio; al contrario, se Lei attendesse alle opere che le proponiamo, procaccerebbe anche un bene materiale al meraviglioso Istituto, che la divina Provvidenza Le ha affidato. Prenda dunque; qui vi è un'offerta (erano 4 biglietti da mille franchi), e non sarà l'ultima; chè Le promettiamo che ne avrà delle altre ed anche maggiori.
D. B. - Per qual ragione tanto danaro?
M. - Per intraprendere le opere proposte, e per coadiuvare questo suo Istituto, non mai abbastanza lodato.
D. B. - Mi scusino le Loro Signorie, se restituisco questo loro danaro. Per ora io non posso attendere ad altro lavoro scientifico, se non a quello che concerne le Letture Cattoliche.
M. - Ma se questo è un lavoro inutile.
D. B. - Se è un lavoro inutile, che importa ad essi? Se è un lavoro inutile a che questa somma per impedirlo?
M. - La S. V. non bada all'azione che fa; con questo rifiuto Lei cagiona un grave danno al suo Istituto, ed espone la sua persona a certe conseguenze, a certi pericoli...
D. B. - Miei signori, capisco quello che con queste parole vogliono significarmi; ma dichiaro loro alto e tondo, che per amor della verità io non temo alcuno. Facendomi Sacerdote mi sono consacrato al bene della Chiesa Cattolica e alla salute delle anime, particolarmente della gioventù. A quest'uopo ho incominciata, e intendo di continuare la pubblicazione dette Letture Cattoliche, e di promuoverla con tutte le mie forze. [628]
M. - Lei fa male, soggiunsero quelle due facce sinistre, con voce ed aria alterata, alzandosi in piedi. Lei fa male e ci offende. Epperò chi sa che ne sarà di Lei?... Se uscisse di casa sarebbe Ella ancora sicura di rientrarvi?
Quei due sciagurati pronunziarono queste parole, con un tono sì minaccioso, che i giovani, i quali stavano di guardia e avevano inteso tutto quel dialogo, ebbero timore che facessero del male a D. Bosco, e mossero l'uscio per dare ad intendere che vi era gente pronta ad entrare al primo segno. Ma il nostro buon padre per nulla atterrito rispose a coloro e disse - “Ben vedo che le SS. LL. non conoscono i Preti cattolici poichè altrimenti non si abbasserebbero a queste minacce. Sappiano adunque che i Sacerdoti della Chiesa Cattolica, finchè sono in vita, lavorano volentieri per Dio; e se mai nel compiere il proprio dovere ne dovessero soccombere, riguarderebbero la morte per la più grande delle fortune, per la massima gloria. Cessino adunque dalle loro minacce, chè io me ne rido”.
Da queste coraggiose parole di D. Bosco quei due eretici parvero così irritati, che fattiglisi più dappresso stavano per mettergli le mani addosso. A quella vista egli prese prudentemente la sedia in mano, e soggiunse:
- “Se volessi adoperare la forza, ben mi sentirei di far loro provare quanto costi cara la violazione di domicilio di un libero cittadino; ma no; la forza del Sacerdote sta nella pazienza e nel perdono; ma è tempo di finirla. Partano dunque di qua”. Così parlando, e fatto un mezzo giro attorno alla sedia che teneva in mano servendosene come di scudo, aprì l'uscio della camera, e vedutovi il giovane Giuseppe Buzzetti, “conduci, gli disse, questi due signori sino al cancello; essi non sono guari pratici della scala”.
A questa intimazione quei due si guardarono l'un l'altro, [629] e dicendo a D. Bosco: “Ci rivedremo in un momento più opportuno”, se ne uscirono con volto infiammato e cogli occhi scintillanti di sdegno.
Nè meno sdegnati e con buona ragione erano i giovani dell'Ospizio, che, accorsi alle bravate di quei due satelliti, avevano udite le minacce fatte a D. Bosco. Se mai avessero avuto la baldanza di scendere a vie di fatto, avrebbero avuto ancor essi il diritto, e si sarebbero sentiti abbastanza in forze, da mostrare quanto amore albergasse loro in petto a difesa del comun padre.
La baldanza degli eretici contro D. Bosco giungeva al punto di minacciare per questo che l'Oratorio era isolato in mezzo ai campi, e lungo il giorno era quasi deserto, essendo gli studenti e gli artigiani in città alle loro scuole e laboratorii D. Bosco conoscendo che alle minacce sarebbero succeduti i fatti, pensava eziandio alla convenienza di avere nelle vicinanze qualche edifizio che gli servisse come di antemurale co' suoi inquilini. Il suo voto era un'altra casa religiosa. L'unica Congregazione che avrebbe potuto secondare in que' tristi giorni il suo disegno, con sicurezza di stabilità, era quella dei Rosminiani. Ne aveva tenuto parola all'Abate Rosmini, e in massima si era concluso. Rosmini avrebbe comperato un terreno vicino all'Oratorio in Valdocco. Ivi avrebbe costrutto uno spazioso edifizio, stabile dimora di una famiglia de' suoi religiosi. Questi sacerdoti avrebbero dato mano a D. Bosco nelle confessioni, nella predicazione e nel far progredire l'opera degli Oratorii.
La presa in considerazione di questo progetto e un foglio ricevuto consigliava a D. Bosco la seguente lettera: [630] “Direzione centrale delle Letture Cattoliche.
Ho ricevuto la lettera di V. S. Car.ma, scrittami relativamente all'affare di un sito vendendo, e godo assai che il Padre Generale venga a Torino; così spero di avere il piacere di parlargli e vederlo. Siccome però ho più richieste di varie persone che desiderano fare acquisto di parte di tal sito, così avrei bisogno che Ella potesse dirmi circum circiter a qual tempo il prelodato Padre Generale sarà a Torino; nel qual caso io potrò differire la conclusione di ogni contratto parziale fino alla deliberazione affermativa o negativa del venerat.mo Sig. Abate Rosmini.
Se può farmi un riscontro in proposito mi fa molto piacere, ed io dirò a S. Francesco di Sales che le voglia molto bene. Mi ami nel Signore e mi creda di V. S. Ill.ma e Car.ma
Sac. BOSCO GIO. (Biricchino)”.
L'Abate Rosmini non tardava a giungere in Torino, e dopo essersi inteso con D. Bosco, poichè sperava da quel progetto ritrarre una grande utilità spirituale, ritornava a Stresa lasciando a D. Bosco in imprestito 3000 lire a breve cadenza. Era stato testimonio delle sue strettezze ed aiutavalo in quanto poteva. Ciò apparisce chiaro dalle due seguenti lettere. [631]
“Direzione centrale delle Letture Cattoliche.
All'Ill.mo e Rev.mo Signore il Sig. Ab. Antonio Rosmini Stresa,
Le vendite del sito che io giudicava compiute andarono tutte a vuoto; i compratori che mi avevano fatto inchiesta non comparvero più.
Egli è per questo che prego V. S. Ill.ma a darmi una dilazione del pagamento della somma che nella sua bontà mi ha imprestato nella bella occorrenza che Ella fu qui a Torino; la dilazione sarebbe di quattro mesi, ben inteso che le corrisponderò coll'interesse legale. Qualora però nell'esecuzione de' suoi affari avesse bisogno d'incassare tale somma farei in modo di farla tosto a lei tenere, o dove Ella mi dirà.
Persuaso del favore e della sua bontà a mio riguardo, Le auguro ogni bene dal Signore raccomandandomi di cuore alle sante di lei orazioni con dirmi
Veneratissimo e Carissimo D. Giovanni,
In risposta alla riverita sua del 15 corrente, il mio Superiore D. Antonio Rosmini m'ingiunge di scriverle che egli le accorda volentieri la proroga di altri quattro mesi al [632] pagamento delle 3000 prestatele, a quel modo a cui Ella ne fa dimanda in detta sua lettera, significandole però che per quella scadenza egli fa sicuro e certo assegno sulla detta somma.
Tanto per commissione del prelodato mio Superiore che caramente la riverisce e meco si raccomanda alle orazioni sue. E coi sensi di perfetta stima e sincera venerazione, mi onoro di professarmi
LE VACANZE autunnali delle scuole duravano quattro mesi, e D. Bosco non poteva soffrire che in questo tempo i suoi alunni stessero in ozio, e studiava i modi per occuparli seriamente e con diletto. Quindi li mandava a ripassare gli studii fatti lungo l'anno, ovvero ad imparare qualche materia accessoria da alcuni sacerdoti o da qualche Fratello delle Scuole Cristiane, suoi buoni amici. Cagliero, Francesia e Turchi tre volte alla settimana salivano sulla collina alla villa di D. Picco perchè il professore facesse loro un'ora di ripetizione. Fra l'andata e il ritorno era una passeggiata di circa due ore e mezzo con gran vantaggio della loro sanità. Per molti D. Bosco variava tali studii ogni anno. Ora suggeriva gli elementi di lingua greca o francese; ora la storia antica o moderna. Un anno proponeva l'aritmetica, un altro il disegno, o gli elementi di astronomia, o lezioni di geografia, e abbozzi delle carte topografiche di [634] varii Stati e province. Sovente li addestrava a scriver lettere ritenendo che il comporle convenientemente non è cosa delle più facili. Nello stesso tempo esortavali a cercare nei loro, scritti la semplicità di stile, ma li avvertiva che questa semplicità doveva essere frutto di lunghi studii sui classici; e loro ne proponeva alcuni perchè attentamente li meditassero. Ripeteva loro l'avviso datogli da Silvio Pellico di tener sempre sopra il tavolino il vocabolario e di non stancarsi, usandolo continuamente nei dubbi del significato di una parola o del valore di una frase e per sfuggire le inesattezze ed i gallismi. Se avessero usate tali diligenze li assicurava che avrebbero acquistata nello scrivere una chiarezza invidiabile e che, qualora il Signore li chiamasse allo stato ecclesiastico, le loro prediche da tutti sarebbero state intese e perciò sempre care al popolo.
In quanto ai chierici poi dimostravasi ancor più esigente perchè mettessero a frutto il loro tempo. La vigilia di San Giovanni i chierici avevano gli esami finali. Il giorno di S. Giovanni egli nulla diceva, e li lasciava in libertà; ma il domani incominciava a chiamare l'uno e l'altro:
- Ebbene, siamo in vacanza. Faresti saggia opera a leggere il Rohrbacher, il Salzano, il Bercastel. Vi sono tante belle cognizioni da acquistare. - E cosi praticò eziandio allorchè i chierici avevano frequentata l'università, fatta scuola di latinità nell'Oratorio e studiato teologia prendendo l'esame regolare in seminario'
Di ciò non ancora soddisfatto, mostrava sempre un vivo desiderio che studiassero i classici latini ecclesiastici. Fin dal 1851 e 1852 egli in tempo di vacanza spiegava, e tanto bene, a Rua Michele e ad altri suoi alunni varii brani di questi sacri autori, specialmente le lettere di Gerolamo, e insisteva che le traducessero, mandassero a memoria e commentassero. [635]
Cercava di infondere negli altri il proprio entusiasmo, e provava gran pena nel sentire come alcuni professori distinti deridessero il latino della Chiesa e dei Padri, chiamandolo con disprezzo latino di sagrestia. Egli diceva che coloro i quali disprezzavano la lingua della Chiesa si mostravano ignoranti delle opere dei Santi Padri, i quali in buona sostanza formano da soli la letteratura latina di più secoli, e una splendida letteratura che per molti lati eguaglia nella forma l’età classica e per magnificenza di idee la supera infinitamente, come il cielo la terra, la virtù il vizio, Dio l'uomo. Anzi soggiungeva che per eleganza di stile, grazia di lingua, robustezza e sublimità di concetti alcuni di essi ottengono il primato sugli stessi scrittori del secolo d'Augusto; e lo dimostrava.
Ebbe su questi argomenti a sostenere dispute con personaggi dottissimi in belle lettere, benchè sempre con prudenza e con carità. E le sue ragioni erano tali da trarli alla propria opinione. Aveva anche un argomento suo proprio diceva: - È un delitto disprezzare il latino dei Santi Padri. Noi cristiani non formiamo una vera società, gloriosa, santa, divina? Questi scrittori ecclesiastici non sono nostri e nostra gloria? E perchè disprezzare le cose che ci appartengono, e trovare solo il bello nei nostri nemici, nel Paganesimo? E questo si chiama amore alla propria bandiera, alla Chiesa, al Papa? - E non risparmiò rimproveri allo stesso Vallauri che aveva stampato qualche nota critica sullo stile e sulla lingua dei Santi Padri, dimostrandogli come avesse torto a non voler vedere il bello di que' preziosi volumi.
Quando Pio IX nel 1855 in una sua Enciclica sciolse la questione sorta tra Mons. Dupanloup e il Gaume, decidendo che si doveva unire bellamente lo studio dei classici pagani con quello dei classici cristiani, per rivestire con lingua [636] latina, purgata ed elegante le idee cristiane, dando norme in proposito, D. Bosco ripeteva essere le sue idee in perfetto accordo con quelle del Papa.
Egli non disprezzava i classici profani latini. Li aveva studiati, ne possedeva dei lunghissimi brani nella memoria e li commentava maestrevolmente, ma vedeva eziandio come questi potevano essere pericolosi senza il correttivo degli autori ecclesiastici e dei loro insegnamenti. “La rivoluzione francese, egli osservava, ha preso le proprie massime dagli scrittori del paganesimo, anzi sono questi che formarono quella generazione di sicarii. E da ciò ne vennero le deplorabili rovine che tutti sanno. Le idee di patria, di odio agli stranieri, di gloria acquistata colla forza brutale, di vendetta encomiata, di superbia, di Dio stato, di conquiste ecc. sono quelle che guastano le menti tenerelle dei giovani, e che fanno giudicare viltà la soave mitezza del cristianesimo.
Coi sopraddetti ammaestramenti, occupazioni e studii nel 1853 erano trascorsi due mesi di vacanza.
D. Bosco pel mese di settembre aveva preparato e stampato un'operetta senza nome d'autore divisa in due fascicoli col titolo: Esempi di virtù cristiana ricavati da varii autori. Era quasi un respiro che si permetteva nel combattimento contro i Valdesi, i quali però non si lasciavano sfuggir occasione per insultare la Chiesa.
L'8 settembre solevasi fare la solenne processione colla statua della B. V. delle Consolazioni, pel voto che ricordava la liberazione di Torino da un fortissimo esercito nel 1706. Il simulacro però di argento puro, che pesava 14 Mg. essendo stato rubato il 18 aprile, e rimasti nascosti i predoni, si era sostituito una bella statua in legno. Ma la processione in quest'anno mancò della estrinseca mostra di pompa militare [637] e fu abbandonata al ludibrio dalla ciurmaglia. La guardia nazionale e le truppe di linea non assistettero alla funzione per far parata e mantenere il buon ordine. Così aveva comandato la Gazzetta del Popolo. E i tristi che, mercè le arti della propaganda Anglicana e Valdese, erano molti ed audaci, poterono impunemente a tutto loro agio pigliarsi il brutto spasso di gettarsi a frotte attraverso la processione, con cappello in capo e laide contumelie in bocca, dileggiando il clero e beffandosi dei sacri riti. Quel simulacro della Vergine così insultalo acquistollo più tardi il Marchese Fassati, quando il Santuario si fornì di una statua coperta di una lamina d'argento, e lo donò alla nostra chiesa di S. Francesco di Sales ove tuttora si venera,
Intanto l'addolorato Pontefice dava prova di accondiscendere a quelle domande che non erano contrarie alla sua coscienza, e toglieva l'occasione di molti peccati. Vittorio Emanuele gli aveva esposto il bisogno del popolo ed il desiderio del Governo che fosse diminuito pel Piemonte il numero dei giorni festivi di precetto a fine di provvedere col lavoro alle necessità dei sudditi. Il Papa acconsentiva e con Breve del 6 settembre toglieva dal numero delle feste di precetto la Circoncisione, S. Maurizio, la Purificazione, l'Annunziazione di Maria SS., S. Giuseppe, i lunedì dopo Pasqua e dopo Pentecoste, e Santo Stefano: in tutto otto giorni festivi In questi però nulla dovevasi cambiare in quanto a liturgia, officiatura o funzioni.
A D. Bosco rincrebbe che la festa di S. Maurizio e dei martiri della legione Tebea perdesse di sua importanza presso il popolo, e fece stampare dalla litografia Doyen un'immagine di questo glorioso Santo che era il protettore di tante opere buone in Piemonte. La commemorazione del suo martirio ricorreva il 22 settembre, ed egli distribuì molte copie [638] di quell'immagine. I santi della legione di questo martire c'entravano per qualche cosa nel custodire l'Oratorio, come assicurava D. Bosco.
Anche la sua divozione verso la Beata Vergine egli volle affermare in modo speciale. Mandava quindi la seguente supplica alla Curia Arcivescovile di Torino.
Ill.mo e Rev.mo Sig. Vicario Generale,
Il Sacerdote Bosco Giovanni in una chiesa di sua proprietà posta nel borgo di Morialdo appartenente alla parrocchia di Castelnuovo d'Asti suole celebrare da tre anni la festa del Santo Rosario facendo precedere la novena. Di più si faceva ogni sera un breve discorso e si dava la benedizione col SS. Sacramento. La medesima facoltà di dare la benedizione si estendeva alle altre feste della B. Vergine e di S. Giuseppe. - E questo tutto nelle ore che non disturbano le funzioni parrocchiali, e di pieno consenso col Prevosto del luogo.
Ora il ricorrente desiderando procurare il medesimo spirituale vantaggio a que' popolani (avendo il regnante Pio IX conceduta l'indulgenza plenaria nel giorno della festa del Rosario, e trecento giorni ciascun giorno della novena) supplica V. S. Ill. e Rev. a voler concedere e rinnovare la medesima facoltà con un decreto da durare altri tre anni.
Risposta del Vicario Generale.
“Si concede permesso annuo riservandoci di dare un apposito decreto per gli anni futuri ricorrendosi più per tempo.
In questo mentre D. Bosco faceva spedire agli associati pel mese di ottobre il fascicolo anonimo: Trattenimenti famigliari sopra i comandamenti della Chiesa. Un Curato nella bottega di un sarto, il cui figlio apprese massime cattive nella sua dimora alla Capitale, confuta le obbiezioni di questi, provando come la Chiesa abbia diritto di far leggi e quanto grandi siano i vantaggi che provengono all'umana società dai cinque comandamenti registrati dal catechismo.
D. Bosco, sbrigato questo negozio, sul finir di settembre partiva per la passeggiata autunnale, e giunto a Chieri col giovane Francesia e varii altri, nello scendere dalla vettura, s'imbattè in un signore che lo salutò e gli domandò se ancora lo riconoscesse. D. Bosco lo fissò e poi rispose: - Sì; ci siamo incontrati sette od otto anni fa in Torino sopra il Ponte di Po. - Quel signore rimase meravigliato, perchè la cosa era proprio così. D. Bosco continuava ad avere una ritentiva, diremo, miracolosa. Egli infatti non solo de' suoi giovani, che erano usciti dall'Oratorio, ma anche dei loro parenti, riteneva il nome e la fisonomia anche dopo una lunga serie di anni. La sua mente non era mai stanca.
Giunto ai Becchi, aspettato dal fratello Giuseppe, da sua madre, incominciò la novena della Madonna del Rosario che [640] per lui era occasione di ascoltare al tribunale di penitenza molti fedeli. Non tardarono a sopraggiungere altri giovani insieme coi cantori. Nel loro viaggio rimanevano sempre incantati nell'udire ovunque andassero ripetersi da tutti le lodi di Don Bosco, specialmente quando era giovanetto. Seppero a Chieri che le madri dicevano ai loro figli: - Ti permetto di andare con Bosco, ma con altri assolutamente non voglio. E allo stesso Bosco: - Rendi buoni i miei figli come lo sei tu.
Era ammirabile in ogni virtù, ma sopratutto angelico nella pratica della castità. Era attento a schivare i condiscepoli ed altri poco riserbati nel parlare e nell'operare. Il signor Bertinetti Carlo residente in Chieri spesso parlava al giovane Savio Angelo molto favorevolmente di Bosco e per lo studio e per la pietà in cui si distingueva fra tutti.
Il Dottor Allora, D. Luzerna, D. Oddenino Francesco narravano loro che in seminario il Ch. Bosco era di una condotta così esemplare che i condiscepoli solevano chiamarlo il santo, perchè come tale lo tenevano; e vedendo qualche seminarista di condotta non abbastanza edificante egli si faceva a questi buon consigliere: che i Superiori del Seminario lo proponevano per modello di pietà e di temperanza; e che in nessun modo ei cercava di procacciarsi danaro per sè , ed era sempre consultato dai compagni intorno agli studii.
A Castelnuovo era vivo il ricordo della sua vestizione clericale, della sua prima messa celebrata in paese, del suo modo di stare all'altare, del suo straordinario raccoglimento e della turba di giovani che gli correvano incontro. Ripetevano il suo elogio dei tempi quando era fanciullo, come fosse riservato ne' suoi atti, castigato nelle sue parole e come anche qui i parenti consigliassero i loro figliuoli ad accompagnarsi con Bosco persuasi della sua morigeratezza. Lo conoscevano assai circospetto nel fuggir coloro che parlavano male. [641]
A Morialdo poi il fratello Giuseppe lo descriveva minutamente, dicendo ai giovani che lo interrogavano: - D. Giovanni, ancor prima che vestisse l'abito Ecclesiastico coglieva ogni occasione per discorrere di religione e di atti di pietà coi giovanetti suoi compagni. Raccontava esempi di santi. Pregava molto durante i lavori campestri, e le madri lo additavano ai loro figli come modello di preghiera; era molto dato alla frequenza dei Sacramenti. Crescendo in età, cresceva in lui il desiderio di amare Dio e di farlo amare dagli altri. Con vero trasporto accorreva ai catechismi e alle prediche, e poi le ripeteva alla famiglia ed ai compagni. Era innamorato della castità fino dalla sua fanciullezza; puro e casto appariva in ogni sua azione e riservato ne' suoi divertimenti. Non proferì mai una parola che avesse la minima allusione a cose meno oneste; mai si vide divertirsi colle fanciulle che abitavano le case vicine. - E questa testimonianza era confermata dal Vicario Teol. Cinzano.
Non è a dire quanto gli alunni godessero nell'ascoltare le lodi del loro buon padre, e la felicità che provavano nel trovarsi con lui; ed egli sapeva da tutto ricavare motivi per ragionare del Signore. Ora dai fiorellini di un prato, altre volte dalle messi dei campi, tal altra dall'abbondanza e ricchezza dei frutti che pendevano dagli alberi e dai vigneti, talvolta dalle scoperte operate nelle viscere della terra conduceva il discorso a parlare della divina bontà e provvidenza. Talvolta ad ora tarda sull'aia innanzi alla sua casetta stava contemplando il cielo stellato, e immemore della stanchezza per aver ascoltate molte confessioni, intratteneva i giovani a discorrere dell'immensità, onnipotenza e sapienza divina. In tutte le circostanze sollevava il suo animo e quello degli altri alla contemplazione di Dio e della sua infinita misericordia, dimodochè ben sovente, asserisce D. Rua, avveniva ai [642] giovani di esclamare coi discepoli di Emaus: - Nonne cor nostrum ardens erat in nobis, dum loqueretur nobis in via?
E gli ammaestramenti e gli esempi di D. Bosco facevano anche molto bene alle popolazioni circostanti. Le frequenti comunioni de' suoi allievi le eccitavano alla frequenza delle chiese e dei Sacramenti, perchè mentre erano così vispi ed allegri, sapevano a suo tempo stare raccolti e fervorosi nell'onorare Dio colle pratiche religiose. D. Bosco conduceva eziandio la sua brigata a portare l'allegria e l'edificazione della pietà in qualche parrocchia vicina, per rendere colla musica più solenne una festa. Molta gente e specialmente i fanciulli si radunavano intorno a lui, ed egli, anche lungo le strade, non lasciava mai di dare a tutti qualche istruzione o di consigliare qualche esercizio divoto, che poi era praticato. Queste passeggiate furono uno dei mezzi per cui l'Oratorio crebbe in numero e in tanta fama.
Nel giorno della festa del Santo Rosario, D. Bosco benediceva la veste clericale del giovane Francesia Giovanni, il quale, come i chierici Rua e Buzzetti, era deciso di fermarsi nell'Oratorio ed aiutare il suo Direttore per tutta la vita. D. Bosco sperava da costoro un grande aiuto, che si riprometteva eziandio da tre altri giovani, Germano Giovanni, Marchisio, Ferrero, che avevano finiti gli studii di latinità; se non che un solo, poche settimane dopo, vestiva l'abito ecclesiastico e gli altri per varie cagioni rinunciavano ad uno stato che prima erano decisi di abbracciare.
In questi giorni era avvenuto un fatto che sempre più accresceva in tutti la stima che avevano per D. Bosco. Così lo narra il prof. D. Turchi Giovanni.
“Nel 1853 nelle vacanze andando con altri compagni a prendere lezioni di rettorica dal Prof. D. Picco alla sua villa sui colli di Torino, e noi imprudentemente fermandoci, benchè [643] sudati, sotto ombra fresca e nociva, io mi presi una forte costipazione. D. Bosco, vedendo che io non mangiava e deperiva, mi mandò a casa ove il medico mi praticò cinque salassi. Il male era vinto, ma io seguitava a stare in letto senza forze, e questo stato si prolungava, minacciando, credo, etisia.
Dopo qualche settimana D. Bosco, giunto a Castelnuovo per la festa del Rosario, mi venne a visitare, e sentito e visto lo stato in cui mi trovava, m'incoraggiò e mi diede la sua benedizione, dicendomi che doveva alzarmi, guarir presto e tornare all'Oratorio. Non ricordo se tosto al domani, ma certo cominciai presto ad alzarmi, compii bene e presto la mia convalescenza, e quindi ritornai all'Oratorio.
D'allora in poi ringraziando Iddio, non ho più avuto malattie. Io attribuisco la mia guarigione alla benedizione di D. Bosco, tanto più che dopo questa io non presi rimedii di sorta.”
I giovani intanto finivano allegramente le loro vacanze ai Becchi. D. Bosco era sempre con loro, tutto intento nel dare l'ultima revisione ad un suo almanacco. Fin dall'anno precedente aveva visto con grande dispiacere che i protestanti, per meglio introdursi nelle famiglie degli operai e spargere l'eresia con meno rumore e maggiore facilità, avevano dato alle stampe un almanacco, dove erano più numerosi gli errori che le parole. Essi lo chiamavano l'Amico di Casa; ma di amico non aveva che il nome, perchè portava a' suoi lettori il più gran male che si abbia qua in terra, qual è l'irreligione e l'empietà. Lo regalavano a chi lo voleva ed a chi non lo voleva. Lo trovavi sugli usci di casa: se lasciavi la finestra aperta, una mano maligna te lo gittava nella camera; nei laboratorii c'era chi veniva a regalarlo, e per le vie c'era chi lo dava gratuitamente. Acquistato questo libercolo, con sì poca fatica, si leggeva dalla gente senza timore od inquietudine, [644] e più d'uno s'immaginava d'aver tra le mani un libro di pietà. S'invocava il nome di Dio, si riferiva la pia conversione di questo e di quello, la rassegnazione che deve avere il peccatore e la confidenza nei frutti della redenzione; ma non si accennava mai alla Confessione, all'Eucaristia, alla divozione per Maria SS., e l'errore difficilmente si scopriva, oppure quando era troppo tardi. Ora D. Bosco, per disturbarli dall'opera tenebrosa, che questi eretici compivano a danno delle anime in Torino e pel Piemonte, pensò di metter mano anche ad un lunario, che prendesse il posto a quel falso Amico, istruendo e dilettando.
Adunque sul principio dell'anno una sera ad alcuni di quelli che si erano offerti ad aiutarlo nella composizione e diffusione delle Letture Cattoliche, aveva presentato il suo disegno, che piacque immensamente, ed esclamarono ad una sola voce: Bene! Bene!
- Ma come lo chiameremo il nostro almanacco? disse D. Bosco. Si sa che la gente va presa all'amo della novità. Spesso si lascia vincere da un solo nome un po' specioso. È come l'insegna di una bottega.
Qui i pareri furono molti e contrarii. Chi voleva che si chiamasse il Vero Amico di Casa. Ma D. Bosco fece subito osservare, che si correva pericolo di far la parte del gatto, che tira i marroni dalla cenere a servizio altrui. “Bisogna, diceva, che il nostro titolo abbia nulla da fare con quello de' nostri avversarii”.
Chi propose che si chiamasse l'Almanacco del Popolo chi della Gioventù; chi dell'Operaio; e chi anche con altri moltissimi nomi. Ma D. Bosco, dopo averli lasciati dire, venne fuori con il suo titolo bell'e preparato. Si fece perciò da tutti profondo silenzio ed egli poi, toccando del merito dell'uno e dell'altro nome, disse che l'almanacco, a cui si doveva [645] pensare, era da chiamarsi senz'altro: Il Galantuomo: strenna offerta agli associati delle Letture Cattoliche. - E così fu. Quei due o tre sacerdoti promisero l'opera loro.
Ora questo almanacco in ottobre era pronto, perchè bisognava furar le mosse all'Amico di casa. Il suo titolo e la sua orditura esporremo in poche parole.
Il Galantuomo - Almanacco Nazionale pel 1854 coll'aggiunta di varie utili curiosità. Dopo la prefazione metteva l'elenco dei membri della famiglia reale, annunziava gli ecclissi, dava una breve regola per gli orologi a tempo medio secondo il servizio delle strade ferrate e i numeri dell'anno. Veniva quindi il lunario con le indicazioni delle fiere dello Stato e le principali dell'estero a norma de' nuovi stabilimenti, la nuova tariffa delle monete e il valore delle monete estere del pari. Quindi ricette per l'economia domestica, riflessioni morali e religiose, esempi ed aneddoti interessanti per esaltare le virtù sublimi del clero e per combattere qualche errore de' Valdesi. Infine alcune poesie in lingua italiana, e in dialetto piemontese.
Di questo almanacco fece dono a tutti gli associati delle Letture Cattoliche, e poi ogni anno rinnovandolo e stampandolo in sedicimila e più copie si continuò fino ai giorni nostri.
“E’ veramente ammirabile D. Bosco, esclamava D. Rua, nel vederlo sostenere da solo e per lungo tempo una pubblicazione, che era una vera lotta contro gli errori degli eretici, e da lui continuata poi, coll'aiuto di altri zelanti scrittori, per tutta la sua vita”.
E in questo stesso autunno, come se ciò non bastasse alla sua attività, ritornato a Torino curava la pubblicazione commessa a Giacinto Marietti di 2000 elementi di grammatica greca, componendosi ogni opuscolo di cinque fogli, di cui il 10 febbraio 1854 il tipografo Marietti mandava la fattura a D. Bosco.
