Memorie biografiche di Don Giovanni Bosco

 

raccolte dal sacerdote salesiano Giovanni Battista Lemoyne

 

(Giovanni Battista LEMOYNE voll. I-IX, Angelo AMADEI vol. X, Eugenio CERIA voll. XI-XIX, Indice anonimo dei voll. I-VIII e Indice dei voll. I-XIX a cura di Ernesto FOGLIO)

 

Vol. III, Ed. 1903, 652 p.

 

PROTESTA DELL'AUTORE.. 5

PREFAZIONE.. 5

CAPO I. L'indipendenza della patria dallo straniero desiderata dagli Italiani - I liberali - Scaltro lavorio delle sette cosmopolite  6

CAPO II. Spirito di pietà e il GIOVANE PROVVEDUTO. 8

CAPO III. Povertà e mortificazione - Il Terz'Ordine di S. Francesco - Saggi delle scuole domenicali e serali - Visite e premii - Infestazione diabolica - Colloquio misterioso - Il prezzo di un calice Sogno: Un pergolato di rose. 13

CAPO IV. D. Bosco per Torino in cerca di fanciulli e sue industrie per invitarli all'Oratorio festivo - In mezzo ai monelli nella piazza Emanuele Filiberto - Scene memorabili, ed' esortazioni di D. Bosco al popolo - Il sito ritorno alla casa Pinardi. 17

CAPO V. Continua il medesimo argomento - D. Bosco nelle osterie, nelle locande, nei caffè, nelle botteghe dei barbieri. 21

CAPO VI. D. Bosco predicatore - Sua preparazione alle prediche e sito metodo quando improvvisa - Predicazione continua - Sofferenze nei viaggi - Buon esempio e zelo nelle missioni spirituali al popolo - La messe raccolta, l'affetto e la stima delle moltitudini - Varie predicazioni a Quassolo, ad Ivrea, a Strambino a Villafalletto, a Lagnasco  - Panegirico di genere nuovo in una chiesa di monache. 24

CAPO VII. D. Bosco e il Sacramento della Penitenza - Il continuo concorso dei fedeli - Ogni parola di D. Bosco è un invito a salvare l'anima per mezzo della Confessione - Sua mirabile franchezza a Porta Nuova, in Piazza Castello, in Piazza d'armi e altrove nel ricondurre a Dio i peccatori - Gli inquilini della tettoia Visca - Ricca messe di anime fra i vetturali. 28

CAPO VIII. D. Bosco studia e scrive il REGOLAMENTO DELL' ORATORIO di S. Francesco di Sales per gli esterni - Scopo di questo Oratorio - Condizioni per l'accettazione dei giovani 32

CAPO IX. Il Regolamento dell'Oratorio festivo prelude alla pia Società di S. Francesco di Sales - Uffizii varii dei coadiutori di D. Bosco nell'assistenza degli alunni esterni - Esattezza de' giovani ai quali sono affidate le cariche inferiori - Difficoltà nell'avere sacerdoti per la direzione - Confronto tra il primo manoscritto delle regole e l'ultima edizione di queste - Incombenze degli uffiziali dell'Oratorio. 34

CAPO X. Il mattino di un giorno festivo nell'Oratorio - Il contegno dei giovani in chiesa - La santa Messa e le Comunioni - Ripetizioni scolastiche - Dispiaceri di D. Bosco - Dolcezza e carità - Un santo sdegnono non è contrario alla virtù della mansuetudine. 39

CAPO XI. L'’Oratorio festivo dopo il mezzogiorno - Il ritorno dei giovani - La prima ricreazione - Il catechismo e le funzioni sacre - Compelle intrare - La seconda ricreazione e il contegno prescritto ai giovani - D. Bosco anima dei giuochi - Scioglimento di problemi - Avvisi salutari e promesse di premii - La partenza alla sera - Stanchezza di D. Bosco - Meravigliosa riforma di costumi - Speranze per la società. 42

CAPO XII. Le principali solennità nell'Oratorio - Le indulgenze Preparativi - La gioia di questi giorni - Straordinarii divertimenti e spettacoli - I giuochi di prestigio - La ruota della fortuna - Lotterie. 47

CAPO XIII. Il canto nelle sacre solennità - Primi strumenti musicali - Nuove scuole, nuovo metodo e nuove composizioni - Pazienza di D. Bosco - I cantori alla Consolata e il maestro Bodoira - I1 canto gregoriano. 50

CAPO XIV. D. Bosco e le confessioni dei giovani - Sua pazienza e sua industria coi più piccoli - Corrispondenza, consolazioni e casi commoventi - Senza rispetto umano - Confidenza in D. Bosco - Regolamento per le confessioni e comunioni. 53

CAPO XV. Giorni feriali - Contegno dei giovani fuori dell'Oratorio - Visite alle officine - Il buon cuore di un fanciullo e l'invetriata - Una rissa per amore di D. Bosco. - Gli Spazzacamini - Le suppliche ai signori per soccorsi ai poveri della città - Gli studenti in Valdocco nel giovedì - Conferenze agli impiegati nell'Oratorio - Il ritorno di Don Bosco in Torino dopo una predicazione - Suo Incontro coi giovani nella piazza Emanuele Filiberto. 57

CAPO XVI. Il carnevale nell'Oratorio - Il catechismo nella quaresima - Zelo di D. Bosco nell'andare in cerca di giovani per il catechismo - Incontri spiacevoli e lepidi - Metà quaresima. 61

CAPO XVII. L'Oratorio scuola di rispetto - Nuove rimostranze dei parroci - L'esame di catechismo - Le promozioni alla prima Comunione - Lettera dell'Arcivescovo e la nuova parrocchia dei fanciulli abbandonati - Erezione della Via Crucis in Valdocco - La Pasqua - Premii e lotteria - Sempre nuovi giovani al catechismo. 64

CAPO XVIII. Necessità di un ospizio - Un crocchio di monelli - Tentativo fallito - Il primo giovine ospitato - Il primo sermoncino avanti il riposo - Il primo letto e il primo dormitorio - Umile ed oscuro principio e benedizione di Dio - Il pianto di un orfanello. 68

CAPO XIX. La Compagnia di S. Luigi - Sue regole - La prima accettazione di ascritti - Alcuni alunni dei Gesuiti - I primi esercizii spirituali nell'Oratorio - Il Teologo Federico Albert - Consolanti conversioni - Conseguenze di questi esercizii. 72

CAPO XX. Le sei Domeniche di S. Litigi - Annunzio della prima visita di Mons. Fransoni - I preparativi - La festa di S. Litigi e la funzione in chiesa La Cresima - Il teatrino - Parole dell'Arcivescovo - La processione - La fine della festa - Socii d'onore - Come D. Bosco preparava i giovani a ricevere la Cresima - Sua, divozione allo Spirito Santo. 76

CAPO XXI. Ciò che vide una suora del buon Pastore, e pronostico di D. Bosco - Il Gesuita moderno, di Vincenzo Gioberti Pio IX concede a' suoi popoli varie riforme politiche e arti dei settarii per ottenerle - Gli applausi a Pio IX giudicati da Mons. Fransoni e da D. Bosco - Gridate, Viva il Papa e non Viva Pio IX. - Cartelli nell'Oratorio che ricordano la dignità del Vicario di Gesù Cristo - Applausi insidiosi al Clero secolare - Accuse ingiuste contro il Vescovo di Asti. 80

CAPO XXII. Proponimenti di D. Bosco negli esercizii spirituali a S. Ignazio - Minacce di Carlo Alberto dell'Austria - D. Bosco e l'Istituto della Carità - Ospitalità generosa - Viaggio a Stresa - D. Bosco lontano conosce ciò che accade nell'Oratorio - Stazione dei giovani a Moncucco nella passeggiata ai Becchi - Il primo studente nell'Oratorio - I primi sacerdoti che hanno stanza con D. Bosco - Signori e signore che si prendono cura dei giovani esterni ed interni - I medici. 83

CAPO XXIII. Il giovane ebreo di Amsterdam - Suo incontro con D. Bosco nell'Ospedale - Sua storia - Una sua sorella si rende cattolica - Suoi dubbii religiosi - Causa della sua malattia - Conferenze con D. Bosco - Maneggi degli Ebrei per impedire la sua conversione - Battesimo e morte preziosa. 87

CAPO XXIV. Bisogno di un secondo Oratorio festivo - Accordo di due amici - Suggerimento di Monsignor Fransoni - Il capitano in cerca di una posizione strategica - Un colpo di fulmine - Le api e l'annunzio del nuovo Oratori - Visite - Le lavandaie inferocite e poi ammansate. 89

CAPO XXV. Congedo del Ministro La Margherita - Supplica al Re per l'emancipazione dei Valdesi e degli Ebrei - Pubblicazione delle prime Riforme civili - Libertà di stampa Entusiastiche dimostrazioni popolar; - Avvisi dell'Arcivescovo al clero e ai fedeli - D. Bosco benchè invitato non prende parte alle dimostrazioni - Processioni mensili in onor di S. Luigi e l'amore alla Chiesa tenuto vivo nei giovani - D. Bosco presso Mons. Fransoni - I Seminaristi. 91

CAPO XXVI. Facoltà concesse dall'Arcivescovo per l'Oratorio di S. Luigi - Invito - Felice presagio - Apertura - Primo sermoncino - Il dono della madre - Rettifica di una data - Il primo Direttore - Insulti e sassate. 94

CAPO XXVII. Il 1848 - Costante fermezza di Mons. Fransoni - Carlo Alberto promette lo Statuto - Emancipazione dei Valdesi D. Bosco si rifiuta di partecipare alle dimostrazioni politiche - È chiamato in Municipio. 96

CAPO XXVIII. La cacciata dei Gesuiti - Dimostrazioni ostili al Convitto Ecclesiastico, al Rifugio ed all'Arcivescovo - La chiusura del Seminario - Malvagi scrittori - Premunizioni - Vile attentato contro D. Bosco. 99

CAPO XXIX. Lo Statuto - L'Emancipazione degli Ebrei - La seconda edizione della Storia Ecclesiastica - Prudenza nel confutare i Protestanti e gli altri nemici della Chiesa - Giudizioso ammonimento - Silvio Pellico ed il vocabolario. 101

CAPO XXX. Principio della guerra per l'indipendenza italiana - Insulti all'Arcivescovo di l'orino e sua partenza per la Svizzera - Effervescenze pericolose - Mezzi di preservazione e Via Crucis - Musica e passeggiate - Funzione al santuario della Consolata - Visita ai santi sepolcri - La lavanda dei piedi - Il dialogo. 105

CAPO XXXI. L'età favolosa dell'Oratorio - Le Cocche - Insulti alla gendarmeria - Le battaglie a sassate - Misure preventive - D. Bosco in mezzo a turbe di ragazzi inferociti - Un giovane ucciso - L'offesa di Dio impedita a qualunque, costo - L'evidente protezione del Signore - Energia, amorevolezza e imponenza misteriosa - Il Catechismo tranquillo dopo una lotta brutale - Alcuni Capi delle Cocche ricoverati nell'Oratorio - La guerra dell'indipendenza nel maggio. 108

CAPO XXXII. Nuovi giovani ricoverati - L'albero della vita rifugio di un secondo fanciullo - Il piccolo barbiere - L'espulso dalla casa paterna - I primi Santi protettori delle camerate. 111

CAPO XXXIII. Maniera di vita dei primi ricoverati - Refettorio romantico - Il cucchiaio in tasca Il pane e i soldi per comprarlo - Il discorsetto alla sera - L'esercizio di buona morte - Visita ai laboratorii - Premiazione per voto comune - Le scuole e i mestieri - Il lepido cuoco - Il Padre adottivo - I giovani dopo il pranzo e la cena di D. Bosco - La prima parola sulla Patagonia. 114

CAPO XXXIV. Margherita Bosco e i giovani interni dell'Oratorio - Spirito di sacrificio, di carità e di prudenza - Vigilanza e rimproveri - Lodi cordiali - Misericordia verso i colpevoli - I proverbii - Amore materno e cristiano - L'ordine nell'Oratorio assente D. Bosco - Spirito di preghiera. 119

CAPO XXXV. IL CRISTIANO GUIDATO SECONDO LO SPIRITO DI S. VINCENZO DE' PAOLI - L'infallibilità del Papa - D. Bosco imitatore di S. Vincenzo - La virtù della dolcezza - Confronto della vita di D. Bosco con quella di S. Vincenzo - Un dono alla Piccola Casa della Divina Provvidenza - Mezzi per la stampa di questo libro. 123

CAPO XXXVI. La guerra dell'indipendenza - Malvagi scrittori - Il buon senso di un contadino - Insulti ai preti - D. Bosco in mezzo ai Barabba - Sua prudenza e carità nel sopportare le ingiurie e far del bene agli offensori - Giovinastri indotti a confessarsi - Un difensore inaspettato. 126

CAPO XXXVII. I Valdesi - Amari frutti - I sedici soldi ed il libro del De Sanctis - Il segnale della guerra - Diverbio - Le sassate - Due colpi di pistola - Il padrone del campo - La festa di S. Litigi - I due fratelli Cavour in processione - Il giornale l'ARMONIA - Palmate misteriose. 130

CAPO XXXVIII. I giovani alle dimostrazioni politiche - Semi di disunione - Disgustoso incidente - Invito respinto - Nuovo abbandono - Seconda muta di spirituali esercizii - Ho perduto i peccati - Rovescio delle armi piemontesi 133

CAPO XXXIX. D. Bosco e Vincenzo Gioberti - Pericolo corso da Carlo Alberto in Milano - Preghiere pel Re - L'esercito piemontese rientra in Piemonte - Gli emigrati - Insulti all'Arcivescovo di Vercelli - Dicerie pericolose contro D. Bosco - Accademia e distribuzione dei premii - Lettera di Carlo Alberto a Pio IX - Il Re giunge a Torino. 137

CAPO XL. Ritorno all'Oratorio male abbandonato - Pacificazione ed esaltazione - Nuova scelta di giovani coadiutori - Studenti generosi - Il primo chierico nell’Oratorio - Manovre militari - L'orto della mamma - Col cibo materiale il pane spirituale - Meraviglie di una comunione generale. 141

CAPO XLI. La Cappella del Rosario ai Becchi - Tenerezza di Mamma Margherita pel nipote - Nuove leggi scolastiche e sagge previsioni di D. Bosco - Scuola nell'Oratorio per i giovani adulti - Progetti di alleanza fra i varii Oratorii della città D. Cocchis e l'Oratorio di Vanchiglia - D. Bosco vuol essere indipendente - Sicurezza di un prospero avvenire. 144

CAPO XLII. Compra di casa Moretta - Fuga di Pio IX da Roma - Minacce dell' Opinione ai Vescovi - Morte del Teol. Guala - Il Ministero Gioberti - Rivendita della casa Moretta. 148