DE AGOSTINI, tipografo delle Letture Cattoliche, consegnava a D. Bosco divisa in due fascicoli l'operetta destinata per il fine di ottobre e per il principio di novembre. Aveva per titolo: L'artigiano secondo il Vangelo ossia la vita del buon Enrico Calzolaio, un volumetto anonimo, dedicato agli artigiani. Enrico Buche nato verso la fine del secolo XVI nella piccola città di Erlon nel ducato di Lussemburgo da poveri e oscuri operai, fin da fanciullo fu modello di tutte le virtù cristiane e, assiduo a tutte le istruzioni che si impartivano ai fedeli nella chiesa, si accostava con grande frequenza ai Sacramenti. Ben presto riuscì valente nel suo mestiere. Aveva per suoi protettori S. Crispino e S. Crispiniano e ne imitò gli esempi col dedicarsi alla salute eterna degli operai. Lasciata Erlon, fissò per molti anni la sua dimora a Lussemburgo e di qui venne poi a Parigi. Sua prima cura era sempre di cercarsi un capo bottega veramente cristiano e sempre lo trovò; e ovunque andò, con sante industrie, con eroici sacrifizii e colle [647] elemosine, si fece l'apostolo degli artigiani, strappandone un grandissimo numero dai lacci del vizio, e assicurandone la perseveranza nel bene. Divenuto capo di un'officina fu più che padre per i suoi giovani calzolai, e con sette de' suoi lavoranti, scelti fra i migliori, incominciò a far vita comune e religiosa nella propria casa. Egli aveva allora cinquanta anni, e ottenuta l'approvazione dell'Arcivescovo di Parigi, compilò un regolamento e diede principio alla Pia Società dei fratelli calzolai, la quale cresciuta bentosto in Parigi, di là si sparse in tutta la Francia ed anche in Italia. Il buon Enrico ne fu eletto a Superiore. Si vide allora senza la tonaca, senza i voti e senza il ritiro del chiostro, levarsi in mezzo al mondo e consolidarvisi uno stabilimento religioso mercè il solo spirito della carità e l'affetto al lavoro; e quei buoni operai, benchè liberi a grado loro di ritirarsi dalla società, non ostante le tentazioni e le persecuzioni, starvi attaccati con tanta tenacità, con quanta non si tiene per avventura un bambino al collo di sua madre. Il loro affetto alla regola e l'attenzione a non violarla era tale quanto appena uno potrebbe aspettare da ferventi religiosi. Tutti i giorni la preghiera in comune, l'assistenza alla santa Messa, il rosario, la lettura della vita del santo di quel giorno e canti di inni spirituali accompagnavano il lavoro non interrotto per ore determinate. Alla Domenica si confessavano, si comunicavano e dopo le sacre funzioni facevano visite agli ospedali, alle prigioni e ai poveri infermi nelle loro case e agli ospizii dei viaggiatori poveri, aiutando il buon Enrico nell'opera di conversione dei peccatori. Enrico fondò eziandio la Pia Società dei fratelli sarti, sul modello di quella dei calzolai, la quale riempì la Francia di santi operai.
In questi stabilimenti gli artigiani più poveri trovavano lavoro ed abiti, gli orfani imparavano gratuitamente il [648] mestiere, gli apprendisti erano assistiti, il vecchio inabile al lavoro veniva ricoverato, ed era provvisto l'operaio infermo e privo d'aiuto.
Ma uno dei meriti più segnalati di Enrico fu quello di aver cooperato efficacemente a disperdere l'empia società, detta la fratellanza degli operai, i cui membri si legavano col giuramento al segreto. Ogni domenica davano rappresentazioni di misteri e solennità cristiane per nascondere le loro iniquità, e quindi si radunavano a fraterni banchetti in certi loro antri, ove si abbandonavano ad ogni specie di gozzoviglie, empietà, scostumatezze e sacrileghi insulti all'ostia consacrata. Queste conventicole si erano sparse in tutta la Francia e in altri regni senza che nessuno sospettasse del loro perfido scopo. Ma finalmente avutone sentore le autorità ecclesiastiche e le civili, colle loro sentenze minacciarono e colpirono que' sciagurati. Enrico allora con pericolo della sua vita e sopportando ogni sorta d'insulti e di calunnie, tanto si adoperò e così grande moltitudine di operai strappò, convertendoli, a quella setta infame ed ipocrita, che in pochi anni scomparve dalla Francia, ed egli ne ebbe le benedizioni di tutto il clero di Parigi.
Il buon Enrico, vegeto e robusto fino ai 90 anni, fece a questa età viaggi a piedi di 200 leghe per visitare alcuni suoi stabilimenti, e devotissimo della Madonna, indefesso nel suo mestiere, umile come può esserlo un santo, moriva nel 1696.
Fu questo un libro ben adattato ai tempi, e D. Bosco lo distribuì a' suoi giovanetti, i quali voleva leggessero le Letture Cattoliche per confermarsi nella fede. Intanto tali opere facevano conoscere sempre più la copiosa dottrina sacra ed ecclesiastica, le sante e rette intenzioni dell'autore e confermavano nelle popolazioni una grande opinione delle santità di D. Bosco. [649]
Per la seconda metà di novembre aveva preparato il seguente volumetto: Vita infelice di un novello apostata. Sono tre conversazioni dell'apostata con un suo amico cattolico fervente, e portano i seguenti titoli: Perdita della tranquillità della mente - Perdita della pace del cuore - Perdita della buona riputazione. - È anonima questa operetta, ma noi ne abbiamo ancora le prime bozze di stampe che attestano, colle molte correzioni fattevi da Don Bosco, la sua pazienza e diligenza.
La Civiltà Cattolica, anno quarto, seconda serie, volume terzo, anno 1853, pagina 112, così giudicava queste pubblicazioni:
“Per contrapporsi alla propaganda eterodossa molti sono gli zelanti sacerdoti che non risparmiano fatiche nè spese. Tra questi ha un merito segnalato un modesto ecclesiastico, di cui s'è già fatto qualche cenno nella Civiltà Cattolica e che si appella D. Bosco. Egli è il promotore dell'associazione per le Letture Cattoliche, che sono una serie di trattenimenti o dialoghi sopra i capitali punti di religione. Nel fascicolo V si discorre del maomettismo, dello scisma greco, e segnatamente della setta valdese, di cui si esamina la vera origine e si palesa la mala fede. Librettini di piccola mole, pieni di soda istruzione, adattati alla capacità del popolo minuto, e tutta cosa opportuna per questi tempi; ecco il pregio di queste Letture Cattoliche.
Siane lode all'egregio D. Bosco; e i padri di famiglia, per quanto han cara la fede de' lor figliuoletti, se ne valgano per gittar loro nella mente i primi germi di una istruzione quale è richiesta dalla condizione dei tempi”.
Infatti D. Bosco nello scrivere non aveva altro fine che quello di far del bene. Non cercava la lode degli uomini. Il mio studio, diceva D. Bosco, nel predicare e nello scrivere [650] fu sempre ed unicamente rivolto a farmi intendere da tutti, sia nella esposizione come nell'uso dei vocaboli più semplici e conosciuti. - Egli parlava come scriveva e scriveva come parlava, sempre famigliarmente. Per assicurarsi di essere ben compreso da tutti, continuò a dare a leggere i suoi manoscritti a semplici operai poco istruiti perchè poi gliene riferissero il contenuto. Un giorno leggendo egli a sua madre il panegirico di S. Pietro, indicava il santo Apostolo col titolo di gran clavigero. Sua madre lo interruppe e gli chiese: - Clavigero! Dove è questo paese? - D. Bosco avvertì subito che quella era parola troppo difficile per intendersi dalle persone del popolo e la cancellò.
Ma l'evitare che egli faceva a bello studio le forme eleganti e poetiche era un'altra prova della sua umiltà. “Ricordo, dice Mons. Cagliero, che nelle famigliari conversazioni per animarci allo studio ci recitava a memoria dei bei passi di Orazio, di Virgilio, di Ovidio e di altri autori latini, e declamava belle poesie dei nostri poeti italiani. Eppure non avvenne mai che facesse pompa in pubblico di queste sue cognizioni, o le dimostrasse ne' suoi libri con qualche citazione. Chi non gli era più che famigliare, anche stando in casa, difficilmente poteva venir a conoscere la grande ricchezza letteraria che la sua mente possedeva, italiana, latina e greca”. I saggi nascondono il loro sapere; la bocca delle stolto si caparra rossori[32].
Malgrado le sue cognizioni storiche, geografiche, letterarie, allorquando doveva mandare alla stampa qualche opera, e anche qualche scritto di minor entità, davali sempre a rivedere a persone dotte in letteratura e scienza, come a [651] Silvio Pellico, al Professore Amedeo Peyron, al Prof. Matteo Picco, dicendo loro che gliene dessero il giudizio e che li correggessero come credevano meglio. Riceveva quindi con grande riconoscenza le loro osservazioni, e anche molti anni dopo le ricordava ancora a' suoi allievi con viva gratitudine. “Alle volte, dice Mons. Cagliero, si abbassava fino a far esaminare da alcuni di noi i suoi opuscoli e le lettere da pubblicarsi e da mandarsi ai benefattori delle sue opere”.
Quando poi ebbe de' suoi figli laureati in belle lettere dava a loro l'incarico di correggere i suoi scritti, ed accettava con tutta umiltà e riconoscenza le loro correzioni, persino quando non fossero state troppo opportune, o non sempre ragionate e conformi alle opinioni dei migliori autori; e ancorchè talora non chieste. E se talvolta non si facevano correzioni se ne lagnava, reputando che, per rispetto verso di lui, si fossero ommesse. Persino quando certe critiche erano dirette dal mal animo de' suoi avversarii non se ne teneva per nulla offeso. Solo quando vi era pericolo che ne andasse di mezzo la retta cognizione di qualche dottrina cattolica o l'edificazione del prossimo, egli rispondeva con tutta calma e rispetto.
Di lui ben si può dire: - Colui che è saggio di cuore, accetta gli avvertimenti. Non è come lo stolto, pel quale ogni parola è flagello[33] tanto mal volentieri ascolta le ammonizioni.
Nell'ottobre del 1853 eransi radunati circa quaranta sacerdoti torinesi nella casa del cappellano dell'Istituto delle Orfane, D. Masucco, e la maggior parte erano di coloro che mostravansi più zelanti per la cristiana educazione dei giovanetti. Volevano trattare della piega che prendevano le cose [652] del giorno riguardo alla Chiesa ed alla salute delle anime. Avevano fissato questo ritrovo per non dare nell'occhio agli arghi settarii e protestatiti. Erano presenti D. Masucco e il Teol. Leonardo Murialdo. Presiedeva l'assemblea l'Abate Amedeo Peyron, uomo stimatissimo in città per la sua scienza e professore di lingue orientali nella Regia Università di Torino. A suo lato sedeva D. Bosco. Dopo che furono discusse varie questioni, da taluno venne proposto che si dovessero moltiplicare le pubblicazioni di scritti educativi popolari. L'Abate Peyron convenne su questa necessità, e D. Bosco chiesta la parola si raccomandò a que' sacerdoti perchè volessero aiutarlo nella propagazione delle Letture Cattoliche, dimostrando come queste fossero un mezzo dei più efficaci per opporsi alla corrente di false idee divulgate dai valdesi.
Come D. Bosco ebbe finito, l'Abate Peyron: - Sta bene, gli disse: io ho voluto leggere attentamente que' fascicoli; ma se volete che producano un buon effetto, procurate che siano scritti con maggior proprietà di lingua, con meno sgrammaticature, minori inesattezze nei termini, più diligenza nelle correzioni! - Questo rimprovero, fatto da un personaggio di tanta importanza ed autorità, sembrò aspro e caustico a tutti i radunati, benchè fosse dettato dallo zelo; e il Teologo Murialdo, tutto confuso per la brutta figura che faceva l'amico D. Bosco, lo guardò osservando come si sarebbe contenuto e che cosa avrebbe risposto. Tanto più pungenti ed amare riuscivano quelle parole, perchè non tutti quei sacerdoti erano allora a lui benevoli. D. Bosco però senza mostrarsi menomamente offeso, con tutta calma e in atto umile rispose: - Ed è apposta per questo che vengo a pregare le Signorie Vostre, perchè vogliano aiutarmi e consigliarmi in questa impresa. Mi raccomando a loro. Mi dicano tutto quello che trovano da correggere, ed io volentieri correggerò. Anzi sarei ben [653] fortunato se taluno, che fosse più perito di me nella lingua italiana, volesse rivedere gli scritti delle Letture Cattoliche prima che vengano pubblicate. - Il Teol. Murialdo ci raccontava poi nel 1890, come nell'udire quella risposta dì Don Bosco, conchiudesse fin d'allora: - D. Bosco è un santo! - e come avesse sempre presente innanzi quella scena. Difatti chi osservi quanto si è suscettibili alle critiche che vengono fatte, in argomenti d'ingegno, sovrattutto quando si è autore, non potrà non riconoscere eroico l'atto di D. Bosco nell'accettare quella rimostranza!
E in parte era esagerata e in parte vera, perchè alcuni fascicoli o anonimi o tradotti dal francese de' suoi collaboratori non potevano avere tutti la correttezza richiesta da un gusto classico; e per quanto D. Bosco vi avesse lavorato attorno, non poteva purgarli dalle mende quanto avrebbe desiderato. Ma egli non si difese, non addusse ragioni e continuò le sue stampe senza disanimarsi.
D. Bosco era ben degno dell'elogio che di lui fece il sullodato Teol. Murialdo: “Dal punto che entrai in confidenza con D. Bosco non ho mai notato in lui cosa alcuna che potesse oscurare menomamente l'eroicità delle sue virtù. Aveva un contegno, un tratto, un linguaggio che rivelava in lui uno spirito umile. Se faceva conoscere le grandiose sue opere, per giustificare i ricorsi frequenti alla pubblica carità, ciò era in conformità della massima del vangelo: Videant opera vestra bona et glorificent patrem vestrum qui in coelis est”.
Il Teol. Reviglio attestò: “Se qualche volta D. Bosco esponeva fatti suoi personali che potevano ridondare a qualche sua gloria, era evidentemente allo scopo d'istruire noi e stimolarci al bene. D'altronde fra le straordinarie prove di stima che riceveva, e, per dir così, in mezzo a' suoi trionfi non si invaniva menomamente; e posso dire che permetteva certe [654] nostre solenni dimostrazioni di stima e di affetto, sia perchè noi soddisfacessimo ai doveri di gratitudine e ci esercitassimo in opere di pietà che ci allontanavano dal peccato, sia per avere un'occasione di insinuarci qualche massima salutare più sentita in que' momenti.... L'umiltà risplendeva nel suo diportamento, nelle sue parole, nel sottrarsi a qualunque comparsa onorifica e non necessaria, nell'abituale persuasione del suo nulla”. Aggiunge Mons. Cagliero: “D. Bosco possedette la virtù dell'umiltà e la praticò eminentemente in tutti i suoi gradi, sentendo e parlando bassamente di se medesimo e abbracciando volentieri le umiliazioni. Soleva raccontarci dell'umile condizione de' suoi parenti, come egli avesse dovuto guadagnarsi il pane col sudore della fronte, come fra mille peripezie, coi soccorsi di benefiche persone e specialmente di D. Cafasso, fosse riuscito 4 compiere i suoi studi. Di ciò ne parlava con gusto e diletto, come se fosse una gloria ed ambizione di famiglia, tantochè radicava nei nostri cuori un amore grande a questa virtù, predicata e praticata da Gesù Cristo medesimo.
Nelle prediche e conferenze ci ricordava che il regno di Dio è premio ai poveri di spirito, e che era sua missione prediletta occuparsi dei giovani da Gesù tanto amati, e specialmente se nella miseria e derelitti. Le sue parole avevano un'efficacia tutta propria perchè le vedevamo accompagnate dai fatti. Andava poi dicendo esser desso il capo dei biricchini di Torino, e non già per vanagloria, ma per accaparrarsi il cuore dei giovani e attirarli al bene. Si compiaceva di intrattenersi con noi, e alcune volte quando veniva da visitare nobili persone e di alta posizione ci diceva: - Qui con voi mi trovo bene: è proprio la mia vita stare con voi”.
D. Turchi osservava: “Nella sua umiltà riceveva e trattava negli stessi modi, tanto il povero come il ricco. Nemmeno [655] co' suoi giovani usava dare ordini, ma soleva dire ad esempio: - Mi faresti il piacere di fare la tale o la tal altra cosa? Con queste sì belle maniere guadagnava il nostro animo ed otteneva più che con dare comandi. Era poi riconoscentissimo al più piccolo servizio che gli venisse prestato, come se non gli fosse dovuto. Un giorno lo vidi uscire di camera come chi ha bisogno di qualche cosa. Mi accosto a lui e gli chiedo che cosa gli occorresse. - Sì, mi rispose: sento una grande arsura che soffoca; avrei necessità di bere, ma non trovo alcuno.
- Se basta acqua e zucchero che ho io in cella, gliene posso dare io, soggiunsi.
- Ah! mi farai un gran piacere E gliene portai; bevette e mi ringraziò più volte come di un benefizio ricevuto.”
D, Rua Michele a sua volta affermava: “Egli avrebbe potuto conseguire una posizione sociale onorifica, anche nell'ordine ecclesiastico, e ne ebbe eziandio varie occasioni ed inviti; ma non accettò. In quei tempi, se avesse detto una sola parola, avrebbe facilmente ottenuto una patente o un diploma per l'insegnamento; ma non volle dirla, e quando venivano a trovarlo giovani educati nell'Oratorio che avevano conseguita la laurea in Belle Lettere, egli rallegrandosi coi medesimi, si compiaceva poi di rilevare che egli al contrario, non aveva neppure le patente di maestro elementare. Allorchè qualcuno domandavagli se non era Monsignore o Cavaliere, egli rispondeva: - Sono D. Bosco, sempre D. Bosco. - Del resto egli tanto negli onori come nei disprezzi era sempre indifferente.
“Pel basso concetto che aveva di se medesimo si considerava come semplice strumento nelle mani di Dio e come una terza persona nella direzione e maneggio delle opere sue, e non diceva mai in persona prima: Io ho fatto, io ho detto, [656] io voglio; ma in persona terza: D. Bosco ha detto; D. Bosco desidera; D. Bosco si raccomanda. Sovente affermava la sua incapacità a fare qualche cosa e ripeteva che, se non fosse stato della vocazione avuta da Dio, egli non avrebbe potuto essere altro che un povero cappellano di montagna. A Dio attribuiva quanto faceva, dicendo: - Colla grazia di Dio abbiamo fatto questo. - Se a Dio piace, faremo quello. - Dio ci ha mandato questo aiuto. - Che Dio sia ringraziato di tutto. - E sempre a lui solo dava tutta la gloria delle sue imprese. E anche, considerandosi come inetto strumento del Signore, attribuiva a' suoi preti ed antichi allievi, benchè usciti dall'Oratorio, il bene che faceva e che aveva fatto. Se gli accadeva qualche avversità, la quale colpisse tutto il suo Istituto, soleva dire: - Forse ne abbiamo fatta qualcheduna al Signore ed Egli ci castiga. Facciamoci buoni e ci benedirà. - Per questo riceveva con tutta rassegnazione ogni sorta di tribolazioni e raccomandava ai giovani quest'atto di umiltà.
“Rammento che una volta venne all'Oratorio il venerando Priore dell'Ordine di S. Domenico. D. Bosco che non lasciava sfuggire occasione di sorta tanto per esercitare sè nella virtù, quanto per istruire i suoi figli, chiesegli che si degnasse di suggerire qualche massima fondamentale a noi tutti. Ed egli rispose col testo dì S. Agostino: - Prima virtus est humilitas; secunda, humilitas; tertia, humilitas. - Noi allora più che mai intendemmo, perchè D. Bosco ci raccomandasse tale virtù. Egli sovente domandava a noi di dargli due dita di testa, alludendo alla rinuncia della nostra volontà; e diceva che ci avrebbe fatti santi. E quasi ogni giorno ci ripeteva i detti di S. Agostino: Magnus esse vis? a minimo incipe. Cogitas magnam fabricam construere celsitudinis? de fundamento prius cogita humilitatis; e altre somiglianti sentenze”.
I LAVORI di costruzione nell'Oratorio erano stati spinti talmente innanzi che, nel mese di ottobre, metà della casa era compiuta, co' suoi portici tanto necessarii nei giorni d'intemperie. Non appena resa abitabile, vi furono tosto trasferite le scuole, il refettorio e i dormitorii; la cappella antica fu destinata al solo uso di sala da studio, e il numero dei giovani ricoverati giunse ben presto a sessantacinque. D. Bosco scelse per suo alloggio quella parte che era parallela alla chiesa di S. Francesco, composta di tre stanze allineate, al secondo piano. Quella che faceva angolo colla parte principale dell'edifizio fu occupata da due o tre giovani, che ivi abitarono, e dormirono, pronti ad ogni bisogno di Don Bosco; la seconda doveva servire quasi di biblioteca, e quivi era lo scrittoio pel Ch. Rua; l'ultima, che aveva una finestra a mezzogiorno, D. Bosco la scelse per suo alloggio, ed è l'attuale anticamera. Le suppellettili di questa, che non si mutarono finchè visse, erano un letticciuolo di ferro e [558] mobili, in parte donati da' benefattori; alcune sedie più che ordinarie, per scrittoio uno stretto e rozzo tavolino senza tappeto e scaffali, un canapè vecchio e stravecchio, un burò scantonato per custodire le carte, un semplicissimo inginocchiatoio di pioppo, che serviva per le confessioni, un crocifisso e alcuni quadri con sacre immagini. Per molto tempo quella unica stanza servì per camera da letto, per sala di ricevimento, di aspetto e di ufficio.
In que' giorni però, essendo l'edifizio finito di fresco, quella stanza era umidissima e tutte le mattine ogni oggetto era bagnato da gocciolarne; un paio di scarpe lasciato per due giorni sotto il letto si copriva di muffa. D. Bosco ne aveva fatto coprire le mura con grosse tappezzerie di carta, perchè non avvertissero l'inconveniente coloro che venivano a visitarlo; e in poco tempo quella tappezzeria divenne tutta nera muffita, e finì con cadere a brandelli. Ma non era possibile fare altrimenti. Non bastando casa Pinardi a contenere tutti i giovani, bisognava che una parte di essi prendesse posto nell'edifizio nuovo. Per impedire che costoro si lamentassero e perchè volentieri si adattassero a quel trasloco, li aveva entusiasmati esaltando la bellezza ed i vantaggi della nuova abitazione. Quindi, avendo egli incominciato pel primo a prendervi stanza, tutti gli altri gli andarono dietro allegramente. Se D. Bosco avesse continuato ad occupare la sua camera primiera e avesse mandati i soli giovani nella casa nuova, certamente si sarebbero sollevati susurri e malcontenti. È vero che fu una determinazione temeraria, se si considera in modo umano; tanta umidità poteva essere origine di serie malattie. Ma D. Bosco non ne ebbe alcun male e tutti gli altri non ne soffrirono, come egli aveva pubblicamente annunziato. D. Bosco sapeva che la sua promessa sarebbe confermata dal fatto. [659]
Allogata la comunità, volle subito attuare il disegno che aveva formato, di aprire, a costo di qualunque sacrificio, laboratorii interni nell'Oratorio. Quel mandare ogni giorno i giovanetti nelle officine della città, per quanto scelte, sorvegliate, mutate con ogni impegno, erano un pericolo se non un danno per la disciplina e per il profitto dei ricoverati. Il malcostume e l'irreligione purtroppo facevano progresso fra gli operai e D. Bosco si avvedeva che i motteggi a cui erano fatti segno i suoi allievi, miravano a distruggere in gran parte il frutto dell'educazione morale e religiosa che si studiava di loro impartire.
Le stesse vie che dovevano percorrere erano ingombre dai venditori di una moltitudine di giornali che erano banditori perpetui e sistematici di licenza e di empietà. Nelle vetrine dei librai e mercivendoli facevano scandalosa mostra di sè una colluvie di sconce incisioni, di laide statuette, di romanzacci, di altre produzioni schifose ed anche di libri eretici.
Per tutti questi incentivi, correva eziandio rischio la loro fede, benchè D. Bosco, oltre a varie prescrizioni, e ammonimenti, loro indirizzasse il sermoncino della sera, colto scopo appunto di esporre e confermare qualche verità che per avventura fosse stata contraddetta nel corso della giornata. E non solo in pubblico, ma anche in privato parlava continuamente degli errori dei protestanti e delle tristi loro conseguenze, esortandoli a starne in guardia.
D. Bosco adunque volle sottrarre la parte che potè de' suoi artigiani ai lamentati inconvenienti. Perciò, col soccorso dei benefattori, comprati alcuni deschetti e gli attrezzi necessarii, collocò il laboratorio dei calzolai in un piccolo corridoio di casa Pinardi presso il campanile della chiesa.
Contemporaneamente destinava alcuni giovani al mestiere di sarto e avendo trasportata la cucina nel locale nuovo a [660] pianterreno in fondo all'attuale parlatorio invernale verso il giardino, l'antica cucina diventò sartoria. Il Crocifisso e la statua della Madonna presero possesso dei due laboratorii. Subito apparve un gran vantaggio spirituale, morale e materiale per quegli allievi. D. Bosco fu il primo maestro dei sarti, avendo già esercitata quell'arte quando era studente; così pure di quando in quando, allorchè gli studenti erano a scuola in città, andava a sedersi al deschetto per insegnare ai giovani il maneggio della lesina e dello spago impeciato per rattoppare le scarpe. Così provvedeva ai bisogni dei giovani con minor spesa, poichè per le calzature e per i vestiti in breve non si sarebbe più dovuto richiedere l'opera di estranei. Per questo fine a mano a mano che nascerà in casa un nuovo bisogno, noi lo vedremo aprire un laboratorio nuovo.
Il Teol. Savio Ascanio diceva: “Io visitai questi laboratorii fin dal principio allorchè furono aperti nel 1853. Don Bosco aveva visto che l'Ospizio non poteva portare il suo vero frutto senza le arti e i mestieri in casa. La sua Istituzione, per vivere, bisognava che fosse completa nella sua cerchia, sviluppata in tutte le sue membra come un corpo organico: bisognava che bastasse a se medesima”.
D. Bosco fece subito la scelta dei capi d'arte: Goffi Domenico, che era anche portinaio, fu preposto ai calzolai; un certo Papino ai sarti. I capi mentre insegnavano il mestiere, dovevano vigilare attentamente i giovani ed impedire il menomo disordine. Nello stesso tempo D. Bosco a tutela della disciplina, della moralità e del profitto, componeva un regolamento, che si doveva praticare in ogni laboratorio. [661]
1. I Maestri d'arte hanno incarico di ammaestrare i giovani della Casa nell'arte cui sono destinati dai Superiori. Il loro principale dovere è la puntualità nel trovarsi a tempo debito nel laboratorio, di dare lavoro ai loro allievi di mano in mano che entrano.
2. Si mostrino premurosi per tutto ciò che riguarda il bene della Casa; e si ricordino che è loro essenziale dovere istruire gli apprendisti e far sì che loro non manchi il lavoro. Osservino e per quanto è possibile, facciano osservare il silenzio durante il lavoro, nè permetteranno che alcuno si metta a parlare, ridere, scherzare o cantare fuori del tempo di ricreazione. Non permettano mai ai loro allievi di uscire per recarsi a far commissioni. Essendone il caso, se ne domandi al Prefetto l'opportuno permesso.
3. Non devono mai fare contratti coi giovani della Casa, nè assumersi per loro conto particolare alcun lavoro di lor professione. Tengano esatto registro di ogni sorta di lavoro che si compie nel laboratorio.
4. I capi d'arte sono strettamente obbligati d'impedire ogni sorta di cattivi discorsi, e conosciuto qualcuno che ne sia colpevole, dovranno immediatamente darne avviso al Superiore.
5. Ogni maestro, ogni allievo stia nel proprio laboratorio, nè mai alcuno si rechi in quello degli altri senza assoluto bisogno.
6. È proibito il fumare tabacco, giuocare, bere vino nei laboratorii, dovendosi in questi lavorare e non divertirsi. [662]
7. Il lavoro comincerà coll'Actiones e coll'Ave Maria. A mezzodì si dirà sempre l'Angelus Domini prima di uscire dal laboratorio.
8. Gli apprendisti debbono essere docili e sottomessi ai loro maestri, come loro superiori, mostrando grande diligenza per compiacerli e somma attenzione per imparare quelle cose che loro sono insegnate.
9. Si leggeranno questi articoli dal Capo o da chi per esso ogni quindici giorni a chiara voce e se ne terrà sempre copia esposta nel laboratorio.
In questo Regolamento non si parla ancora di Assistente. Altra autorità non eravi fuorchè D. Bosco, alla quale nell'anno seguente si aggiunse quella del Prefetto.
D. Bosco avrebbe voluto poter fin d'allora aver tutti i suoi artigiani continuamente sotto gli occhi, ma era costretto a mandarne un certo numero in Torino, mancandogli i locali opportuni. Raddoppiava pertanto le sollecitudini e le sue visite alle officine; replicava le sue raccomandazioni ai padroni perchè assistessero i suoi protetti. Ma non era senza grandi angustie e grandi diligenze che doveva cercare laboratorii veramente cristiani. Per certi mestieri si rendeva sempre più difficile il trovare capifabbrica di provata religione. Questi, unicamente preoccupati del lavoro materiale o della rendita finanziaria, si sarebbero meravigliati se loro si fosse fatto osservare che Dio domanderà ad essi conto delle anime dei loro operai. E gli operai, non avendo chi loro ricordasse la dignità dell'anima propria, la necessità di santificare il peso del duro lavoro, i loro immortali destini, e le divine speranze; non avendo chi desse loro il buon esempio, un avviso a tempo opportuno, che imponesse ai discoli [663] l'osservanza della legge di Dio, si lasciavano corrompere lo spirito e il cuore da tutte le influenze malvagie.
D. Bosco così stampava in una delle prime Letture Cattoliche.
“Io entro in una manifattura, o in una gran bottega fitta zeppa di operai. Che parole mi feriscono tosto l'orecchio? Il nome adorabile di Gesù Cristo pronunziato malamente di qua e di là; ed imprecazioni e rabbie e bestemmie, che mi par d'essere in una bolgia d'inferno. Mi avvicino ad alcuni giovani garzoni, e la licenza e la sfrontatezza dei loro discorsi mi fanno rabbrividire. Mi volgo ad altre parti; e qui è un uomo maturo che scredita la religione e i suoi ministri; là è un altro che maledice la Provvidenza; e non manca persino il vecchione, senza pudore e senza fede, che si fa maestro di corruzione e di empietà ad una turba di apprendisti che curiosi lo stanno ascoltando e improvvidi bevono il veleno.
Tale è pur troppo il tristo quadro che presentano ai giorni nostri, una parte delle nostre botteghe, e delle nostre manifatture. Si chieda a questi uomini perchè sudano tanto, e tanto si logorano dal levarsi del sole sino a notte. Tutti rispondono: - Per guadagnarci il pane. - Benissimo, questo è pel corpo; ma sapete voi che avete un'anima? - Si ride. - Quest'anima pensate voi a salvarla? Pensate voi a guadagnarvi il cielo? - Si ride. - Ma, povera gente, non temete di tirarvi addosso un'eterna sventura? - Noi non paventiamo altro in questo mondo che di cader malati, di trovarci senza lavoro, di stentare e di perir di fame. - E quando sarete morti? - Si ride. - Insomma: Tutto pel corpo, niente per l'anima”.
Le madri angosciate venivano da D. Bosco per poter togliere da quelle officine corruttrici i loro figliuoli, pregandolo a cercar per essi un luogo ove potessero apprendere la [664] maniera di guadagnarsi il pane, senza la triste certezza di perdere l'anima. E D. Bosco si affannava a collocarli, anche fuori di città per le tante attinenze che aveva, risoluto nello stesso tempo a non darsi riposo fino al giorno nel quale avrebbe potuto ritenere a centinaia gli artigiani nell'Oratorio sotto la sua cura immediata.
Ma ciò non era tutto. Egli, di mente profonda e perspicace vedeva i pericoli che sovrastavano alle nazioni e la necessità di sciogliere la grande questione operaia in senso cristiano. Il socialismo si era già manifestato nei regni vicini e minacciava anche l'Italia. I partigiani delle malvagie dottrine, i capi delle società segrete, convinti che l'avvenire sarebbe stato certamente di coloro che avrebbero saputo impadronirsi dello spirito e del cuore dell'operaio, incominciavano a spiegare uno zelo veramente satanico, per abbrutire le masse, per averle pronte ad ogni eccesso e per poter essi salire sulle loro spalle in alto. D. Bosco adunque si era prefisso eziandio di impedire da parte sua tanti disastri per mezzo degli stessi giovani operai, conducendoli a quella Religione che sola, additando la via della carità e del sacrificio, li fa contenti del proprio stato. Rappresentava loro come il lavoro manuale sia stato personalmente onorato e glorificato dal Nostro Signor Gesù Cristo, il quale nella sua vita mortale volle essere come essi appunto un semplice operaio, e descriveva sovente la loro entrata trionfale in cielo e il premio senza fine che li aspetta quando saranno usciti dalle pene e dalle fatiche di questo mondo.
Senonchè da solo non poteva effettuare il suo disegno di officine cristiane, soggiorno della pace, della gioia, di un'attività cara e benedetta; e dalle quali poi si spargessero nel mondo i loro allievi, pronti ad affrontare con valore le difficoltà della vita, a seguire inflessibili la linea diritta loro [665] tracciata da Dio, ad essere soldati della Chiesa e quindi dell'ordine pubblico, nelle società cattoliche operaie. L'esperienza gli dimostrava che le opere individuali cadono generalmente cogli uomini che le hanno create. Perciò D. Bosco non cessava un istante di vagheggiare una Congregazione religiosa organizzata eziandio a questo fine. Era la divina Provvidenza che a lui ispirava questa idea, come aveala ispirata a centinaia a centinaia di altri fondatori e fondatrici contemporanei di Pie Società, le quali dovevano in mille modi soccorrere l'operaio in ogni sua necessità. L'odio alla loro salutare e potente influenza nel popolo, lo crediamo una delle cause della guerra atroce colla quale si cerca di sterminarle.
D. Bosco adunque nel 1853, senza strombazzare, come per un nonnulla si usa oggidì, dava principio a quest'altra sua gigantesca impresa in così sottile misura, che sembrava, e non era, un puro esperimento. Parve che gli fosse detto: “Spera con tutto il cuor tuo nel Signore, e non appoggiarti alla tua prudenza. In tutte le tue circostanze ripensa a Lui, ed Egli reggerà i tuoi passi[34]”.
E infatti anche quest'opera si vedrà abbracciare i due mondi. Nel corso di cinquant'anni più di 300.000 operai uscirono da' suoi laboratorii educati cristianamente, e si sparsero dovunque. E migliaia di ragazzi, che sarebbero stati abbandonati ai pericoli delle strade, divenendo istrumenti ciechi della tirannide settaria, si trasformano continuamente, in utili ed onesti cittadini, in uomini per bene e di merito.
A MANO a mano che nell'Oratorio aumentavano i ricoverati artigiani, andava pure ingrossando la categoria degli studenti. La istituzione di questa classe fu un'opera provvidenziale e, possiamo dirlo, ispirata da Dio. Tra i giovani, che dal Governo, dai Municipii, dai Parrochi e dai parenti venivano raccomandati a D. Bosco, non pochi appartenevano a famiglie già benestanti o di civile condizione, ma per rovesci di fortuna cadute nella miseria. A questi giovanetti, allevati già nelle agiatezze della vita, l'apprendimento di un'arte faticosa o di un ruvido mestiere, non tornava sempre nè il più gradito nè il più conveniente. Altri poi mostravansi forniti di sì raro ingegno, che pareva un peccato lasciarlo come sepolto in una officina; giovani siffatti, se fossero stati coltivati nella scienza, avrebbero [667] potuto col tempo prestare alla civile società servizi assai più importanti. Ora D. Bosco, che, per quanto poteva, acconciava la carità sua a seconda del bisogno, della convenienza e della propensione, destinava cotali ragazzi piuttosto allo studio, che non ad un manuale lavoro. Per questa guisa la famiglia degli studenti, che nel 1850 era composta di soli dodici, nel 1853 venne ad eguagliare quella degli artigiani.
Con questa istituzione D. Bosco rese il suo Oratorio benefico ad un maggior numero di povere famiglie; coltivò bellissimi ingegni, che altrimenti, perchè privi di mezzi, sarebbero rimasti nella rozzezza; diede alla civile società non solo dei buoni operai ed abili artisti, ma degli istruiti impiegati; e, quello che più conta, inaugurava fin d'allora un vivaio di chierici per le diocesi, e di suoi aiutanti per l'Oratorio, coi quali doveva estendere il benefizio della civile istruzione e della morale educazione a migliaia di poveri fanciulli nell'uno e nell'altro emisfero.
Noi abbiamo già narrato come D. Bosco, non potendo più attendere a far scuola di latinità, nell'anno scolastico 1851-52 avesse, incominciato a mandare tutti i suoi studenti dei corsi classici alla scuola privata del Sig. Cav. Giuseppe Bonzanino, professore di ginnasio inferiore, indi a quella del Sacerdote D. Matteo Picco, professore di rettorica. Questi due egregi signori si prestarono di buon cuore a quell'atto di carità, apersero gratuitamente i loro corsi agli alunni di D. Bosco e si resero altamente benemeriti del nostro Oratorio. Essendo uomini esimii, di tratto squisito, aspetto venerando, e dotti nelle materie che insegnavano, le loro scuole erano molto stimate nella città: gli allievi le frequentavano con grande vantaggio, e le famiglie agiate andavano a gara nell'affidar loro i proprii figli.
D. Bosco mandava i suoi studenti divisi in due squadre, perchè Don Picco abitava presso Sant'Agostino e il [668] prof. Bonzanino a fianco di San Francesco d'Assisi. Una squadra era composta degli alunni delle tre classi ginnasiali, l'altra di quelli che frequentavano l'umanità e la rettorica: e dovevano nell'andare e nel tornare tenere un itinerario rigorosamente loro prescritto. Questo faceva allungare di un buon tratto la via, ma i giovani obbedivano ciecamente senza saperne il perchè ; e se qualche volta lo chiedevano, D. Bosco si contentava di rispondere: Corrumpunt bonos mores colloquia prava. Lo seppero più tardi, cresciuti in età, il motivo di questa prescrizione. Il Ch. Rua aveva l'incarico di sorvegliarli nel tragitto ed egli andava a scuola di filosofia dai professori del Seminario e teologi Mutura e Farina. Il Can. Berta ricordava sempre con gran piacere come gli avesse fatto talora ripetizione delle lezioni udite.
Giunti gli studenti là all'Istituto, essi avevano per condiscepoli i fanciulli delle prime famiglie di Torino o per nobiltà o per censo. È da ammirare come la Divina Provvidenza li conducesse in luogo ove potessero stringere famigliarità con tanti giovani destinati ad occupare un giorno cariche eminenti nello Stato e nel Municipio; e nei quali i ricordi incancellabili della fanciullezza li avrebbero resi propensi ad aiutarli quando avessero chiesto il loro appoggio. Oltre a ciò, riuscendo i giovani dell'Oratorio gli ottimi della scuola, per virtù, per ingegno, per studio e per diligenza, si spargeva fama di loro bontà nelle splendide sale di quei signori che erano o sarebbero divenuti in avvenire i loro benefattori. Fin dal principio fu eziandio cosa che recò grande meraviglia, che cioè nessuna delle famiglie torinesi ritirasse i suoi figli da scuole che accoglievano quei poverelli, nessuna ne fece neppur lamentanze, anzi tutte videro volentieri l'operato dei professori. È da notarsi però che quelli non erano ancora i tempi di democrazia. [669] Ma nello stesso tempo quanto è degna di lode la carità cristiana e dirò, eroica, di D. Picco e del Cav. Bonzanino, i quali a rischio di veder disertate le loro scuole dal fiore della cittadinanza, che loro procurava onorevole sostentamento, si azzardavano a porre sugli stessi banchi giovani di umile condizione, vestiti dimessamente, a fianco di signorini tutti lindi, in abiti fini, conoscitori della propria posizione sociale. L'unico riguardo che aveva il prof. Bonzanino era quello di recarsi sulla porta di sua casa e far deporre a quei di Don Bosco i cappotti da soldato che vestivano come soprabito, per ripararsi dalla pioggia o dalla neve.
Questi cappotti erano un dono fatto a D. Bosco dal Ministro della guerra; ma quantunque difendessero la persona dalle intemperie, erano tarlati; e avevano più forma di coperta che di vestito, e a chi li indossava davano quasi l'aria di contrabbando o di caricatura. Infatti Tomatis, recandosi un giorno a scuola di disegno con quella divisa, sedutosi su una banchina dei viali, tosto gli si avvicinarono due guardie chiedendogli le carte di riconoscimento. Tomatis rispose loro ingenuamente di aver con sè carta di disegno, e senz'altro la estrae di saccoccia. Alle domande, chi è , dove sta, che cosa fa, replicò, chiamarsi Tomatis, essere studente e abitare con D. Bosco in Valdocco. Interrogato come facesse D. Bosco a mantenere i suoi ragazzi, Tomatis pronunciò una sola parola: - La Provvidenza!
- Ma che Provvidenza! esclamarono le guardie con un sorriso beffardo.
E Tomatis: - Se non ci fosse la Provvidenza, neppure essi, signori miei, starebbero così bene in gamba. Ed è quella stessa che mi provvede questo cappotto. - Le guardie, avute alcune altre spiegazioni, lo lasciarono in pace. [670]
Que' cappotti e que' berretti da militare sul principio furono causa di qualche ammirazione indiscreta, di qualche dileggio; ma poi tutto passò e per anni molti i giovani di D. Bosco li vestivano stando in casa od uscendo fuori. Tuttavia il professore Bonzanino non li aveva, e con ragione, trovati presentabili in una società di signorini, facili a ridere e a scherzare.
Gli studenti di D. Bosco nel primo anno furono, come si disse un piccol numero, ma a poco a poco essendo cresciuti fino a 100, finirono quasi con riempire le sale di chi dalle scuole traeva il necessario per vivere. D. Bosco però non ometteva di far pagare da quei parenti che potevano o da coloro che aveangli raccomandato un fanciullo, la retta mensile prescritta dal programma. Ed egli stesso prese a retribuire quei professori con una annualità, prima di 50 lire e poi di somme maggiori, secondo che le sue finanze gli permettevano.
E quei buoni insegnanti non respinsero mai un giovane raccomandato da D. Bosco, il quale per altro sapeva domandare con tanta cordialità, da vincere, se vi fosse stata, ogni riluttanza. Valga come prova una lettera da lui scritta al professore Bonzanino.
Ill.mo e Car.mo Sig. Professore,
Ho ancora due giovani da mandare a scuola: uno di nome Carossi, e credo che convenga alla scuola del Signor Pasquale avendo fatto la terza elementare, e desiderando di cominciare il latino; questi paga quel tanto che occorre. L'altro di nome Anfossi, che parmi si possa unire con quelli [671] di 2° grammatica. Esso mi fu mandato dalle Signore Losana, sorella e cognata del Vescovo di Biella, le quali spero faranno pure quanto occorre per la spesa di scuola.
Resta a vedere se può ancora nasconderli in qualche cantuccio per sentire le preziose sue lezioni. Cominci a vederli, poscia farà in Domino quel che meglio le parrà.
Il Signore benedica Lei e tutta la rispettabile famiglia, e ringraziandola di quanto fa per questi miei poveri figli, me le offro in quel che posso.
Anfossi Giovanni Battista, giovanetto di 13 anni, il 22 dicembre era stato condotto nell'Oratorio dalla sorella di Mons. Losana. Tutta Torino conosce l'esimio Sacerdote, Canonico onorario della Collegiata della SS. Trinità, Dottore in Belle Lettere e Filosofia, Cavaliere di S. Maurizio e Lazzaro. Orbene; egli così ci esponeva verso il 1900 come fin dai primi istanti concepisse una grande stima di Don Bosco. “Nel 1853 quando entrai nell'Oratorio, ivi era fama che D. Bosco avesse operati miracoli. I più anziani de' miei compagni mi narravano, ed era ferma persuasione in tutti noi ed in quei giorni eravamo 51, non compresi i chierici, che tali fatti fossero avvenuti: il morto risuscitato, le castagne e le ostie moltiplicate. Eziandio narravano della distribuzione del pane, che molte volte soleva farsi nell'Oratorio, nella occasione di una comunione generale, insieme con qualche companatico. In tale circostanza solevano intervenire a centinaia anche i giovani esterni, il cui numero non si poteva [672] prevedere. Eppure quantunque talora in casa non si avesse pane a sufficienza, ce n'era stato per tutti.
Ho conosciuto anche Mamma Margherita; ammirai la sua vita di sacrifizio, occupata continuamente del bene dei fanciulli. Noi quando abbisognavamo di qualche cosa, eravamo soliti di rivolgerci a lei; ed essa potendo, tosto ci aiutava e ci somministrava il necessario, esortandoci sempre alla preghiera ed alla virtù. Era venerata da quanti venivano all'Oratorio, anche da persone di alta condizione”.
Il professore Bonzanino lo ammise alle sue lezioni col giovanetto Carossi.
D. Bosco s'intratteneva sovente con questi buoni professori, sui varii classici latini, e raccomandava loro di correggere sempre le copie dei compiti, di notarne gli errori e porli sott'occhio agli alunni, giudicando essere questo il modo migliore per far imparare con perfezione una lingua. Questo avviso lo ripeteva più tardi e con insistenza agli insegnanti dell'Oratorio. E non abbandonava i suoi ragazzi nel tempo che si presentavano agli esami, o in tali scuole private o in quelle governative. Egli andava a visitare gli esaminatori, i quali per loro bontà lasciavangli vedere i lavori per iscritto de' suoi allievi. Ei leggevali attentamente, esaminava le correzioni, difendeva certe improprietà che erano state giudicate errori. Ciò faceva con tanta erudizione, da farsi ammirare da que' professori, i quali esclamavano che mai si sarebbero immaginati che D. Bosco avesse tanta profondità e varietà di cognizioni nella letteratura latina.
D. Bosco poi ricompensava D. Picco e Bonzanino il meglio che poteva, estendendo le sue cure affettuose a tutti i loro discepoli. Non tenendosi in quelle classi lezioni di catechismo e di religione, egli nel 1853 visitavale regolarmente ogni sabato, e continuò per varii anni successivi. Al suo entrare in [673] una scuola il professore usciva, ed egli per un'ora si intratteneva cogli scolari che ivi stavano in pensione o venivano dalle loro case. Raccontava loro un fatto di storia ecclesiastica, una parabola, un aneddoto edificante, ma tutto indirizzato al fine di condurre quei giovanetti a confessarsi sovente e bene. Spiegava eziandio qualche risposta del catechismo.
Li accoglieva poi nell'Oratorio per le confessioni mensili, ed esercitava sopra loro e anche su quelli delle famiglie più illustri della città una salutare influenza. Ancora di questi giorni ci narrava il Prof. Can. Anfossi: “Odo frequentemente il racconto di questi fatti, con sentimenti di profonda gratitudine a D. Bosco, da persone illustri e della prima nobiltà che allora frequentavano meco queste scuole e udivano da lui le istruzioni religiose e da lui si confessavano”.
Tutti questi giovanetti avevano una gran confidenza in D. Bosco ed eziandio i loro parenti, sicchè a lui riuscì più volte di comporre la pace in questa o in quella distinta famiglia, turbata per qualche malinteso od anche per l'indole caparbia o focosa di un figlio. Un certo Cal..., che da fanciullo frequentava l'Oratorio, in quest'anno, rimproverato aspramente dal padre, fuggiva di casa e veniva in Valdocco. Don Bosco lo ritenne con sè , calmò la sua irritazione, ne diede avviso al padre, preparò il giovane a fare una buona confessione, e dopo un mese lo ricondusse in famiglia, ivi accolto a braccia aperte. Fu poi un uomo eccellente, studiò da avvocato e divenne consigliere alla Corte d'Appello.
Famigliari ciano pure le attinenze di D. Bosco coi loro maestri, cui professava somma riverenza e gratitudine. A tale proposito gli occorse un episodio semiserio, degno di memoria.
D. Bosco era solito passare il 21 settembre nella villeggiatura di D. Matteo Picco, per celebrarne l'onomastico, avendo [674] anche quel professore il privilegio della cappella domestica. In quest'anno 1853, alla sera della vigilia di tale festa, vi si incamminò col giovinetto Francesia Giovanni, il quale aveva tra le mani un bel fascio di razzi che si dovevano mandare in aria sul cominciar della notte nel giorno seguente e in saccoccia un augurio poetico che avrebbe letto sul finire del pranzo. Usciti dalla barriera di Casale ed inoltratisi ai piedi del colle di Superga, per la valle di S. Martino, incominciavano a salir le colline, sopra una delle quali in posizione amenissima biancheggiava la casa del professore. Con D. Bosco non si stava mai in ozio; egli aveva sempre qualche cosa a dire, qualche progetto da proporre; e rendeva la sua compagnia dilettevole e vantaggiosa. Giunto al luogo detto di S. Bino ed Evasio, egli narrava a Francesia la vita meravigliosa di questi due santi e il giovane era tutto intento ad ascoltarlo. In questo mentre ecco sbucare fuori da un gruppo di alberi una decina di giovanetti ed assalire D. Bosco a sassate. Erano soliti a far tale scherzo a chiunque passasse per quella via e specialmente ai preti. D. Bosco si voltò, e tranquillamente mosse incontro a quegl'insolentelli, che gli volsero le spalle correndo. D. Bosco allora gridò loro dietro: - Fermatevi! Sentite, sentite: venite qui; io non voglio mica battervi; non voglio sgridarvi.
I giovani a queste voci si fermarono.
- Ho una medaglia da regalarvi! continuava D. Bosco. E cavandola fuori, la faceva vedere.
I più arditelli gli si avvicinarono, dicendo: - Non siamo noi che abbiamo lanciate le pietre. Sono quegli altri laggiù, che si sono nascosti dietro a quella fila di gelsi.
- Venite qui anche voi, gridò D. Bosco ai più lontani. Oh! siamo amici, e lo so bene che avete fatto per ridere. E tutti corsero intorno a lui.
- Ora ditemi, continuò D. Bosco: vi piacciono le ciliege? [675]
- Oh sì! sono capace di mangiarne un rubbo, gli risposero.
(D. Bosco diceva che questi motti scherzevoli ed altri simili riuscivano sempre in tali circostanze a produrre un ottimo effetto, e che egli, collo spendere qualche soldo in frutta, si rendeva affezionati i monelli).
- E anche cogli ossi? soggiunse D. Bosco.
- Ditemi ancora; alla domenica andate alla messa e al catechismo?
- Andiamo alla parrocchia, risposero alcuni; ed altri: Andiamo all'Oratorio di D. Bosco in Vanchiglia, dove nelle feste solenni ci danno per colazione pane e salame.
E D. Bosco sorridendo: - Come! Voi andate all'Oratorio di D. Bosco, e prendete a sassate D. Bosco?
Intanto i parenti dei ragazzi erano usciti dalle case ed avendo ascoltato quel dialogo, presero ad apostrofare i loro figli: - Ah biricchini, briganti, baloss, tirate le pietre neh! Avrete da fare con noi... Scusi, signor D. Bosco!
- Oh no, rispondeva loro D. Bosco; non li sgridate questi buoni figliuoli: non facevano mica con cattiva intenzione. E ne prendeva le difese, sapendo che queste maniere piacevano estremamente ai genitori ed ai figli, mentre le parole brusche avrebbero irritati gli uni e gli altri.
D. Bosco però nel congedarsi esortò i genitori a custodire i loro buoni ragazzi, ad osservare che adempiessero i doveri di buon cristiano, ed a raccomandar loro il rispetto [676] ai religiosi, poichè educati in questo modo avrebbero rispettato anche i loro parenti e li avrebbero aiutati nella loro vecchiaia.
Era ormai notte fatta e D. Bosco, salutata quella folla col togliersi il cappello, continuò il suo cammino. Mentre si allontanava, la gente formando crocchi presero a commentare ammirata le parole di D. Bosco, e la lezione produsse il suo effetto. Infatti D. Picco, il quale più volte era stato preso a sassate in quella valle e soleva avvisare chi andava a visitarlo in villa che prendesse altra via, da questo giorno con sua meraviglia, non ebbe più in quel luogo a soffrire il minimo sgarbo. E quando seppe il caso avvenuto a D. Bosco, ei disse e ripetè : - Ora non mi stupisco più di tal cambiamento. D. Bosco solo era capace di operarlo!
Un vantaggio grande recava a questi e ad altri professori, specialmente se preti, anche il solo trattenersi sovente con D. Bosco. Senza che quasi se ne avvedessero, smettevano un fare alquanto secolaresco, divenivano più esatti nella vita spirituale, sapevano vincere le bizzarrie dei loro naturali. Il contegno di D. Bosco e la sua prudente parola sortivano sempre questi consolanti effetti. Noi potremmo recarne molti fatti in prova, ma ci contenteremo di esporre ciò che a noi raccontava il Prof. Francesia.
“Ho conosciuto un bravo e buon professore che era sacerdote, e come si accostumava tanti anni fa, invece che colla veste talare andava in curtis, cioè vestiva un abito che giungeva appena alle ginocchia. I preti amanti della regola lo portavano lungo sino a metà delle tibie. Bastò che D. Bosco entrasse in relazione con quel professore, che subito, senza che alcuno gliene facesse parola, allungò le falde dell'abito, e d'anno in anno fino ai piedi, da non lasciare alcuna differenza tra lui e chi portava la veste ecclesiastica. [677]
Il medesimo aveva un carattere così impetuoso, che in certi giorni, malgrado gli sforzi che egli si faceva, era anche di molestia a que' di casa. Allora guai ad urtarlo, guai a contraddirlo. Un dì mi trovavo presso di lui mentre stava per prendere il caffè. La sorella si era dimenticata di portare il cucchiaino; ma egli invece di fare un finimondo, secondo il solito, si volse a lei con aria sorridente, e facendo conca della mano le disse: - E quell'arnese pel zucchero? - Ciò fece con tale garbo e novità che la sorella, dopo averlo servito, mi disse segretamente: - Veda; effetto della frequenza con D. Bosco! Se quanto mi avvenne stamattina fosse capitato alcun tempo fa, per oggi non sarebbe più comparso il sole. Adesso invece è tutt'altro! Scherza che è un piacere e noi si vive in pace!”.
Alla loro volta gli studenti dell'Oratorio erano oggetto di ammirazione per la loro edificante condotta, in mezzo ai compagni. Amavano D. Picco e Bonzanino e ne erano cordialmente riamati. Questi due professori si possono chiamare i patriarchi dei maestri nelle scuole salesiane, poichè istruirono un bel numero di quelli che il Signore destinava ad essere collaboratori di D. Bosco nell'insegnamento, a vantaggio della gioventù. Essi gloriavansi di avere scolari, quali Rua, Cagliero, Francesia, Cerruti e altri che erano sempre i primi nella classe per studio, diligenza, profitto, e che col loro esempio stimolavano i compagni di famiglie cittadine a corrispondere meglio ai precetti dei loro istitutori. E nella loro tarda età ricordavano sempre con grande piacere come i giovani dell'Oratorio li compensassero delle pene, degli scoraggiamenti ad essi cagionati dalla poca corrispondenza di altri allievi.
Tuttavia fra tutti gli alunni, ricchi e poveri, regnava la più gioconda armonia, poichè i figli di D. Bosco erano amati dai compagni. Comuni erano le feste. Gli uni accorrevano [678] a quelle dell'Oratorio, gli altri partecipavano a quella delle scuole private di rettorica e grammatica, che celebravasi solennemente in onore di S. Luigi Gonzaga nella Regia Basilica Magistrale. La religione era ancora l'ispirazione e la dominatrice nell'educazione, e S. Luigi il patrono e modello degli studenti. In occasione di questa festa i nostri studenti, con quelli delle scuole private, erano soliti comporre e stampare alcuni sonetti per esprimere la loro divozione per Colui che era stato denominato angelo in carne umana. D. Bosco conservò quelli stampati nel 1854.
ORA ci invita a sè la vita intima degli alunni di Valdocco. Fino al 1858 D. Bosco governò e diresse l'Oratorio come un padre regola la propria famiglia, e i giovani non sentivano che vi fosse differenza tra l'Oratorio e la loro casa paterna. Non si andava in file ordinate da un luogo all'altro, non rigore di assistenti, non coercizione di regole minute. Basti dire che al mattino, per conoscere chi non si fosse alzato da letto, nell'entrare in chiesa ciascuno doveva mettere nella tabella, posta vicino alla porta, un piccolo cavicchio di legno in un foro a fianco del proprio nome. Ciò bastava senz'altro controllo: perchè la coscienza era la prima regola. [680]
Nei giorni feriali assistevano alla santa messa, durante la quale recitavano le orazioni, così dette quotidiane, col santo rosario e si finiva con una meditazione, ossia lettura di un quarto d'ora. Tutti i giorni vi era un certo numero che si accostava liberamente alla S. Comunione e la maggior parte tutte le settimane.
A mezzogiorno, ritornati gli studenti dalle scuole e gli operai dalle officine, sedevano alla stessa mensa, e quindi dopo un'ora di ricreazione si recavano alla scuola ed al lavoro. Verso le quattro pomeridiane i soli studenti ritornavano a casa a prendere la merenda ed a ricrearsi per un'ora. Gli artigiani avevano portata con sè la loro porzione di pane.
D. Bosco, che non poteva stare senza i suoi giovani e ne investigava con pazienza le indoli, assisteva e prendeva parte ai loro divertimenti e ai loro canti in ogni ricreazione. Era uno spettacolo edificante ed ammirabile il vedere gli alunni che nel cortile andavano a gara nel circondarlo e godere della sua istruttiva e semplice conversazione. Stimavano un grande onore e una grande felicità trovarsi in compagnia di D. Bosco; e non solo lo amavano, ma lo veneravano e consideravano quale un santo. Egli raccontava loro qualche fatterello o ameno o edificante, e si approfittava di queste occasioni per avvertire o correggere secondo le circostanze e le sue parole erano raccolte come venute dal cielo.
Alle 5 gli studenti si ritiravano nella sala di studio, fino all'ora di cena: ma perchè due ore e mezzo di occupazione mentale sarebbero riuscite un peso soverchio negli ultimi venti minuti era destinato uno a far lettura di qualche bel racconto edificante che destasse vivo interesse. Dopo cena eravi per tutti la scuola di canto.
Alle 9 si recitavano le orazioni della sera: d'estate, sotto il porticato; d'inverno, nell'antica cappella tettoia, perchè il [681] sermoncino famigliare che tenevasi dopo, D. Bosco non voleva che si facesse in chiesa a modo di predica. Qui egli aveva buon giuoco a dare un avvertimento, a rimediare a qualche piccolo disordine colle sue maniere così soavi e colle sue parole così insinuanti; e talvolta con una severità così paterna, che provocava in tutti la più salutare impressione.
Mentre si recitavano le orazioni, stando tutti genuflessi per terra, D. Bosco era sempre in mezzo ad essi; e finito un brevissimo esame di coscienza, saliva sopra una sedia, o sopra un'apposita cattedra per fare il detto breve ma efficace sermoncino.
Egli sapeva eccitare meravigliosamente l'amore a Dio ed a Maria SS., istillando ora una virtù ora l'altra secondo il bisogno e l'opportunità, e dando norme per il progresso nella via del bene. Talora riempiva i giovani di sacro orrore parlando della comunione sacrilega, talora li commoveva raccomandandosi alle loro preghiere con grande umiltà, perchè ne cum aliis praedicaverim, diceva, ipse reprobus efficiar. Non tutte le sere però trattava di argomenti di somma importanza, e quando non aveva cose da esporre per l'ordine della casa, spiegava il significato o di un nome di veste sacra per es. Dalmatica, Amitto, Pianeta ecc.; ovvero dava ragione di una frase rituale o del suo uso, Dominus vobiscum, Kirie eleison, Alleluia, Amen ecc.; come pure parlava di qualche arte, o invenzione moderna; ma intanto coglieva sempre occasione di dire quel che voleva e che gli stava a cuore. Non tralasciava eziandio di narrare l'origine di ogni festa istituita in onore della Madre di Dio e molte volte raccontava la vita del Santo del quale la Chiesa faceva memoria nel giorno seguente. Gli antichi alunni rammentarono come egli descrivesse al vivo S. Isidoro contadino, che mentre pregando arava i campi, con due altri aratri gli angeli lo [682] aiutavano nel suo lavoro, sicchè abbondantissimi prosperavano i raccolti; e del fanciullo S. Cirillo di Cesarea di Cappadocia, il quale perchè cristiano, schernito dai compagni, scacciato dalla casa paterna, consegnato ai giudici che invano tentano impaurirlo con una finta condanna al fuoco, finalmente riceve la palma del martirio, dicendo agli astanti: “Rallegratevi del mio trionfo. Voi non sapete qual regno mi sia aperto e quale felicità mi aspetti!”
Disceso D. Bosco dal sermoncino, diceva una parola di confidenza all'orecchio di un gran numero di giovani, che andavano ad augurargli la buona notte e a domandargli consigli. D. Bosco per far del bene alle anime loro, avrebbe vegliato volentieri anche fino all'alba. E gli alunni si ritiravano nei loro dormitorii pieni di santi pensieri, e finivano la giornata con un po' di lettura spirituale, che si faceva da un compagno mentre gli altri si coricavano. Così tutto l'avvicendarsi della giornata li portava a non essere che buoni.
La loro bontà era tanto più soda, dacchè crescevano convinti delle verità della religione. D. Bosco alla domenica narrava dal pulpito con mirabile semplicità e naturalezza la Storia Ecclesiastica e la vita dei Papi, sentita e gustata molto dai giovani, i quali ne ricavavano sempre moralità adattata ad essi e relativa a que' tempi. E tanto si dilettavano di tali istruzioni, che desideravano ritornasse presto la domenica per udirne la continuazione e le spiegazioni.
La virtù poi manteneasi costante colla frequenza de' Sacramenti. D. Bosco godeva l'illimitata fiducia di quasi tutti i suoi alunni, e non si rifiutava mai di confessarli in qualunque tempo ne lo avessero richiesto. A garanzia però della maggior libertà il Teol. Marengo veniva a confessare ogni sabato sera e vi si fermava fino ad ora tarda e talvolta fino alle 11, e con lui alcuni altri sacerdoti invitati da D. Bosco. [683]
Gli alunni vivevano alla presenza di Dio, e su tutte le mura leggevasi scritto a grossi caratteri: DIO TI VEDE. Con tale importantissimo ricordo D. Bosco sapeva loro ispirare un grande raccoglimento durante le preghiere, di cui rilevava l'efficacia dimostrandole un colloquio faccia a faccia con Dio stesso. Quindi anche le brevi orazioni, che precedevano e seguivano tutte le occupazioni di studio e di lavoro, e il pranzo e la cena, si recitavano con molta divozione. E non poteva essere diversamente, perchè tutti vedevano l'assiduità e la compostezza di D. Bosco alla chiesa, alle preghiere comuni, alla meditazione, ed alla recita del suo breviario, anche in tempo di gravi incomodi, per quanto poteva.