CAPO XLIII. Una scuola di morale nell'Oratorio - Incoraggiamenti dell'Arcivescovo Sacerdoti illustri che vengono ad ascoltare D. Bosco - Avvisi per le confessioni dei giovani - Alcune norme per la predicazione - Chiusura del Convitto Ecclesiastico, ed esclusione da questo degli esterni - Radunanze di Teologi - Amore costante di D. Bosco agli studii ecclesiastici. 151

CAPO XLIV.Un saluto da Lisbona e rimembranze dell'Oratorio di Torino - Morte di Antonio Bosco - Libri perversi e teatri immorali - Gravi insulti al clero e a D. Bosco - Giornali empii e proteste dei Vescovi Prevalenza dei giornali settarii sui giornali cattolici - D. Bosco stampa il periodico: L'AMICO DELLA GIOVENTU - Suo scopo e vantaggi ottenuti - Sue circolari per aver sussidii in questa impresa - Cause del suo ritiro dal campo giornalistico - Noiose conseguenza finanziarie - D. Bosco avverso a far della politica - Sito trovato per diffondere i giornali cattolici - Giudizio di D. Bosco sulla lettura dei giornali. 154

CAPO XLV. Una causa del prestigio di D. Bosco sui giovani - La vista perduta e riacquistata - Benedizione che guarisce dal male di denti - Una intera famiglia sfamata con quattro soldi - D. Bosco legge nei cuori e vede le cose lontane - Una storpia guarita istantaneamente - Da morte a vita e al paradiso - Testimonianze - Umiltà di D. Bosco - Una distrazione - Giudizio del Padre Giuseppe Franco e dell'Arcivescovo di Siviglia - Parole di Mons. Cagliero. 159

CAPO XLVI. Apparecchi per una nuova guerra - Opera del denaro di S. Pietro - Partenza del Re coll'esercito - L'obolo degli artigianelli - Discorso di un giovanetto - Inno a Pio IX - Parole del Marchese Cavour. 163

CAPO XLVII. La battaglia di Novara - Abdicazione di Carlo Alberto - La rivoluzione a Genova - Parma, Modena, Toscana e Sicilia sottomesse agli antichi principi - Causa della tranquillità che regna nell'Oratorio nel 1849 - Affittamento della casa di Valdocco rinnovato col Pinardi - La Divina Provvidenza aiuta a pagare i fitti - Anarchia negli Stati Papali; alcune Potenze si muovono per far cessare i disordini; i Francesi sotto le mura di Roma - Sentimenti del Papa nel ricevere l'offerta dei giovani di Valdocco - Lettera del Nunzio Apostolico - Offerta dei giovani dell'Oratorio di S. Luigi - Libri di Gioberti e di Rosmini messi all'Indice - D. Bosco tenta piegare Gioberti alle decisioni della Chiesa - Sottomissione di osmini e lettera di D. Bosco a D. Fradelizio. 167

CAPO XLVIII. Visite dei Vescovi all'Oratorio e festose accoglienze - L'onomastico di D. Bosco e due cuori d'argento - A S. Ignazio sopra Lanzo - Due corsi di esercizii spirituali ai giovani sulle colline di Moncalieri - Liberazione di Roma - Morte di Carlo Alberto - Alcune decisioni dei Prelati subalpini a Villanovetta - Buon esito della prudenza e carità di D. Bosco. 172

CAPO XLIX. D. Bosco risolve di dar principio alla Pia Società di S. Francesco di Sales - Tempi difficili per aver vocazioni  - Scelta di quattro giovanetti popolani dell'Oratorio - Don Bosco incomincia ad iniziarli nella grammatica italiana e latina: rapidi progressi. Scuola continua ai Becchi - Due lettere di D. Bosco scritte da Morialdo al Teol. Borel - Indirizzi al Governo perchè sia richiamato l'Arcivescovo in Torino - Un assassino convertito e confessato. 176

CAPO L. Apertura dell'Oratorio dell'Angelo Custode - Primordii difficili - I Direttori - Imprudenza di un catechista e sue conseguenze - Frutti consolanti - D. Bosco, D. Verri, D. Olivieri e i fanciulli africani riscattati - Speranze di future missioni per la salvezza eterna dei Moretti - Eroica decisione di D. Biagio Verri presa nella Cappella dell'Oratorio di Valdocco - Sua grande stima per le virtù di D. Bosco. 180

CAPO LI. D. Bosco continua la scuola di latino ai quattro giovani prescelti - Studio sui regolamenti di varii Ospizii e Collegii - La moltiplicazione delle castagne - Elogi all'Oratorio del Conciliatore Torinese. 184

CAPO LII. L'Oratorio di S. Francesco di Sales sul finire del 1849 - Carità di D. Bosco coi giovani esterni e loro corrispondenza - Le ricreazioni dei giovani interni e i consigli amorevoli - Odio al peccato - La presenza di Dio - Preghiera affettuosa - Un'antifona e alcune immagini in onore di Maria SS. - D. Bosco e la virtù della purità. - Origine del teatrino per gli interni - Carceri ed ospedali - Gran stima di molti per le virtù di D. Bosco. 187

CAPO LIII. Il sistema metrico sul teatro - Il litro appoggiato alla brenta Otto dialoghi - Sussidio del Regio Economato - Fatiche di D. Bosco nell'esercitare i giovani in queste recite - Risultati ed amenità - Esercizii spirituali alla gioventù di Torino - Avvisi ai giovani. 191

CAPO LIV. I Chierici della Diocesi dispersi sono raccolti nell'Oratorio - Le scuole del Seminario - Regole per questi chierici nell'Oratorio - Ammaestramenti, consigli, correzioni - Il Kempis - I biglietti di D. Bosco - Le strenne pel Capo d'anno ai chierici - La scuola di geografia in Seminario e nell'Oratorio - I chierici di D. Bosco e il servizio religioso nelle chiese di Torino. 195

NOTA. Dialoghi scritti da D, Bosco sul Sistema Metrico. 199

DIALOGO I. Scoperta - Definizione del sistema - Sue unità fondamentali. Cesare e Ferdinando. 199

DIALOGO II. Spiegazione delle unità e loro derivazione dal metro. Lorenzo ed Alberto. 200

DIALOGO III. Multipli e Sottomultipli. Antonio e Beppe. 201

DIALOGO IV. Metro - Ettometro – Kilometro paragonati col Piede - Trabucco - Miglia. Un falegname ed un Maestro di Sistema Metrico. 203

DIALOGO V. Metro paragonato col Raso. Luigi (Girard) e Costante (Cagliano). 205

DIALOGO VI. Litro, Ettolitro, Decalitro paragonato colla Pinta, Boccale, Brenta, Emina, Coppo Battista brentatore, (Camp. L.co) Pietro mugnaio, (Mistralletti) Un militare (Camp. G.pe) 206

DIALOGO VII. Gramma, Ettogramma, Kilogramma, Miriagramma confrontati coll'oncia, colla libbra, col rubbo. Giacomo cuoco, Alessandro carbonaro, Fabrizio panattiere. 208

DIALOGO VIII. Kilometri e Miglia - Tavola e Ara - Stero e Tesa. Lucio padre di famiglia fittaiuolo e Renzo Impresario. 209

 

PROTESTA DELL'AUTORE

 

                Conformandomi ai decreti di Urbano VIII, del 13 marzo 1625 e del 5 giugno 1631, come ancora ai decreti della Sacra Congregazione dei Riti, dichiaro solennemente che, salvo i domini, le dottrine e tutto ciò che la Santa Romana Chiesa ha definito, in tutt'altro che riguardi miracoli, apparizioni e Santi non ancora canonizzati, non intendo di prestare, nè richiedere altra fede che l'umana. In nessun modo voglio, prevenire il giudizio della Sede Apostolica, della quale mi professo e mi glorio di essere figlio obbedientissimo.

 

 

 

PREFAZIONE

 

                ECCO amati confratelli, il terzo volume delle Memorie Biografiche del nostro ammirabile fondatore. Si presenta a voi ornato colla veneranda effigie del Sacerdote Giuseppe Cafasso. È questo un segno di quella gratitudine imperitura che professano i Salesiani per quel gran servo di Dio che fu maestro, consigliere, Benefattore del nostro D. Bosco nel primordi della sua carriera sacerdotale ed apostolica. D. Bosco lo amò di un affetto tenerissimo e in tutto il corso della sua vita lo ricordava ai suoi figliuoli e loro proponevalo qual modello da imitarsi. I due nomi adunque e la memoria di D. Bosco e di D. Cafasso non vanno disgiunti. È gloria di un figlio santo la santità del padre suo, come gloria del padre è il figlio sapiente. [VIII]

                Noi perciò continuiamo a svolgere la narrazione dei fasti di questa gloria, che formò lo stupore e la felicità spirituale e temporale di migliaia di testimoni, di molti dei quali noi riporteremo i nomi. Se talora non fossero citati è segno che noi stessi abbiamo appresa la cosa da coloro che erano presenti.

                Intanto mentre rammentiamo le norme date dal nostro Venerato Rettor Maggiore sull'uso riservato di queste Memorie, da noi esposte nelle precedenti Prefazioni, ci raccomandiamo caldamente alle vostre preghiere.

                Il Signore ci benedica, e la Vergine Santissima Ausiliatrice incoronata, ci aiuti a conseguire quella immortale corona che è promessa ai servi fedeli del suo Divin Figlio e che il nostro caro D. Bosco, speriamo con certezza, abbia conseguita.

 

                Torino, 25 Marzo 1903

                Festa dell'Annunciazione di Maria SS.

 

Sac. Gio. BATTISTA LEMOYNE

della Pia Società

di S. Francesco di Sales.

 

 

CAPO I.
L'indipendenza della patria dallo straniero desiderata dagli Italiani - I liberali - Scaltro lavorio delle sette cosmopolite

 

                SUL principio del 1847 era generale l'aspettazione di novità politiche. Libri, opuscoli e fogli riboccanti di amor patrio proclamavano la necessità di infrangere il giogo straniero che pesava sulle migliori provincie italiane e di stringere in confederazione i varii Stati della penisola per conquistare e difendere la propria indipendenza. Queste aspirazioni per sè non recavano offesa nè alla religione nè alla morale; e rispondendo ad un desiderio latente in tutti i cuori, furono causa per cui molti di ogni ordine e condizione secondarono poi quel movimento, che dicevasi nazionale. Nello stesso tempo Silvio Pellico col suo racconto delle Mie Prigioni, ingenuo e senza recriminazioni, aveva destato e teneva vivo nel cuore dei giovani italiani un fermento di odio inestinguibile contro l'Austria.

                Quelli intanto che erano designati col nome di liberali, giovandosi di tanta eccitabilità degli animi, davano la spinta [2] ai popoli coi grandi nomi di Religione e di Patria, a fine di predisporli in varii modi agli avvenimenti che andavano preparando. La mutazione di forma nel governo era il primo svolgimento dei loro ideali.

                Fra questi non pochi erano onesti, affezionati al loro sovrano ed in buona fede, quantunque fossero caldi per qualche idea non totalmente equa e scevra di errore; si professavano ed erano sinceramente cristiani, perchè il liberalismo non si era ancor palesato come un sistema contrapposto alla Chiesa Cattolica, alla fede, al Decalogo del Signore. Questi pel bene dei popoli domandavano istituzioni politiche rette da principii di savia e più ampia libertà, una maggiore autonomia dei Municipii dalle Autorità centrali, e disapprovavano i moti di piazza preparati nelle Congiure.

                Ma leali come costoro non erano altri dello stesso partito, ai quali l'educazione, le pessime letture, l'indole ambiziosa e insofferente di ritegno facevano desiderare quel governo costituzionale, spento prima di esser nato nel 1821, non tanto per amore di libertà, quanto per salire ai seggi più eminenti del potere ed avere il monopolio della cosa pubblica. Essi non rifuggivano dalle macchinazioni segrete e dai tumulti per raggiungere il loro scopo. Infatti non potendo da soli nulla tentare, si erano collegati coi settarii, i quali, pochi allora, ma astuti, avevano loro promesso aiuto. In contraccambio però vollero ed ebbero l'assicurazione che lo Stato sarebbe messo sulla via del progresso moderno, rompendola colla Santa Sede e calpestando le immunità e gli altri diritti ecclesiastici. Tenevano però nascoste le loro aspirazioni estreme cioè l'idea repubblicana. Tosto si videro scrittori scaltri ed infinti con modi blandi ed ingannevoli cercar di trarre i cattolici alla rivoluzione e vestire di forme religiose le dottrine settarie per sedurre gli incauti; e mentre talvolta assalivano [3] le Istituzioni della Chiesa in modo di far abborrire il clero, designavano e lodavano ipocritamente la religione stessa come fonte e strumento di patrio amore.

                Tuttavia eziandio tale alleanza nulla poteva innovare nel Piemonte senza il consenso di Carlo Alberto, stando per lui l'amore del popolo e la fedeltà dell'esercito. Ed egli era gelosissimo e di irremovibili propositi in ciò che riguardava le prerogative della Corona e le attinenze della Religione. Questi liberali invero erano in tempo riusciti a cattivarsi l'animo del Re, come abbiamo narrato, sedevano ne' suoi secreti consigli, approvavano il suo disegno di fondare un regno italico, ma non era ciò che essi avevano solamente ideato. Volevano servirsi di lui come di arma e bandiera contro tutti i principi d'Italia e in ispecie contro il Romano Pontefice; mentre il Re sabaudo, nemico della supremazia austriaca, vagheggiava di unire a' suoi dominii non più di Parma, Piacenza, Modena Reggio, la Lombardia ed il Veneto. Egli designava con tale conquista formare un baluardo in difesa del Papato del quale egli dichiarava, che sarebbe stato fino all'ultimo valoroso difensore.