Perciò tutti ammiravano in molti giovani dell'Oratorio, come sempre ammirarono, un profondo sentimento di pietà, per cui riuscivano veri modelli di virtù; e tutte le volte che D. Bosco incontrava qualche difficoltà nelle sue imprese, faceva pregare dai giovani in modo particolare, ed otteneva le grazie domandate.
Molte volte vennero a lui sacerdoti direttori di istituti per la gioventù, e gli chiedevano quali erano le pratiche di pietà che compievano regolarmente gli alunni dell'Oratorio. Venne anche un tale che quasi lo rimproverava di trattenere i giovanetti in eccessive orazioni. D. Bosco rispondeva: Io non esigo di più di quanto si fa da ogni buon cristiano, ma procuro che queste preghiere siano fatte bene.
La loro divozione spiccava in modo sorprendente quando, al primo giovedì di ogni mese, facevasi l'esercizio di buona morte, pratica cui D. Bosco annetteva tanta importanza. Era solito a dire: - Io penso che si possa affermare assicurata la salvezza dell'anima di un giovane, che fa ogni mese la sua confessione e comunione come se fosse l'ultima della sua vita. - I giovani erano avvertiti qualche giorno prima di [684] prepararsi, e si disponevano con profitto e con una serietà superiore alla loro età, tanto era il desiderio che aveva saputo ispirar loro D. Bosco, di far bene questo esercizio. Alla cara funzione per molti anni intervenivano personaggi insigni della città. Dopo la comunione generale e le note preghiere, pronunciate a voce chiara e adagio, D. Bosco non tralasciava mai di far recitare un Pater ed Ave per colui fra i presenti che sarebbe il primo a morire. I giovani ne ritraevano una grande impressione, ed in essi eccitavasi sempre nuovo e incredibile fervore. Per dare un'aria festiva a quel giovedì, si distribuiva il companatico a colazione. Quante volte D. Bosco in quei momenti venuto in ricreazione, esclamava in mezzo ad una folta corona di giovani - Oh se morissimo oggi, come saremmo contenti!
A quando a quando nella bella stagione egli soleva condurli a far questo esercizio in qualche chiesa nei sobborghi della città, con grande edificazione di quanti li osservavano.
Ed i giovani non solo mettevano in esecuzione esattamente le pratiche ingiunte, ma consideravano realmente quel giorno come l'ultimo della loro vita; e fin nell'andare a letto si componevano come sogliono essere composti i defunti. Bramavano addormentarsi col crocifisso tra le mani; anzi alcuni avrebbero proprio desiderato che Dio li chiamasse a sè in tale notte siccome meglio preparati al terribile passo.
D. Bosco disse un giorno a D. Giacomelli: “Se l'Oratorio va bene, debbo attribuirlo specialmente all'esercizio della buona morte”.
Ci raccontava il Teol. Leonardo Murialdo: “Avendo Don Bosco condotto alla mia villeggiatura una sessantina de' suoi giovani per farvi una merenda, discorrendo famigliarmente tra noi, egli mi dichiarava che ove qualcuno di loro avesse avuto a morire nella notte improvvisamente, egli sarebbe stato [685] tranquillo per la salute dell'anima sua. Il che provava il frutto della sua educazione”. E lo spirito di preghiera, oltre alla santificazione degli individui, faceva intervenire il Divino Pastore a proteggere il suo gregge. Infatti in tutte le novene principali dell'anno, specialmente in quella di Maria SS., se qualche lupo, fosse pur vestito colla pelle d'agnello, s'introduceva in casa, veniva scoperto e fatto fuggire.
Intanto per assicurare viemeglio il buon andamento dell'Oratorio, D. Bosco aveva chiamato in Valdocco D. Antonio Grella, perchè assumesse l'ufficio di catechista. D. Antonio che fin dai primordi dell'Opera ne era stato zelante cooperatore e che era favorito di tutta la fiducia di D. Bosco, acconsentì, e negli anni 1853 e 1854 attese con grande amore al non leggero incarico. Andato poi cappellano alla Borgata della Gorra presso Carignano, vi stette fino alla morte, venerato da tutti e chiamato il Santo della Gorra, specialmente per l'efficacia provata delle sue incessanti preghiere.
Ed appunto le sue preghiere e quelle dei giovani non erano per certo estranee allo sviluppo di quell'opera che già aveva e doveva ancor sortire tanto bene, le Letture Cattoliche e loro avevano meritata la benedizione del Sommo Pontefice.
D. Bosco compiuto il primo semestre delle Letture Cattoliche, ne aveva fatto legare pulitamente i dodici primi fascicoli che formavano sei volumetti, e per mezzo dell'Eminentissimo Cardinale Antonelli Segretario di Stato umiliavali al Santo Padre Pio IX. Il glorioso Pontefice gradì altamente quel dono, e diede incarico al medesimo Cardinale di scrivergli la seguente lettera. [686]
Mi diedi la grata premura di rassegnare al S. Padre in nome di V. S. i volumetti costituenti il primo semestrale prodotto della nuova pubblicazione periodica da Lei istituita, col titolo di Letture Cattoliche, in vantaggio della classe men colta, a fine di premunirla dalle seduzioni, che insistono a promuovere e diffondere i nemici della fede e della verità. La Santità Sua ebbe molto a rallegrarsi insieme con me dell'industrioso zelo, onde Ella è costantemente applicata in somministrare ai fedeli quegli speciali soccorsi di direzione che corrispondono ai bisogni dei tempi. E molto pur si compiacque in apprendere come l'indicato lavoro abbia tosto riscosso un'accoglienza non inferiore alle salutari viste della S. V. e degli altri, che lodevolmente impresero a coadiuvarla.
Nel tempo stesso il S. Padre, secondando ben volentieri il pio desiderio che Ella manifestava in fine della relativa sua lettera, degnossi compartire all'ottima di Lei persona ed a quanti Le prestano concorso ed assistenza nelle Letture Cattoliche l'apostolica benedizione, la quale contribuisca al progressivo prosperamento delle edificanti loro cure.
Ringraziandola della parte per me destinata nel cortese invio, torno con piacere a confermarle i sensi della mia distinta stima.
La lettera del Cardinale aveagli infuso nuovo vigore; e benchè mancasse di mezzi, stava meditando l'impianto di una tipografia sua propria, quando ricevette un foglio da Stresa.
Mio Reverendo Signore ed Amico,
Pensando alla sua bell'opera dei poveri artigianelli, mi rammemorai un Istituto in parte simile, fondato da uno zelante canonico che conobbi e che mi pare si chiamasse Bellati, il quale per dar lavoro ad alcuni poveri giovani e qualche guadagno allo stabilimento ci aveva introdotta l'arte tipografica. Mi venne adunque il pensiero di proporre a Lei questo esempio di Brescia, acciocchè Ella consideri se una tale arte potesse essere utilmente introdotta nella sua istituzione di Valdocco. Quando Ella trovasse la cosa possibile ed opportuna, io sarei disposto a somministrare un moderato capitale per le spese di primo impianto. Le maggiori difficoltà ch'ìo ci vedessi sarebbero quelle di trovare un proto valente ed onesto e un amministratore attivo e integro per tenere la corrispondenza e dirigere l'economia.
Mediante una tale tipografia si potrebbero diffondere fogli, opuscoli ed opere utili, e il lavoro non mancherebbe, somministrandone una parte anche l'Istituto della Carità.
Voglia Ella considerare la cosa, e scrivermene, e baciando la mano ho l'onore di essere
Suo servo e fratello in Cristo
Grande fu il piacere che recò a D. Bosco questa lettera, ma siccome non era l'uomo dei facili entusiasmi, rispondeva:
All'Ill.mo e Rev.mo Signore il sig. Cav. Ab. D. Antonio Rosmini. - Stresa.
Direzione centrale delle Letture Cattoliche (Caldamente raccomandate al Sig. Abate Rosmini).
Prima di rispondere alla venerata lettera di V. S. Ill.ma e Rev.ma ho voluto fare un calcolo sul mio presente stato finanziario e sulle difficoltà che si potrebbero incontrare per mettere in opera una tipografia nel senso che noi intendiamo.
Comincio per dirle che tale idea forma un oggetto principale de' miei pensieri da più anni, e la sola mancanza di mezzi e di locale me ne ha fatto sospendere l'esecuzione. Perciocchè manchiamo difatti di una tipografia in cui ci siano confidenza, economia e perfezione. Non ci sarebbero difficoltà da parte del proto, e credo nemmeno di un buono ed attivo direttore: ciò che mi si oppone sono le spese che dovrei fare per ridurre una parte del locale in costruzione a questo uso e le spese di primo impianto. Tuttavia, poichè Ella sarebbe disposta di somministrare un discreto capitale, io mi metterei quando che sia all'opera; ma mi fa mestieri che V. S. voglia degnarsi di significarmi fino a qual somma Ella possa e intenda far montare questo capitale e con quali condizioni mi sarebbe somministrato. Se queste due ultime clausole saranno compatibili col mio stato presente di cose, credo che la cosa si potrà effettuare e che il lavoro non [689] mancherà, e che io potrò procacciar lavoro ad un buon numero de' miei ragazzi; ben inteso che m'è indispensabile il suo aiuto morale forse più del materiale.
La ringrazio, di tutto cuore della bontà e della memoria che nutre per me e per questi miei poveretti, e non potendole altrimenti dimostrare la mia gratitudine, prego il Signore Iddio a voler colmare di sue celesti benedizioni Lei e tutto il benemerito Istituto della Carità.
Baciandole rispettosamente le mani mi dico colla massima venerazione
Mentre D. Bosco vagheggiava una tipografia, che sarebbe stata fra qualche anno una delle glorie dell'Oratorio, accadevano in Piemonte nuovi oltraggi ai Cattolici.
Nella seconda metà del 1853, per la gravezza delle tasse e il caro del pane, in Torino e in varie provincie eransi levate sedizioni, facilmente represse; ma le sette ed i giornali, a partito preso, accusavano il clero di averle eccitate. Ed ecco in dicembre una turba di montanari, della Valle d'Aosta, per gli stessi motivi, tumultuare armati. Invano il Vescovo Jourdan andò loro incontro cercando di calmarli, invano parlò, chè i furiosi spargendo il terrore scesero fino ad Aosta. Quivi però si erano dispersi gettando le armi, vedendo le porte ben custodite dalla milizia. Così finiva l'insurrezione; ma una delle sue conseguenze fu la prigionia di undici sacerdoti, dei quali nove erano parroci, i quali, con pericolo della vita, avevano seguito l'esempio del loro Vescovo, cercando di pacificare gli animi. Come Dio volle però [690] dopo un lungo processo furono tutti dal tribunale dichiarati senza colpa.
Mentre il clero calunniato gemeva, i Valdesi godevano un'ora di trionfo. Il 15 dicembre essi inauguravano pubblicamente il loro tempio col concorso della Guardia Nazionale. Il ministro Amedeo Bert nell'orazione inaugurale aveva parlato degli antichi roghi e patiboli, spacciando i reali di Savoia come altrettanti manigoldi; ma la polizia nulla ebbe da osservare. Più tardi, nel 1855, sebbene si togliessero gli assegni al clero del Piemonte, il governo confermava quelli già prima stabiliti pel culto valdese; e fra altre dimostrazioni di benevolenza dispensava dall'esame i professori eretici del Collegio di Torre di Luserna.
Ma intanto, cosa singolare, prima ancora dell'inaugurazione del tempio, i Valdesi contro D. Bosco rivolgevano la punta dei loro scherni, riconoscendolo per uno dei primi avversarii. Infatti il Rogantino Piemontese, nel numero dei 2 ottobre 1853, in un articolo intitolato Fra Omero, dopo aver vilipesi i cattolici coi modi più insulsi, così scriveva: “Comincio a persuadermi che il nuovo tempio valdese non servirà più al culto evangelico, ma verrà consacrato a qualche madonna di nuovo titolo da prete Bosco. Dovevasi infatti aprire pel 20 ottobre, ma qualcuno dei muratori che vi lavorano intorno ha detto che sarà difficile. Basta: il tempo è galantuomo e Fra Omero.... si sta forse apparecchiando a cantare una messa in musica pel giorno dell'apertura e gliela serviranno da accoliti e cantori gli stessi protestanti e valdesi convertiti da lui”.
Sembra che fosse giunta all'orecchio dei Valdesi la parola detta da D. Bosco, e poi da lui ripetuta varie volte nel corso degli anni, fino al 1886: “Il tempio dei protestanti sarà cambiato in chiesa cattolica in onore di Maria SS. [691] Immacolata. In quanto al tempo e al modo sta nelle mani di Dio, ma ciò avverrà certamente”.
Così D. Bosco continuava le sue battaglie, come uno che è sicuro della vittoria, e la sua tranquillità si manifestava dalla seguente letterina, mandata al suo Professore Teol. Appendino in Villa Stellone.
Direzione centrale delle Letture Cattoliche.
La lettera del Sig. D. Chiattellino mi giunse troppo tardi e non mi fu più possibile concertare la partita dei cantori per Villastellone, secondo che V. S. amat.ma desiderava: moltiplicava le difficoltà un pranzo celebrato oggi dalla Società degli operai in questo Oratorio, della quale Società fanno parte essenziale i cantori.
Se questa volta mio malgrado non ho potuto appagare questo mio e suo desiderio, spero che mi porgerà altre occasioni in cui potrò dare a lei un segno sensibile della mia rispettosa gratitudine, con cui augurandole ogni benedizione dal Signore mi dico con tutta effusione di cuore
Il suo affetto per la classe degli operai era uno dei moventi a fargli scrivere i suoi libretti, dei quali la maggior parte avevano per fondamento un fatto vero disonorevole [692] per l'eresia, del quale egli stesso era stato testimonio. E per diffonderli largamente nelle popolazioni, scriveva continuamente lettere a distinti personaggi, a sacerdoti e a Vescovi di varie diocesi. Ne conserviamo una indirizzata al Cardinale Vannicelli Cossoni Luigi, Arcivescovo di Ferrara.
Direzione Centrale delle Letture Cattoliche.
Nella favorevole congiuntura che il Rev.mo Padre Novelli parte da questa capitale per recarsi a Ferrara, mi prendo la libertà di raccomandare al conosciuto zelo di V. E. R.ma la diffusione delle Letture Cattoliche; non già che dubiti del concorso di Lei, che si mostra sempre pronta alle opere di zelo, ma per farne tener copia direttamente a Lei, e così possa essere in grado di farle ad altri vedere. Quest'associazione è assai bene avviata, e contiamo già diciottomila associati.
Il Rev.mo Mons. Luigi Moreno Vescovo d'Ivrea, Direttore in capo di queste Letture, mi ha egli stesso dato onorevole incarico di scrivere su tale affare a V. E. e vi unirebbe una sua lettera se la partenza del prefato P. Novelli avesse dato campo a rendernelo avvertito.
Persuaso che voglia accogliere in buona parte questa mia lettera, mi raccomando di tutto cuore onde si degni supplicare il Signore Iddio ad aver pietà del povero Piemonte per cui corrono tempi veramente calamitosi per la nostra Santa Cattolica Religione: preghi eziandio per me [693] e per un numero di poveri giovani, che umilmente domandano la santa e pastorale sua benedizione.
Il Signore colmi V. E. di sue celesti benedizioni, e la conservi lungo tempo a bene di Santa Chiesa.
Colla massima venerazione mi dico
Ma oltre ai libretti, un'altra arma aveva adoperato Don Bosco contro i protestanti, col fine di premunire i suoi giovani dai loro errori: questa fu un dramma che egli scrisse in due atti, col titolo: Una disputa tra un avvocato e un ministro protestante. Molte volte fu rappresentato sul teatrino dell'Oratorio, e nel mese di dicembre era dato alle stampe. D. Bosco vi poneva in fronte la seguente prefazione:
Le prove fatte dai figli che intervengono all'Oratorio di S. Francesco di Sales per rappresentare questo dramma e la soddisfazione dimostrata da quelli che trovavansi presenti, fanno sperare che non debba riuscire discaro ai nostri lettori, l'inserirlo in una dispensa delle Letture Cattoliche.
I fatti che riguardano alla famiglia di Alessandro (un apostata) sono storici; la disputa poi è un tessuto di fatti egualmente storici, ma altrove avvenuti, ed ivi collocati per uniformarmi alle regole del dramma.
In tutto quello che ivi si dice dei protestanti, intendo di escludere ogni allusione personale, avendo unicamente di mira la loro dottrina e gli errori in essa contenuti. [694] Credo che sia facile il rappresentare questo dramma tanto nelle città quanto nei paesi di campagna, e che mentre la verità e l'intreccio delle cose renderanno piacevole il trattenimento, l'errore verrà pure manifestato e la verità conosciuta a maggior gloria di Dio, a vantaggio delle anime e a decoro della nostra Santa Cattolica Religione.
Questa recita, oltre all'istruire i giovani dell'Oratorio procurò loro un'amena ricreazione.
Margherita nel mese di ottobre era andata a Castelnuovo per qualche settimana, chiamatavi dai varii affari. Una sera, verso le 6 e ½ essendosi già le galline ritirate nel pollaio, mentre i giovani dell'Oratorio erano occupati nei loro studi e lavori, ecco ritornare Margherita con la sorella di D. Giacomelli. Si sparge come un baleno la notizia, le grida di viva mamma risuonano da ogni parte, i giovani le corrono incontro nel cortile, la circondano battendo le mani, mentre essa ridendo si sforzava di ripetere quieti, quieti. Ma la sua voce produsse un altro effetto, non pensato. Le galline nel pollaio si svegliarono a tanto fracasso e udendo quella voce nota, che da più giorni non le chiamava, cominciarono a cantare, quindi uscirono tutte dal pollaio e corsero esse pure intorno a Margherita. I giovani a quello spettacolo morivano dalle risa e fecero passaggio alle galline, alle quali Margherita prese a distribuire briciole di pane.
Il pollaio infatti era il suo regno e le galline i suoi sudditi, prestandosi a lei così obbedienti, che, quando voleva prenderne una, chiamavala, le si accostava, le metteva sopra la mano senza che quella facesse nessun atto di sfuggire. Questa sua affezione per le galline era cagione di molta ilarità nell'Oratorio. Quando adunque si recitò per la prima. [695] volta la sullodata azione drammatica Mamma Margherita andò cogli altri. Un attore, descrivendo come i protestanti confusi e vinti dalle ragioni dell'Avvocato si fossero dileguati, diceva
“Fu proprio un bel giuoco: un bel giuoco propriamente. Uno per volta, uno per volta se ne andarono tutti e tre. Mi pare che abbiano fatto come fanno le volpi alle galline. Le volpi girano attorno alle galline, e se non le vedono ben custodite, si avventano, e, se possono addentarne una, la pigliano, se la portano via con festa. Ma se vedono il padrone che le adocchi con un bastone, oh! no, no, non vanno più oltre a fiutare, ma subito, gambe, aiuto. Questi signori ministri si pensavano di trovare le galline abbandonate, ma trovarono chi le difendeva con un buon bastone, cioè con buone ragioni”.
Finita la rappresentazione, congedati gli spettatori, Don Bosco diceva agli alunni che gli stavano tutti intorno: - Ciò che più di tutto avrà colpito la fantasia di mia mamma sarà certamente il paragone della volpe e delle galline.
Infatti essendo dessa sopraggiunta ed avendole i giovani fatta intorno corona, D. Bosco la interrogò:
- Anche voi siete venuta al teatro. E che cosa ne dite?
- Tutto bello, rispose Margherita; ma quella volpe e quelle galline mi hanno toccato il cuore.
Ma non ne risero i Valdesi, i quali conoscevano come veramente fossero state svolte con loro vergogna quelle dispute tra essi e D. Bosco. Questo dramma fu considerato come un nuovo guanto di sfida, levò un immenso rumore nel loro campo, e D. Bosco alle loro recriminazioni rispondeva con articoli stampati sull'Armonia, che per vari anni annunziava il titolo di ciascun opuscolo delle Letture Cattoliche. Ma la guerra dei settari non era di sole parole; D. Bosco però era difeso in modo meraviglioso dalla Provvidenza divina.
ABBIAMO esposto in uno dei capitoli precedenti come due ribaldi, venuti per intimare a D. Bosco che desistesse dallo scrivere Letture Cattoliche nell'uscire dalla sua camera avessero soggiunto con irato cipiglio: Ci rivedremo. Queste parole e le non oscure minacce lasciatesi sfuggire nel corso della loro conversazione danno il bandolo di una lunga serie di attentati contro la vita di D. Bosco. Essi furono tanti e così fraudolentemente preparati e violenti, che possiam dire senza esitazione, che fu solo per un tratto straordinario della divina Provvidenza, fu solo per miracolo, che D. Bosco ne scampò ogni volta.
Parve che una vasta trama segreta fosse ordita dagli eretici e malfattori contro di lui. Racconteremo alcuni dei fatti principali, di cui parecchi giovani furono testimoni oculari, od ebbero fedele relazione da coloro che lo erano stati.
Una sera dopo cena stava D. Bosco facendo la consueta scuola serale, quando due uomini di tristo aspetto vennero [697] a chiamarlo, che andasse in fretta a Confessare un moribondo, in un sito poco distante, detto il Cuor d'oro. Sempre pronto al servizio delle anime, egli affida tosto ad un altro la sua classe, e si dispone a partire immantinente. Nell'uscire di casa, stante l'ora un po' avanzata, gli venne in pensiero di menar seco alcuni dei giovani più grandicelli, affinchè gli facessero compagnia, e li chiama. - Non occorre che conduca giovani insieme, dissero quei due sconosciuti: noi stessi lo accompagneremo nell'andare e nel venire; e poi l'infermo potrebbe essere disturbato dalla loro presenza. - Non datevi pena di questo, soggiunse D. Bosco, i miei giovanotti hanno, piacere di fare una passeggiatina, e giunti alla camera del malato, si fermeranno al di fuori ai piedi della scala per tutto, il tempo ch'io passerò presso l'infermo. - E quei due, sebbene a malincuore, tacquero e lasciarono fare.
Arrivati alla casa destinata: - Entri un momento in questa stanza, dissero coloro, e noi andremo ad avvertire l'ammalato, della sua venuta. - I giovani, tra i quali Cigliuti, Gravano, Buzzetti, rimasero fuori, e D. Bosco entrò in una stanza a pian terreno, dove trovò una mezza dozzina di bontemponi, che dopo una lauta cena mangiavano o fingevano di mangiar castagne. Accolsero essi D. Bosco con molti segni di rispetto, lodandolo a cielo ed applaudendo. - Favorisca, sig. Don Bosco, di servirsi delle nostre castagne, gli disse poscia uno della brigata, porgendogli il piatto. - Non mi sento più di mangiare, rispos'egli; ho fatto cena solo poc'anzi e non prendo, più altro. - Almeno beverà un bicchiere del nostro vino, lo troverà buono, sa; viene dalle parti d'Asti, - Non mi sento; non sono abituato a bere fuori di pasto, e se bevessi mi farebbe male. - Oibò! Un piccolo bicchiere di buon vino non le farà male certamente, anzi le farà bene, aiuterà la digestione. Lei beverà dunque per farci piacere. [698]
Ciò detto, colui dà di piglio ad una bottiglia posta sul tavolo e versa da bere nei bicchieri. Siccome studiosamente ne aveva messo uno di meno, così egli, versatone in tutti, va poscia a pigliare e bicchiere e bottiglia in disparte e ne mesce per D. Bosco. Non occorse d'avvantaggio, perchè questi si accorgesse del perverso loro divisamento, che era di fargli bere il veleno. Senza dare ad intendere che aveva scoperto la loro insidia, D. Bosco prende in mano il bicchiere colmo di spumeggiante vino e fa un brindisi alla salute di quei disgraziati; ma, invece di portarlo alle labbra, cerca di riporlo sul tavolo, ricusando di bere. - Non ci dia questo disgusto, cominciò a dire uno; non ci faccia questo insulto, soggiunse un altro: è un vino eccellente; vogliamo che lo assaggi alla nostra salute, gridarono tutti. - Ho già detto che non mi sento, ed ora aggiungo che non posso e non voglio bere, riprese D. Bosco. - Eppure bisogna che Lei beva ad ogni costo, esclamarono in coro quei furfanti. Poscia, dai detti passando ai fatti, uno di loro prese il povero prete per la spalla destra, un altro per la sinistra, dicendo: - Non possiamo tollerare questo insulto: se non vuol bere per amore, beverà per forza.
A questa violenza D. Bosco si trovò veramente tra l'incudine e il martello; e fu questo per lui certamente un brutto istante. Siccome l'usare contro di loro la forza non era nè prudente, nè facile, giudicò meglio ricorrere all'astuzia, e così fece. Disse pertanto: - Se assolutamente volete che io beva, lasciatemi in libertà, perchè prendendomi per le spalle e per le braccia mi fate tremare la mano e versare il vino. Ha ragione, risposero quelli, e si scostarono alquanto. Allora D. Bosco, colto il momento propizio, fa un lungo passo indietro, si avvicina all'uscio, che fortunatamente non era chiavato, perchè egli valicandone la soglia, aveva messo il piede [699] tra esso e il muro affinchè non si potesse chiudere, e quella brava gente non ci aveva badato: lo apre pertanto e invita i suoi giovani ad entrare. Lo spalancarsi improvvisamente dell'uscio e la comparsa di quattro o cinque giovanotti sui 18 e 20 anni pose freno alla tracotanza di coloro, il cui capo fattosi mogio disse: - Se non vuol bere, pazienza; lasci pure, e stia tranquillo. - Oh no; se non posso bere io, lo darò ad uno dei miei figli, che lo berranno in vece mia. - Non occorre, non occorre che altri beva, replicarono que' sciagurati. - D. Bosco non avrebbe certamente dato ad altri quel bicchiere, ma così agiva per meglio scoprire la loro trama.
- Ma dov'è il moribondo? domandò allora D. Bosco; bisogna almeno che io lo veda. - Per coprire il loro vile attentato, uno di quei malfattori condusse il sacerdote in una camera al secondo piano. Colà invece di un malato, D. Bosco trovò coricato nel letto uno di quei due che era andato a chiamarlo all'Oratorio. D. Bosco gli fece tuttavia alcune domande, e quell'impostore matricolato, non ostante lo sforzo erculeo per contenersi, non potendone più, diede in uno scroscio di risa dicendo: Mi confesserò poi domani; e D. Bosco se ne partì, ringraziando in cuor suo il Signore di averlo per mezzo dei figli suoi protetto da quella mano di scellerati.
Avendo poi inteso per filo e per segno come erano andate le cose, alcuni giovani al domani fecero delle indagini intorno a questo fatto, e scoprirono che un cotale aveva pagato a quei vigliacchi una lauta cena, col patto che avessero fatto bere a D. Bosco un po' di vino, che egli aveva preparato appositamente per lui. Coloro adunque erano compri sicarii.
Il sant'uomo non perdè mai più di memoria quel sito, e ancora negli ultimi mesi di sua vita, uscendo con alcuno di [700] noi al passeggio, giunto a quel luogo ce lo indicava dicendo:
Ecco là la camera delle castagne.
Un'altra sera di agosto, intorno alle ore sei, D. Bosco, trattenevasi presso il cancello di legno che chiudeva il cortile dell'Oratorio, e discorreva piacevolmente con alcuni dei suoi giovinetti, quando un grido si fa udire di mezzo a loro
Ecco infatti un certo Andreis in manica di camicia, con un coltello da macellaio in mano, correre furiosamente contra D. Bosco gridando: Voglio D. Bosco, voglio D. Bosco! Costui era da D. Bosco assai conosciuto e beneficato essendo stato antico inquilino in casa Pinardi ed ora in casa Bellezza.,
Lo spavento a primo tratto s'impadronì dei giovani, che si diedero alla fuga sbandati, chi nel campo aperto che stava dinanzi, e chi nel cortile della casa. Tra i fuggenti eravi il chierico Felice Reviglio. La sua fuga fu provvidenziale e la salvezza di D. Bosco; imperocchè l'assassino, presolo per D. Bosco, si diede ad inseguirlo; ma accortosi dello sbaglio, ritornò verso il cancello. In quel breve intervallo D. Bosco aveva avuto tempo di mettersi in salvo, salendo alla sua camera e chiudendo a chiave il piccolo cancello di ferro che stava a piè della scala. Questo era appena fermato, quando sopraggiunse il manigoldo, il quale trovando chiuso, prese a battere con un grosso macigno, e a scuotere, urtare con impeto il cancello per aprirlo, ma indarno. Egli stette colà per più di tre ore carne tigre in agguato della preda; pareva un pazzo; ma il fingeva per interesse. Ora chiamava D. Bosco perchè gli venisse ad aprire, ora diceva di volergli parlare.
Intanto i giovani, scosso il primo spavento e alquanta rinfrancati, si erano nuovamente riuniti. Alla vista di colui, che minacciava la vita del loro benefattore e padre, si sentirono bollire il sangue nelle vene. Dando ascolto alla voce [701] del cuore ed abbandonandosi all'ardor giovanile, si armarono ognuno di uno strumento, chi di bastone, chi di pietre, chi di altro arnese, e si disposero ad assalire quel miserabile e a farlo a pezzi; ma D. Bosco, temendo che alcuno di loro avesse a riportarne qualche ferita, dal balcone li proibì di toccarlo.
Con quella fiera in casa, niuno poteva quietare. La buona Margherita sopratutto era nella più alta costernazione, e pel figlio e per i giovani. Che fare? Si mandò subito e ripetutamente avviso alla questura; ma, duole il dirlo, non si vide mai comparire nè una guardia, nè un carabiniere sino alle nove e mezzo di sera. A quell'ora soltanto si presentarono due gendarmi, legarono quel malandrino e seco lo condussero alla caserma, liberando D. Bosco da una violenza che fece poco onore a chi presiedeva in quei giorni alla pubblica forza. E come se una tale inerzia nel difendere un libero cittadino non fosse ancora stata sufficiente ad impensierire ogni persona onesta, ecco il domani commettersi dal questore una imprudenza ancor peggiore. Ei manda un uomo della polizia ad interrogare D. Bosco, se perdonava a quell'oltraggiatore. Rispose egli che come cristiano e come sacerdote perdonava quella ed altre ingiurie ancora; ma come cittadino e capo d'Istituto invocava a nome della legge, che la pubblica autorità gli guarentisse un po' meglio la persona e la casa. Or chi lo crederebbe? Nel giorno stesso il questore fa mettere in libertà quello scellerato, il quale nella sera stava nuovamente appostato a poca distanza dall'Oratorio, attendendo che D. Bosco ne uscisse, per eseguire il suo sanguinario disegno.
Nella primavera del 1854 venendo al cader del sole il giovanetto Cagliero dalla scuola dal professore Bonzanino, scorse da lungi D. Bosco nello svolto della piccola strada che conduceva [702] all'Oratorio e si affrettò per raggiungerlo. Si era già accompagnato con lui, quando vide correre furiosamente verso loro due Andreis in manica di camicia. Lo credette ubbriaco e si ritirò di fianco per lasciargli libero il passaggio. Questo movimento fatto recisamente anche da D. Bosco dal lato opposto, fece sì che quell'assalitore passasse oltre alcuni passi, non potendo fermarsi a quel punto per l'impeto che aveva. D. Bosco intanto, avendo visto luccicare la lama del coltello nella manica di quel malintenzionato, prese la corsa verso la casa e giunse vicino alla porta; ma colui fermatosi e rivoltosi ritornava indietro in atto di ferire. Cagliero, che prima non si era accorto di nulla, allora capì di che si trattasse; e fuggendo prese a gridare al soccorso. L'altro ristette in forse e finalmente si avviò verso la sua abitazione.
Altra volta lo stesso Andreis, mutati gli abiti, venne all'Oratorio, e non vedendo D. Bosco in mezzo a' suoi giovani, chiese di parlar con lui, e quindi salì difilato alla sua camera. Ma Cagliero lo riconobbe, e vedendo come tenesse la mano destra in saccoccia, forse sul manico del coltello, avvisò i compagni, e specialmente il Ch. Reviglio e Buzzetti, i quali essendo robusti corsero sul poggiuolo, gli impedirono l'accesso a D. Bosco, lo costrinsero a discendere e aiutati dagli altri lo cacciarono fuori del cortile.
Costui perciò era stato messo in prigione un'altra volta; ma D. Bosco chiamato in questura, dichiarò che non voleva sporgere querela, e mediante i suoi buoni uffici venne subito restituito in libertà. La prudenza così suggeriva, poichè le autorità sarebbero state indulgenti pel colpevole e l'odiosità sarebbe rimasta al prete.
Ma chi moveva colui a tanta scelleratezza?
Ci pose in grado di poter rispondere a questa domanda un amico di D. Bosco ed insigne benefattore dei figli suoi, [703] il Comm. Duprè . Questi constatando che non poteva aversi dalla pubblica forza una sicura difesa, si assunse il còmpito di parlare con quello sciagurato, che notte e giorno teneva l'Ospizio in angosciosa apprensione.
- Io sono pagato, rispose il ribaldo; mi si dia quanto altri mi danno, e me ne andrò.
Ciò inteso, gli vennero pagati ottanta franchi di fitto scaduto, ed altri ottanta per anticipazione, e così finì quella continua minaccia, che avrebbe potuto tradursi in sanguinosa tragedia.
E l'Andreis si ammansò, mentre D. Bosco tutto gli aveva perdonato, trattandolo con quella dolcezza che soleva sempre usare con i suoi offensori. “Anzi, ci disse Mons. Cagliero, lo beneficò. Avendo allontanato dalla casa Bellezza tutti i pigionali che erano causa di scandalo ai vicini, lasciò che l'Andreis e la sua famiglia continuassero a vivere nelle stanze, che già occupavano. Quante volte l'ho udito a ripetere: Diligite inimicos vestros, benefacite his qui oderunt vos”
Ma più insidiosa fu l'aggressione che stiamo per descrivere, e dalla quale D. Bosco non uscì intieramente incolume.
Poco dopo i fatti riferiti, una domenica verso notte, D. Bosco vien chiamato da un uomo, per confessare una malata in casa Sardi, quasi di rimpetto all'Istituto del Rifugio. I fatti precedenti gli suggerirono di farsi accompagnare da due giovani coraggiosi e robusti.
- Lasci, lasci pure i suoi giovani a casa, disse quel cotale, non li disturbi; l'accompagnerò io stesso.
Queste parole fecero crescere il sospetto e produssero l'effetto contrario; quindi D. Bosco, invece di due giovani ne chiamò quattro, tra cui un certo Giacinto Arnaud e Giacomo Cerruti, così nerboruti e forti, che in un bisogno avrebbero squartato un bue. Giunto al luogo designato, egli ne lasciò [704] due a piè della scala, Ribaudi e Buzzetti Giuseppe, e i due sopra nominati salirono con lui al primo piano, e fermaronsi sul pianerottolo presso l'uscio della camera. Entrato, vi scorge in letto una donna tutta ansante, la quale sapeva fingere sì bene, che pareva veramente volesse mandare l'ultimo fiato. A quella vista D. Bosco invitò gli astanti in numero di quattro, che erano tutti seduti, ad allontanarsi, a fine di parlar liberamente alla malata ed aiutarla ad acconciarsi dell'anima.
- Prima di confessarmi, prese allora a dire la donnaccia con una gran voce, io voglio che quel briccone là si ritratti delle calunnie, che mi ha imputate, - e indicava chi gli stava di fronte.
- No, rispose uno alzandosi in piedi.
- Silenzio, aggiunse un altro.
- Taci, infame, se no ti strozzo.
Questi ed altri non men graziosi accenti, misti ad orrende imprecazioni, si sollevarono ben tosto a produrre un eco spaventoso per quella camera d'inferno. Tutti si erano alzati. In mezzo a questa gazzarra si spengono i lumi, e allora nel buio cessa il tuono e comincia una grandine di bastonate, dirette al sito dove stava D. Bosco. Non tardò egli ad indovinare il giuoco che gli volevano fare, vale a dire, rompergli le ossa. In quel frangente, non sapendo come meglio ripararsi, egli in tutta fretta dà di piglio alla scranna, che stava presso il letto, se la pone in testa capovolta, e sotto a quel parabotte cerca di guadagnare l'uscio. Intanto quegli scellerati calavano giù colpi mortali, che invece di cadere sul capo del povero D. Bosco piombavano con gran fracasso sulla sedia. D. Bosco, giunto all'uscio e trovatolo chiuso a chiave, con quella forza muscolare straordinaria di cui era [705] fornito, con una mano ne contorse e strappò la serratura, intanto che a quel rumore i giovani appostati, fattisi accorti, danno di spalla all'uscio e lo aprono: Arnaud entra, prende D. Bosco per un braccio, lo tira fuori, e D. Bosco si slancia in mezzo di loro, lieto di aver portate salve le spalle e la testa. Riportò tuttavia un colpo di bastone sopra il pollice della mano sinistra, che in quel parapiglia teneva appoggiata sullo schienale della sedia. Il colpo, quantunque per sè stesso leggiero, nondimeno gli portò via l'unghia e rimase ammaccata metà della falange, sicchè dopo 30 e più anni ne conservava la cicatrice. Quando D. Bosco fu all'aria aperta raccomandò a' suoi giovani di non parlare di quel fatto e di non palesare il luogo e le persone compromesse; e soggiunse: Perdoniamo loro e preghiamo per essi, perchè si ravvedano. Disgraziati: sono nemici della religione!
Non sono adunque infondati i sospetti, che queste ed altre moltissime insidie fossero ordite o per la malizia o pel danaro di coloro, i quali vedevano di mal occhio le Letture Cattoliche, e ne volevano o atterrito o spento l'autore. Erano furibondi, volendo che D. Bosco desistesse, come essi dicevano, dal calunniare i Protestanti.
Del resto gli eretici di Torino non facevano che battere le orme dei loro antenati, i quali, per tacere di molti, altri assassinii, il giorno 9 di aprile dell'anno 1374, in Bricherasio, con una grandine di colpi trucidarono barbaramente il beato Pavonio da Savigliano domenicano, perchè predicava contro la loro dottrina e convertiva gran numero di Valdesi alla Chiesa Cattolica.
Ne è una prova ciò che ancora narravaci Mons. Cagliero.
Una domenica del gennaio 1854, nel pomeriggio, due signori in abito elegante salivano alla camera di D. Bosco, il quale li ricevette colla consueta cortesia. Il cortile era deserto, [706] perchè i giovani stavano cantando in chiesa. Giovanni Cagliero, che aveva visti quei due signori, entrò in sospetto, e andò a nascondersi in una stanzetta attigua a quella di D. Bosco mettendosi in guardia presso una porta interna. Origliando non potè sulle prime intendere bene, quantunque animata fosse la conversazione di que' signori con D. Bosco; tuttavia gli parve che questi rifiutasse di aderire a qualche proposta fattagli. Quand'ecco i due intrusi alzar la voce, e Cagliero udì chiare queste parole: - Ma in fin dei conti, che importa a lei che noi predichiamo una cosa o l'altra? Che interesse ha lei di darci contro?
A cui D. Bosco rispose: - È mio dovere difendere la verità e la religione santissima con tutte le mie forze!
- Dunque non desisterà dallo scrivere Letture Cattoliche?
- No! - disse risolutamente D. Bosco.
Fu allora che essi presero a minacciarlo, e uno di essi tratte fuori due pistole gli intimò - Si decida ad obbedire, o è morto!
- Tiri pure, disse D. Bosco tranquillo, fissandogli in volto uno sguardo imponente. In quell'istante un colpo forte, che rimbombò nella stanza, fece sbalordire que' due signori che ricacciarono le pistole nella saccoccia. Che cosa era avvenuto? Cagliero, non potendo più afferrare il senso delle ultime parole pronunciate dalle voci cupe e basse, temette alcun male per D. Bosco; perciò aveva dato un potente pugno all'uscio, e quindi volò a chiamare Buzzetti, il quale accorse all'istante. Ambidue giunsero alla porta di D. Bosco e volevano entrare; ed ecco nello stesso mentre uscirne que' signori agitati da un convulsivo turbamento. D. Bosco li seguiva umile col suo berretto in mano, salutandoli con tranquilla cortesia. Per ben due volte ebbe adunque Cagliero la fortuna di salvare la vita a D. Bosco. [707]
“Tuttavia non ostante le continue insidie, ci scrisse il Teol. Reviglio, si vedeva che D. Bosco era sempre inalterabile, anzi giulivo, ogni volta che per la gloria di Dio, doveva incontrare insulti e minacce dagli avversarii. Egli non portò mai armi in sua difesa, mai adoperò la sua forza portentosa per respingere gli assalti. Eppure, se due uomini robusti gli avessero dato noia aveva il braccio e la mano abbastanza forti, per afferrarne uno per i fianchi e flagellar l'altro. Solo talvolta vedendosi perduto ricorse alla destrezza”. Ci narrò il Sig. Spinardi Pasquale: “D. Bosco una sera ad ora tardissima veniva da Moncalieri camminando sul margine della via, quando a metà strada, quasi sotto Cavoretto, si accorse di essere inseguito da un uomo, il quale teneva nelle mani un grosso e lungo randello alzato per spaccargli la testa. Correndo, già lo aveva raggiunto; ma all'impensata del malvagio, D. Bosco scansatolo con un rapido movimento gli diede tale spintone da mandarlo a gambe levate in un fosso erboso assai profondo. Quindi affrettò il suo passo per raggiungere alcune comitive, che lo precedevano da lontano”. Se è meraviglioso il vedere come D. Bosco in questi incontri rimanesse tranquillo, nello stesso tempo non sono da dimenticare le continue ansietà di Mamma Margherita. Quante volte ringraziò il Signore nel veder andar falliti i colpi con cui attentavasi ai giorni di lui! La casa dell'Oratorio, essendo isolata in mezzo agli orti, ai prati e senza muro continuo di cinta, le fu giocoforza mettere un piccolo cancello di ferro a piè della scala affine di chiudere il passaggio che pel balcone metteva alla stanza di D. Bosco. Quivi spesso collocava in guardia qualche robusto giovane, specialmente di notte. Anzi fece venire da Castelnuovo l'altro suo figlio Giuseppe per difendere D. Bosco da quegli ostinati nemici. Quando egli sul far della sera non era ancora tornato a casa [708] dall'assistere qualche ammalato o dall'adempimento di qualche altra opera di carità, Margherita gli mandava incontro i giovani più grandi perchè lo accompagnassero nel ritorno all'Oratorio. Pareva avesse il dono o la grazia di presentire i pericoli che a quando a quando pendevano sopra il suo caro figlio.
Cagliero Giovanni nel 1853 e 1854 con due de' più adulti de' suoi compagni andavano ad aspettare D. Bosco nei pressi, all'incrociamento dei viali e de' sentieri, quando doveva ritornare a casa di notte. Egli però era avvisato sovente da benemerite persone, o da lettere anonime, che si guardasse dalle insidie che tramavangli i protestanti. E Cagliero, in sentinella, più volte lo incontrò che ritornava all'Oratorio in mezzo a cittadini benevoli, che lo accompagnavano per difenderlo all'occorrenza; e una volta lo vide scortato da un soldato in arme, che egli aveva chiesto al sergente di guardia del picchetto di Porta Palazzo, tanto egli era sicuro di essere cercato a morte.
Gli attentati contro D. Bosco, che abbiamo sopra descritti, e quelli dei quali ancor parleremo, si succedettero ad intervalli per ben quattro anni, incominciando dal 1852. Nello stesso tempo gli autori di tali misfatti avevano per ausiliari turbe di giovinastri i quali, incitati contro l'Oratorio, alla domenica venivano in Valdocco a tempestare con pietre e bastoni contro la porta della cappella in tempo di predica. D. Bosco talora per i loro colpi e le urla non potea più fare udire la sua voce. Per varie domeniche si ebbe pazienza, ma finalmente, stanchi di quella provocazione, alcuni dei giovani ricoverati, senza chiedere licenze, armatisi di randello, attesero dietro la porta socchiusa che incominciasse il solito fracasso. Questo non tardò a scoppiare, e Cagliero Giovanni seguito da altri si lanciò fuori. Gettato a terra il primo [709] che incontrarono, corsero dietro agli altri che fuggivano. La strada era seminata di cinque o sei caduti. D. Bosco però aveva sospesa la predica per richiamare i suoi giovani, i quali obbedirono subito, essendo ad essi pure toccata la loro parte di busse, perchè i disturbatori avevano reagito; ma da quel giorno a poco a poco cessò tale infestazione.
I nemici però di D. Bosco e i loro emissari non erano della regione Valdocco, e quelli che prima lo avevano combattuto si erano ricreduti e pacificati. Quindi ogni qual volta egli nella bella stagione ad ora molto tarda passava per via Cottolengo, ivi trovava sempre radunata moltissima gente. Suonavano, cantavano, danzavano; ma appena scorgevano D. Bosco da lontano, cessava ogni divertimento e ad una voce esclamavano con manifesta soddisfazione:
D. Bosco! D. Bosco! - E quando D. Bosco arrivava in mezzo a loro lo prendevano per le mani, lo trattavano colla più riverente amorevolezza e lo accompagnavano fino al cancello dell'Oratorio.
Il saperlo così malignamente perseguitato gli cresceva le simpatie di tutti gli onesti, che si maravigliavano di vederlo uscire sempre incolume da tante insidie. Egli infatti viveva sicuro, e con piena fiducia, si rivolgeva al Signore, dicendogli: “Educes me de laqueo hoc quem absconderunt mihi: quoniam tu es protector meus”[35].
Nel capo seguente noi vedremo come Dio ascoltasse la sua preghiera.
NELLA sacra Bibbia e nella Storia Ecclesiastica si legge che talora Iddio in modo affatto straordinario si valse delle bestie a difesa ed a benefizio dei suoi servi. Il profeta Eliseo è schernito da una brigata di giovani irreligiosi ed insolenti, ed ecco due orsi sbucar fuori dalla vicina foresta e farne orribil scempio. Per settant'anni un corvo portò ogni giorno nel deserto il necessario cibo a S. Paolo, primo istitutore della vita solitaria. Sant'Antonio ha da seppellire il cadavere di questo abitator del deserto, e gli mancano gli strumenti per iscavar la fossa; ed ecco che due leoni corrono alla sua volta, scavano colle loro zampe la terra a giusta misura, e benedetti dal santo se ne partono quali mansueti agnelli.
Or bene nel tempo, che fu pel nostro D. Bosco così pericoloso, la divina Provvidenza si compiacque di dargli una guardia ed una difesa affatto singolare: gli diede un grosso e bellissimo cane di colore grigio, il quale fu già e sarà ancora il tema di molte dicerie e supposizioni. Parecchi dei giovani lo videro, lo palparono, lo accarezzarono, e ne seppero particolari degni di speciale memoria.
Qui li raccontiamo sulla relazione di alcuni di essi, tra cui Giuseppe Buzzetti, Carlo Tomatis e Giuseppe Brosio. [711]
Aggiungiamo che su parecchie circostanze interrogatone noi stessi D. Bosco, ce le confermò di viva voce.
Adunque il cane grigio nella grossezza e nella forma assomigliava ad un cane da gregge o mastino da guardia. Primieramente dobbiamo notare che nessuno e neppure Don Bosco, seppe mai donde venisse, o chi ne fosse il padrone. Ma se non possiamo fargli la fede di nascita, ben possiamo dargli il ben servito, imperocchè per alcuni anni esso prestò a D. Bosco, e perciò all'Oratorio, un vantaggio incalcolabile.
Vedendo di essere dai malevoli continuamente insidiato e pregato dagli amici a stare guardingo, D. Bosco usava bensì tutte le precauzioni per non trovarsi fuori di casa di notte tempo; ma accadeva talvolta che suo malgrado dovesse trattenersi in città sino a sera inoltrata, ora presso un malato, ora presso un signore per l'interesse de' suoi pupilli, ora presso una famiglia stata ingannata dagli eretici e che dava speranza di ritornare a sani consigli. Allora egli non badava più a se stesso, e compiuto il suo dovere, si metteva in via anche di notte, e scendeva in Valdocco. Questa regione era in quel tempo assai poco abitata. L'ultimo edifizio verso il nostro Oratorio era il Manicomio; tutto il resto era in allora sterile terreno, ineguale, in gran parte ingombro di acacie e di cespugli ed oscuro, e quindi serviva facilmente di nascondiglio ai malfattori. Per la qual cosa questo tratto di via era molto pericoloso, particolarmente per D. Bosco, fatto segno alla malevolenza dei nemici della religione, i quali stimavano buono ogni mezzo pur di combatterlo, come abbiamo già sopra narrato.
Or bene, una sera del 1852 in sul tardi egli veniva a casa soletto soletto, non senza timore di qualche cattivo incontro, quand'ecco vede farglisi accanto un grosso cane. A prima vista n'ebbe paura, ma poi scorgendo che non minacciava, anzi [712] gli faceva delle moine, si mise tosto in buona relazione con lui. La bestia fedele lo accompagnò sino all'Oratorio, e senza entrarvi se ne partì. Nè solo quella volta, ma tutte le sere che egli non potesse portarsi a casa per tempo, o fosse senza un buon accompagnamento, appena passati gli edifizi, vedeva spuntare il grigio ora da uno ora da un altro lato della via. Talora Mamma Margherita, non vedendo il figlio arrivare a casa per tempo, ne stava in pena, e mandavagli qualche giovane incontro; e taluno ricorda di averlo più volte trovato insieme colla sua guardia di quattro gambe.
Nel 1855 Cigliutti, Gravano, Falchero, Gaspardone, Castagno Carlo, Giuseppe Buzzetti, Reviglio Felice raccontavano a Giovanni Villa d'aver veduto il grigio e con questi molti e molti altri, i quali erano pur stati testimonii delle minacce e degli attentati dei malvagi contro D. Bosco. Tomatis Carlo ci assicurò aver incontrato per via il grigio, che D. Bosco chiamava il suo fido, verso le 9 di sera e ce lo descrisse. “Era un cane di un aspetto veramente formidabile e cento volte Mamma Margherita nel vederlo esclamava: - Oh la brutta bestiaccia! - Aveva una figura, quasi di lupo, muso allungato, orecchie diritte, pelo grigio, altezza un metro”.
Incuteva spavento in quelli che non lo conoscevano. Narrò D. Bosco: “Veniva una sera a casa essendo già un po' tardi. Ad un certo punto incontrai un amico, il quale mi accompagnò sino al Rondò: quivi mi salutò per ritornarsene. Da questo punto all'Oratorio stava per me il maggior pericolo. Ma ecco comparire il mio custode, il grigio. Colui, vedendo un tale cagnaccio, fece un atto di grande meraviglia mista con un po' di paura, e prima di lasciarmi voleva cacciarlo lungi da me. Ma io insisteva che non si prendesse affanno, perchè io conosceva il cane ed il cane conosceva me; quindi che eravamo buoni amici. Ma quegli non s'acquietava, e disse: [713] - Non permetterò che ella vada a casa solo con questo bestione. - E intanto prese due grosse pietre e l'una dopo l'altra gliele scagliò a tutto potere. Il cane non si mosse di posto, non mostrò il minimo risentimento, come, se non sopra il suo corpo, ma sopra un sasso avesse battuto. Allora quel galantuomo rimase pieno di spavento ed esclamò: - Egli è una masca! egli è una masca! - cioè una bestia stregata; e più non osava tornare indietro, e mi accompagnò fino all'Oratorio. Quivi giunto dovetti mandargli due giovani adulti a scortarlo, perchè più non sarebbe da solo ritornato a casa sua, tanto era lo spavento che aveagli cagionato l'insensibilità di quel cane e il timore d'incontrarlo un'altra volta. Il grigio però vedendomi accompagnato era scomparso”.
Or dunque il grigio, che eziandio il Ch. Michele Rua vide per ben due volte, con apparizioni opportune, e diremmo prodigiose, nei momenti di maggior pericolo correva a difendere D. Bosco.
Una volta, invece di accompagnarlo a casa, impedì che ne varcasse la soglia. Per una dimenticanza fatta lungo il giorno, doveva egli uscire una sera già molto avanzata. Mamma Margherita cercava di dissuadernelo; ma egli, esortatala a non temere, prende il cappello, chiama alcuni giovani a fargli compagnia, e si porta al cancello. Ivi giunto, trova il grigio sdraiato. Il portinaio, che non conoscevalo ancora, aveva tentato più volte di allontanarlo fin colle percosse, ma esso sempre ritornava come se volesse aspettare qualcheduno. - Oh! il grigio, esclamò D. Bosco; tanto meglio, saremo in uno di più. Alzati dunque, dice poscia alla bestia, e vieni. - Ma il cane invece di obbedire manda fuori una specie di grugnito, e sta al suo posto. Per due volte D. Bosco cerca di passar oltre, e per due volte il grigio ricusa di lasciarlo passare. Taluno dei giovani lo [714] tocca col piede per farlo muovere, ed esso risponde con un latrato spaventoso. D. Bosco tenta allora di rasentare gli stipiti, ma il grigio gli si getta fra i piedi. La buona Margherita dice tosto in dialetto piemontese: Se t’ veuli nen scouteme mi, scouta almen '1 can; seurt nen; vale a dire: Se non vuoi ascoltare me, ascolta almeno il cane; non uscire. Don Bosco, vedendo la madre cotanto impensierita, giudicò di soddisfare i suoi desiderii e rientrò in casa. Non era passato un quarto d'ora, che un vicino venne a trovarlo, e gli raccomandò di stare in guardia, perchè aveva saputo che tre o quattro individui si aggiravano nei dintorni di Valdocco decisi di fargli un colpo mortale.
D. Bosco avea sfuggite le insidie, ma quei scellerati non desistevano dai loro micidiali propositi. Una notte ritornava a casa pel viale che da piazza Emanuele Filiberto mette al così detto Rondò, verso Valdocco. Giunto un po' oltre alla metà, Don Bosco sente corrersi dietro; si volta, e vistosi a pochi passi un tale con un grosso randello in mano, si pone anch'egli a correre nella speranza di poter arrivare all'Oratorio prima di essere raggiunto. Era già pervenuto alla discesa che prospetta ora la casa Delfino, quando scorge in fondo parecchi altri che cercano di prenderlo in mezzo. Accortosi di quel pericolo, egli pensò di cominciar a liberarsi da chi lo inseguiva. Costui stava ormai lì per raggiungerlo e dargli un colpo, quando D. Bosco si ferma all'improvviso, e gli punta con tal destrezza ed impeto il gomito nello stomaco che il misero cade rovesciato a terra gridando: Ahi! ahi! che son morto. Pel buon esito di questa ginnastica D. Bosco avrebbe potuto salvarsi dalle mani di colui; ma già gli altri coi bastoni alla mano stavano per circondarlo. In quell'istante salta fuori il grigio provvidenziale, che si mette a fianco di D. Bosco, e manda tali latrati ed urli, e poi si agita qua e [715] colà con tanta furia, che quei brutali, rimasti atterriti e temendo di essere fatti in brani, pregano D. Bosco ad ammansarlo, a tenerlo presso di sè . Intanto l'uno dopo l'altro si sbandarono, lasciando che il prete facesse la sua via. Il cane più non abbandonò D. Bosco sino a che non entrò nell'Oratorio, e fu allora che, seguitolo nel cortile, e affacciatosi alla porta della cucina, ricevette le ben meritate carezze, benchè alquanto riguardose, di Mamma Margherita, come essa stessa e Buzzetti riferivano a Pietro Enria.
Altra fiata, pur di notte, egli ritornava a casa pel corso Regina Margherita, quando un individuo, che ne spiava i passi, postosi dietro ad un olmo, gli spara quasi a bruciapelo due colpi di pistola. Falliti ambidue, il sicario si precipita sopra D. Bosco per finirlo in altro modo; ma in quell'istante sopraggiunge il grigio, si avventa con impeto addosso all'aggressore, lo mette in precipitosa fuga, e poi accompagna Don Bosco sino all'Oratorio.
Una sera il grigio servì di teatro ai ricoverati. Stava D. Bosco a cena con alcuni de' suoi chierici, presente sua madre, quando entra il cane nel cortile. Alcuni giovani, che non lo avevano ancora mai veduto, n'ebbero paura, e lo volevano battere o prendere a sassate. Buzzetti, che lo conosceva: - Non fategli del male, gridò tosto, esso è il cane di D. Bosco. A queste parole tutti gli si avvicinano, lo accarezzano, lo prendono per le orecchie, gli stringono il muso, gli fanno cento vezzi, e infine lo menano nel refettorio. La visita inaspettata di quella grossa bestia sbigottì alcuni dei commensali di D. Bosco, il quale: - Il mio grigio non fa male a nessuno, disse; lasciatelo venire, e non temete.
Il cane, dato prima uno sguardo attorno alla tavola, ne fece il giro, e andò tutto festoso presso D. Bosco, che fattegli alcune carezze, volle dargli un po' di cena; perciò [716] gli offrì pane, pietanza, minestra ed anche da bere. Ma il grigio tutto ricusò, anzi neppur si degnò di fiutare cosa alcuna, tanto era disinteressato nel suo servizio.
- Ma dunque che vuoi? domandò Don Bosco; e il cane sbattè le orecchie e dimenò la coda e continuando a dar segni di compiacenza, poggiò il capo sulla tavola, guardando Don Bosco, come se volesse dargli la buona sera. Ciò fatto, riprese la via e se ne uscì accompagnato dai giovani, sino alla porta. “Mi ricordo, ci assicurava Buzzetti, che in quella sera D. Bosco era venuto a casa, sul tardi bensì, ma condotto in carrozza dal signor marchese Domenico Fassati. Non avendolo trovato per istrada, pareva che il cane fosse venuto ad accertare il suo protetto, di averlo secondo il solito fedelmente atteso”.
Mons. Cagliero ci confermava tai fatti. “Io vidi la cara bestia una sera d'inverno; entrò nel cortile e poi nella saletta ove veniva a mangiare D. Bosco, e tutto festoso gli si avvicinò, e D. Bosco gli disse: - O grigio! non sei arrivato a tempo per accompagnarmi: io sono già a casa. - E preso un pezzo di pane, glielo offerse; ma il cane lo rifiutò. D. Bosco disse allora: - Oh! goloso! Vuoi della carne? Ma vedi bene che D. Bosco non ne ha! Se non vuoi mangiare stammi allegro e vattene! -Il cane abbassò il capo in aria mortificata e si avviava verso la porta; ma D. Bosco lo richiamò, dicendo: - Vieni qui, grigio, non ti voglio mortificare. Vieni qui.... - Il cane ritornò da D. Bosco ricevendo le carezze di lui e le nostre per lungo tempo e poi lo si lasciò andare perchè era già tardi. Altri de' miei compagni lo videro in più altre occasioni”.
Per la terza volta il grigio salvò la vita a D. Bosco, sulla fine di novembre del 1854. Una sera, molto oscura e nebbiosa, egli veniva a casa dal centro della città, dal Convitto, e per [717] non camminare troppo lontano dall'abitato scendeva per la via che dal Santuario della Consolata mette all'Istituto del Cottolengo. Ad un certo punto della strada D. Bosco si accorge che due uomini lo precedevano a poca distanza, ed acceleravano o rallentavano il passo a misura che lo accelerava o rallentava egli pure; anzi quando ei tentava di portarsi dalla parte opposta per evitarli, eglino destramente facevano altrettanto per trovarglisi dinanzi. Non rimaneva più alcun dubbio che fossero due male intenzionati; quindi cercò di rifare la via per mettersi in salvo in qualche casa vicina; ma non fu più in tempo; poichè quei due, voltisi improvvisamente indietro e conservando cupo silenzio, gli furono addosso e gli gettarono un mantello sulla faccia. Il povero D. Bosco si sforza per non lasciarsi avviluppare; abbassandosi con rapidità, libera per un istante il capo e si dibatte. Ma gli oppressori mirano ad avvolgerlo vieppiù stretto e a lui non resta che di chiamare aiuto; e nol può, perchè uno di quegli assassini gli tura con un fazzoletto la bocca. Ma che? in quel cimento terribile di inevitabil morte, mentre invocava il Signore, compare il grigio, il quale si diede ad abbaiare così forte e con tal voce, che il suo pareva non il latrar di un cane e neppur di un lupo, ma l'urlare di un orso arrabbiato, sicchè atterriva e assordava ad un tempo. Nè pago di ciò, si slancia colle zampe contro uno di quei ribaldi, e lo costringe ad abbandonare il mantello sul capo di D. Bosco, per difendere sè stesso; poi sì getta sopra dell'altro, e in men che non si dice, lo addenta e lo atterra. Il primo, vista la mala parata, cerca di fuggire, ma il grigio nol permette, perchè saltandogli alle spalle, getta lui pure nel fango. Ciò fatto, si ferma colà immobile continuando ad urlare, e guardando quei due galantuomini, quasi dicesse loro: Guai se vi movete. A questo improvviso mutamento di scena: [718]
- D. Bosco, per carità! Ahi! Lo sgridi che non ci morda! Pietà, misericordia, chiami questo cane, - si posero a gridare quei due furfanti.
- Lo chiamerò, rispose D. Bosco, ma voi lasciatemi andare pe' fatti miei.
- Sì, sì, vada pure, ma lo chiami tosto, gridarono nuovamente.
- Grigio, disse allora D. Bosco, vien qua ed esso obbediente si fa presso di lui, lasciando liberi quei malfattori, che se la diedero a gambe a più non posso. Non ostante questa inaspettata difesa, D. Bosco non sentissi di proseguire il cammino sino a casa. Egli entrò in quella vece nel vicino Istituto del Cottolengo. Ivi, riavutosi alquanto dallo spavento, e caritatevolmente ristorato con una opportuna bibita, riprese la via dell'Oratorio accompagnato da una buona scorta. Il cane lo seguì fino ai piedi della scala per la quale salivasi in camera.
“In quel tempo, disse Savio Ascanio, un'empia Gazzetta aveva minacciato di mettere due dita nella gola a D. Bosco appunto per lo zelo che dimostrava nel sostenere la fede e smascherare gli errori dei Protestanti. E altri giornali liberali, spropositando in cose di religione, per schernire impunemente D. Bosco, lo indicavano col nome di D. Bosio”.