                Per altro i liberali avevano potuto ottenere un gran vantaggio, quello di attenuare nella Corte l'influenza dei conservatori dell'ordine stabilito, i quali erano schietti cattolici, devoti a tutta prova alla dinastia di Savoia, e di loro contendere politicamente il campo. Gioberti co' suoi odiosi libelli, riusciva a farli qualificare come una sêtta Austro - Gesuitica nemica della patria. Oltre a ciò, coi settarii del Piemonte - speravano in un trionfo non lontano, poichè erano sostenuti da tutte le sêtte cosmopolite repubblicane, strette fra loro in lega, offensiva e difensiva. Protette efficacemente da Lord Palmerston ministro degli Affari Esteri in Inghilterra e capo della Massoneria, avevano silenziosamente arreticata l'Europa [4] colle loro trame sovversive e andavano preparando moti improvvisi di popoli. Ogni loro pensiero ed opera indirizzavano nell'abbattere i troni e la Chiesa Cattolica, prima rappresentante e custode dell'autorità. La Francia colle sue dottrine rivoluzionarie, causa di enorme guasto morale; l'Austria indebolita dalle dottrine di Giuseppe II e che pretendeva servirsi della Chiesa come strumento di governo, invece di ascoltarla come maestra e obbedirla come madre; gli Stati, protestanti della Germania, col loro principio di libero esame scalzante ogni principio di rispetto all'autorità divina ed umana sembrava dovessero rimanere preda non difficile dei congiurati, Toscana e Napoli colle dottrine Leopoldine e Tanucciane fatto sorgere una generazione di ingegni avversi alla Ecclesiastica legislazione. Con tutti questi elementi crescevano facilmente e si moltiplicavano le congreghe occulte in ogni, parte d'Europa, e sotto ad ogni trono era stata preparata la mina. I capi si erano accordati che, per quanto fosse possibile, le insurrezioni scoppiassero simultaneamente, sicchè in nessun modo ogni governo stabilito potesse ricevere aiuto dagli altri; e così essi rimanere i padroni della terra, e dei popoli. Nell'ordire tutte queste macchinazioni, volgevano il loro sguardo, infiammato dall'odio, verso la sede del Romano Pontefice per distruggerne il potere temporale e spirituale, mentre in questi giorni Roma accoglieva tra le sue mura o palesi o, nascosti un gran numero dei più audaci settarii, quivi discesi da ogni parte. Omai la pubblica tranquillità dipendeva dal beneplacito di costoro, e l'Angelico Pio IX, senza quasi avvedersene, era da loro assediato nella sua capitale, mentre non cessavano le pubbliche e assordanti feste in suo onore.

                Ciò non ostante l'ordine e la pace continuavano, generalmente, a regnare in Europa se eccettuasi la Svizzera, ove già da tempo i radicali, stracciati gli antichi statuti e i patti [5] giurati, con inaudite violenze avevano mutata la costituzione federale. Ultimo ostacolo da superare per render salda la loro tirannide erano i sette Cantoni cattolici. Perciò, raccogliendo nelle loro file quanti malvagi avevano trovata salvezza in quelle regioni, fuggendo dalla giustizia dei loro paesi, mossero per impadronirsi del governo supremo di tutta la confederazione. Nelle terre Elvetiche adunque in quest'anno incominciarono i tumulti, e bande armate di migliaia di malfattori percorrevano i monti e le valli dei territorii cattolici commettendo ogni sorta di infamie e di nequizie. I sette Cantoni prevedendo allora che sarebbero ben presto assaliti dall'esercito regolare, si strinsero in alleanza tra loro e invocarono, l'intervento delle Potenze in difesa della giusta loro causa. Avendo chieste armi, delle quali difettavano, a Carlo Alberto, le ottennero dalla sua magnanima generosità, e questi fu il solo tra i regnanti che cercasse di sorreggerli nell'ora dell'infortunio. Tuttavia i cattolici nel novembre 1847 soccombettero. Si difesero con grande valore dall'invadente esercito radicale forte di 118.000 uomini, ma i tradimenti, le tregue violate li diedero in mano ai loro nemici. Assassinii di sacerdoti, saccheggi di conventi, incendii di templi, leggi inique che spogliavano e vincolavano la Chiesa Cattolica, prigionie di Vescovi, avevano disposta, accompagnata e stabilita siffatta conquista, col grido di Viva la libertà!

                Questo colpo sanguinoso faceva parte dei disegni della rivoluzione universale. Confinando la Svizzera coll'Alemagna, colla Francia e coll'Italia, ed essendo nazione indipendente, si prestava a meraviglia per stabilirvi il quartiere generale di tutti i capi settarii: quivi sarebbe stato impunemente mantenuto acceso il focolare dal quale si propagherebbero gli incendii delle rivolte nei regni circostanti; e questo luogo servirebbe di rifugio sicuro e d'asilo di tutti i complici ed emissarii delle [6] congiure, qualora non arridesse la fortuna ai tentativi scellerati. E così venne fatto, perchè i figliuoli di questo secolo sono nel loro genere più prudenti dei figliuoli della luce[1]. Tutto adunque era stato preparato: strette le ultime fila delle trame; più non aspettavasi che il segnale per insorgere. Speravano di trionfare non pensando che le sorti della Chiesa e di tutte le nazioni della terra stanno nelle mani, di Dio, che nulla accadrà senza ch' Ei lo permetta, e saprà Egli a suo talento mutare il corso degli avvenimenti: chè le prove più o meno lunghe per gli uni, i castighi per gli altri si avvicenderanno, ma il trionfo sarà sempre per la sua legge. Ad ogni passo Egli dimostrerà ai ribelli che non est sapientia, non est prudentia, non est consilium contra Dominum. Equus paratur ad dieni belli; Dominus autem salutem tribuit[2].

 

 

CAPO II. Spirito di pietà e il GIOVANE PROVVEDUTO.

 

                MENTRE il nemico del genere umano, quegli che fu omicida fin da principio, smaniava per scristianeggiare il mondo, D. Bosco proseguiva a lavorare a tutt'uomo, formando un popolo di giovanetti, amante coll'opera la Religione di Gesù Cristo, e studiando il modo di guidarne molti ad una vita perfetta. Ei fondava la loro educazione cristiana sulla preghiera, che egli praticò sempre con sommo fervore, facendosi continuo e salutare esempio ad innumerevoli anime.

                Pel succedersi incalzante delle sue occupazioni non gli era dato di poter impiegarvi lunghe ore nel giorno; ma quanto faceva si può dire che raggiungesse la perfezione. Il suo atteggiamento raccolto e devoto palesava la sua fede. Non tralasciava mai di celebrare la santa Messa, eziandio quando era infermiccio. Il breviario lo recitava regolarmente. Più volte al giorno pregava per sè, per le anime che gli erano state affidate, e in ispecie per i suoi penitenti. Più volte chi entrava in sua camera lo vide col rosario in mano cui egli stava recitando. Allorchè pregava ad alta voce, pronunciava le parole con una specie di vibrazione armoniosa, che dava a conoscere come queste partissero da un cuore infiammato di carità e da un'anima che possedeva il gran dono della sapienza. Talora [8] quando era troppo stanco sospendeva i suoi lavori e si faceva leggere buoni libri. Con tutto ciò non di rado si doleva di non poter dare una più larga parte del suo tempo all'orazione vocale e mentale: e suppliva con molte giaculatorie, il cui suono però non usciva dalle sue labbra. Così affermano i primi allievi dell'Oratorio fra i quali D. Michele Rua e D. Turchi Giovanni.

                Ricco di questo spirito di orazione, D. Bosco ideò un nuovo manuale divoto, facile e breve, ad - uso dei giovanetti. Innumerevoli erano i libri di pietà che correvano per le mani dei fedeli, ma in generale si prestavano poco ai bisogni dei tempi e della gioventù. Per rimediare a questa lacuna ci si accinse all'opera con alacrità e compose IL GIOVANE PROVVEDUTO, per la pratica de' suoi doveri, degli esercizii di Cristiana pietà, e dei principali Vespri dell'anno, coll'aggiunta di una scelta di Laudi sacre.

                Presentato il suo manoscritto ai tipografi, Marietti gli fece un preventivo di spesa pel quale ogni copia ben legata ed ornata avrebbe costato 4 lire e 50. Paravia volendo concorrere a quell'opera buona si contentava di 25 centesimi alla copia dando i soli fogli stampati, che D. Bosco avrebbe poi fatti legare a suo piacimento. D. Bosco accettò la proposta di Paravia e non avendo di che far fronte alle spese di stampa, incominciò a prevalersi di uno di quei varii ripieghi, che poscia moltiplicati dal suo genio pratico approdarono così felicemente. Come forse aveva già fatto, nel pubblicare la Storia Ecclesiastica, la Storia sacra ed il Sistema metrico, mandò attorno una circolare annunziando il suo nuovo libro. Quando si fu assicurato che, secondo la convenzione fatta con Speirani, 10.000 copie sarebbero esitate, diede corso alla stampa. Il libro riusciva un 16° di 352 facciate. Fattane la spedizione a coloro che avevano aderito alla circolare, si dovette subito [9] stamparne altri 5000 esemplari per soddisfare alle domande che insistenti pervenivano. D. Bosco allora avvisò Paravia a non disfare la composizione dei caratteri, e ne aveva per risposta: - Ho già capito che questo libro avrà uno spaccio straordinario - Infatti se ne dovettero imprimere ancora nello stesso anno altre 5000 copie. Marietti ebbe l'impresa di coprire con fodera riccamente ornata quelle destinate in dono ai benefattori, o da mettersi in vendita per le persone agiate.

                Crescendo, coll'andare del tempo, le continue domande e il bisogno di provvederne gli Oratorii festivi ed i collegi, vivente D. Bosco se ne tirarono oltre a cento ventidue edizioni di circa 53.000 copie ciascuna, come attesta D. Rua Michele; aggiungendosi poi le traduzioni fatte in ispagnuolo, in francese e in altre lingue, si oltrepassò di molto la cifra di sei milioni di copie, sparse fino ad oggidì nel popolo Cristiano, sicchè puossi dire che il Giovane Provveduto penetrato in ogni istituto di educazione, in ogni casa di lavoro, in ogni famiglia cristiana, cooperò efficacemente a promuovere la pietà e a conservare la fede tra il popolo.

                Nelle prime pagine di questo suo libro D. Bosco stampava nel 1847 un caloroso appello in questi termini:

 

ALLA GIOVENTU'.

 

                Due sono gli inganni principali con cui il demonio suole allontanare i giovani dalla virtù. Il primo è far loro venire in mente che il servire al Signore consista in una vita melanconica e lontana da ogni divertimento e piacere. Non è così, cari giovani. Io voglio insegnarvi un metodo di vita cristiana, che vi possa nel tempo stesso rendere allegri e contenti e additarvi quali siano i veri divertimenti e i veri piaceri, talchè voi possiate dire col santo profeta Davidde: [10] Serviamo al Signore in santa allegria: Servite Domino in laetitia. Tale appunto è lo scopo di questo libretto: insegnare a servire il Signore e a stare sempre allegri.

                L'altro inganno è la speranza di una lunga vita, colla comodità di, convertirvi poi nella vecchiaia o in punto di morte. Badate bene, miei figliuoli, che molti in simile guisa furono ingannati. Chi ci assicura di venir vecchi? Uopo sarebbe patteggiare colla morte che ci aspetti fino a quel tempo; ma vita e morte sono nelle mani del Signore, il quale può disporne come a Lui piace.

                Che se Iddio vi concedesse lunga vita, udite il grande avviso che Egli vi dà: Quella strada, che un figlio comincia in gioventù, si continua nella vecchiaia fino alla morte: Adolescens, juxta viam suam, etiam cum senuerit, non recedet abea. E vuol dire: se noi cominciamo una buona vita ora che siamo giovani, buoni saremo negli anni avanzati, buona sarà la nostra morte e principio di un'eterna felicità. Al contrario se i vizii prenderanno possesso di noi in gioventù, per lo più continueranno in ogni età nostra fino alla morte, caparra troppo funesta di una infelicissima eternità. Acciocchè questa disgrazia a voi non accada, vi presento un metodo di vivere, breve e facile, ma sufficiente perchè possiate diventare la consolazione dei vostri parenti, l'onore della patria, buoni cittadini in terra, per essere poi un giorno fortunati abitatori dei Cielo.

                Questa operetta è divisa in tre parti. Nella prima voi troverete le cose principali che dovete operare, e quanto dovete fuggire per vivere da buoni cristiani. Nella seconda si raccolgono parecchie pratiche divote, come soglionsi usare nelle parrocchie e nelle case di educazione. Nell'ultima si contiene l'Uffizio della B. V., i Vespri dell'anno coll'aggiunta di una scelta di canzoncine spirituali. [11]

                Miei cari, io vi amo tutti di cuore, e mi basta sapere che voi siete ancora in tenera età perchè io vi ami assai; e, vi posso accertare che troverete libri propostivi da persone di gran lunga più virtuose e più dotte di me, ma difficilmente potrete trovare chi più di me vi ami in Gesù Cristo e che più desideri la vostra vera felicità. La ragione di questo mio affetto si è che nel vostro cuore voi conservate il tesoro della virtù, il quale possedendo avete tutto; perdendolo, voi divenite i più infelici e sventurati del mondo.

                Il Signore sia sempre con voi e faccia sì che, praticando questi pochi suggerimenti, possiate accrescere la gloria di Dio, e giungere a salvare l'anima, fine supremo per cui fummo creati.

                Il cielo vi conceda lunghi anni di vita felice, e il santo, timor di Dio sia ognora quella grande ricchezza, che vi colmi di celesti favori nel tempo e nell'eternità.

Affezionatissimo in Gesù Cristo

Sac. Bosco GIOVANNI

 

                Quale ardenza di carità in questa prefazione! Qualche frase parrà esagerata, e più tardi la tolse; ma pure bisognava che dal principio della sua missione egli facesse sentire tutta la forza di un amore paterno ad anime fino allora refrattarie e direi selvagge, le quali da altro vincolo non potevano essere tratte e tenute nelle vie del bene se non da un affetto, le cui prove dovevano essere così forti da non temere smentita. E il suo affetto si palesò quasi ad ogni pagina di questo nuovo libro, indirizzandosi egli ai suoi alunni, coll'appellativo di figliuoli. Come parlava, così scriveva. E i giovani convinti di essere amati, arrendevansi a' suoi dolci inviti e si

                riguardavano come fratelli, sicchè nei primi tre lustri prevalse fra loro l'usanza di chiamarsi a vicenda figli; e [12] accennando ai loro compagni ripetere e scrivere: il figlio tale, il figlio tal altro. Erano infatti i figli dell'Oratorio, i figli di D. Bosco, ma per divenire ed essere figliuoli di Dio.

                E tali tendeva a formarli il Giovane Provveduto, poichè le norme che loro dettava per riuscir virtuosi e fuggire le occasioni di peccato non rimanevano lettera morta inefficace. D. Bosco ricordandole ogni giorno in varie circostanze e maniere, procurava che fossero tradotte in atto. Non è qui il luogo di esporre minutamente i tesori celesti di un libro, che è posto nelle mani di tutti, ma non crediamo di dover omettere alcuni intendimenti di D. Bosco nello scriverlo e alcuni punti storici che lo riguardano.

                In primo luogo, nelle preghiere del mattino e della sera prescrive la recita del simbolo apostolico, degli atti di fede, speranza e carità, dei comandamenti di Dio e della Chiesa, perchè ripetute ogni giorno rimanessero indelebili nella mente dei giovani le verità, che dovevano credere e i precetti ai quali attenersi.