Il grigio, come sopra si disse, fu tema di molte indagini e discussioni, sembrando alcunchè di ben curioso e insieme soprannaturale; e nessuno potè mai sapere ove si ritirasse dopo compiuta la sua missione. D. Bosco diceva: “Di quando in quando mi veniva il pensiero di cercare l'origine di quel cane e a chi appartenesse, e poi rifletteva: Oh, sia di chi si vuole, purchè mi faccia da buon amico. Io non so altro che quell'animale fu per me una vera provvidenza, in molti pericoli in cui mi sono trovato”. [719] Il riferito racconto potrà sembrare a taluno una favola. Ognuno è libero di farne quel conto che giudica. In quanto a noi reputiamo lecito e conforme a verità, il credere che Iddio nella paterna sua bontà abbia voluto servirsi di una bestia che è simbolo della fedeltà, per difendere e confortare un uomo che sfidava l'ira nemica e si esponeva ai più gravi pericoli, per conservare se stesso, i suoi giovani, il suo prossimo nella fedeltà a Dio ed alla Chiesa.
SALDO come un muro di bronzo nella lotta contro i Valdesi, D. Bosco si accingeva a sostenerne un'altra che non s'imponeva meno.
Nel 1852 lo spiritismo aveva fatta la sua prima apparizione in Torino, levando di sè un gran parlare. Era un misto di magnetismo animale, di evocazione diabolica e di impostura. Questa rinnovellata ma antichissima superstizione, invasa l'America, era passata nella Germania protestante, poi nella Francia volteriana e finalmente in molte parti d'Italia. A' suoi seguaci, afferma il Balan, devesi specialmente quella vertigine che a tanto pericolo condusse in Europa la società nel 1848[36].
In Torino però presentossi tanto accorta e tanto seducente che in sulle prime parecchi dei buoni, e laici ed ecclesiastici, non dubitarono di prendere parte a sedute spiritiche e di [721] assistere alle strane movenze delle tavole giranti e parlanti che rivelavano la presenza di un essere extraterreno. Scopertane la malizia, quelli se ne ritrassero; se non che tale peste continuava a diffondersi feconda di tristi effetti, insinuatrice di una larvata ribellione a tutti gli insegnamenti della Chiesa, e fonte di abbominevole immoralità. I magnetizzatori e le sonnambule avevano incominciato a dare i loro responsi.
D. Bosco, benchè persuaso trattarsi nella maggior parte dei casi di vere ciurmerie per ingannare i gonzi, temeva che servissero di preludio a fatti peggiori; specialmente col destare nel popolo la morbosa curiosità di voler conoscere le cose occulte, lontane o future, e col togliergli l'orrore dell'intervento diabolico. Chiesto perciò consiglio e licenza ai superiori ecclesiastici, andò più di una volta ad assistere agli esperimenti, detti magnetici o spiritici. Era suo intento scoprire l'impostura e l'empietà perchè sperava disingannare gli illusi e allontanarti da ulteriori follie.
In piazza Castello riversavasi tutta Torino per assistere agli spettacoli del magnetismo che dava un famoso ciarlatano in abito di gala, il quale aveva saputo cattivarsi l'ammirazione del popolo colle sue rivelazioni e predizioni. Un giorno D. Bosco s'innoltrò fra la moltitudine che lo circondava, mentre dopo varii esperimenti che aveangli procurati grandi applausi, faceva leggere alla sonnambula lettere chiuse.
- Vi è un abate che vuol parlare con lei, gridò una voce al magnetizzatore.
- Venga pure avanti, signor abate; rispose quegli.
D. Bosco comparve nello spazio lasciato libero dalla gente, in mezzo al quale sedeva una donna che pareva dormiente e cogli occhi bendati. Ei teneva in mano una lettera sigillata, che pochi istanti prima aveva ricevuta, scrittagli da [722] Mons. Fransoni. - Che cosa comanda, signor abate? replicò quel prestigiatore.
- Tengo questa lettera, della quale desidero che la sonnambula, prima che io l'apra, mi legga il contenuto: disse D. Bosco.
- Sarà soddisfatto, rispose il ciarlatano; e rivolto alla donna, le intimò con voce imperiosa: Leggete!
La donna esitò alquanto; il giuoco era imprevisto: l'inflessione della voce di chi le comandava, non indicavale la risposta; ma costretta a parlare, esclamò - Veggo... veggo tutto!
- E che cosa vedete? interrogò quell'uomo.
- Capiscono, signori? disse l'uomo al popolo; e a Don Bosco: Ha ragione la sonnambula: il segreto delle lettere sigillate non può esser violato.
- Quando è così, la cosa è presto aggiustata, osservò D. Bosco, e ruppe il sigillo. Ora non c’è più nessun segreto.
- Benissimo; ed ora si potrà leggere, replicò il ciarlatano. A voi: leggete; ordinò alla donna.
La sonnambula dava segni di viva impazienza, e replicò
- Perchè ... perchè non posso. Vi ho già detto che non voglio operare innanzi a gente Che appartiene all'altare. - E proferì un'atroce bestemmia. A questa conclusione il popolo emise una solenne fischiata, e si disciolse facendo commenti ingiuriosi all'arte di quel messere. [723]
Più volte D. Bosco si presentò con diversi ripieghi al cospetto delle moltitudini per sfatare le arti dei magnetizzatori, i quali in sua presenza nulla poterono fare di straordinario, e si guadagnarono sempre scherni e fama d'impostori. Sbollì quindi in molti la smania di assistere a tali portenti, e più non ne parlavano se non con disprezzo.
Dalle piazze D. Bosco passava nelle case ove tenevano sedute i magnetizzatori laureati, dei quali, come degli altri, egli era divenuto un vero persecutore.
Presso S. Pietro in Vincoli aveva messo stanza un certo dottor Fiorio, il quale col mezzo di una magnetizzata pretendeva di poter scoprire un prezioso tesoro che asseriva nascosto in quella regione. D. Bosco, presi con sè alcuni giovani perchè fossero testimoni, fra i quali il Ch. Reviglio e Serra, dopo averli bene istruiti ed indettati, si recava a quelle prove. La magnetizzata affermava di vedere il tesoro, lo descriveva e faceva nascere nei molti spettatori il desiderio di possederlo. Furono perciò praticati varii scavi profondi; ma di tesoro non si trovò mai la traccia. D. Bosco, che osservava minutamente ogni cosa, non tardò a far correre voci che screditassero quel ciarlatano, e per mezzo di coloro i quali coi loro danari avevano concorso agli scavi ed ora si vergognavano di essere stati così credenzoni.
Un altro dottore di nome Giurio teneva gabinetto di magnetismo in via S. Teresa e la chiaroveggente chiamavasi Brancani. Infermi di malattie gravissime, incurabili o non bene conosciute dai medici, gli mandavano anche da paesi lontani qualche oggetto che loro appartenesse, e con questo egli definiva l'infermità, dava consigli e prescriveva rimedi. Ma le spaventose conseguenze morali e spirituali di simili consulti avevano già provato ad evidenza certi gabinetti magnetici essere d'indole diabolica. [724] D. Bosco vi andò col Teol. Marengo e col Teol. Motura, e trovò la sala già piena di spettatori. Dopo aver assistito a varie esperienze, chiese al dottore di essere messo in comunicazione magnetica colla Brancani
Giurio si affrettò a contentarlo colla risolutezza di un uomo sicuro di sè . D. Bosco incominciò ad interrogare; ma le risposte della sonnambula che prima si aggiravano su Pietroburgo, all'improvviso con un salto furono sul parlare di cose più vicine. D. Bosco allora trasse fuori una ciocca di capelli, statagli data dal Teol. Nasi, e domandò di quale malattia fosse afflitto colui al quale appartenevano. - Cosa giusta ed utile lei domanda, osservò il dottore; e rivolto alla magnetizzata le intimò di rispondere.
- Di chi sono questi capelli? chiese D. Bosco.
- Povero giovane! Quanto devi soffrire, mormorava la donna.
- Amo spicciarmi presto, perchè ho il tempo limitato, osservò D. Bosco; quello cui appartengono questi capelli non è un giovane. Mi dica dove abita?
- Vado.... vado.... eccolo.... è là in via della Zecca.
- È vero.... ma non sono ancora giunta.... più in giù, più in giù, al di là del Po....
- Non abita da quella parte. Ma mi sveli la sua malattia.
- Aspetti che lo trovi: lo vedo.... Quante sofferenze... infelice!
- Ma insomma quale è il suo male!
- Non fu mai epilettico. [725]
A questo punto quella donna, prima impacciata e poi furiosa, ruppe in una parola così oscena ed insultante, che fece trasalire e sciogliere l'adunanza. La cosa era chiara: o si trattava di una giunteria, ovvero Farfarello aveva paura dei buoni preti.
Il malanno però venuto in gran voga era quello delle tavole semoventi quando intorno a loro i convenuti formavano catena. Queste oscillavano, roteavano, s'innalzavano con impeto dal pavimento, saltavano qua e là per la sala; poi con picchiate leggere, convenzionali di uno dei loro piedi, rispondevano categoricamente alle domande loro fatte. Sovente si legava all'estremità di una delle loro gambe una matita sottoponendovi un foglio di carta e questo ritraevasi poi colle risposte in lettere chiare e corrispondenti alle interrogazioni. Lo stesso fenomeno producevano trespoli minuscoli. Ciò faceva supporre la mano di un essere intelligente, il quale si annunziava col nome di un santo o di qualche grand'uomo già defunto e più in fama.
Di questi fatti ne correva voce nelle conversazioni signorili, nelle radunanze degli industriali e nei ritrovi degli operai. Ora D. Bosco essendone stato informato s'imbattè in uno degli operatori più conosciuti di tali diavolerie, e senz'altro lo affrontò e gli disse i fenomeni prodotti dalla sua arte essere giuochi da saltimbanco. Quegli sfidò D. Bosco invitandolo ad andare in sua casa e a vedere e a constatare la verità della cosa. D. Bosco, munitosi di bel nuovo della licenza dell'autorità ecclesiastica vi andò accompagnato dal Teol. Marengo e dal Teol. Nasi, ma portando seco nascosta nelle vesti la reliquia della santa croce. Fu accolto con viva compiacenza, e sul volto del magnetizzatore brillava la sicurezza della riuscita. Fu posta la tavola in mezzo alla sala; se non che per quanto egli e altri facessero, la tavola non si diè per intesa nè [726] di muoversi nè di rispondere. Lo sfidatore, meravigliato e stizzito, dopo avere replicate le sue prove, vedendole andare a vuoto, si rivolse a D. Bosco dicendogli essere lui la causa di quell'insuccesso, perchè colla sua volontà non era consenziente a que' fenomeni, poichè non ci credeva e concluse:
- Fede in chi? gli rispose D. Bosco, fissandolo seriamente in volto. E si ritirò convinto, coi due suoi amici che il legno della santa croce fosse la causa dell'immobilità di quella tavola. D. Bosco stesso narrava questo fatto a' suoi preti ed a' suoi chierici.
Ma intanto purtroppo andava crescendo la frequenza di persone colte ai gabinetti magnetici dove, ipnotizzato uno degli astanti, si producevano effetti spiritici al tutto maravigliosi o spaventevoli; tenebre e luci; musiche invisibili e mani misteriose che stringevano, accarezzavano e percuotevano; balli improvvisi e sfrenati di tutta la mobiglia di una stanza, apparizioni lusinghiere od orrende di spettri e di anime dei defunti. E le conseguenze di questi spettacoli innumerevoli in Torino e nelle province erano pazzie, suicidii, ossessioni, disperazioni, morti improvvise, ipocondrie invincibili, paralisi, spasimi acuti, e cento altre maledizioni.
Che quegli sciagurati, almeno indirettamente, evocassero il demonio, D. Bosco ne ebbe certa prova, come poi narrava a Buzzetti e ad altri in questi termini: - Un tale che era stato arreticato in certe società, presentatosi a me così prese a parlare
“Io che finora non aveva tempo nè a pensare a Dio, nè all'inferno, che anzi, appunto per questo, da gran tempo mi ero dato ad una vita assai scorretta, adesso ho di nuovo con me la fede e il timor di Dio. Sa come andò? Ascolti la storia genuina e senza ombra di esagerazione. Un amico [727] cominciò a condurmi in certi convegni dove si trovavano di molti uomini amanti del viver lieto: ma che tolto il dir male della religione, nel rimanente pareva che pensassero ad opere di beneficenza. Se si voleva ballare, si faceva per soccorrere i poveri; se godevasi un po' di carnevale, non mancava la colletta per gli ammalati ecc.; in somma si operava, a modo nostro, il bene; ed io ne era contento. C'era una nota che mi spiaceva, cioè quella di malignare contro il Papa; ma mi ci era già accostumato. Erano cose queste, che si sentivano anche in altri luoghi; e non si faceva poi, secondo me, male a nessuno.
Ma il peggio venne di poi. - L'altra sera, invitato da un mio amico ad assistere a qualche sperimento spiritistico, ebbi la disgrazia di veder comparire, vivo e vero e spaventoso, davanti a me, colui che si dice il grande architetto, cioè il diavolo. Non le dico quanto io ho in quel momento sofferto, e come mi augurai di non essere mai andato in quel ritrovo. Ma c'era e doveva rimanere. Stetti muto e sudai freddo, per quanto durò quell'apparizione. Lo spavento ed il terrore era in tutti ed il silenzio incusso dalla paura era generale. Terminata quella apparizione, io me ne tornai a casa, lamentandomi con l'amico, che mi aveva messo in corpo tanta paura. Ma ripensandoci dopo ed in tutto il corso della notte, non potendomi allontanare dalla fantasia la figura del brutto Caprone, che pur aveva sempre sotto agli occhi, dissi a me stesso: Ma se c’è il diavolo, ci dev'essere anche Dio! E di cosa in cosa, mi ricordai che Dio aveva pur la sua legge, e che sarebbe un po' meglio che io tornassi a praticarla, come avevo fatto nei primi anni della mia gioventù.
Venuto il mattino, cercai di mettere in pace la mia coscienza, e, cosa che da più anni non aveva più fatto, andai a confessarmi. Quel padre mi consolò, e le sue parole rimasero [728] impresse nel mio cuore. Ora amando Dio, praticando la sua santa religione, trovo la pace, e non sento più timore dei diavolo. Ma fu lui, il brutto mostro, che mi fece la predica, lui che mi ebbe a convertire, ed a far rinascere in me l'immagine di Dio, che ormai avea dimenticato e perduto.”
Si avverava l'assioma filosofico ed istorico del Novalis che dove non vi è Dio, regnano gli spettri. Crescendo l'empietà e il vizio, cresceva anche la baldanza dello spirito maligno, bramoso di ricuperare l'impero che esercitava nei secoli del paganesimo; e Dio permetteva che estendesse le sue orride manifestazioni e vessazioni anche fuori del luogo delle evocazioni spiritistiche. Il Teol. Tommaso Chiuso, nella sua pregiata opera la Chiesa in Piemonte dal 1797 ai giorni nostri, reca prove incontestabili di infestazioni diaboliche, avvenute in Torino e fuori in questi anni[37]. Lo stesso D. Bosco più volte si trovò di fronte a queste infestazioni ed ossessioni e vinse gli spiriti maligni suggerendo armi spirituali. Ora esponiamo due soli fatti; gli altri a suo tempo.
Il Teol. Savio Ascanio scrisse a suo fratello D. Angelo, che abitava nell'Oratorio, la seguente lettera perchè D. Bosco fosse avvisato di quanto accadeva nel suo paese, e richiesto di consigli e preghiere.
Castelnuovo d'Asti, 18 gennaio 1867.
Senti il fatto delle pietre, di cui tanto si è parlato. Ai 10 di questo mese, in sulla sera trovavansi, nella stalla di mia madrina, la zia in letto inferma e la buona Angelina [729] che la custodisce, quando tutto all'improvviso sentono un rumore.... ton.... contro la porta della stalla al di fuori; Angelina apre e non vede nessuno; ton.... un'altra volta; apre ed osserva più attentamente, ma niuno come prima; ton…. la terza volta. Quella figlia era inquieta, ed esclamava: “Oh ragazzi biricchini, siete proprio fatti per fare esercitar la pazienza!” Va per minacciarli, ma nè li vide, nè li udì. “Sia un po' ciò che si vuole” dice tra sè , e ritirata nella stalla, cercò di mettersi in tranquillità. Intanto sente che le pietre piovono nell'aia, battono contro la finestra della stalla, entrano nella stalla a porta ben chiusa, sì che naturalmente non potevano passare; corrono da sè sul pavimento della stalla.
Gli uomini, accorsi a contemplar il nuovo caso, se ne stavano sbalorditi. La tempesta si rinnovò per cinque giorni, giovedì, venerdì, sabbato, domenica e lunedì.
Cadevano pietre piccole come il dito pollice e grosse fino a pesare tre libbre ed otto once; piovevano pezzi di legno staccato di fresco, terra proveniente da fossi circonvicini, pezzi di tegole infangate, un ramo di olivo, avviluppato di paglia, un pezzo di vite lungo più di una spanna. In tutto grandinarono circa quattro miriag. di materiali. La grandine veniva dall'alto in basso, da basso in alto, da tutte le direzioni: battevano nella porta, nella muraglia, sul tetto, contro la carta delle finestre, la quale naturalmente doveva restar tutta lacera, e pure non presentò il più piccolo buco; batteva sulla schiena dei poveri cristiani, sullo stomaco, sulle ginocchia, sulla nuca, sul cappello, sulle guance, sul mento, sulla mano, ed anche i pezzi più grossi non facevano mai il più piccolo male; battevano nella mastella, nella secchia con gran fracasso; andavasi a verificare se erano sfondate, e non si trovavano neppure offese. [730]
Una di quelle pietre venne con un brutto sputo sopra, altre comparivano asciutte, altre bagnate allora dalla pioggia; io le presi in mano, alcune mi colpirono sul cappello, altre sullo stomaco, e sul ginocchio sinistro e vidi grandinare per circa un'ora e mezzo. Prima e dopo di me accorse molta gente della Borgata, e vennero da Castelnuovo, dai Bardella, da Buttigliera, da Mondonio ecc., videro vecchi, giovani, uomini i più spregiudicati, i più increduli. Nessuno non ha mai saputo spiegarne la causa; chi dice essere un'anima del Purgatorio, chi crede essere il diavolo, chi, contro ogni apparenza e contro il buon senso di tutti, si ostina ad affermare essere un giuoco combinato. Ma la conclusione si è questa: 1° Il fatto è certissimo, attestato da centinaia di persone. 2° La causa del fatto nessuno sa spiegarla. Questa, o D. Angelo, è la storia delle pietre. A Torino vi sono dotti; domandane la spiegazione e chiedi se naturalmente ciò sia possibile, quando le pietre non potevano entrare nè da sopra, nè dalle pareti, nè dalla porta, nè dalla finestra, e con tutto il loro fracasso erano innocue, sì che il loro percuotere sembrava una carezza che quasi ci moveva a ridere....
Il Prof. Cav. D. Turchi Giovanni ci narrava egli pure: “In una borgata di Bra (non ricordiamo l'anno), ed in una buona famiglia di agricoltori, quasi tutti ancora viventi, avvenne che nell'inverno, dormendo essi nella stalla, una notte, una figlia già adulta, svegliatasi incominciò a strepitare dicendo che vedeva un lume sulla testa e corna di un bue e che quel lume si moveva e andava alla porta. Tutti a dirle che sognava e si tranquillizzasse. La cosa seguitò per più [731] altre notti. Di poi quel lume lo vedevano la notte tutti quei della famiglia con terrore tale che, anche i figli più adulti, robusti e coraggiosi si erano atterriti. Di giorno si facevano coraggio, ma la notte lo perdevano all'apparire di quello strano lume, tanto che la famiglia ne deperiva e il loro aspetto lo dimostrava. Pregavano e facevano pregare, e parmi anche celebrar messe ma senza frutto. La cosa durava da mesi, quando taluno consigliò si ricorresse a D. Bosco. Così si fece. D. Bosco, sentito il tutto, disse: - Domani non potrò, ma posdomani all'ora tale (e gliela indicò) celebrerò la S. Messa per tutti voi altri, e spero che sarete liberi da tale infestazione; ma anche voi altri posdomani a Bra andate a sentire la messa all'ora in cui la dirò io. - Così si fece quanto alle messe, e d'allora in poi quella famiglia non ebbe più a soffrire per tale infestazione. A Bra, e specialmente in quella borgata la cosa è nota. Tutto ciò mi narrava son pochi anni il nobile D. Gazzani, sacerdote pio, virtuoso, zelante e colto”.
Simili disturbi, ed anche peggiori, si riprodussero nel corso degli anni in molti altri luoghi, e invano l'autorità giudiziaria tentò di ricercarne la causa. Le pratiche spiritiche continuando davano ansa all'orgoglio e all'odio di Satana contro Dio e contro l'umanità. Periodici e Annali dello Spiritismo pubblicati da una Società torinese, narravano fatti strabilianti ed esponevano scellerate dottrine. Questi fogli erano letti avidamente da molti.
Allora D. Bosco, per infondere orrore nel popolo alle pratiche spiritistiche e al demonio che ne era la causa, esortò con premurose istanze il frate Carlo Filippo da Poirino, sacerdote cappuccino, a scrivere un opuscolo ch'egli avrebbe stampato a proprie spese. Il dotto padre accettò l'incarico e scrisse un libretto, nel quale colle testimonianze dell'antico e del nuovo Testamento e della storia, provava l'esistenza degli [732] angioli ribelli, il loro eterno castigo, la loro dimora in questo mondo, il loro potere formidabile, ma limitato da Dio, sulle cose esterne; le tentazioni e le ossessioni diaboliche, permesse dal Signore in prova dei buoni e pel castigo o per la conversione dei cattivi; l'imperio che ha la Chiesa su di essi co' suoi esorcismi, l'esistenza possibile del commercio ed amicizia dell'uomo empio col demonio; la realtà del fatto, punito dalla Chiesa con severissime pene; infine il magnetismo, che non sia puramente minerale o animale, secondo definì la sacra Congregazione della Suprema Inquisizione, e i fenomeni delle tavole giranti e parlanti, essere una magia diabolica, in quanto che producevano effetti sproporzionati alla causa. L'autore però dichiarava che l'impostura o l'ignoranza di cause fisiche poteva aver luogo in moltissimi casi per creare falsi giudizi; che Dio misericordioso non è facile a permettere, nei paesi ove regna la Fede cattolica, l'esorbitare del demonio a danno dei fedeli, o a servizio della superstizione. Tuttavia suggeriva i mezzi e le armi per respingere e fuggire gli spiriti maligni. Aggiungeva un capitolo sui tristi effetti delle maledizioni, imprecazioni e bestemmie.
Questo libro usciva alle stampe nel 1862 col titolo: La podestà delle tenebre, ossia osservazioni dogmatiche morali sopra gli spiriti malefici, seguite dalla relazione di un'infestazione diabolica avvenuta nell'anno 1858 in Val della Torre. È questo un villaggio alpino dell'Archidiocesi di Torino nella Vicaria di Pianezza, e fu l'apparizione di Maria SS. che liberò un'infelice fanciulla.
D. Bosco fece stampare questo libro in più di 15.000 copie nelle Letture Cattoliche, che ebbero un rapido spaccio. Esaurita la prima edizione, da ogni parte con grande avidità se ne chiedeva una seconda, prova del gran bene che questo lavoro aveva prodotto. E D. Bosco nel 1863 ne ristampava [733] altri 20.000 esemplari che ebbero tale esito da non rimanerne più nessuna copia.
Non contento di questo egli vedendo gran numero d'illusi, specialmente nel popolo, tener dietro alle stravaganze del magnetismo, incaricava eziandio un suo compagno di scuola e suo grande amico, dottore in medicina e chirurgia, il torinese Gribaudo, di scrivere un altro opuscolo intitolato: Del Magnetismo animale e dello Spiritismo, dandogliene egli stesso la traccia e correggendone le stampe. Veniva alla luce nel 1865 nella collezione delle Letture Cattoliche. Il Dottor Gribaudo metteva come principio la divina proibizione al popolo Ebreo con minaccia di esterminio: “Non siavi tra voi chi faccia uso dei sortilegi, nè chi consulti i pitonici o gli astrologi, nè cerchi di sapere dai morti la verità[38]”. Ecco lo spiritismo. E Dio ripetè le sue minacce per bocca d'Osea, perchè “Il mio popolo ha consultato un pezzo di legno e le sue bacchette han predetto a lui il futuro[39]”. Ecco le tavole roteanti e i trespoli picchianti e scriventi. Quindi provava colla storia come tutto il mondo pagano antico e moderno, ed anche certe epoche del mondo cristiano, facciano testimonianza dell'azione malvagia, ipocrita, crudele palesata in mille maniere ed occasioni da uno spirito intelligente che non poteva essere altro che il demonio. Escluso adunque dai fenomeni l'elemento naturale fisico, fisiologico, psicologico e scientifico, le leggi del quale la scienza medica più o meno chiaramente sempre conobbe ed ammise in natura; messo da parte l'elemento ciarlatanesco, ciurmatore magnetizzante le borse; veniva a concludere che l'elemento sovranaturale [734] nel magnetismo spiritico era il dominante. Perciò, recando molti fatti meravigliosi di questo, non conciliabili colle leggi della natura, narrati da personaggi autorevoli e dagli stessi magnetizzatori, dimostra ad evidenza esservi stato necessariamente l'intervento del demonio, ed in queste condizioni il sonnambulismo esser un'ossessione temporaria, avendo tutti i contrassegni coi quali la S. Chiesa caratterizza gli ossessi.
E basti di questo. D. Bosco ne stampò altre migliaia e migliaia di copie e le diffuse dappertutto, poichè tale empietà come serpe lusinghiero, continuava ad aprirsi la via nelle famiglie, e con danni gravissimi morali e materiali degli individui, delle famiglie e della società. Anche l'amico suo, il Teol. Marengo, pubblicava nel 1865 per le persone colte l'Odierno Spiritismo smascherato, dimostrandolo empio, insinuatore e propagatore del panteismo e del materialismo, ed essere perciò moralmente e fisicamente malefico, opera diabolica, emanazione dell'inferno.
Poteasi fare di più? Niente altro che pregare: Ab insidiis diaboli libera nos, Domine.
per la Casa annessa all'Oratorio di S. Francesco di Sales[40].
Fra i giovani che frequentano gli Oratorii della città ce ne sono di quelli che trovansi in condizione tale da rendere inutili tutti i mezzi spirituali se non si porge loro soccorso nel temporale. Si vedono talora giovani già alquanto innoltrati in età, orfani o privi dell'assistenza paterna, perchè i genitori non possono o non vogliono curarsi di loro, senza professione, senza istruzione. Costoro sono esposti ai più gravi pericoli spirituali e corporali, nè si può impedirne la rovina, se non si estende una benefica mano che li accolga, li avvii al lavoro, all'ordine, alla religione. La Casa annessa all'Oratorio di S. Francesco di Sales ha per iscopo di dare ricetto ai giovani di tal condizione. Ma siccome non si possono ricevere tutti quelli che si trovano in grave bisogno, così è mestieri di stabilire le norme per discernere quelli che per la gravezza delle circostanze devono essere preferiti; e quali ufficii incombano a ciascun superiore della Casa con alcune regole disciplinari per il buon andamento spirituale e temporale della medesima.[736]
Perchè un giovane possa essere accettato, si devono in lui avverare le seguenti condizioni: I. Età di dodici anni compiuti, e che non oltrepassi i diciotto. L'esperienza ha fatto conoscere che ordinariamente la gioventù prima dei dodici anni non è capace di fare nè gran bene, neppure gran male, e passati i diciotto anni riesce assai difficile il far deporre abitudini altrove formate per uniformarsi ad un nuovo regolamento di vita.
2. Orfano di padre e di madre e che sia totalmente povero ed abbandonato. Se ha fratelli o zii che possano assumerne l'educazione, è fuori dello scopo di nostra Casa.
3. Che non abbia alcuna malattia schifosa, o attaccaticcia, come sono scabbie, tigna, scrofole e simili.
4. Che frequenti qualcuno degli Oratorii della città, perchè questa Casa è destinata a sollevare i figli degli Oratorii, e l'esperienza ha fatto conoscere essere di massima importanza il conoscere alquanto l'indole dei figli prima di riceverli.
5. Ciascuno entrando deve avere un attestato del proprio parroco che certifichi l'età o lo stato del giovane; la fede di aver avuto o no il vaiuolo, e di essere esente da mali schifosi o attaccaticci e scevro di deformità che lo rendano inabile al lavoro. Alla mancanza di qualche certificato di sanità, può supplire la visita del medico.
6. Se il postulante possiede qualche cosa, la porterà nella Casa, e sarà impiegata a suo favore, perchè non è conveniente che viva di carità, chi non è in assoluto bisogno. Le persone cui ciascun figlio dovrà essere sottomesso e che vengono considerate nelle rispettive incombenze come superiori della Casa sono: 1. Rettore; 2. Prefetto; 3. Catechista; 4. Assistente; 5. Protettore; 6. Capi di camerata; 7. Persone di servizio.
1. Il Rettore è capo dello stabilimento; a lui spetta l'accettare, il licenziare i giovani ed è responsabile dei doveri di ciascun impiegato e della moralità dei figli della Casa.
2. Senza il permesso del Rettore non si può fare novità alcuna nel personale, nelle cose, e nel regolamento della Casa. [737]
1. Il Prefetto, ossia economo, fa le veci del Rettore in sua assenza. Se si può, tale carica verrà affidata al prefetto dell'Oratorio festivo.
2. Egli ha tutta l'azienda della Casa, regola i laboratorii, assiste ai contratti, tiene esatto conto delle entrate e delle uscite, provvede quanto è necessario per vitto, vestito e pei combustibili.
3. Egli ha cura del libro mastro, in cui registra nome e cognome dei giovani e i particolari bisogni dei postulanti, notando specialmente se trovansi in grave pericolo d'immoralità. Noterà pure se l'individuo od altri per lui possano pagare o portare qualche cosa a favore dello stabilimento.
4. Prenderà memoria del giorno e delle convenzioni particolari con cui ciascun figlio è ricevuto, p. e: se consegnò danaro, oggetti di letto, di vestiario, se fu ricevuto a tempo determinato, oppure a tempo illimitato.
5. Avrà cura che il catechista faccia conoscere al neoricevuto quali siano i suoi doveri, e quale sia il regime della Casa, e gli assegnerà un posto in chiesa, a tavola e nella camerata. Nel che baderà che i coetanei siano vicini in chiesa, a tavola e per quanto si può stabiliti nella stessa camerata.
6. Tiene registro dei guadagni, delle condizioni con cui ciascun figlio fu collocato presso il rispettivo padrone, se a giornata o per l'intiera settimana, e aggiusterà le parti che a ciascuno riguardano. Si usa presentemente di mettere in cassa a favore di ciascun figlio tutto ciò che eccede i sedici soldi al giorno. A quelli poi che non guadagnano ancora tal somma, sarà loro dato la metà del guadagno di un giorno per settimana.
7. Qualora un figlio cessi di appartenere alla Casa, noterà il giorno ed il motivo per cui è uscito.
8. Egli è pregato d'invigilare che tutti gli altri impiegati adempiano al loro dovere e deve essere in grado di sapere dar notizia in qualsiasi momento della condotta dei figli e degli impiegati.