                Quindi espone il modo di assistere con frutto alla santa Messa; e in questa ben tre volte fa pregare per tutta la Chiesa e pel Sommo Pontefice, invocando pace, concordia e benedizione ad ogni Autorità spirituale e temporale. Con ciò i giovani affermavano la loro gran sorte di appartenere alla Chiesa Cattolica. Queste e le altre orazioni, brevissime e sugose, faceva leggere a voce alternata, nel tempo del Santo Sacrifizio alla Domenica. Anche gli allievi dei Fratelli delle Scuole Cristiane le recitavano con piacere avendo i loro Superiori adottato il Giovane Provveduto per le Congregazioni Domenicali. Il loro antico manuale di pietà conteneva orazioni piuttosto prolisse, che li stancavano assai.

                Aggiunge eziandio le parti che si cantano nelle Messe solenni festive e in quelle dei defunti, per renderle famigliari [13] a' suoi cantori nelle loro semplici note, e a tutti gli altri giovani che coll'udirne avrebbero facilmente imparato quei canti. Non omette di descrivere la maniera pratica di servire la Messa privata, ponendo egli poi grande cura che fossero in questa bene esercitati quei numerosi giovani che destinava a così santo ufficio.

                Oltre a ciò, dopo una istruzione chiara e precisa sul modo di confessarsi bene, che era l'oggetto costante delle sue prediche e delle sue esortazioni, suggeriva i motivi adattati ad eccitare nelle anime un vero dolore delle proprie colpe. Il difetto grave di certi libretti di pietà diffusi allora nel popolo consisteva nel trattar l'argomento della confessione troppo, teologicamente. I giovanetti si lamentavano di non sapere come pentirsi dei loro peccati; e che le preghiere proposte in quei libri erano troppo astruse e prolisse. Quindi non è a dirsi quanto godessero allorchè D. Bosco presentò loro il Giovane Provveduto.

                Alle preghiere per il Sacramento della Penitenza facevano seguito altre per la preparazione e il ringraziamento alla santa Comunione. Queste nei giorni di comunione generale si incominciavano a leggere ad alta voce dopo l'elevazione interrompendosi le preci dell'assistenza alla S. Messa e ripetendo la moltitudine con voce spiccata le frasi pronunziate dal lettore. Per coloro i quali per qualsivoglia motivo non potevano accostarsi alla sacra Mensa, D. Bosco stampava: “Se non potete comunicarvi sacramentalmente fate almeno la comunione spirituale, che consiste in un ardente desiderio di ricevere Gesù nel vostro cuore”. E questo desiderio, da lui eccitato, conduceva ogni domenica più di un centinaio di quei giovanetti alla santa Comunione.

                Non aveva egli dimenticato di presentare una bellissima preghiera per la visita al SS. Sacramento, cui faceva [14] seguire una corona al Sacro Cuor di Gesù, del quale stampava eziandio i vespri per la Festa in suo onore. Questa divozione, osteggiata in quei tempi da molti che erano imbevuti di errori e pregiudizii giansenistici, e che poi per Don Bosco fu causa delle sue più belle glorie, egli incominciava fin d'allora a radicarla nei cuori, e notava come la corona del Sacro Cuor di Gesù, potesse servire per far le novene di tutte le feste di N. S. Gesù Cristo. Chi può numerare le volte che migliaia e migliaia di fanciulli, succedendosi innanzi al santo tabernacolo ripeterono e ripeteranno continuamente queste affettuose preghiere di fede e di riparazione per le offese sopportate dal Cuore Divino nella SS. Eucaristia dagli eretici, dagli infedeli e dai cattivi cristiani! Ricordiamoci che D. Bosco fu eziandio l'Apostolo della visita al SS. Sacramento.

                Ma l'amore di Gesù agli uomini dev'essere celebrato coi misteri della sua nascita, della sua passione e morte. E il Giovane Provveduto contiene le cosiddette profezie, i cantici, gli inni, le antifone solenni per la novena del Santo Natale, che dovevano essere cantate con tutta la possibile grandiosità e tenerezza del rito. In quanto alla passione, D. Bosco stesso compilò un modo di praticare la Via Crucis, col quale le quattordici stazioni sono accennate colla massima brevità, ma con una efficacia incomparabile per la riforma dei costumi. Come era stampato, così si eseguiva fin da quest'anno e si eseguisce tuttora. Nei primi venti anni si celebrò in tutti i venerdì quadragesimali di marzo. D. Bosco prima con pochi, e direi in privato e poi quando furono molti i giovani presenti, preceduto dalla croce e da due torcie, vestito di rocchetto e, di stola procedeva nella cappella di stazione in stazione leggendo in ginocchio colla sua voce commossa e che gli altri commoveva, le narrazioni, le riflessioni, e i proponimenti nel caro libretto. In questo riportava eziandio in ultimo [15] un piccolo ricordo in latino della passione di N. S. G. C., forse perchè venisse recitato al letto dei bambini infermi o agonizzanti.

                Colle divozioni al Divin Salvatore non dovevano mancare quelle in onore della Sua Madre SS. D. Bosco scriveva per i suoi giovani: “Siate intimamente persuasi che tutte le grazie che voi chiederete a Maria SS. vi saranno concesse, purchè non domandiate cose che siano di vostro danno”. Era suo impegno che il nome di Maria fosse invocato continuamente dai Cristiani. La divozione al sacro Cuore della Vergine benedetta era in uggia a molti dei cosiddetti spiriti forti imbevuti di idee ultramontane; e D. Bosco, nella semplice sua fede, fattosene banditore, terminava la visita al SS. Sacramento e la corona del Sacro Cuore di Gesù coll'orazione al sacratissimo cuore di Maria scritta da S. Bernardo. E così questa diventò la divozione pure quotidiana dei più fervorosi. Insisteva perchè al mattino, alla sera e lungo il giorno si ripetesse: “Cara madre Vergine Maria, fate che io salvi l'anima mia”; e prevenendo la definizione dogmatica, insegnava la giaculatoria da recitarsi ogni giorno: “Sia benedetta la Santa Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria”.

                In onore della Madonna, ne stampava l'Ufficio. Voleva trasferite nell'Oratorio le pratiche di pietà, che tanti giovani, della campagna avevano frequentato nelle Confraternite dei proprii paesi. Quindi, appena ebbe un numero di alunni interni che poterono leggere in latino, si incominciò a cantare prima il Vespro della B. V. alla sera fra il catechismo e la predica e più tardi a recitarne il Mattutino e le Lodi avanti all'unica Messa, mentre egli confessava. Quando ebbe un altro sacerdote stabilito in casa, il Mattutino e le Lodi si presero a cantare nel tempo della seconda Mesa. L’Ufficio [16] intero riserbavasi per tutti quei giorni nei quali sarebbero, stati dettati gli esercizii spirituali.

                Ma sovrattutto stava a cuore a D. Bosco il santo Rosario e ond'è che aveva scritto con brevissime contemplazioni i quindici misteri. Una terza parte di Rosario la faceva recitare ogni festa, esortando con gran fervore i suoi giovani a continuare, potendolo, questa pia pratica, ogni giorno della settimana nelle loro case. Egli intanto finchè fu solo ne recitava giornalmente luna terza parte con sua madre e poi, aggiungendosi i giovani ricoverati, col Rosario si assisteva nei giorni feriali alla santa Messa. Dal punto che l'Oratorio fu aperto, in Valdocco fino ai tempi presenti, ad ogni sorgere di aurora il suo caro recinto risuonò impreteribilmente di questa orazione, così cara al cuor di Maria e così efficace nelle angustie della Chiesa. Una sol volta all'anno in cappella nella sera di Ognissanti si recitò sempre intiero il Rosario in suffragio delle anime del purgatorio, e D. Bosco non mancava mai di prendervi parte inginocchiato nel presbitero e guidando sovente egli stesso la preghiera.

                A questi atti di pietà in onore della Madre di Dio aveva eziandio uniti i due opuscoletti già dati da lui alla stampa anni prima: La corona di Maria addolorata, e Le sette allegrezze che gode Maria in Cielo. In tempi di poco posteriori a questi un gruppo di giovanetti più distinti nella pietà andava in cappella, a recitare tutte le Domeniche dopo le funzioni della sera questo secondo ossequio innanzi all'immagine di Maria, e così continuossi fino oltre al 1867. Sovente in mezzo a loro si vedeva D. Bosco, ad animarli col suo esempio.

                Come è agevole arguire, tutte le divozioni che D. Bosco suggeriva, avevano l'alto scopo di rendere i giovani simili agli angioli, con una vita immacolata. Erunt sicut [17] Angeli Dei in coelo! Quindi egli aggiungeva al Giovane Provveduto altri due opuscoli, da lui separatamente stampati: L'esercizio di divozione al Santo Angelo custode e le sei Domeniche e la novena di S. Litigi Gonzaga - Gli Angioli, protettori dei giovani; S. Luigi, loro modello! Le Domeniche dell'angelico giovanetto erano celebrate in cappella fin dai primi tempi e D. Bosco esortava tutti a farne la novena nelle loro case. La Festa era segnalata da una bella processione. Di questo Santo egli cita gli esempi, imitati dal Comollo, e in ogni circostanza lo richiama alla memoria dei giovani e ne suggerisce l'invocazione. - L'obbedienza ai vostri genitori è lo stesso come se fosse prestata a Gesù Cristo, a Maria SS. ed a S. Luigi - Esaminate come vi regolaste pel passato nelle preghiere e procurate d'infervorarvi sempre più, massimamente nel recitare lungo il giorno qualche giaculatoria a Dio e al vostro avvocato S. Luigi. - Se non potete dissipare una tentazione fate il segno della santa croce, baciate qualche medaglia benedetta, invocate Maria, oppure S. Luigi dicendogli: O Luigi santo, fate che io non offenda il mio Dio! - Nell'accostarvi al Sacramento della Penitenza, dite: Vergine SS., S. Luigi Gonzaga, pregate per me, onde possa fare una buona confessione. - Aggiungeva eziandio: Invocate S. Luigi per ottenere di fare una buona comunione e di ricavarne frutti più copiosi. - Al fine della Messa recitate una Salve a Maria SS. e un Pater a S. Luigi affinchè vi aiutino a mantenere i proponimenti fatti, specialmente di evitare i cattivi discorsi. Nel decorso del giorno dite la giaculatoria: Vergine Maria, Madre di Gesù e S. Luigi Gonzaga, fatemi santo. Infine, nelle orazioni da recitarsi al principio ed al fine della giornata, aggiungeva una preghiera per ottenere la protezione di S. Luigi in vita ed in morte. [18] A questo modo D. Bosco rendeva come visibile agli occhi dei giovani S. Luigi, loro lo metteva al fianco, sicchè continuamente con lui s'intrattenessero, come con un compagno ed amico, con lui vivessero la vita del paradiso, e circondati dal profumo delle sue virtù, sentissero abborrimento grande a tutto ciò che poteva macchiare la purezza della loro anima. Così li preparava eziandio ad ascoltare la voce del Signore, siccome aveva fatto S. Luigi, ed i prescelti potevano con sicurezza abbracciare la vita religiosa della quale è indispensabile sostanziale decoro la castità. Infatti nell'ottavo giorno della novena di S. Luigi aveva stampato: “Preghiamo altresì il Signore che ci faccia conoscere in quale stato Egli voglia essere servito da noi, affinchè possiamo spendere bene, quel tempo che egli pose in nostro potere e da cui dipende la nostra eterna salvezza”. E nella meditazione dell'inferno aveva eziandio scritto questo avvertimento: “Se Dio ti chiama anche a lasciare il mondo, arrenditi presto. Ogni cosa che si fa per iscampare da una eternità di pene è poco, è niente. Nulla nimia securitas ubi periclitatur aeternitas (S.BERNARDO). Oh! quanti nel fiore di loro età abbandonarono il mondo, la patria, i parenti e andarono a confinarsi nelle grotte e nei deserti, vivendo soltanto a pane ed acqua, anzi talvolta a sole radici d'erba; e tutto questo per evitare l'inferno. E tu che fai?”.

                Quindi, perchè chi possedeva la grazia di Dio non ne facesse lagrimevole getto, e chi l'avesse perduta la riacquistasse il più presto possibile, ecco da lui stabilita un'altra pratica commoventissima, ossia l'Esercizio di Buona Morte.

                Badate, ei diceva, che al punto di morte si raccoglie quello che abbiamo seminato nel corso di nostra vita. Se avremo fatte opere buone, beati noi; la morte ci riuscirà di contento; il paradiso sarà aperto per noi. Al contrario guai [19] a noi! Rimorsi di coscienza nel punto di morte e un inferno aperto che ci aspetta: Quae seminaverit homo haec et metet. E ripeteva ancora: Tutta la vita dell'uomo deve essere luna continua preparazione alla morte.

                D. Bosco adunque nel 1847 incominciava a fissare la prima Domenica di ogni mese per un così salutare esercizio, invitando tutti ad una comunione generale e raccomandando la confessione come se fosse l'ultima della loro vita. Perchè tale giorno fosse distinto dagli altri con segno di speciale allegrezza preparava loro pane e companatico per colazione. Con ciò egli direttamente intendeva porgere ad essi nuova occasione perchè si avvezzassero sempre più alla frequenza ai sacramenti, e alla sera del sabato e al mattino della Domenica, con una carità e pazienza inalterabile, ascoltava una folla di penitenti che ad ogni ora si rinnovava.

                Finita la Messa e deposti gli abiti sacri, D. Bosco andava ai pie' dell'altare ove per lui era stato preparato un inginocchiatoio, e là recitava l'affettuosa preghiera per implorare da Dio la grazia di non morire di morte improvvisa, e una supplica a S. Giuseppe per averne l'assistenza negli estremi momenti. Aveva sempre insistito che i suoi giovani, col nome di Maria SS. e di S. Luigi, invocassero eziandio quello del Padre putativo di Gesù. Quindi leggeva con grande compunzione i brevi periodi che ricordano le singole fasi dell'agonia di un cristiano, ad ognuno dei quali i giovani rispondevano: Misericordioso Gesù, abbiate pietà di me i Finiva con una orazione per le anime del Purgatorio.

                Gli stavano pur molto a cuore queste anime benedette e nel suo manuale inserì il Vespro dei defunti da cantarsi nel giorno di Ognissanti dopo il Vespro della solennità, e i salmi e le preghiere per le esequie dei defunti e per le sepolture. Notava pure le indulgenze largite dai Sommi Pontefici all [20] suddette pratiche di pietà, tanto pel grande guadagno che avrebbero fatto i giovani coll'acquistarle, quanto pei suffragii coi quali molti di loro avrebbero recato refrigerio ai poveri trapassati.