9. A lui spetterà regolare la scuola serale, tanto della musica quanto elementare.
10. Toccherà pure a lui di provvedere ai bisogni della sacrestia, di regolare le incombenze dei sacrestani ed insegnare le cerimonie ai chierici della Casa. Le quali cose non potendo adempiere da solo, può affidare le varie incombenze a quegli individui che saranno capaci di coadiuvarlo. [738]
1. Il Catechista ossia direttore spirituale ha per iscopo d'invigilare e provvedere ai bisogni spirituali dei giovani della Casa; deve essere un sacerdote od almeno iniziato nella carriera ecclesiastica e di una condotta esemplare ed irreprensibile in faccia a tutti i figli dell'Oratorio.
2. Appena un giovane sarà ricevuto, egli lo istruirà intorno alle regole della Casa, e con maniere dolci e caritatevoli indagherà di quale istruzione religiosa abbia particolar bisogno e si darà massima premura d'istruirlo.
3. Badi che tutti imparino almeno il catechismo piccolo della diocesi e a tal fine ogni settimana assegnerà non meno di una lezione che farà recitare ogni domenica mattina prima di pranzo. Terrà memoria di quelli che sono già promossi alla Santa Comunione e di quelli che hanno ricevuto il Sacramento della Cresima, notando chi ha maggior bisogno d'istruzione per ricevere degnamente questo Sacramento.
4. Se qualcheduno restasse senza lavoro, o per altro motivo dovesse rimanere disoccupato, gli assegni qualche lavoro materiale, oppure da studiare, leggere, scrivere o altre cose simili, ma nol lasci mai disoccupato.
5. Noterà ogni piccola mancanza dei giovani per essere in grado di correggerli opportunamente e di dare in fine di ciascun mese il voto sulla condotta morale di ciascun individuo.
6. Invigilerà che si trovino per tempo alle sacre funzioni, alle preghiere del mattino e della sera, ed avrà cura d'impedire ogni cosa che possa disturbare gli esercizii di cristiana pietà. Alla sera, dette le orazioni, farà una visita nei dormitorii per fare osservare il silenzio e vedere se non ci manca alcuno. Il che avvenendo, darà gli opportuni avvisi e, se farà mestieri, renderà consapevole il Rettore.
7. Procurerà che i capi dei dormitorii si trovino per tempo ai loro doveri. Osserverà attentamente chi manca alle sacre funzioni nei giorni festivi ed anche nei feriali; in ciò si farà aiutare dai decurioni.
8. Avvenendo qualcheduno ammalato, si darà cura che nulla manchi nè per lo spirituale nè pel temporale, ma andrà molto cauto a prescrivere rimedii senza ordinazioni del medico.
9. Egli si manterrà in istretta relazione col Prefetto per conoscere quale sia la condotta dei giovani presso i rispettivi padroni, e ciò per prevenire qualsiasi disordine e per provvedere a tempo debito qualche lavoro a chi rimanesse disoccupato, o un padrone presso cui collocarlo. [739]
1. L'Assistente è incaricato di tutto ciò che riguarda la pulizia della persona, degli abiti e delle abitazioni dipendentemente dal Prefetto.
2. Almeno una volta per settimana darà un'occhiata per assicurarsi della nettezza della testa, badando che niuno abbia capigliatura troppo lunga, perchè tal cosa influisce molto a ingenerare pidocchi.
3. La sera di ciascun sabbato porterà una camicia pulita sovra ogni letto e la domenica mattina passerà a raccogliere quelle che furono svestite.
4. Lo stesso farà degli asciugamani ogni quindici giorni e delle lenzuola una volta al mese.
5. Avrà la massima sollecitudine che gli abiti siano notati di un segno che regga a bucato, affinchè non vadano confusi gli uni con quelli degli altri. Prima però di comperare o donare abiti o camicie a qualcuno, verificherà il bisogno, poscia ne renderà consapevole il Prefetto per la provvista.
6. Invigilerà che i dormitorii e tutte le altre parti della Casa siano ogni giorno scopate per tempo e che i letti siano tenuti con proprietà e ordine. Le porte, gli uscii, le finestre, le chiavi e le serrature non siano guaste. Avvenendo che qualche cosa sia guastata, avrà cura di farla aggiustare al più presto e nel modo più economico.
7. Sceglierà per turno ciascuna settimana due giovani di quelli che lavorano in Casa e affiderà ad essi lo scopare bene ed il pulire tutta la Casa. Quando però avvenga che alcuno rimanga disoccupato dal proprio ordinario dovere, a costui incombe immediatamente la cura della nettezza.
8. Distribuisce il pane a colazione, assiste a tavola e baderà che niuna qualità di cibo venga ad essere guastata. Avvisi costantemente che chi non sentesi di mangiare, lasci la sua parte sopra la tavola. Chi guastasse volontariamente o gettasse via pane, minestra o pietanza, si avverta una volta sola; se ricade sia immediatamente licenziato dalla Casa.
9. All'Assistente è caldamente raccomandato d'invigilare nei laboratorii, affinchè ciascuno accudisca il proprio lavoro, non si faccia chiasso e ognuno si trovi per tempo. [740]
1. E Protettore è un benefattore che si assume l'importantissima carica di collocare a padrone i figliuoli della Casa, di invigilare che non siano padroni presso di cui, o a cagione di essi o a cagione di qualche compagno, abbia ad essere in pericolo la loro eterna salute.
2. Il protettore avrà cura di notare nome, cognome, dimora dei padroni che abbisognano di apprendisti od artigiani, per mandare all'uopo presso di loro quei figli della Casa che hanno bisogno d'imparare qualche professione o che sono rimasti privi di lavoro.
3. Il protettore è un padre che dà opera ad accudire e correggere i suoi protetti, eccitando sempre questi alla diligenza e raccomandando ai rispettivi padroni di usare carità e pazienza.
4. Nelle convenzioni coi padroni abbiasi per prima condizione che questi siano cattolici e che lascino l'allievo intieramente in libertà nei giorni festivi.
5. Accortosi che qualche allievo è in luogo pericoloso, lo accudisca affinchè non cada in disordini, avvisi il padrone, se sembrerà conveniente, e intanto si dia sollecitudine per cercare miglior posto al suo protetto.
6. Egli si metterà in istretta relazione col Prefetto e col Catechista per concertare e prendere quelle misure che parranno più vantaggiose ai figli della Casa.
7. Almeno ogni quindici giorni si recherà da ciascun padrone dei figli per informarsi della diligenza, profitto e moralità del suo protetto.
1. In ogni camerata, dormitorio, laboratorio, vi è un capo ed un vice-capo, i quali sono obbligati a render conto di quanto si fa e si dice nella camerata e dormitorio e laboratorio.
2. Egli deve precedere gli altri nel buon esempio, e mostrarsi in ogni cosa giusto, esatto, pieno di carità e timor di Dio.
3. Egli è tenuto di correggere qualsiasi difetto dei compagni, ma non applicare alcun castigo, del che essendo il caso ne farà rapporto [741] al Prefetto o al Rettore. Alla sera prima di coricarsi visiti la propria camerata e accorgendosi che ci manchi qualcuno ne dia avviso al signor Prefetto o Catechista.
4. Insista sull'osservanza del silenzio all'ora indicata. Al mattino, dato il segno della levata, sia puntuale a levarsi e finchè non sieno usciti tutti gli altri non esca di camerata, la quale chiuderà e ne porterà la chiave al luogo assegnato. In caso che qualcuno sia ammalato darà avviso al Catechista.
5. Invigili attentissimamente per impedire ogni sorta di cattivi discorsi, ogni parola, gesto o tratto ed anche facezia contraria alla virtù della modestia. S. Paolo vuole che tali cose sieno in nessuna maniera nominate tra i cristiani. Impudicitia ne quidem nominetur in vobis. Venendo a scoprire alcune di queste mancanze è gravemente obbligato di darne avviso al Rettore.
1. Le persone di servizio sono tre: cuoco, cameriere e portinaio, i quali debbono aiutarsi reciprocamente in tutte quelle cose che sono compatibili alle rispettive occupazioni.
2. Alla servitù è caldamente raccomandato di non mai assumersi commissioni estranee ai proprii doveri e nemmeno di assumersi, maneggiare affari o contratti che non riguardano all'interesse della Casa. Occorrendo qualche affare che riguardi il loro utile personale, ne parlino col Prefetto.
3. Abbiano fedeltà anche nelle piccole cose; guai a quel servo che comincia a fare piccoli furti nella compra, vendita ed altrimenti; senza che se ne accorga, egli è condotto ad essere un ladro.
4. Sobrietà nel mangiare e sopratutto nel bere: chi non sa comandare alla propria gola è un servo inutile.
5. Non contrarre alcuna famigliarità coi figli della Casa: rispetto e carità con tutti nelle cose che riguardano ai loro doveri, senza usare seco loro confidenza o amicizia particolare.
6. Si accostino almeno una volta al mese con divozione ai Ss. Sacramenti della Confessione e comunione, e ciò facciano nella chiesa dell'Oratorio, affinchè la loro cristiana condotta sia conosciuta dagli altri figliuoli della Casa. Ecco poi quali sono i doveri che riguardano direttamente a ciascuna persona di servizio: [742]
1. Il cuoco deve procurare che il vitto sia sano, economico e apparecchiato all'ora stabilita: ogni piccolo ritardo cagiona disagio nella comunità.
2. Al cuoco incombe di tener ben pulita la cucina e di aver grandissima cura della nettezza, e fare sì che niuna qualità di cibo venga a guastarsi.
3. Qualsiasi porzione di cibo, frutta, pietanza o bevanda che sopravanzi a tavola, la metta in serbo e non ne disponga in alcun modo senza il consenso del Superiore.
4. Deve rigorosamente proibire l'ingresso in cucina a qualsiasi figliuolo della Casa; nemmeno deve permettere che le persone estranee ivi si trattengano, a meno che vi sia particolare permesso del Superiore. Se qualcuno chiederà al cuoco di qualche persona della Casa, sia con bontà avviato al parlatorio o al portinaio.
5. Terminati che avrà i lavori di cucina, aiuterà il cameriere ad aggiustare i lumi e a compiere altri lavori della Casa; ma non stia mai in ozio.
6. La più bella qualità di un cuoco si è cha vada esente dal vizio della gola.
1. Il cameriere alla sera andrà mezz'ora prima degli altri a coricarsi, e al mattino si leverà mezz'ora prima. Dieci minuti avanti il segno della levata sveglierà il portinaio, perchè vada ad accendere il lume in tutte le camerate. Dato poscia il segno della levata, andrà a suonare l'Angelus e a dare il segno per la santa Messa.
2. A cura del cameriere assettare le camere dei Superiori, servire a tavola, aiutare il cuoco a tener pulita la cucina, lavare piatti e scodelle e portarle al loro posto.
3. Lungo il giorno, se gli rimane tempo libero, starà agli ordini del Prefetto. [743]
1. È strettissimo dovere del portinaio il trovarsi sempre in porteria, ricevere urbanamente chiunque si presenta. Quando deve recarsi altrove per compiere i suoi doveri religiosi, all'ora di prender cibo, od in caso di doversi assentare per qualche ragionevole motivo egli si farà supplire da persona fissata dal Rettore.
2. Non introdurrà mai persona in Casa senza saputa dei superiori, indirizzando al Prefetto quelli che hanno affari di economia o che hanno bisogno di trattare cose riguardanti i giovani della Casa; al Rettore quelli che cercano direttamente di lui.
3. Non permetterà ad alcun giovane della Casa d'uscire senza che sia munito dell'opportuno biglietto di permesso, salve le eccezioni che terrà dal Superiore in nota da conservarsi segreta, notando l'ora di uscita e di ritorno.
4. Qualunque lettera o pacco indirizzato ad un giovane della Casa sarà presentato al Prefetto prima che sia portato a destinazione.
5. Alla sera avrà cura di chiudere tutti gli usci e porte della Casa che riguardano all'esterno. Un quarto d'ora dopo le orazioni darà un tocco di campanello, quindi andrà a spegnere i lumi in tutte le camerate.
6. Al mattino, dato il segno della levata, si recherà nuovamente nelle camere per accenderne i lumi, svegliando il capo di camerata qualora ne faccia mestieri.
7. Sarà pur cura del portinaio dare i segni dell'orario e ricevere tutti i lumi che gli saranno portati, tenerli puliti ed aggiustarli pel servizio di tutta la Casa e somministrarli secondo il bisogno.
8. È proibito di comprare o vendere commestibili, ritenere denaro ed altre cose presso di sè per compiacere ai giovani ed ai loro parenti.
9. Procuri la quiete e studi di impedire ogni disordine nel cortile e nella Casa; proibisca gli schiamazzi nel tempo delle sacre funzioni, di scuola, di studio e di lavoro.
10. Riceva le chiavi delle camerate, scuole ed altre, e non le renda se non a chi è incaricato dell'uffizio per cui quelle sono necessarie.
11. Il tempo regolarmente libero per parlare ai giovani della Casa è ogni giorno da un'ora alle due dopo mezzodì. In altri tempi è proibito d'introdurre gente per parlare ai medesimi siano studenti, siano artigiani. Le donne dovranno fermarsi nel parlatorio ed attendere quei giovani per cui si fa domanda.
12. Egli procurerà di tenersi continuamente occupato o con lavori propri o con altri che gli saranno affidati e noterà sopra di un memoriale [744] tutte le commissioni; ma sia nel riceverle, sia nel farle, usi sempre maniere dolci ed affabili, pensando che la mansuetudine e l'affabilità sono le virtù caratteristiche d'un buon portinaio.
NB. Il tempo ordinario in cui il Rettore darà udienza è il mattino de' giorni feriali dalle 9 alle 11.
Il tempo più opportuno per trattare cose d'amministrazione, di scuola e di economia domestica col Prefetto, o con chi per esso, è parimenti ogni giorno feriale dalle ore 9 alle 12 antimeridiane e dalle 2 alle dopo mezzodì.
1. I maestri d'arte sono quelli che ammaestrano i giovani occupati in qualche professione nei laboratori della Casa. Il loro primario dovere è la puntualità nel trovarsi a tempo debito nei laboratori.
2. Si mostrino premurosi per tutto ciò che riguarda il bene della Casa; e si ricordino che è loro essenziale dovere istruire i loro apprendisti e fare sì che loro noti manchi lavoro. Osservino per quanto è possibile il silenzio durante il lavoro, nè alcuno si metta a cantare fuori del tempo di ricreazione. Non permetteranno mai ai giovani di andare a far commissioni. Essendone il caso, se ne domanderà al Prefetto l'opportuno permesso.
3. Non devono mai fare contratti coi giovani della Casa, nè assumersi per loro conto particolare alcun lavoro di lor professione; tengano esatto registro di ogni sorta di lavoro che si compie nel proprio laboratorio.
Ogni settimana daranno all'economo minuto conto delle spese e delle entrate del lavoro di ciascun laboratorio.
4. Sono strettamente obbligati d'impedire l'ozio ed ogni sorta di cattivi discorsi, e conosciuto qualcuno dato a tali vizi, dovranno immediatamente darne avviso al Superiore.
5. Ogni Maestro, ogni allievo stia nel proprio laboratorio, nè mai alcuno si rechi in quello degli altri senza un assoluto bisogno.
6. È proibito il far merenda, il bere vino nei laboratori, dovendosi in questi lavorare e non divertirsi.
7. Il lavoro incomincierà coll'Actiones e coll'Ave Maria, e terminerà coll'Agimus e coll'Ave Maria. A mezzo giorno ed alla sera si dirà l'Angelus prima di uscire dal laboratorio.
8. Gli apprendisti poi devono essere docili e sottomessi ai loro maestri, come loro Superiori, mostrando grande diligenza per compiacerli [745] e somma attenzione per imparare quelle cose che loro sono insegnate.
9, Si leggeranno questi articoli dal Capo o da chi per lui ogni quindici giorni a voce chiara e se ne terrà sempre una copia esposta nel laboratorio.
1. Tra i figli ricoverati se ne incontrano alcuni i quali manifestano attitudine per lo studio o per qualche arte liberale. La casa dell'Oratorio si adopera per aiutare costoro, sia che possano pagare tutta o in parte la pensione, oppure siano assolutamente poveri.
2. Gli studenti devono uniformarsi in tutto al regolamento della Casa, e proporsi di essere di esempio agli artigiani, specialmente nelle pratiche religiose e nell'esercizio della carità.
3. Nessuno è ammesso a studiare: 1° Se non ha una speciale attitudine allo studio e che nelle classi percorse abbia primeggiato. 2° Abbia certificato di eminente pietà. Queste due condizioni dovranno essere comprovate da una buona condotta per qualche tempo tenuta nella casa dell'Oratorio. 3° Niuno è ammesso a studiare il latino se non ha volontà di abbracciare lo stato ecclesiastico, lasciandosi però libero di seguire la sua vocazione compiuto il corso di latinità.
4. Ogni studente è tenuto a prestarsi a qualsiasi servizio che possa occorrere per la Casa, come sarebbe far commissioni, scopare, portare acqua o legna, aiutare a tavola, fare il catechismo e simili.
Condotta religiosa degli studenti.
1. Ogni studente deve mostrarsi modello di virtù a tutti i figli della Casa, sia nell'adempimento dei suoi doveri, sia nella pietà. Farebbe certamente disonore ad uno studente occupato continuamente in cose di spirito, l'essere inferiore nella condotta ad un artigianello occupato tutto il giorno nei suoi pesanti lavori. [746]
2. Il secondo giovedì di ciascun mese faranno tutti insieme l'esercizio della buona morte, preparandosi alcuni giorni prima con qualche pratica di cristiana pietà.
3. Siccome è da tutti raccomandato l'avere un confessore stabile, così per gli studenti sarà stabilito un confessore, che ciascuno avrà cura di non cangiare senza parteciparlo al Superiore; e ciò per accertarsi che l'allievo si accosti ai Santi Sacramenti, e anche perchè sia regolarmente diretto dal medesimo Direttore; avendo maggior bisogno di coltura spirituale quelli che si dánno allo studio, che è tutto lavoro di spirito. Ma assai più ancora è necessario di praticare un medesimo confessore, affinchè terminato il corso di latinità e gli sia in grado di giudicare con fondamento della propria vocazione.
4. Ciascuno abbia piena confidenza col confessore e gli manifesti regolarmente tutto il suo interno e lo segua nei suoi consigli: ciò è della massima importanza, perchè così facendo il confessore sarà in grado di dare gli avvisi più adattati pel bene dell'anima.
1. L'orario dello studio varia secondo l'orario delle scuole, ma tutti sono tenuti ad uniformarvisi.
2. Nello studio vi sarà un assistente, il quale è responsabile della condotta che ciascuno vi tiene, tanto nella diligenza ad intervenire quanto nell'applicazione. In ogni banco dello studio sta un decurione in aiuto coll'assistente.
3. Ogni sabato vi sarà una conferenza per gli studenti, in cui l'assistente darà il suo parere sulla buona o cattiva condotta di ciascuno e proporrà qualche cosa che viemeglio possa contribuire all'avanzamento dello studio e della pietà.
4. Chi non è assiduo allo studio, oppure reca disturbo quando vi si trova, sarà avvisato; che se non si emenda, sarà tosto destinato ad altre occupazioni. Il tempo è prezioso, perciò si devono togliere tutti gli ostacoli che possono impedire di occuparlo bene.
5. Per contribuire all'esatta occupazione, ed anche perchè nella Casa vi sia un posto, ove possa ognuno tranquillamente leggere o scrivere secondo il bisogno senza disturbo, nello studio si dovrà osservare da tutti rigoroso silenzio in ogni tempo.
6. Chi non ha il timor di Dio, abbandoni lo studio, perchè lavora invano. La scienza non entrerà in un'anima malevola, nè abiterà in un [747] corpo schiavo del peccato. In malevolam animam non introibit sapientia, nec habitabit in corpore subdito peccatis, dice il Signore (Sap. I, 4).
7. La virtù che è in particolar maniera inculcata agli studenti è l'umiltà. Uno studente superbo è uno stupido ignorante. Il principio della sapienza è il timor di Dio: Initium sapientiae timor Domini, dice lo Spirito Santo. Il principio d'ogni peccato è la superbia. Initium omnis beccati superbia scribitur, dice Sant'Agostino.
1. Ricordatevi, figliuoli, che noi siamo creati per amare e servire Dio, nostro Creatore, e che nulla ci gioverebbe acquistare tutta la scienza e tutte le ricchezze del mondo senza timor di Dio. Da questo santo timore dipende ogni nostro bene temporale ed eterno.
2. I mezzi che possono contribuire a mantenerci nel timor di Dio e assicurarci la salute dell'anima sono l'orazione, i SS. Sacramenti e la parola di Dio.
3. L'orazione sia frequente e fervorosa, ma non mai di malavoglia, e con disturbo dei compagni; è meglio non pregare che pregare malamente. Per prima cosa al mattino appena svegliati fate il segno di santa croce e sollevate la mente a Dio con qualche orazione giaculatoria.
4. Eleggetevi un Confessore stabile, a lui aprite ogni segretezza del vostro cuore ogni quindici giorni od una volta al mese. S. Filippo Neri, quel grande amico della gioventù, raccomandava a' suoi figli di confessarsi ogni otto giorno e di comunicarsi anche più spesso secondo l'avviso del Confessore.
5. Assistete divotamente alla S. Messa, ricordatevi che la Chiesa è casa di Dio e luogo di orazione.
6. Fate spesso lettura spirituale ed ascoltate con attenzione le prediche e le altre istruzioni morali. Non partite mai dalle prediche senza portare con voi qualche massima da praticare durante le vostre occupazioni. [748]
7. Datevi da giovani alla virtù, perchè aspettare a darsi a Dio in età avanzata è porsi in gravissimo pericolo di andare eternamente perduto. Le virtù che formano il più bel ornamento di un giovane cristiano sono: la modestia, l'umiltà, l'ubbidienza e la carità.
8. Abbiate una speciale divozione al SS. Sacramento, alla B. Vergine, a S. Francesco di Sales, a S. Luigi Gonzaga, che sono i Protettori speciali di questa Casa.
9. Non abbracciate mai alcuna nuova divozione se non con licenza del vostro Confessore, e ricordatevi di quanto diceva S. Filippo Neri a' suoi figli: Non vi caricate di troppe divozioni, ma siate perseveranti in quelle che avete preso.
10. Abbiate gran rispetto ai sacri ministri della Chiesa e a tutte le cose di N. S. Religione: chi facesse cattivi discorsi in questo proposito tenetelo per vostro nemico e come tale fuggitelo.
1. L'uomo, miei cari figli, è nato per lavorare. Adamo fu collocato nel Paradiso terrestre affinchè lo coltivasse. L'apostolo S. Paolo dice: È indegno di mangiare chi non vuol lavorare: Si quis non vult operari, nec manducet (II Thess. III, 10).
2. Per lavoro s'intende l'adempimento dei doveri del proprio stato, sia di studio, sia di arte o mestiere.
3. Ma ricordatevi che mediante il lavoro potete rendervi benemeriti della società, della religione, e far bene all'anima vostra, specialmente se offerite a Dio le quotidiane vostre occupazioni.
4. Tra gli oggetti delle vostre occupazioni preferite sempre quelli che sono prescritti dall'ubbidienza, tenendo fermo di non mai omettere alcuna vostra obbligazione, per intraprendere cose non comandate.
5. Se sapete qualche cosa, datene gloria a Dio, che è autore d'ogni bene, ma non insuperbitevi, perciochè la superbia è verme che rode e fa perdere il merito di tutte le vostre opere buone.
6. Ricordatevi che la vostra età è la primavera della vita. Chi non s'abitua al lavoro in tempo di gioventù, per lo più sarà sempre un poltrone sino alla vecchiaia, con disonore della patria e dei parenti, e forse con danno irreparabile dell'anima propria, perchè l'ozio mena seco tutti i vizi. [749]
7. Chi è obbligato a lavorare e non lavora, fa un furto a Dio ed ai suoi Superiori. Gli oziosi in fine della vita proveranno grandissimo rimorso pel tempo perduto.
8. Cominciate sempre il lavoro, lo studio e la scuola con l'Actiones coll'Ave Maria, e finite con l'Agimus. Ditele bene queste piccole preghiere, affinchè il Signore voglia esso guidare i vostri lavori ed i vostri studii e possiate lucrare le indulgenze concesse dai Sommi Pontefici a chi compie queste pratiche di pietà.
9. Al mattino prima di cominciare il lavoro, a mezzodì ed alla sera, finite le vostre occupazioni, dite l'Angelus Domini, aggiungendovi alla sera il De profundis in suffragio delle anime dei fedeli defunti; ditelo sempre stando inginocchiati, eccetto il sabato a sera ed alla domenica, in cui lo direte stando in piedi. Il Regina Coeli si dice nel tempo pasquale stando in piedi.
1. Il fondamento d'ogni virtù in un giovane è l'ubbidienza a' suoi Superiori. Riconoscete nella loro volontà quella di Dio, sottomettendovi loro senza opposizione di sorta.
2. Persuadetevi che i vostri Superiori sentono vivamente la grave obbligazione che li stringe a promuovere nel miglior modo il vostro vantaggio, e che nell'avvisarvi, comandarvi, correggervi non altro hanno di mira che il vostro bene.
3. Onorateli ed amateli come quelli che tengono il luogo di Dio e dei vostri parenti, e quando loro ubbidite pensate di ubbidire a Dio medesimo.
4. Sia la vostra ubbidienza pronta, rispettosa ed allegra ad ogni loro comando, non facendo osservazioni per esimervi da ciò che comandano. Ubbidite, sebbene la cosa comandata non sia di vostro gusto.
5. Aprite loro liberamente il vostro cuore considerando in essi un padre amorevole che desidera ardentemente la vostra felicità.
6. Ascoltate con riconoscenza le loro correzioni, e se fosse necessario, ricevete con umiltà il castigo dei vostri fallì, senza mostrare nè odio nè disprezzo verso di loro.
7. Guardatevi bene dall'essere di quelli che, mentre i vostri superiori consumano le fatiche per voi, censurano le loro disposizioni; sarebbe questo un segno di massima ingratitudine. [750]
8. Quando siete interrogato da un Superiore sulla condotta di qualche vostro compagno, rispondete nel modo che le cose sono a voi note, specialmente quando sì tratta di prevenire o rimediare a qualche male. Il tacere in queste circostanze recherebbe danno a quel compagno, e potrebbe essere cagione di disordini a tutta la casa.
1. Onorate ed amate i vostri compagni come altrettanti fratelli, e studiatevi di edificarvi gli uni gli altri col buon esempio.
2. Amatevi tutti scambievolmente, come dice il Signore, ma guardatevi dallo scandalo. Colui che con parole, discorsi, azioni, desse scandalo, non è un amico, è un assassino dell'anima.
3. Se potete prestarvi qualche servizio e darvi qualche buon consiglio, fatelo volentieri. Durante la ricreazione, accogliete di buon grado nella vostra conversazione qualsiasi compagno senza distinzione di sorta, e cedete parte dei vostri trastulli con piacevoli maniere. Abbiate cura di non mai discorrere dei difetti dei vostri compagni, a meno che ne siate interrogati dal vostro Superiore. In tal caso badate di non esagerare quello che dite.
4. Dobbiamo riconoscere da Dio ogni bene ed ogni male, perciò guardatevi dal deridere i vostri compagni pei loro difetti corporali o spirituali. Ciò che oggi deridete negli altri, può darsi che domani permetta il Signore che avvenga a voi.
5. La vera carità comanda di sopportare con pazienza i difetti altrui e perdonare facilmente quando taluno ci offende, ma non dobbiamo mai oltraggiare gli altri, specialmente quelli che sono a noi inferiori.
6. La superbia è sommamente da fuggirsi; il superbo è odioso agli occhi di Dio e dispregevole dinanzi agli uomini.
1. Per modestia s'intende una decente e regolata maniera di parlare, di trattare e camminare. Questa virtù, o figliuoli, è uno dei più belli ornamenti della vostra età, e deve apparire in ogni vostra azione, in ogni vostro discorso. [751]
2. Il corpo e le vestimenta devono essere puliti, il volto costantemente sereno ed allegro, senza muovere le spalle o il corpo leggermente qua e là, eccetto che qualche onesta ragione lo richiegga.
3. Vi raccomando la modestia degli occhi; essi sono le finestre per cui il demonio conduce il peccato nel cuore. L'andare sia moderato, non con troppa fretta ad eccezione che la necessità esiga altrimenti; le mani quando non sono occupate si tengano in atto decente, e di notte per quanto si può tenetele giunte dinanzi al petto.
4. Quando parlate siate modesti, non usando mai espressioni che possano offendere la carità e la decenza; al vostro stato, alla vostra età, più si conviene un verecondo silenzio, che non l'arditezza e la loquacità.
5. Andate adagio nel criticare le azioni altrui, nè vantatevi mai di alcun vostro pregio. Accogliete sempre con indifferenza il biasimo e la lode, umiliandovi verso Dio quando vi vien fatto qualche rimprovero.
6. Evitate ogni azione, movimento o parola che sappiano alcunchè di villano, studiatevi di emendare a tempo i difetti di temperamento e sforzatevi di formare in voi un'indole mansueta e costantemente regolata secondo i principi della cristiana modestia.
7. È pure parte della modestia il modo di contenersi a tavola, pensando che il cibo è dato a noi, non siccome a bruti, solo per appagare il gusto, ma sibbene per mantenere sano e vigoroso il corpo, quale istrumento materiale destinato a servire il suo Creatore ed a procacciare la felicità dell'anima.
8. Prima e dopo il cibo fate i soliti atti di religione, e durante la refezione procurate di pascere eziandio lo spirito, attendendo in silenzio a quel po' di lettura che vi si fa.
9. Non è lecito mangiare o bere se non quelle cose che sono dalla casa somministrate. Quelli che ricevono frutta, commestibili o bibite di qualunque, genere, dovranno consegnarle al Superiore, il quale disporrà che se ne faccia uso moderato.
10. Vi si raccomanda caldissimamente di non mai guastare la benchè minima parte di minestra, pane o pietanza. Chi guastassse volontariamente qualche sorta di cibo, è severamente punito, e deve grandemente temere che il Signore lo faccia morir di fame. [752]
Contegno nel regime della Casa.
1. Al mattino, dato il segno del campanello, lasciate prontamente il letto, mettendo mano a vestirvi con tutta la decenza possibile, e sempre in silenzio. Vestiti con proprietà ed aggiustato il letto, uscirete pei vostri bisogni, come a lavarvi e simili.
2. Non uscite mai di camera senza aggiustare il letto, pettinarvi, ripulire ed assestare gli abiti, e mettere in ordine ogni cosa vostra.
3. Dato il secondo segno del campanello, ogni artigiano andrà in cappella al luogo designato per recitare le orazioni in comune ed assistere alla santa Messa. Gli studenti andranno allo studio, di poi alla Messa, dopo cui si farà breve meditazione.
4. Durante queste sacre funzioni astenetevi per quanto potete di sbadigliare, dormire, volgervi qua e là, chiacchierare e uscire di chiesa. Questi difetti dimostrano poco desiderio delle cose di Dio e per lo più danno grave disturbo ed anche scandalo ai compagni.
5. Terminate le cose di chiesa, vi condurrete con ordine e senza rumore al luogo destinato pel lavoro, e procurerete che nulla vi manchi nelle vostre occupazioni. Si noti per gli studenti che cominciato lo studio non è più lecito di parlare, pigliare o dare cose ad imprestito, non ostante qualsiasi bisogno. Evitino eziandio di far rumore colla carta, coi libri, coi piedi, col lasciar cadere qualche cosa o in altro modo. Occorrendo qualche vera necessità, se ne dia cenno all'assistente e si farà ogni cosa col minimo altrui disturbo.