                Vi stampò eziandio la Compieta maggiore per quelle festività della quaresima nelle quali il rito porta che si canti il Vespro prima di mezzogiorno, e che poi modulata dai nostri giovanetti francesi avrebbe formato la delizia di varie Chiese in quella generosa nazione; e insieme colla Compieta i sette Salmi Penitenziali colle Litanie dei Santi, le quali sarebbero recitate dopo la santa Messa nella festa di S. Marco e nei tre giorni delle Rogazioni quando nell'Oratorio abiterebbero alunni interni. In fine ei poneva i salmi, gli inni e i versetti dei Vespri per tutte le Domeniche e le feste dell'anno in onore di Dio, della Madonna, di S. Giuseppe, degli Angioli, degli Apostoli e dei Santi principali. Omise le antifone, perchè oltre ad accrescere di troppo il volume, queste dovevano essere cantate solamente dal coro. Perciò si provvide di un antifonario e con grande pazienza incominciò ad insegnarne le note ad alcuni giovanetti. Turco Giuseppe lo sorprese una sera mentre dava lezione a tre suoi allievi, e tenendo in mano una caramella, promettevala in premio a quegli che avrebbe cantato meglio l'antifona: Dixit pater familias.

                D. Bosco non poteva conchiudere meglio il suo libro che stampando una scelta di Laudi sacre. Fra quelle della Madonna avvene una del Sacro Cuor di Maria, dono di Silvio Pellico, e altra a Maria Consolatrice, che i giovani cantavano in molte occasioni e specialmente quando si recavano processionalmente due volte all'anno a visitare il vicino famoso Santuario dedicato alla Madonna sotto questo titolo. Sovente facevale cantare in cortile, ma sempre se ne ripeteva qualche strofa all'entrare ed uscire di chiesa, perchè rimanesse coperto [21] quel rumore sgradevole prodotto dal muoversi di tanti; e Così pure prima delle orazioni della sera, per troncare quel leggiero mormorio cagionato inevitabilmente dall'assembrarsi degli alunni. In tempo della santa Comunione D. Bosco voleva eziandio che si cantasse, perchè coloro i quali non si comunicavano, per la leggerezza dell'età non avrebbero mantenuto un perfetto silenzio. Ed era un incanto ascoltar centinaia di voci giovanili che sembrava ripetessero: mihi erant justificationes tuae in loco peregrinationis meae.

                Da quanto abbiamo detto puossi giudicare dello spirito dipietà che animava D. Bosco e come sapesse trasfonderlo ne' suoi allievi. Nello scriverne in queste pagine abbiamo tenuto conto solamente della prima edizione del Giovane Provveduto. Quando dovremo parlare delle susseguenti edizioni, noteremo le aggiunte che egli vi fece secondo che la convenienza o la necessità gli suggerivano. È un fatto però ben meraviglioso come i figli del popolo tenessero questo come il codice che guidava la loro condotta, e come, benchè non avvezzi prima a frequentare la chiesa, ora si assoggettassero non solo calmi, ma entusiasmati all'assistenza di funzioni e alla recita di preghiere, che talora non erano così brevi. L'amore compieva questo miracolo. E D. Bosco servivasi eziandio del Giovane Provveduto per segnare, con una o con parte delle variate sue pratiche di pietà, la penitenza sacramentale e da questo metodo, opportunamente adoperato in tutto il tempo della sua vita, rendeva proficue le soddisfazioni rese alla Divina Giustizia. Il Giovane Provveduto fu sempre il Veni mecum dei giovani più buoni in ogni circostanza della vita. Di giorno lo custodivano nelle tasche del giubbetto, e anche di notte lo ponevano tra il materasso ed il capezzale, reclinando su di esso il loro capo; molte volte alcuni in punto di morte, non essendo presente un sacerdote, se lo facevano leggere dai circostanti, [22] e altri ordinarono che fosse posto loro sul petto, quando il proprio cadavere fosse chiuso nel feretro. I giovani amavano questo libretto, perchè sentivano che era stato da D. Bosco composto proprio per essi ed ogni massima trovava sempre, un' eco nel loro cuore. Ogni frase, anzi direi ogni parola, era stata da lui pesata perchè corrispondesse a' suoi santi intendimenti. Sovrattutto voleva esclusa ogni menoma espressione che non fosse rigorosamente modesta.

                Non fidandosi però del proprio giudizio nella versione italiana di alcune preghiere nelle quali eragli sembrato potersi modificare qualche parola; e volendo prevenire alcune osservazioni che gli avrebbero potuto fare i Revisori Ecclesiastici su qualche altro punto, compilando il suo libro, presentavasi colle bozze di stampa al Canonico Zappata per udirne il parere.

                Egli accoglieva con perfetta deferenza le decisioni del buon canonico, il quale talora scherzando a certe sue minuziose osservazioni e correzioni, gli disse: “Avete finito di fare lo studio anatomico del vostro libro?”. E D. Bosco in modo, faceto, a ripigliare: - Non ancora: debbo chiedere licenza di porre un O maiuscolo, alla parola Oriens del cantico di Zaccaria, là dove si legge: Visitavit nos oriens ex alto. Il termine oriens in questo luogo non è participio, ma sibbene nome proprio del Divin Salvatore. Ciò è dimostrato dal senso, dal testo Greco, e dall'antifona della novena di Natale colla quale la Chiesa invoca il Messia: O Oriens.

                Il canonico Zappata gli rispose sorridendo: - Oh! ciò si può cambiare sul vostro libro senza radunare Commissioni. Fate pure.

                Abbiamo ricordato questo fatto, perchè si noti come Don. Bosco fosse esatto in tutto e ponesse il medesimo studio nello scrivere lettere, o nel leggere quelle che riceveva: ponderava [23] attentamente ogni frase. La stessa minuziosa diligenza usava nell'esplicare un progetto, nel dare un ordine, nel chiedere una spiegazione, nell'udire un rapporto, nel leggere un libro, nell'affidare un ufficio o un lavoro di qualunque genere fosse. Chi de' suoi parlava o trattava con lui era obbligato a misurare bene le frasi, a ponderare le parole, perchè egli non mancava di fare osservazioni, quantunque cortesi, persino alla pronunzia. Qualche impaziente talora era tentato di giudicarlo importuno; eppure stava in ciò una delle cause per le quali egli eseguiva progetti così grandiosi da far stupire il mondo! Li aveva studiati in ogni anche minima loro parte, ponderando gli ostacoli, i mezzi di esecuzione, i vantaggi e la sicurezza della riuscita. Nulla lasciava al caso, ma tutto si riprometteva dall'aiuto di Dio.

 

 

CAPO III. Povertà e mortificazione - Il Terz'Ordine di S. Francesco - Saggi delle scuole domenicali e serali - Visite e premii - Infestazione diabolica - Colloquio misterioso - Il prezzo di un calice Sogno: Un pergolato di rose.

 

                MENTRE D. Bosco col Giovane Provveduto sovveniva ai bisogni spirituali de' suoi allievi, non intermetteva di avvantaggiare la propria santificazione. Quanto più il cuore dell'uomo si distacca dalle cose della terra, altrettanto si avvicina a quelle del cielo e diviene vero seguace di Gesù Cristo. Perciò da quanto abbiamo già narrato apparisce chiaramente come D. Bosco aveva colla mortificazione interna fatto sacrifizio a Dio della propria volontà, delle inclinazioni del cuore, delle tendenze più dolci della natura; e colla mortificazione esterna aveva continuamente crocifissi tutti i suoi sensi. In conseguenza, egli che amò la povertà evangelica fin da' suoi primi anni, in questo amore andava sempre crescendo. Così gli stava assai a cuore la pulizia degli abiti, ma voleva che essi, come la calzatura, fossero di poco costo e piuttosto grossolani. Per molti anni portò i zoccoli in casa e un soprabito così logoro che non aveva più colore. Indossava la veste talare per tanto tempo, quanto poteva valersene, ed allorchè la smetteva, a stento se ne poteva formare una sottanina per i chierichetti [25] della sua cappella. Quindi non pensando egli punto al vestire, conveniva talora che qualche benefattore provvedesse.

                La sua stanza era affatto spoglia di ogni ornamento. Un letto senza cortine, un tavolino senza tappeto e senza stuoia per terra, pareti con qualche immagine in carta ed un crocifisso, una o due sedie di paglia; una piccola stufa, che rare volte si accendeva nel più forte dell'inverno e ciò con gran parsimonia per risparmiare quanto si poteva le legna! Tanta economia eragli ispirata eziandio dal desiderio di impiegare per l'Oratorio quanto sottraeva alle sue necessità, dicendo che gli averi del prete sono il patrimonio dei poverelli.

                Il suo nutrimento corrispondeva al vestiario ed alla stanza. Non si potè mai sapere qual genere d'alimento fosse di suo gusto; ed ei mangiava ben poco, non già per mancanza di appetito, ma perchè erasi fatta una legge di non mai soddisfarlo.

                La sua mensa era tanto frugale, che avendo qualcuno dei suoi colleghi fatta la prova di vivere qualche giorno con lui, non vi potè resistere ed assuefarvisi. La minestra non era meglio condita di quella dei contadini poveri. Aveva di più una sola pietanza; ma la madre per ordine suo gliela faceva alla domenica e servivagli ogni giorno per pranzo e cena sino al giovedì sera. Al venerdì ne confezionava una seconda di magro, e con questa si terminava la settimana. La famosa pietanza era generalmente una torta, e bastava farla riscaldare perchè fosse tosto preparata. Talora d'estate diveniva un po' rancida; ma D. Bosco non vi badava e figurandosi che la madre l'avesse cospersa con un po' d'aceto, se la mangiava come se fosse un piatto squisito. Questo fu l'apprestamento di tavola di D. Bosco sino a quando egli incominciò ad avere con sè chierici e sacerdoti, i quali per lo studio e le occupazioni ebbero bisogno di un vitto più confacente e sostanzioso. [26] È per l'affetto a questa santa povertà e per un caro ricordo della sua giovinezza che in questo tempo pare abbia egli fatto adesione al serafico sodalizio del Terz'Ordine dei penitenti in S. Francesco d'Assisi. Infatti il suo nome, benchè non comparisca nei registri di questa Congregazione, pure è notato nel suo elenco fin da questi anni. Perciò il Direttore del Terz'Ordine in Torino, P. Candido Mondo M.O. con diploma dato il 1° Luglio 1886 dal Convento di S. Tommaso, dichiarava che D. Giovanni Bosco, Patriarca dei Salesiani verso il 1848 vestiva l'abito dei Terziarii, e dopo il noviziato ne professava a tempo utile la santa Regola a tenore delle Pontificie Costituzioni; e che perciò dichiaravalo vero fratello di tutti i Religiosi dei tre Ordini istituiti dal Serafico Padre.

                Intanto le scuole dell'Oratorio prosperavano. L'esercizio della declamazione, e poi il canto e la musica entravano nel loro programma, e D. Bosco intendeva che contribuissero alla educazione religiosa e morale dei giovani. Quindi allorchè per utile sollievo procurava loro l'occasione di recitare, o alla presenza di insigni personaggi che visitavano l'Oratorio, ovvero in saggi scolastici per dar prova della loro istruzione, voleva che si esponessero i principii e le massime di nostra santa fede, o poesie che riguardassero qualche mistero della religione, o i privilegi e le glorie della SS. Vergine, o alcuni fatti della Santa Scrittura. Assegnava egli stesso ai giovani più istruiti ciò che dovevano imparare a memoria, loro insegnava il modo di recitare, e per animarli prometteva un regalo.

                Egli vide ben presto coronata felicemente anche questa sua fatica. Infatti dopo alcuni mesi di scuola festiva e sul principio del 1847, D. Bosco volle che gli intervenuti dessero un piccolo saggio sopra il Catechismo, la Storia Sacra [27] e la relativa geografia. A quest'uopo egli invitò ad assistervi parecchi personaggi di Torino, tra cui l'abate Aporti, il deputato Boncompagni, il Teol. Baricco, il Prof. Giuseppe Rayneri, il Superiore delle Scuole Cristiane fratello Michele, e più altri. Queste celebrità interrogarono gli allievi sulle mentovate materie; rimasero soddisfatti delle loro risposte; applaudirono al loro esperimento, lasciando ai migliori premii e ricordi. Il Prof. Rayneri, il più distinto fra gli insegnanti di Pedagogia nella Regia Università, ne rimase entusiasmato. Facendo lezione disse più volte a' suoi scolari, allievi maestri: “Se volete vedere messa mirabilmente in pratica la pedagogia, andate nell'Oratorio di S. Francesco di Sales e osservate ciò che fa D. Bosco”.

                Animati da questa prima prova, i giovani poco dopo ne diedero un' altra sulle materie apprese alla scuola serale. Questo secondo esperimento fu dato con grande solennità. Siccome da tutte le parti di Torino si parlava di queste scuole come di una novità, e molti professori ed altri uomini cospicui le venivano con frequenza a visitare, così il Municipio stesso, avutane contezza, mandò una Commissione composta dei signori Cotta e Capello, detto Moncalvo, con alla testa il Comm. Giuseppe Duprè, appositamente incaricato di verificare, se i risultati che decantavansi fossero realtà o, esagerazioni. Quei signori fecero eglino stessi da esaminatori sulla lettura e retta pronunzia, sull'aritmetica e sistema metrico, sulla declamazione e via dicendo, e non sapevano capacitarsi, come giovinotti, stati idioti sino ai sedici e diciotto anni, avessero potuto in pochi mesi portarsi così avanti nella istruzione. Allo scorgere poi un gran numero di giovani adulti, che invece di andare girovagando per le vie della città, stavano colà raccolti per istruirsi, l'onorevole Commissione se ne partiva piena di ammirazione e di entusiasmo. Fatta [28] poscia una fedele relazione della sua visita in pieno Municipio questo ne fu tanto soddisfatto, che assegnò alle scuole di D. Bosco un annuo sussidio di lire trecento, le quali furono, dal buon padre adoperate subito in favore de' suoi protetti. Egli percepì questa somma sino al 1878 anno in cui se la vide tolta, senza averne potuto sapere la ragione.

                Il Cav. Gonella, la cui carità e zelo pel bene lasciarono in Torino gloriosa e imperitura memoria, era in quel tempo Direttore dell'Opera Pia La Mendicità Istruita. Or, questo nobile signore, avendo udito a raccontare tante meraviglie delle scuole serali, le venne a visitare ancor egli; interrogò i giovani, s'informò dei metodo che si seguiva, e ne rimase molto appagato; cosicchè, avendone riferito agli amministratori di quell'Opera, ottenne che questi decretassero un premio di lire mille da consegnarsi a D. Bosco in vantaggio delle sue scuole, e a vantaggio ed incoraggiamento degli allievi, che le frequentavano. L'anno seguente poi, cioè nel 1848, le introdusse cogli stessi metodi nell'Istituto a lui affidato. Il Municipio ne seguiva l'esempio.

                Intanto il Re Carlo Alberto e l'Arcivescovo Fransoni gli prodigavano incoraggiamenti e sussidii; perciò D. Bosco scriveva nelle sue memorie: “I conforti che mi vennero dalle Autorità Civili ed Ecclesiastiche, lo zelo con cui molte persone accorsero in mio aiuto con mezzi temporali e colle loro fatiche, sono segno non dubbio delle benedizioni del Signore e del pubblico gradimento degli uomini”.

                Ma il bene che faceva D. Bosco non garbava punto al principe delle tenebre, il quale, permettendolo Iddio, aveva incominciato a manifestare il suo malumore. D. Bosco stesso ci confidava quanto siamo per narrare. Fin dal primo anno, che dal Refugio egli trasportò la sua abitazione in casa Pinardi tutte le notti, dopo che si era coricato, udiva sopra il [29] solaio della sua stanza un rumore rimbombante, continuato, che non lasciavagli chiuder occhio. Pareva che qualcuno sollevasse grossi macigni e slanciandoli a tutta forza d'uomo su quel pavimento di legno, li facesse rotolare. Sulle prime si provò a tendere alcune trappole, se fossero mai stati grossi topi, o faine, o gatti; ma nessun animale restò preso. Disseminò qua e là nel sottotetto noci, pezzi di pane e di formaggio: al mattino seguente era andato a vedere, ma con sua meraviglia nulla era stato mangiato e neanco toccato. Fece allora trasportare altrove quanto eravi sopra il solaio, legna, assi distaccati, e oggetti in disuso, per togliere in tal modo a chiunque fosse il disturbatore, ogni mezzo per fare quel terribile fracasso; e a nulla valse questa precauzione. Ne parlò con D. Cafasso, il quale, sospettando chi potesse essere la causa di uno, scherzo così maligno, lo consigliò di aspergere quel luogo, coll'acqua lustrale. Pure, non ostante la data benedizione, tutte le notti si rinnovava quel pauroso fenomeno. D. Bosco si risolse pertanto a cangiar di camera, trasportando le sue povere masserizie in quella che allo stesso piano era l'ultima verso levante; ma neppure questo espediente giovò: quella, diavoleria erasi pur trasportata sopra la nuova stanza. Intanto D. Bosco diveniva magro, sofferente nella sanità, perchè più non poteva nè dormire, nè riposare. Di quando, in quando sua madre alla sera gli entrava in camera e fissando gli occhi in alto, gridava: “Oh brutte bestie, lasciatelo in pace D. Bosco, finitela una volta!”.

                Un giorno finalmente, fatto venire un muratore, D. Bosco, gli ordinò che praticasse un'apertura larga vicino al muro, nel soffitto della sua camera in forma di botola, sicchè egli potesse avere facile accesso al solaio; quindi portò una scala, assestò quanto gli occorreva per potere alla sera, al primo, colpo che sentisse, trovarsi col lume e colla testa sporgente [30] nei sottotetti e tentare così se potesse veder qualche cosa. Ed ecco all'ora solita un primo colpo spaventevole. In men che si dice D. Bosco è al sommo della scala, spinge in su colla sinistra la ribalta di legno e col lume nella destra si affaccia sopra il solaio: guatò attorno, ma nulla vide. Allora costernato nel riconoscere evidentemente chi fosse l'autore di un tal fatto, prese un quadrettino della Madonna e lo attaccò al muro del solaio, pregando la Vergine Santissima a liberarlo da quel disturbo. Felice idea! Da quell'istante non si udì mai più niente, ed il quadretto stette là appeso, finchè si gettò giù quella casa vecchia per fabbricare l'attuale. E D. Bosco tranquillo all'ombra, direi così, del manto di Maria, per sei anni più non lasciò la nuova stanza che servivagli, eziandio per studio e per sala di ricevimento. Sull'architrave della porta esterna volle pure che fosse scritto il saluto: SIA LODATO GESU' CRISTO, affinchè questo santo nome fosse letto e ripetuto con divozione da chi entrava da lui. Con ciò egli intendeva di far atto di riparazione alle bestemmie che pur troppo nel volgo si facevano ognor più frequenti e che in lui destavano un orrore così profondo da farlo impallidire e fremere ad un tempo.

                Intanto qui pareva si rinnovasse ciò che narra il santo Vangelo allorchè il Divin Salvatore digiunò per quaranta giorni. Quando Satana vinto si ritirò, gli angioli si avvicinarono.

                La camera che D. Bosco abitava fu sempre considerata dai giovani come un recesso misterioso di ogni più bella virtù, come un santuario nel quale la Madonna compiacevasi, di far conoscere la sua volontà, come un vestibolo che metteva in comunicazione l'Oratorio colle celesti regioni; e quando vi si recavano, non potevano fare a meno di provare un senso di grande riverenza. Mamma Margherita non pensava diversamente. Ella aveva trasportato il proprio letto nella [31] stanza più vicina a quella del figlio. Era persuasa per varii indizii che D. Bosco vegliasse pregando una parte della notte, e sospettava che in quel tempo di quando in quando accadesse qualche cosa di sorprendente che non sapeva ben definire. Infatti ella narrava al giovane Bellia Giacomo che una volta, qualche ora prima dell'alba, aveva udito D. Bosco parlare in sua camera. Talora sembrava che rispondesse, talora che interrogasse. Si era messa in attenzione, ma nulla aveva potuto intendere. Al mattino, benchè fosse certa che a sua insaputa, nessuno poteva penetrare nella camera di D. Bosco, gli chiese con chi si fosse intrattenuto. E D. Bosco:

                - Ho parlato con Comollo Luigi.

                - Ma Comollo è morto da più anni!

                - E pure è così! - D. Bosco non aggiunse altra spiegazione mentre si vedeva che una grande idea signoreggiava la sua mente. Rosso in volto come bragia e cogli occhi scintillanti, era agitato da una commozione che gli durò più giorni.

                Dopo qualche tempo D. Bosco aveva bisogno di un calice, e non sapeva come procurarselo, non avendo i danari occorrenti per l'acquisto. Quand'ecco una notte gli fu indicato in sogno come nel suo baule vi fosse deposta una sufficiente somma. Il domani andò in Torino per varii affari e mentre camminava rifattoglisi alla mente il sogno, pensò al piacere che avrebbe provato se questo si fosse mutato in realtà, e fu sì grande l'impressione che ne ricevette, da determinarlo a ritornare subito a casa per rovistare nel baule. Così fece, e vi trovò otto scudi, precisamente la somma colla qual e comperare il calice. Nessun estraneo aveva potuto riporveli, poichè la cassa era sempre chiusa. Sua madre Margherita non aveva danaro per fargli simili improvvisate, ed ella pure grandemente stupì quando seppe la cosa. [32] Ma il fatto più sorprendente lo narrava lo stesso D. Bosco, per la prima volta, diciassette anni dopo che era avvenuto. Nel 1864 una sera dopo le orazioni radunava a conferenza nella sua anticamera, come era solito a fare di quando in quando, coloro che già appartenevano alla sua Congregazione: tra i quali D. Alasonatti Vittorio, D. Michele Rua, D. Cagliero Giovanni, D. Durando Celestino, D. Lazzero, Giuseppe e D. Barberis Giulio. Dopo aver loro parlato del distacco dal mondo e dalle proprie famiglie per seguire l'esempio di N. S. Gesù Cristo, continuò in questi termini:

                “Vi ho già raccontato diverse cose in forma di sogno, dalle quali possiamo argomentare quanto la Madonna SS. ci ami e ci aiuti; ma giacchè siamo qui noi soli, perchè ognuno di noi abbia la sicurezza essere Maria Vergine che vuole la nostra Congregazione e affinchè ci animiamo sempre più a lavorare per la maggior gloria di Dio, vi racconterò non già la descrizione di un sogno, ma quello che la stessa Beata Madre si compiacque di farmi vedere. Essa vuole che riponiamo in Lei tutta la nostra fiducia. Io vi parlo in tutta confidenza, ma desidero che quanto io sono per dirvi, non si propali ad altri della Casa, o fuori dell'Oratorio, affinchè non si dia appiglio alle critiche dei maligni.

                “Un giorno dell'anno 1847 avendo io molto meditato sul modo di far del bene, specialmente a vantaggio della gioventù, mi comparve la Regina del cielo e mi condusse in un giardino incantevole. Ivi era come un rustico, ma bellissimo e vasto porticato, fatto a forma di vestibolo. Piante rampicanti ne ornavano e fasciavano i pilastri e coi rami ricchissimi di foglie e di fiori protendendo in alto le une verso le altre le loro cime ed intrecciandosi vi stendevano sopra un grazioso velario. Questo portico metteva in una bella via, sulla quale a vista d'occhio prolungavasi un pergolato incantevole [33] a vedersi, che era fiancheggiato e coperto da meravigliosi rosai in piena fioritura. Il suolo eziandio era tutto coperto di rose. La Beata Vergine mi disse: “Togliti le scarpe!”. E poichè me l'ebbi tolte, soggiunse: “Va avanti per quel pergolato: è quella la strada che devi percorrere”. Fui contento di aver deposto i calzari perchè mi avrebbe rincresciuto calpestare quelle rose, tanto erano vaghe. E cominciai a camminare; ma subito sentii che quelle rose celavano spine acutissime, cosicchè i miei piedi sanguinavano. Quindi, fatti appena pochi passi, fui costretto a fermarmi e poi a ritornare indietro.

                - Qui ci vogliono le scarpe, dissi allora alla mia guida.

                - Certamente, mi rispose: ci vogliono buone scarpe. -

                Mi calzai e mi rimisi sulla via con un certo numero di compagni, i quali erano apparsi in quel momento, chiedendo di camminar meco. Essi mi tennero dietro sotto il pergolato, che era di una vaghezza incredibile; ma avanzandomi quello appariva stretto e basso. Molti rami scendevano dall'alto e rimontavano come festoni; altri pendevano perpendicolari sopra il sentiero. Dai fusti dei rosai altri rami si protendevano di qua e di là ad intervalli, orizzontalmente; altri formando talora una più folta siepe, invadevano una parte della via; altri serpeggiavano a poca altezza da terra. Erano però tutti rivestiti di rose, ed io non vedeva che rose ai lati, rose di sopra, rose innanzi a' miei passi. Io mentre ancora provava vivi dolori nei piedi e alquanto mi contorceva, toccava le rose di qua e di là e sentii che spine ancora più pungenti stavano nascoste sotto di quelle. Tuttavia andai avanti. Le mie gambe si impigliavano nei rami stesi per terra e ne rimanevano ferite; rimoveva un ramo traversale, che impedivami la via oppure per ischivarlo rasentava la spalliera, e mi pungevo e sanguinavo non solo nelle mani, ma in [34] tutta la persona. Al di sopra le rose che pendevano, celavano pure grandissima quantità di spine, che mi si infiggevano nel capo. Ciò non per tanto, incoraggiato dalla Beata. Vergine proseguii il mio cammino. Di quando in quando però mi toccavano eziandio punture più acute e penetranti, che mi cagionavano uno spasimo ancor più doloroso.

                Intanto tutti coloro, ed erano moltissimi, che mi osservavano a camminare per quel pergolato dicevano: “Oh! come D. Bosco cammina sempre sulle rose: egli va avanti tranquillissimo; tutto gli va bene”. Ma essi non vedevano le spine che laceravano le mie povere membra. Molti chierici, preti e laici da me invitati si erano messi a seguitarmi festanti, allettati dalla bellezza di quei fiori; ma quando si accorsero che si doveva camminare sulle spine pungenti e che queste spuntavano da ogni parte, incominciarono a gridare dicendo: “Siamo stati ingannati!”.

                Io risposi: - Chi vuol camminare deliziosamente sulle rose torni indietro: gli altri mi seguano.

                Non pochi ritornarono indietro. Percorso un bel tratto di via, mi rivolsi per dare uno sguardo a' miei compagni. Ma qual fu il mio dolore quando vidi che una parte di questi era scomparsa, ed un'altra parte mi aveva già voltate le spalle e si allontanava. Tosto ritornai anch'io indietro per richiamarli, ma inutilmente, poichè neppure mi davano ascolto. Allora incominciai a piangere dirottamente ed a querelarmi dicendo: - Possibile che debba io solo percorrere tutta questa via così faticosa?

                Ma fui tosto consolato. Veggo avanzarsi verso di me uno stuolo di preti, di chierici e di secolari, i quali mi dissero: “Eccoci; siamo tutti suoi, pronti a seguirla”. Precedendoli mi rimisi in via. Solo alcuni si perdettero d'animo e si arrestarono, ma una gran parte di essi giunse con me alla meta. [35]

                Percorso in tutta la sua lunghezza il pergolato, mi trovai in un altro amenissimo giardino, ove mi circondarono i miei pochi seguaci, tutti dimagriti, scarmigliati, sanguinanti. Allora si levò un fresco venticello e a quel soffio tutti guarirono. Soffiò un altro vento e come per incanto mi trovai attorniato da un numero immenso di giovani e di chierici, di laici coadiutori ed anche di preti, che si posero a lavorare con me guidando quella gioventù. Parecchi li conobbi, di fisonomia, molti non li conosceva ancora.

                Intanto, essendo io giunto ad un luogo elevato del giardino mi vidi innanzi un edifizio monumentale sorprendente per magnificenza di arte, e varcatane la soglia, entrai in una spaziosissima sala, di tale ricchezza che nessuna reggia al mondo può vantarne una eguale. Era tutta sparsa e adorna di rose freschissime e senza spine dalle quali emanava una soavissima fragranza. Allora la Vergine SS., che era stata la mia guida, mi interrogò: - Sai che cosa significa ciò che tu vedi ora, e ciò che hai visto prima?

                - No, risposi: vi prego di spiegarmelo.

                Allora Ella mi disse: - Sappi che la via da te percorsa tra le rose e le spine significa la cura che tu hai da prenderti della gioventù: tu vi devi camminare colle scarpe della mortificazione. Le spine per terra rappresentano le affezioni sensibili, le simpatie o antipatie umane che distraggono l'educatore dal vero fine, lo feriscono, lo arrestano nella sua missione, gli impediscono di procedere e raccogliere corone per la vita eterna. Le rose sono simbolo della carità ardente che, deve distinguere te e tutti i tuoi coadiutori. Le altre spine significano gli ostacoli, i patimenti, i dispiaceri che vi toccheranno. Ma non vi perdete di coraggio. Colla carità e colla mortificazione, tutto supererete e giungerete alle rose senza spine. [36]

                Appena la Madre dì Dio ebbe finito di parlare, rinvenni in me e mi trovai nella mia camera”.