6. Niuno si muova, nè faccia strepito finchè il campanello non abbia dato il segno del termine dello studio.
7. Quelli poi che vanno a lavorare, dopo messa, prenderanno senza strepito la loro colazione e si porteranno immediatamente al loro laboratorio non fermandosi nè in giuochi, nè in divertimenti, tanto più non andando al lavoro. Tali mancanze di dovere saranno castigate secondo la loro gravezza. È proibito guardare e rifrustare nello scrigno o cassa altrui. Lungo il giorno niuno si rechi in dormitorio senza particolare permesso.
8. Guardatevi bene dall'appropriarvi la roba altrui, fosse anche della minima entità; ed accadendo dì trovare qualche cosa, consegnatela tosto ai Superiori, e chi si lasciasse ingannare a farla sua, sarebbe severamente punito a proporzione del furto. [753]
9 Le lettere e i pieghi, che si ricevono o si spediscono, devono essere consegnati al Superiore, il quale, se lo giudicasse, può leggerli liberamente.
10. È rigorosamente proibito di tener denaro presso di sè , ma devesi depositare tutto presso al Prefetto, il quale lo somministrerà secondo i bisogni particolari. È eziandio severamente proibito lo stringere contratto di vendita, compra o permuta, far debito con chicchessia senza il permesso del Superiore.
11. È proibito d'introdurre in Casa o nel dormitorio persone esterne. Dovendosi parlare con parenti od altra persona, si andrà nel parlatorio comune. Non istate mai vicini agli altri quando tengono discorsi particolari. Nè mai introducetevi nei laboratorii o nei dormitorii altrui, perchè tal cosa riesce di grave disturbo a chi vi è entro od a chi lavora. È parimente proibito di chiudersi in camera, scrivere sopra le mura, piantar chiodi, far rotture di qualsiasi genere. Chi colpevolmente guastasse qualche cosa, è obbligato a farla riparare a sue spese. Infine è pure proibita trattenersi nella camera del portinaio, in cucina, ad eccezione di quelli che sono ivi incaricati di qualche uffizio.
12. Usate carità con tutti, compatite i difetti altrui, non imponete mai soprannomi, nè mai dite o fate cosa alcuna che, detta o fatta a voi, vi possa recar dispiacere.
1. Ricordatevi, o figliuoli, che ogni cristiano è tenuto di mostrarsi edificante verso il prossimo, e che nessuna predica è più edificante del buon esempio.
2. Uscendo di Casa siate riservati negli sguardi, nei discorsi ed in ogni vostra azione. Niuna cosa può essere di maggior edificazione quanto il vedere un giovane di buona condotta; egli fa vedere che appartiene ad una comunità di giovani cristiani e ben educati.
3. Quando aveste a recarvi a passeggio oppure a scuola, od a fare commissioni fuori dell'Oratorio, non fermatevi a mostrare a dito chicchessia, nè fare risa smodate, tanto meno gettar pietre, divertirsi saltando fossi od acquedotti. Queste cose indicano una cattiva educazione.
4. Se incontrate persone che abbiano cariche pubbliche, scopritevi il capo cedendo loro la parte più comoda; altrettanto farete co' religiosi e con ogni persona costituita in dignità, massimamente se venissero o s'incontrassero in questa Casa. [754]
5. Passando davanti a qualche Chiesa o divota immagine, scopritevi il capo in segno di riverenza. Che se v'accadesse di passare vicino ad una Chiesa, ove si compissero i divini uffizi, fate silenzio a debita distanza per non recare disturbo a quelli che entro si trovano.
6. Entrando in qualche chiesa prenderete l'acqua benedetta e fatto il segno della santa croce farete inchino se vi è solo la croce o qualche immagine, piegherete il ginocchio se vi è il Sacramento nel Tabernacolo, farete genuflessione con ambe le ginocchia, se vi è esposto il SS. Sacramento. Ma badate bene di non fare strepiti, non ciarlare, nè ridere. È meglio non andare in chiesa, anzichè andarvi senza il debito rispetto.
7. Ricordatevi, che se voi non vi portate bene nella Chiesa, nella scuola, nel lavoro o per istrada, oltre che ne avrete a render conto al Signore, farete anche disonore al Collegio o Casa a cui appartenete.
8. Se vi accadesse di avere un vicino o di dover trattare con un qualche compagno che facesse cattivi discorsi, partecipatelo prestamente al Superiore per avere i necessari avvisi e regolarvi con prudenza senza offendere Dio.
9. Non parlate mai male dei vostri compagni, dell'andamento di Casa, de' vostri Superiori e delle loro disposizioni. Ciascuno è pienamente libero di rimanere o non rimanere, e farebbe disonore a se stesso chi si lagnasse del luogo dove è ricoverato, mantenuto e dove è in pieno arbitrio di rimanere o di andare dove più a lui piace.
10. Tanto gli studenti quanto gli artigiani non potranno recarsi altrove, fuori che al lavoro o alla scuola, dopo cui ritorneranno immediatamente a casa. Quando si va al passeggio, è proibito di fermarsi per istrada, entrare in botteghe, fare visite o andare a divertirsi o comecchessia allontanarsi dalle file. Nemmeno è lecito accettare invito di pranzi, perchè non se ne darà il permesso.
11. Se volete fare un gran bene a voi ed alla Casa, parlatene sempre bene, cercando eziandio ragioni per fare approvare quanto si fa o si dispone dai Superiori per il buon andamento della Comunità.
12. Esigendosi da voi una ragionevole e spontanea ubbidienza a tutte queste regole, i trasgressori ne saranno debitamente puniti, e quelli che le osserveranno, oltre la ricompensa che devono aspettarsi dal Signore, saranno anche dai Superiori premiati secondo la perseveranza e la diligenza. [755]
Tre mali sommamente da fuggirsi.
Sebbene i figliuoli della Casa debbano fare quanto possono per fuggire qualsiasi peccato, tuttavia, o miei cari figli, vi sono tre mali che in particolar maniera dovete evitare, perchè maggiormente funesti alla gioventù e che traggono a terribili conseguenze. Questi sono: 1° la bestemmia, ed il nominar il nome santo di Dio invano; 2° la disonestà; 3° il furto.
Credete, o figliuoli miei, un solo di questi peccati basta a tirare le maledizioni del Cielo sopra la Casa. Al contrario tenendo lontani questi mali, noi abbiamo i più fondati motivi di sperare le celesti benedizioni sopra di noi e sopra l'intiera nostra comunità.
Chi osserva queste regole, sia dal Signore benedetto.
Ogni domenica a sera od in altro giorno della settimana il Prefetto leggerà un capo di queste regole con analoga riflessione morale e raccomandazione affinchè siano osservate.
Cose con rigore proibite nella Casa.
1. Nella Casa essendo proibito di ritener danaro, è parimenti proibito ogni sorta di giuoco interessato.
2. È pure vietato ogni giuoco in cui possa essere pericolo di farsi del male e possa avvenir cosa contro la modestia.
3. Il fumare e masticar tabacco è vietato in ogni tempo, e sotto qualsiasi pretesto. Il nasare è tollerato nei limiti da stabilirsi dal Superiore dietro consiglio del medico.
4. Non si darà mai permesso d'uscire coi parenti e cogli amici a pranzo, o per provviste d'abiti. Occorrendo bisogno di questi oggetti, può farsi prendere la misura per comperarli fatti, o dare ordine che si facciano nell'officina della Casa.
[1] I Petri, II, 16
[2] X, I
[3] Dicendo il conte Federigo Sclopis, s'intende dire uno dei più illustri patrizi piemontesi, il magistrato integerrimo, il fido consigliere della Corona, il presidente del Senato, l'arbitro di pace tra le due maggiori Potenze marittime, l'Inghilterra e gli Stati Uniti, nella intricata questione della nave Alabama; uomo insomma di fama mondiale e di sentimenti religiosi e cattolici. Mentre il suo nome correva onorato ed applaudito nei due emisferi, mentre giungevangli felicitazioni da ogni paese, telegrammi da ogni gente per la felice riuscita di detta questione, fu pur bello il vedere l'eminente personaggio attribuirne il buon esito al Padre dei lumi, e il 17 settembre 1872 scrivere nel libro de' suoi ricordi tra le altre queste parole: “Torniamo da Ginevra dopo aver provato le vostre benedizioni, o Signore.... Un profondo, intensissimo obbligo di gratitudine mi stringe a voi, mio Dio” Vedi Carattere e Religiosità del conte Federigo Sclopis, aureo opuscoletto vergato dalla egregia penna di un altro cospicuo patrizio torinese, il barone Antonio Manno, Torino 1880
[4] Italia Reale - Corriere Nazionale, 18-19 maggio 1898
[5] Le Concessioni fatte a D. Bosco dalla Autorità Ecclesiastica di Torino e dalla S. Sede fino al 1850 erano personali. Il Direttore dell'Oratorio le comunicava coi limiti e a quelli a cui erano state concesse. La seguente Concessione è la prima fatta al Superiore della Congregazione Salesiana, D. Bosco per la prima volta nella supplica al Papa parla di Congregazione di S. Francesco di Sales, sotto il qual tutti quelli che dirigevano gli Oratori, e che o preti o laici prestavano l'opera loro a vantaggio dei giovanetti che li frequentavano. Roma accettava questa denominazione.
Il sacerdote torinese Giovanni Bosco ossequiosamente espone a Vostra Santità essere stata legittimamente eretta in quella città una Congregazione sotto il titolo e protezione di S. Francesco di Sales, della quale egli è Direttore, e che non ha altro scopo che quello d'istruire nella Religione e nella pietà la gioventù abbandonata, Supplica Vostra Santità affinchè si degni accordargli le seguenti grazie spirituali:
1° Indulgenza Plenaria da lucrarsi da ciascuno di coloro che si ascriva alla Congregazione suddetta, premessa la sacramentale Confessione e Comunione;
2° Simile, nel giorno della festa del Santo, per gli Aggregati, che si accosteranno entro tal dì ai SS. Sacramenti;
3° Indulgenza Plenaria nella solennità dell'Assunzione di Maria SS., da lucrarsi da tutti gli Aggregati, che confessati e comunicati pregheranno per la gloria ed esaltazione della Santa Madre Chiesa;
4° Indulgenza Parziale di 300 giorni, da lucrarsi da tutti coloro che ancorchè non siano aggregati, intervengono alla processione, che in onore del suddetto Santo suol farsi nella prima domenica di ciascun mese dell'anno.
Ex audientia SS, - Die 28 Septembris 1850.
Sanctissimus Dominus Noster Pius Divina Providentia Papa IX Oratoris precibus per me infrascriptum relatis benigne annuit iuxta petita absque ulla Brevis expeditione.
SS. D. N. S. AB EPISTOLIS LATINIS.
Nell'udienza del 28 settembre, Sua Santità, volendo eziandio dare un segno del suo paterno affetto verso i giovani che frequentano gli Oratorii della città di Torino, estendeva verbalmente alla Compagnia di San Luigi le medesime indulgenze concesse alla Congregazione di S. Francesco di Sales, e tale estensione di favori era per lettera del Relatore comunicata col Rescritto medesimo a D. Bosco. Il Papa di soprappiù aveva elargita l'indulgenza plenaria a quelli che avrebbero santificato sei domeniche continue ad onore di S, Luigi; e queste domeniche potevano scegliersi prima o dopo la festa del Santo o nel corso dell'anno. Tale indulgenza si può lucrare in ciascuna di queste domeniche, purchè uno si accosti ai SS. Sacramenti e faccia in quel giorno qualche opera di pietà. Così pure concedeva 300 giorni d'indulgenza a qualunque fedele intervenisse alla processione mensile in onore di S. Luigi, e nel giorno in cui si celebra la festa del santo Titolare di ciascun Oratorio. Tutte le suddette indulgenze vennero concesse in perpetuo.
[6] XIII, 12
[7] Così leggiamo in un autografo di D. Bosco: Esercizi a Giaveno, 1850. - Brosio Giuseppe, anni 21 - Cumino Giuseppe, 17 - Diato Bartolomeo, 18 -Reffo Ermanno, 18 - Gaspardone Tommaso, 18 - Testore Michele, 17 - Costa Eugenio, 19 - Tirone Domenico, 18 - Piumatti Giovanni, 18 - Beglia Giacomo, 17 - Buzzetti Giuseppe, 18 - Rastelli Giovanni, 19 Reviglio Felice, 18 - Reviglio Giuseppe, 17 - Caglieri Giacinto, 18 Gastini Carlo, 18 - Chiosi Giuseppe, 16 - Canale Giuseppe, 22 - Fornasio Clemente, 21 - Libois Michele, 18 - Borselli Francesco, 20 - Gotti Stefano, 18 - Micheletti magg., 19 - Micheletti min., 17 - Pagani Felice, 16 - Montanaro Lorenzo, 25 - Porporato Lorenzo, 16 - Ghiotti Antonio, 28 - Pasquale Michele, 16 - Gillardi Giovanni, 48 - Manuele Matteo, 17 - Chiala Cesare, 16 - Bruno Giorgio, 17 - Bertolino Giacomo, 17 - Bosselli Gio. Batt., 16 - Margaretelli Stefano, 16 - Bruna Giuseppe, 16 - Savio Angelo, 17 - Bargetti Francesco, 20 - Costante Zeffirino, 17 - Valfrè Giovanni, 20 - Croce Alessandro, 16 - Ch. Casetti Francesco, 16 - Bardissone Giovanni, 17 -Comoglio Giuseppe, 23 - Rovetti Giuseppe; 39 - Marchisio Domenico, 16 - Locatelli Francesco, 17 - Ferrero Giovanni, 16 - Rua Michele,16 - Ch. Savio Ascanio, 18 - Odasso Giuseppe, 16 - Rossi Francesco, 17 - Bracotti Giovanni, 18 - Battagliotti Giuseppe, 18 Audenino Vittorio, 16 - Ippolito Luigi, 17 - Perim Giovanni, 16 - Vaschetti Vittorio, 17 - Falchero Francesco, 19 - Pasero Lorenzo, 17 - Alasia Felice, 17 - Casassa Giuseppe, 16 - Gorino, Pietro, 33 - Forno Bernardo, 38 - Piovano Pietro, 25 Gilardi Dositeo, 40 - Casanova Alfonso, 26 - Gauter Giovanni, 22 - Rovere Giulio, 19 - Bajetti Giovanni, 25 - Serale Pietro, 16 - Castagna Giacomo, 16 - Gatta Bernardo, 22 - Rovaretto Antonio, 17 - Reviglio Giuseppe, 16 - Giovannino Agostino, 16 - Giacomelli Antonio, 21 - Barrucco Giuseppe, 35 - Lione Francesco, 17 - Costa Eugenio, 19 - Comba Antonio, 18 - Usseglio Giovanni, 19 - Tessa Carlo, 17 - Brunelli Giovanni, 19 - Ricci Francesco, 16 - Vesso Giorgio, 17 - Rosso Felice, 21 Ferro Felice, 17 - Demateis Giovanni, 22 - Ferro Michele, 20 - Picco Giov. Batt., 20 - Rolando, 17 - Luciano Delfino, 20 - Marnetto Paolo, 25 - Randù Giuseppe, 45 - Rosa Giacinto, 18 - Guardi, 19 - Cagno Giacomo, 16 - Pezziardi Alberto, 16 Santi Modesto, 17 - Giovale Gaudenzio, 17 - Plano Giovanni, 16 - Depetris, 21 - Dalmasso Francesco, 17 - Rufino Francesco, 17 - Giay Ireneo, 19 - Davico Luigi, 23 - Usseglio Luigi 20
[8] Beatissimo Padre,
Nella borgata di Castelnuovo della Diocesi di Torino havvi una Cappella nella quale si celebra la S. Messa e si dà la Benedizione col SS. Sacramento. Sembrerebbe all'Oratore D. Giovanni Bosco che per accrescere la divozione de' fedeli accordasse V. Santità le seguenti grazie spirituali:
1° Indulgenza parziale di 300 giorni a chiunque interverrà alla predica e benedizione nei giorni della novena di Maria SS. del Rosario, che suol praticarsi in detta Cappella;
2° Indulgenza plenaria a tutti quelli che confessati e comunicati visiteranno detta Cappella, pregando secondo l'intenzione del Romano Pontefice per i bisogni di S. Chiesa.
Ex audientia SS. - Die 28 Septembris 1850.
Sanctissimus Dominus Noster Pius Divina Providentia Papa IX Oratoris precibus per me infrascriptum relatis benigne annuit iuxta petita, absque ulla Brevis expeditione.
SS. D. N. ab Epistolis Latinis.
Il Sacerdote Torinese G. Bosco, Direttore degli Oratorii sotto il titolo del santo Angelo Custode, di S. Luigi Gonzaga, e di S. Francesco di Sales stabiliti in Torino per istruire nella religione e nella pietà la gioventù abbandonata, supplica Vostra Santità a volersi degnare di accordargli almeno ad triennium la facoltà di benedire corone, crocifissi, medaglie, colle applicazioni delle sante indulgenze.
Ex audientia SS. - Die A Septembris 1850.
Sanctissimus Dominus Noster Divina Providentia Pius Papa IX Oratoris precibus per me infrascriptum benigne annuit, eidemque petitam acultatem ad triennium tantum valituram indulsit, absque ulla Brevis expeditione.
1 Capo IV, 3.
[9] Ecco una delle quattro risposte ricevute:
Al Sig. Chierico Carlo Gastini in Torino.
Con dispaccio della Regia Segreteria di Stato per gli Affari Ecclesiastici di Grazia e Giustizia del 30 sc. settembre si notificò all'Azienda Generale dell'Economato R. Apostolico essersi S. M. degnata d'accordare a V. S. Ornat.ma un sussidio sopra di questa cassa, nella somma di L. 90.
Ne do avviso a V. S. affinchè si presenti personalmente, ovvero incarichi qualche conosciuta persona che munirà del di lei bianco segno debitamente legalizzato per esigere l'ammontare del relativo Mandato.
[10] Eccli. X, 19
[11] IV Reg. XII, 15
[12] Per la costruzione di una chiesa nell'Oratorio di Valdocco sotto il titolo di S. Francesco di Sales per la gioventù pericolante:
Offro la limosina di franchi…….in totale……
Oppure divisi come segue. Per l'anno corrente franchi dieci pagati.
Per l'anno venturo 1852 franchi dieci a pagarsi. Torino, 20 giugno 1851.
[13] Carissimo Sig. D. Bosco,
Ella può immaginarsi con qual piacere e consolazione dell'animo io mi porterei al suo pio istituto il 29 corrente e per la festa di S. Luigi e per amministrare la S. Cresima, se affari urgenti per una parte e l'aver dato parola per l'altra di portarmi nello stesso giorno in una parrocchia della diocesi per lo stesso fine non me lo impedissero. Mi riservi adunque per altra occasione e si persuada che sarà per me vera consolazione il prestarmi a tutti i suoi desideri. Oh! sarà proprio un giorno di festa quando mi potrò ritrovare in mezzo ai suoi buoni discepoli. Dio li benedica tutti, siccome io di cuore li benedico. Faccia le mie riverenti scuse ai generosi signori che V. S. mi nomina e che per Lei mi invitano e li renda capaci del dispiacere che provo di non potervi aderire. Le buone nuove che mi dà dei miei Fossanesi mi consolano: continui loro le sue pietose cure; mi saluti l'amico Borel e mi creda...
[14] L'interesse che D. Bosco aveva dei giovani apparisce da una sua lettera indirizzata il 29 agosto 1851 a D. Chiatellino maestro di scuola in Carignano: - “Stimo bene di partecipare a V. S. carissima come il B .......... Giuseppe, padre del suo raccomandato, in seguito alla lettera quivi annessa, chiamò a casa il suo figlio dietro suggerimento del Sig. Chiusano Michele.
”Tal cosa benchè siami piaciuta, perchè suppongo i genitori del suddetto giovane non trovarsi più tanto in grave bisogno, ed anche perchè mi resta un posto per qualcuno dei molti postulanti, mi è però alquanto rincresciuto, perchè il figlio dopo lunga attenzione aveva migliorato assai nella condotta, soprattutto nel lavoro.
”Io, V. S., il Sig. Chiusano abbiamo fatto quello che abbiamo potuto; il Signore continui quel tanto che noi abbiamo tentato di fare...
”Mi saluti caramente suo cugino Chiusano Michele, quelli di sua casa, anche da parte di quelli del nostro Oratorio, e mi ami nel Signore, mentre mi dico ecc.
[15] I COR. VI, 17
1 XX, 5.
2 LUCA, XIX, 16.
[16] Allude al tempio che i protestanti avevano in costruzione in Torino nel Corso Vittorio Emanuele
[17] Proverbi, XXV, 22
[18] I Favori e le Facoltà concesse dall'Autorità Ecclesiastica di Torino all'Oratorio di S. Francesco di Sales erano:
1° Di celebrare la S. Messa letta e cantata, dare la Benedizione col Venerabile, fare Tridui, Novene, Esercizi spirituali;
2°Fare il Catechismo, predicare, promuovere i fanciulli alla Santa Comunione, prepararli alla Confessione, a ricevere la Confermazione;
3° Facoltà di compiere in qualunque delle nostre Chiese il precetto Pasquale tanto pei fanciulli, quanto per gli adulti che vi intervenissero. Benedire arredi sacri, l'abito chiericale e vestirne quei giovanetti che manifestassero vocazione ecclesiastica, ma destinati al servizio degli Oratorii e dimoranti nell'Ospizio annesso.
Queste facoltà lasciavano spesso delle incertezze nella loro esecuzione. Perciò lo stesso Monsignor Fransoni, con patente del 31 Marzo 1852, le concedeva assolute e senta limite, cioè dava tutte quelle facoltà che fossero tornate utili o necessarie pel buon successo delle cose che occorrevano nella direzione dell'Oratorio di S. Francesco di Sales in Valdocco, di S. Luigi a Porta Nuova, del S. Angelo Custode in Vanchiglia
[19] Proverbi, VI, 16-19
[20] Le meraviglie della Divina Provvidenza nella Piccola sua Casa ecc. per l'intercessione della SS. Vergine. - Torino, presso il cav. Pietro Marietti, 1877
[21] Camera dei Deputati - Ufficio dei Questori.
Questo ufficio di presidenza avendo deliberato che in occasione della festa dello Statuto, testè celebrata, fossero prelevate sui fondi della Camera ed erogate a benefizio dell'Istituto degli Artigianelli, dalla S. V. Ill.ma cosi degnamente diretto, L. 200, io mi affretto perciò a dargliene parte, trasmettendole nello stesso tempo un mandato dì pagamento per la somma suddetta, che la S. V. potrà quandochessia far ritirare dal sig. Segretario di questo uffizio a semplice presentazione dello stesso mandato.
Approfitto della favorevole congiuntura per proferire alla S. V. Ill.ma i sensi della mia profonda stima.
1 Tedi Armonia, martedì 18 maggio 1852.
[22] Eccl. IV, 4, II
[23] La Patria, giornale politico e letterario, 21 giugno 1852
[24] Verbale dell'estrazione della lotteria a beneficio dell'Oratorio maschile di S. Francesco di Sales in Valdocco.
L'anno del Signore mille ottocento e cinquantadue il dodici Luglio, alle ore due e mezzo pomeridiane, in Torino e sul balcone del Palazzo Municipale si dava principio all'estrazione della lotteria di oggetti, concessa con decreto del 9 dicembre 1851 dal signor Intendente Generale della Divisione a benefizio dell'Oratorio maschile di S. Francesco di Sales in Valdocco.
In seguito della proroga accordata dal prelodato signor Intendente Generale, previo l'annunzio pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, alla vista del pubblico, radunavasi la Direzione Promotrice alla presenza dell'ill.mo sig. Teologo Collegiato D. Pietro Baricco Vicesindaco Delegato, e con l'intervento di me sottoscritto segretario assunto.
Siccome la direzione era stata autorizzata ad emettere biglietti in numero di 99,999, il signor Vice-sindaco riconobbe l'esistenza di quattro urne a ruota, nella prima delle quali di colore turchino dovevano deporsi tante pallottole perfettamente eguali e del medesimo colore, quante migliaia di biglietti furono emessi, cioè dal zero al 99. Nella seconda di colore rosso dovevano essere deposte dieci pallottole, cioè dal zero al 9; nella terza di colore giallo numero dieci, cioè dal zero al 9; nella quarta finalmente dì colore bigio altre 10, cioè dal zero al 9. Riconosciutosi quindi dal prelodato signor Vice-sindaco essere queste urne a ruota totalmente vuote, le pallottole furono collocate una alla volta da lui medesimo in queste. Finita questa operazione le quattro urne furono chiuse, e fatte girare acciocchè le pallottole si mescolassero. Quindi per mano di otto giovani dell'Oratorio a turno si incominciò ad estrarre un numero dalla prima ruota, cioè da quella delle migliaia, indi dalla seconda, cioè da quella delle centinaia, poscia dalla terza, cioè da quella delle decine; finalmente dalla quarta, cioè da quella delle unità. Questa operazione si ripetè tante volte quanti erano gli oggetti componenti la lotteria, vale a dire 3251. Ogni numero estratto fu ad alta voce proclamato da un membro della Direzione e fu ripetuto in disteso da un altro a tale ufficio richiesto, e contemporaneamente annotato da tre scrutatori in apposito registro di fianco al numero del premio vinto.
Siccome l'operazione non si potè compiere nella giornata, così il sig. Vice-sindaco prorogò l'estrazione pel dì successivo alle ore 9 antimeridiane e suggellò l'urna con cera lacca, deponendo in luogo sicuro i registri.
Ripigliatasi nel giorno ed ora stabilita l'operazione alla presenza e coll'intervento di chi sopra, non essendosi potuto venire al termine dell'estrazione, di bel nuovo fu dal prelodato signor Vice-sindaco prorogata pel giorno successivo alle ore otto e mezzo del mattino.
In simil guisa continuata l'operazione nel giorno successivo alla presenza e coll'intervento di chi sopra, questa ebbe termine alle ore cinque e mezzo pomeridiane.
Il signor Vice-sindaco delegato riconobbe la regolarità dell'operato, e richiesto io in qualità di segretario assunto, ne ho redatto il presente verbale a norma di ciò che è prescritto nel decreto del signor Intendente Generale, e col prelodato signor Vice-sindaco e coi signori componenti la direzione mi sono a piè del medesimo sottoscritto.
[25] Prov. IV, 18
[26] Salmo XI, 6
[27] EZECH. XXXIV
[28] La sera del 28 gennaio 1856 in sulle ore 9 e mezzo, il Teologo Margotti tornava, secondo il solito, alla sua abitazione, in via della Zecca, casa Birago. Nello svolto del canto, che da via Vanchiglia mette in quella della Zecca, a lato del caffè del Progresso, venne improvvisamente assalito da un tale che, menandogli un colpo disperato di un grosso bastone in sul capo, lo fece cadere stramazzone a terra. Intronato e sbalordito da quel colpo, il Teologo Margotti, caduto a terra, smarrì i sensi e giacque boccone, finchè , passando di là per caso un dabben uomo, e veduto un prete disteso a terra, corse a lui, lo rialzò. A quell'atto scosso il Teologo, e ritornato a' sensi, interrogò dove fosse. E quel pietoso rispostogli che erano sull'angolo di casa Birago, il Teologo pregollo che lo accompagnasse in casa sua, indicandogliela. Accompagnato e sorretto dallo sconosciuto, egli potè rientrare in casa, dove gli furono tosto porte le prime cure.
Chiamati gli uomini dell'arte, non riconobbero alcuna lesione grave. Il colpo, che era diretto alla tempia sinistra, cadendo dall'alto in basso, venne ammortito dal cappello, e quindi la contusione fu sulla regione dell'orecchio, la cui parte esterna fu lacerata da alto in basso.
L'assassino, che forse credette che la sua vittima fosse morta, fuggi, lasciando sul luogo il bastone, con cui aveva commesso il misfatto. E al vedere quello strumento parve impossibile che il Teologo abbia potuto scamparne con sì lieve danno. Non era altrimenti una mazza o bastone ordinario, ma un grosso randello di frassino più tenue da un capo e più grosso dall'altro, grossolanamente tagliato: un pezzo di legno ordinario da porre sul fuoco.
Ma fortunatamente il tentativo degli assassini andò fallito; e il valoroso scrittore poco dopo appieno ristabilito ripigliò la penna, e continuò ad impiegare i suoi impareggiabili talenti a pro della Chiesa e della Società
[29] Regia Segreteria del Gran Magistero dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro.
Avendo S. M. con Decreto di ieri autorizzato il pagamento di L. 500, assegnate alla Pia Opera degli Oratori per la gioventù abbandonata, della quale il Sacerdote Don Giovanni Bosco è direttore, se ne rende il medesimo informato per norma, con soggiungergli che fra breve sarà rilasciato il relativo mandato.
[30] ALOYSIUS EX MARCHIONIBUS FRANSONI SUPREMI ORDINIS SS. ANNUNCIATIONIS EQUES TORQUATUS ETC. ETC.
DEI ET S. SEDIS APOSTOLICAE GRATIA ARCHIEPISCOPUS TAURINENSIS
Dilecto Nobis in Christo admod. Rev.do D.no Augustino Gattino Curato Parochialis Ecclesiae SS. Simonis et Iudae huius Civitatis, salutem in Domino. Viso memoriali subannexo Nobis exhibito, eiusque tenore considerato, CUM NOS AD BENEDICENDUM AES CAMPANUM IN PRECIBUS ENUNCIATUM ACCEDERE NON VALEAMUS, Apostolica Nobis commissa, et qua in hac parte fungimur, auctoritate, Te suprasalutatum ad hanc ipsam benedictionem peragendam delegamus, dummodo tamen et forma in Pontificali Romano praescripta utaris, et aquam adhibeas per Nos, vel per aliquem. Ill.mum et Rev.mum D. D. Episcopum cum Sancta Sede Apostolica pacem et communionem habentem prius benedictam.
Datum Lugduni die vigesima secunda mense Maio anno millesimo octingentesimo quinquagesimo tertio.
[31] Torino, 8 Febbraio 1854.
Nel sistemare i conti colla Signora Vedova Bellezza avvi qualche differenza sui lavori fatti eseguire da me di consenso della prefata Signora nella sua casa della Giardiniera. I lavori fatti sono indispensabili affine di potersi servire del locale, tuttavia io me ne assumo la metà spesa.
Per questo prego V. S. Ill.ma di voler interporre la sua benefica influenza, e far notare la necessità di questi lavori, rimettendomi anche al giudizio di persona perita.
Le accludo la somma di fr. 311,70 che uniti alle spese, come da nota, fatte pel vetraio, bianchino, capomastro fanno l'ammontare di fr. 475 fitto del semestre.
Pieno di fiducia nella provata di Lei bontà, mi dico colla massima considerazione
[32] Prov. X
[33] Prov. X, 8
[34] Prov. III, 5
[35] Salmo XXX,5
[36] St. Univ. della Chiesa Catt. Cont. del Rohrbacher, vol. 1, p. 911
[37] Vol. IV, capo II
[38] Deuter. XVIII, II
[39] OSEA, IV, 12
[40] Vedi Capo XLVI
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