                D. Bosco, che aveva intesa la qualità del sogno, concludeva affermando che dopo quel tempo vedeva benissimo la strada che doveva percorrere, che le opposizioni e le arti colle quali si tentava di arrestarlo gli erano già palesi e che sebbene molte dovessero essere le spine tra le quali aveva da camminare, era certo, sicuro della volontà di Dio e del riuscimento della sua grande intrapresa.

                Con questo sogno D. Bosco era avvisato eziandio di non, scoraggiarsi per le defezioni che sarebbero avvenute fra coloro che parevano destinati a coadiuvarlo nella sua missione. I primi che si allontanano dal pergolato, sono i preti diocesani ed i secolari, che sul principio si erano consacrati all'Oratorio festivo. Gli altri che sopraggiungono, rappresentano i Salesiani, ai quali è promesso l'aiuto e il conforto divino, figurato dal soffiare del vento. Più tardi D. Bosco manifestò essersi ripetuto questo sogno o visione in anni diversi, cioè nel 1848 e nel 1856, e che ogni volta gli si presentava con qualche variazione di circostanze. Noi qui le abbiamo collegate in un solo racconto, per non dar luogo a superflue ripetizioni.

                Ma benchè D. Bosco nel 1847 avesse serbato per sè questo segreto, pure, come ci faceva osservare Buzzetti Giuseppe, fin d'allora si vedeva apparire sempre più viva la sua divozione verso Maria SS. e si adoperava con modi sempre più insinuanti perchè i giovani celebrassero con frutto le feste della Madonna e il mese di Maggio. Era evidente essersi egli gettato nelle braccia della divina Provvidenza, come un bambino in quelle di sua madre. La risolutezza colla quale senz'ombra di esitanza prendeva il suo partito nelle più, gravi questioni o difficoltà, dimostrava troppo chiaro come [37] avesse innanzi un programma già preparato da seguire, un modello da imitare e che a lui fosse stato detto come a Mosè: Inspice et fac secundum exemplar[3]. In fine si aggiunga che gli sfuggivano di quando in quando esclamazioni, per cui i suoi confidenti, intravedevano un mistero. Pareva che egli vagheggiasse una figura di Maria SS., risplendente, campeggiante in alto, al cospetto di tutto il mondo ed in atto di invitare ognuno a ricorrere al suo patrocinio.

 

 

CAPO IV. D. Bosco per Torino in cerca di fanciulli e sue industrie per invitarli all'Oratorio festivo - In mezzo ai monelli nella piazza Emanuele Filiberto - Scene memorabili, ed' esortazioni di D. Bosco al popolo - Il sito ritorno alla casa Pinardi.

 

                LA SICUREZZA che la Madonna lo avrebbe sempre, assistito rendeva D. Bosco ogni dì più infaticabile ed animoso. Uno dei mezzi principali per accrescere il numero dei suoi ragazzi fu quello di andarli a cercare sulle piazze, nelle strade, lungo i viali. Incontrando qualche piccolo girovago, qualche scioperato che non aveva potuto trovar padrone, fermavali con molta amorevolezza e ben tosto li interrogava, se sapevano farsi il segno della santa Croce: se non sapevano, traendoli all'angolo della via o invitandoli a sedere su di; una panchina del viale, con molta pazienza loro insegnavalo. Quando lo avevano bene appreso e avevano con lui recitata, un' Ave Maria, faceva loro qualche regalo, invitandoli ad intervenire all'Oratorio. Il giovane Rua Michele fu testimonio più volte di queste scenette edificanti che svolgevansi in pubblico, senza che D. Bosco badasse alla gente che andava e veniva.

                Passando innanzi alle officine nell'ora del riposo o della colazione non si peritava di avanzarsi dove scorgeva in [39] crocchio molti dei giovani apprendisti, e dopo averli cordialmente salutati, domandava di qual paese fossero, come si chiamasse il loro parroco, se fossero ancor vivi i genitori, quanto tempo era che avessero incominciato ad apprendere quel mestiere. E così dopo essersi guadagnata la loro simpatia, loro domandava se ancor ricordassero ciò che avevano imparato ai catechismi uditi nella parrocchia, se nell'ultima Pasqua si fossero accostati ai Sacramenti, se recitassero mattino e sera le loro orazioni. Alle franche risposte dei giovani, D. Bosco con eguale franchezza indicando la propria abitazione in Valdocco, loro manifestava il desiderio di voler essere loro amico, pel bene dell'anima. E quegli accettavano promettendo, e la seguente domenica D. Bosco li vedeva intorno a sè e attenti alle sue istruzioni.

                Se imbattevasi con qualche giovanotto di sua antica conoscenza, che da qualche mese non avesse più visto alla domenica non lasciava di chiedergli da quanto tempo non si fosse più confessato, se ascoltasse la Messa nei giorni festivi, se la sua condotta fosse sempre buona, e concludeva: “Vieni, mi farai sempre piacere e, potendolo, conduci con te i tuoi amici”.

                Scorgendo un gruppo di monelli in mezzo ai prati, si fermava accennando che desiderava intrattenersi con loro. Essi accorrevano, ed egli chiedeva loro se fossero allegri e buoni, come passassero la giornata, ove abitassero, qual mestiere esercitassero i loro genitori, quali giuochi essi prediligessero; quindi passava a descrivere i sollazzi di ogni genere preparati nel suo cortile, e il tamburo, e la tromba, e la passeggiata e cento altre meraviglie. Aggiungeva che se fossero venuti da lui, avrebbero uditi dei bellissimi racconti e un po' di dottrina cristiana. Nel congedarli, se era il caso, donava loro alcuni soldi. Quei giovanetti rimanevano incantati e gridavano: “Domenica verremo anche noi!”. [40] Accadde più volte che in una pubblica piazza delle meno frequentate egli osservava un capannello di adolescenti popolani, i quali, seduti per terra, giocavano alle carte, a tombola, all'oca o ad altri giuochi analogi. Sopra un fazzoletto disteso nel mezzo stavano i soldi. D. Bosco si avvicinava.

                - Chi è questo prete? - domandava uno di quei giovani con quel tono leggermente beffardo che risuona con facilità sul labbro del popolo.

                - Desidero di giuocare con voi! - Rispondeva Don Bosco: - Chi è che vince? Chi perde? Di quanto si giuoca? Orsù, metto anch'io la mia posta! - E gettava una bella moneta nel fazzoletto. - Il nuovo giuocatore era accolto con piacere, ed egli dopo aver giuocato per qualche minuto, incominciava ad interrogarli sulle verità essenziali di nostra santa Religione e trovandoli ignari, li istruiva colle parole più facili e più chiare; e finiva il suo brevissimo trattenimento, invitandoli all'Oratorio e a confessarsi. Quindi ripigliavasi il giuoco, e D. Bosco lasciando la sua moneta, se ne partiva per le sue incombenze. E accadeva sempre che varii di quei giovani attirati da quel suo fare disinvolto andassero a visitarlo ed anche a confessarsi.

                Altra fiata ei traversava il piazzale presso la chiesa di un sobborgo vicino alla città, ove molti ragazzi giuocavano rincorrendosi l'un l'altro. Egli aveva in mano un cartoccio di ciambelle, che gli avevano poc'anzi donato. Si ferma, chiama a sè que' scapatelli e dicendo loro: - Qui ho delle ciambelle; chi mi raggiunge saranno sue si dà alla corsa. Tutti gli vanno dietro. Egli entra in chiesa, fa segno di cessar dalle grida, li invita a sedere nei banchi presso la porta e dice: - Ora darò a ciascuno la sua parte; ma prima ascoltate un po' di catechismo. - E rivolto al più grandicello: - Dimmi un po' tu che sembri più dottore degli altri: [41] Chi morisse con un peccato mortale sull'anima, quale sorte incontra nell'eternità? Con quale rimedio si toglie dall'anima il peccato commesso dopo il battesimo? - Gli occhi intanto dei giovani erano rivolti al cartoccio che D. Bosco teneva - in mano, e nella speranza di toccare una buona porzione di que' dolci, facevano il possibile per rispondere il meglio che sapessero. Con altre domande, con qualche amenità sulle risposte errate li tratteneva alquanto, finchè ricondottili poi fuori di chiesa, distribuiva le ciambelle, narrava un fatterello morale, ma lepido, e li invitava ad intervenire all'Oratorio. Quando se ne partiva, lasciavali maravigliati di aver incontrato come essi dicevano, un prete di nuovo genere, che li aveva divertiti, regalati, dicendo insieme tante belle cose. Costoro difficilmente mancavano poi dall'andare al suo catechismo.

                La franchezza di D. Bosco nell'invitare i giovani aveva alcunchè di straordinario. D. Garigliano compagno di D. Bosco - alle scuole di Chieri, ricordando con grande tenerezza quella sua antica amicizia, narrò a D. Carlo Maria Viglietti nel 1839 fra altro il seguente episodio:

                “Accompagnava un giorno D. Bosco per Torino, quando, giunti innanzi alla chiesa della Trinità in via Doragrossa, c'imbattemmo in un giovanotto, malvestito e arrogante nell'aspetto.

                D. Bosco lo salutò amorevolmente, lo fermò e: - Chi sei tu? - gli disse.

                - Chi sono io?... e Lei che cosa vuole da me? chi è Lei? - rispose il giovane.

                - Io vedi, rispose D. Bosco, sono un prete che voglio tanto bene ai giovani, e li raduno alla domenica in un bel luogo presso la Dora vicino al Refugio, e poi dò loro delle cose buone, li diverto, ed essi mi portano molta affezione; io [42] sono D. Bosco. Ma adesso che io ti ho detto chi sono, ha diritto di sapere chi sei tu.

                - Io sono un povero giovane disoccupato, senza padre e senza madre, e cerco d'impiegarmi.

                - Ebbene, guarda; io ti voglio aiutare... e come ti chiami

                - Io mi chiamo... - e disse il suo nome.

                - Bene, ascolta: domenica ti aspetto con i miei figli... vieni, ti divertirai; poi io ti cercherò padrone... ti farò stare allegro.

                Il giovane fissò per qualche istante gli occhi in viso a D. Bosco e gli disse bruscamente: - Non è vero!

                D. Bosco trasse allora di tasca una pezza da dieci soldi, la pose nelle mani del giovane e: - Si... sì... è vero; vieni e vedrai.

                Quegli guardò commosso la moneta e rispose: - Don Bosco... verrò... Se domenica manco, mi chiami: Busiard.

                E andò e continuò assiduo a frequentare l'Oratorio, e credo che ora sia uno de' sacerdoti della loro Congregazione, perchè, venendo talora a veder D. Bosco, lo incontrai nell'Oratorio vestito da chierico”.

                D. Bosco adoperò eziandio molte e molte volte l'industrioso mezzo di invitare seco a pranzo qualche giovane che incontrava per via, e facevalo sedere al suo fianco, dividendo con lui la sua povera pietanza. Così fece finchè l'Ospizio non fu pienamente ordinato. Questa amorevolezza legava talmente a lui i giovani, che non si può dire quanto strettamente e con risultati felicissimi per le anime loro. Basti un fatto fra i tanti.

Verso mezzo giorno D. Bosco ritornava a casa, e sul cancello che chiudeva il suo cortile ed il suo orto vide il giovane

                B …..che abitava poco distante. Aveva mani e faccia sudicie e indossava una blouse unta e bisunta. Fino allora D. Bosco non aveva fatta con lui una gran relazione perchè rifiutavasi [43] di venire alle funzioni; si erano però scambiati talora qualche parola. Tuttavia lo conosceva per fama, perchè il povere, giovane ne aveva fatto d'ogni colore, e a lui si attribuivano, gravi delitti. Adunque D. Bosco gli si avvicinò salutandolo

                - Buon giorno, mio caro!

                - Buon giorno! rispose B….. tenendo il capo basso coi capelli che gli cadevano sulla fronte.

                - Sono molto contento d'averti incontrato. Oggi devi farmi un gran piacere... e non dirmi di no.

                - Se posso, ben volentieri.

                - Sì che puoi; che tu venga a pranzo con me.

                - Io a pranzo con D. Bosco?

                - Sì, tu: oggi mi trovo solo.

                - Ma Lei si sbaglia: mi scambia con qualche altro. Lei non mi conosce.

                - Sì che ti conosco: non sei il figlio del tale?

                - Io che ne ho fatte tante, che Lei non si può neppur immaginare?

                - Proprio tu in persona.

                - Ma Lei prendersi quest'incomodo per me...

                - Nessun complimento... è cosa decisa... vieni.

                - Io non ho coraggio di venir così... nello stato in cui mi trovo! Potessi almeno andarmi prima a confessare!

                - Ci andrai, se crederai bene, sabato sera o domenica mattina, ma quest'oggi devi venire con me a pranzo.

                - Verrò un'altra volta. Mia madre non è avvertita, mi aspetterà a casa.

                - A tua mamma glielo manderemo a dire che oggi pranzi con D. Bosco. Il signor Pinardi mi farà il piacere di mandare una persona.

                - Ma veda, sono così sporco! bisognerebbe che mi lavassi, che andassi a cambiarmi i panni. Ho vergogna di venir così. [44]

                - No; ti voglio oggi e come ti trovi: sono troppo contento che passiamo un'ora insieme.

                Ma... ma...

                Non c'è ma che tenga. Vieni, la minestra è in tavola. Già che Lei vuole proprio così... andiamo.

                E andarono. Mamma Margherita al vedere quell'ospite

                - Oh! disse a D. Bosco sottovoce, perchè hai condotto questo sporcaccione? Dove l'hai trovato?

                - Non dite così, rispondeva D. Bosco. È mio amico e grande amico, sapete. Trattatelo bene.

                E si pranzava. B…… da quel giorno incominciò a cangiar costumi e divenne poi un buon giovane.

                Tuttavia queste care anime da lui raccolte nella rete del Signore, benchè fossero numerose, non reggevano per quantità al confronto della pesca, che, secondo la sua espressione consueta, faceva nella piazza Emanuele Filiberto. La parte vicina a Porta Palazzo brulicava di merciai ambulanti, di venditori di zolfanelli, di lustrascarpe, di spazzacamini, di mozzi di stalla, di spacciatori di foglietti, di fasservizi ai negozianti sul mercato, tutti poveri fanciulli che vivacchiavano alla giornata sul loro magro negozio. Ognuno può intendere genia di qual fatta, divenuta adulta, debba riuscire questa povera gioventù, senza persona che la sorvegli, l'istruisca e la consigli, abbandonata a se stessa ed a mali esempi di ogni specie. La maggior parte di questi appartenevano alle così dette Cocche di Borgo Vanchiglia, cioè numerose compagnie di giovinastri stretti fra di loro da patti di reciproca difesa, capitanati da alcuni dei più grandi e più audaci. Insolenti e vendicativi erano pronti a venire alle mani al menomo pretesto di offesa ricevuta. Non avendo - appresa alcuna professione, crescevano amanti dell'ozio e del giuoco, dati al furto di borse e di fazzoletti. Il più delle [45] volte finivano coll'essere condotti in carcere, e scontata la pena delle malefatte, ritornavano a Porta Palazzo, continuando con maggior accortezza e malizia le loro malnate abitudini.

                D. Bosco adunque tutte le mattine recavasi su questa piazza, ove egli aveva già fatta conoscenza con un certo numero di que' giovani, fin da quando l'Oratorio festivo era stato per qualche mese trasferito dal Refugio alla Chiesa dei Molini. Incominciò a intrattenersi con qualcuno di que' garzoni prima coi pretesto di chiedere qualche indicazione di via, o di farsi lucidare le scarpe; e quindi allorchè passava vicino ad essi, li salutava. Tanto più che fra questi alcuni avevali già trovati nelle carceri, che erano sempre una parte del suo campo evangelico.

                Si fermava qua e là presso i varii gruppi eccitandoli al riso, con qualche facezia, domandando loro notizie della sanità, o del guadagno fatto nel giorno precedente; e nello stesso tempo dimostrava il suo vivo gradimento di averli incontrati; anzi talora diceva come fosse passato a bell'apposta in quel luogo pel desiderio di vederli e di salutarli.

                A poco a poco li conobbe tutti per nome e parlava loro colla dimestichezza che un padre usa coi proprii figli, della necessità di guadagnarsi il paradiso. Incontrandone qualcuno, senza altri testimoni, con una abilità tutta sua, e che nessuna riuscirà mai a degnamente descrivere, lo interrogava come stessero le cose dell'anima sua, e se andasse a confessarsi. Il giovane rispondeva con sincerità, ma in quanto alla confessione di raro diceva di sì, poichè quasi non sapeva che cosa fosse il sacramento della Penitenza.

                - Ebbene, conchiudeva D. Bosco, vieni a farmi una visita ed io ti insegnerò a fare una buona confessione, e tu ne sarai molto contento.

                Per sempre più affezionarseli, talora comprava su quel [46] mercato uno o due cesti di frutta. E - venite qua, diceva ai più vicini; chiamate gli altri; tutti. Diamo un pomo per uno. - E grande era la gioia di chi riceveva quel regalo inaspettato.

                Allorchè percorreva il tratto di via fra il principio di Porta Palazzo e la chiesa di S. Domenico, lo circondavano i venditori di zolfanelli, i quali lo assordavano colle loro grida: - Bricchetti di cera - bricchetti alla prova - compri da me... non ho ancora venduto niente... Mi faccia guadagnare perchè possa comprarmi la colazione. - E D. Bosco invitandoli a non vociare a quel modo, e parlando or con l'uno, or con l'altro, impiegava una buona mezz'ora a percorrere quel breve spazio di via. Ad un tratto rivolgendosi a quella turba: - Ebbene per questa volta voglio che tutti abbiate da guadagnare, qualche cosa, ma ad un patto: che cioè domenica veniate tutti all'Oratorio! - Essi promettevano e D. Bosco comprava, da tutti qualche scatolino, e andava dicendo a’ suoi nuovi amici. - Anch'io faccio conto di metter su un piccolo banchetto; con - una cordicella me lo appenderò al collo e verrò qui con voi a Porta Palazzo per vendere zolfanelli. - Tutti ridevano e ringraziavano contenti dei due soldi ricevuti, e D. Bosco ritornava sovente a casa colle saccocce piene di scatolette di zolfanelli, che alcuni buoni signori ricompravano poi da lui per uso proprio.

                Spesse volte distribuiva a que' monelli le medaglie della Madonna, che essi stessi avevano con replicate istanze richieste e mentre gli sporgevano la mano, D. Bosco ripeteva: - Mettetevela al collo... Ricordatevi che la Madonna vi vuole un gran bene; e pregatela di cuore perchè vi aiuti.

                Non si può dire da quanto amore fossero presi per Don Bosco questi giovanetti e a quali scene graziose e varie desse questo origine. Ogni volta che si doveva passare per piazza [47] Milano non gli era possibile proseguire il suo cammino senza fermarsi. Al suo comparire, i primi fanciulli che lo scorgevano gli andavano incontro; poi a poco a poco altri ed altri ancora finchè, sparsasi la voce, tutti lasciavano i loro posti per corrergli intorno ed augurargli un giorno felice. D. Bosco allora diceva:

                Volete che io vi conti qualche bel fatto da ridere?

                Sì, sì, racconti, - gridavano i fanciulli. Intanto quel crocchio così numeroso attirava la curiosità delle donnicciuole che vendevano la frutta ed i legumi, e anch'esse facevano ressa intorno a D. Bosco. Soldati, facchini e altro popolo numeroso accresceva la folla.

                - Che cosa c'è? - interrogavano gli ultimi venuti.

                - Noi saprei! mi son fermato vedendo tanta gente

                - rispondeva il vicino.

                - Veh! È un prete che sta nel mezzo! - annunciava un terzo alzandosi sulla punta dei piedi.

                E D. Bosco! - s'intrometteva a dire un suo conoscente.

                - E chi è D. Bosco? - domandava un contadino venuto al mercato.

                Ma!!! - esclamava colui che era stato interrogato.

                Qualche cittadino però appagava la curiosità dei forestieri, narrando quello che sapeva di D. Bosco. Intanto col crescere della folla cresceva il bisbiglio ed eziandio un vociare confuso.

                - Silenzio! - gridavano i giovani.

                - Silenzio! - ripetevano gli altri; e imponendo silenzio, come avviene, aumentavano il rumore. Finalmente tutti tacevano.

                D. Bosco allora saliva sopra qualche gradino o su qualche sedia che gli andavano a prendere in una bottega vicina; [48] oppure cercava solamente di avere qualche appoggio per non essere spinto e fatto cadere. Tutta la gente stringevasi sempre più intorno a lui per udire, quindi incominciava a predicare. Talora giungeva ad avere attorno centinaia di persone. Perfino i bottegai venivano sulle porte dei loro negozii per ascoltarlo. Accorrevano anche le guardie della città ed i carabinieri, i quali da principio temevano che quel prete cagionasse qualche disordine, poi ascoltavano anch'essi. È certo che difficilmente potevansi udire prediche più popolari e nello stesso, tempo più efficaci. D. Bosco narrava qualche episodio ameno, qualche fatto morale di storia, qualche esempio contemporaneo o antico, ricavandone sempre una massima che fosse profittevole per i suoi uditori. Nessuno zittiva più. Eziandio i più discosti benchè nulla potessero capire pure non osavano dir parola per tema di recar disturbo. Quando aveva finito, la gente ripeteva: - D. Bosco ha ragione; prima cosa è l'anima. - E molti si allontanavano raccolti e pensosi. Talvolta distribuiva qualche medaglia e allora la turba accorrente non aveva più fine.

                In queste circostanze l'impresa difficile per lui era l'allontanarsi da quel luogo, perchè tutti volevano seguirlo ed andare dove egli andava. Perciò ogni volta doveva studiare qualche stratagemma, per sbrigarsi da tanta gente. Ora si toglieva il cappello in mano, simulando di lasciarlo cadere, si chinava e così curvo passava tra l'uno e l'altro. Ora nascondevalo sotto il mantello, si abbassava, pregava un giovane ad imprestargli il berretto, se lo poneva in capo e così dietro alla barriera de' suoi monelli, rasentando il muro, spariva, e prima che la folla se ne avvedesse già si trovava lontano. Ora s'involava sotto i portici; ora entrando inosservato in una bottega ne usciva per una retroporta, avviandosi per i suoi affari. [49] La massa della folla restava ancora là immobile per un po' di tempo e poi vedendo che era sparito, chiedeva: Dov'è? Dov'è?

                Qualche buona donna esclamava: - Gli angioli lo hanno portato in altro luogo. - L'assemblea intanto formava piccoli gruppi, nei quali chi non aveva udito si faceva narrare da altri quanto il prete aveva detto. Tutti approvavano, poichè in quei tempi la fede era molto viva nel cuore de' popolani.

                Era poi ben divertente l'udire i commenti che facevano nell'atto di sbandarsi, sulle parole e sulla novità dei modi di quel prete. Chi lo diceva un santo, chi un folletto. Molti lo conoscevano e giudicavano il fatto sotto il suo vero aspetto; ma altri lo chiamavano un matto. D. Bosco prendeva tutto in buona parte, ed era contento che coloro, i quali raramente o quasi mai andavano in chiesa, avessero sentita la loro buona predica e proprio di quelle che difficilmente sfuggono alla memoria. Soleva dire: - Il prete per fare molto bene bisogna che unisca alla carità una grande franchezza.

                Quando poi D. Bosco ritornava dall'interno della città, non solo rinnovavasi a quando a quando lo stesso spettacolo, ma la folla, specialmente dei giovani, finito di udire qualche leggiadro racconto, accompagnavalo a casa. I giovani non si stancavano di stargli attorno e di udirlo parlare. Talvolta intonava una canzone spirituale nota al popolo, e un coro di voci si univa alla sua. D. Bosco rinnovava la scena del Divin Salvatore quando era circondato dalle turbe e camminava per le contrade della Galilea. Si andava lentamente. D. Bosco ora, interrogato, rispondeva, ora egli stesso prendeva la parola. Finalmente tutti giungevano alla porta di quella microscopica abitazione. Giunto sulla soglia, D. Bosco, volgendosi a coloro che lo avevano seguito, esortavali a rimaner sempre fedeli alla Chiesa Cattolica ed agli insegnamenti della fede, e invitava [50] i giovanetti a venire al Catechismo della domenica prossima. Finalmente ritiravasi fra le grida che altamente risuonavano di: Evviva D. Bosco!

                Tutti questi aneddoti li abbiamo scritti sotto il dettato or dell'uno or dell'altro fra gli antichi allievi che ne erano stati testimonii. Simili spettacoli si rinnovarono con grande frequenza fino al 1856.

                Varie persone però, prudenti secondo il mondo e non esperte nel conoscere le vie per le quali il Signore conduce i suoi servi fedeli, censuravano D. Bosco con poco riguardo alle sue buone intenzioni.

                Lo stesso signor Scanagatti, amico dell'Oratorio e antico conoscente di D. Bosco, non vedeva troppo bene da principio certe maniere del buon prete, certe usanze dell'Oratorio, e l'assembramento di tanti giovani. Ne parlò quindi con D. Cafasso anche suo confessore, pregandolo di avvertire D. Bosco affinchè desistesse da più coserelle che non gli garbavano. Ma D. Cafasso: - Lasciatelo fare, gli rispose; D. Bosco ha dei doni straordinarii sembri a voi quello che si vuole, egli opera per impulso superiore: aiutiamolo per quanto possiamo.

                Anche d'arcivescovo, prevedendo come ben presto la Chiesa sarebbe rimasta destituita dell'appoggio delle autorità civili, giudicava umanamente necessario sopperirvi con quello del popolo e che i sacerdoti si avvicinassero sempre più alle moltitudini dei fedeli, attraendoli a sè, col soccorso in tutti i loro bisogni, colle persuasioni della divina parola, coll’influenza della loro autorità e della santità della vita.

                Egli perciò approvava che a questo fine D. Bosco si valesse di ogni mezzo lecito anche straordinario, suggerito da una prudente carità. Tanto più che in ogni azione di D. Bosco trionfava il dono della parola, da lui chiesto ed [51] ottenuto dal Signore nel giorno della sacerdotale ordinazione. E in vero di lui si poteva dire: “La sapienza esce fuori predicando alza la voce sua nelle piazze. Là dove si aduna la moltitudine, ella si fa sentire; alle porte della città ella espone i suoi documenti”[4].

 

 

CAPO V. Continua il medesimo argomento - D. Bosco nelle osterie, nelle locande, nei caffè, nelle botteghe dei barbieri.

 

                CHI imprendesse a descrivere tutte le industrie adoperate da D. Bosco per riuscire a salvare il maggior numero possibile di anime e specialmente per trarre sulla buona strada i fanciulli, giungerebbe a comporre un racconto fra i più commoventi e più ameni. Senza rispetto umano era pronto a far getto di ogni, cosa, eziandio, abbassandosi ed umiliandosi, senza neppure lasciarsi imporre dalle critiche dei poco oculati e talora maligni, purchè potesse promuovere la gloria di Dio.

                - Per far del bene, era solito a ripetere, bisogna avere un po' di coraggio, essere pronti a soffrire qualunque mortificazione, non mortificare mai nessuno, essere sempre amorevole. Con questo sistema gli effetti da me ottenuti furono veramente consolanti, anzi magnifici. Chiunque, anche oggi, giorno, potrebbe riuscire al pari di me, purchè abbia la disinvoltura e la dolcezza di S. Francesco di Sales. - E talora ricordando quegli anni antichi l'udimmo più volte esclamare commosso: - Ah che tempi, che bei tempi erano quelli!

                Egli adunque percorrendo le vie, le piazze e i dintorni di Torino aveva avvertiti altri luoghi nei quali non era. [53] facile che un sacerdote comparisse. Fra questi si contavano locande, osterie, spacci di vino; ed egli vi entrava ora per accompagnarvi un viandante che gli aveva chiesto un indirizzo per potersi rifocillare, ora un forestiere suo amico che domandava un decoroso albergo, ora uno studente che aveva mestieri di stare a' dozzina. Talora essendo esaurita la sua piccola provvista di vino, mandatagli dal fratello Giuseppe, vi si recava per comprarne un mezzo barile, già destinato per certi galantuomini dei quali meditava guadagnarsi l'amicizia ovvero per gli operai ai quali aveva commesso qualche lavoro in sua casa. Non esitava alcuna volta d'introdursi chiedendo una bibita calda o anche semplicemente un bicchiere di acqua. Erano tutti pretesti e nulla più. Infatti la comparsa di un prete in taluni di questi negozii era cagione di meraviglia. Il padrone gli si appressava per domandare i suoi ordini, e preso dalle sue maniere affabili, intavolava con lui conversazione. Gli avventori sparsi, qua e là lasciavano le loro tavole per venire a fargli corona. D. Bosco prima allettavali con discorsi faceti, lepidezze, arguzie, aneddoti, e poscia faceva capo alle cose riguardanti l'eterna salute. Entrava arditamente in argomento, ma con poche parole e manifestando l'interesse che nutriva per le loro anime. Interrogavali col suo sorriso composto: - È molto tempo che non vi siete più confessati? Avete fatto la Pasqua? - Le risposte degli astanti erano schiette, come amorevolmente franche erano le interrogazioni. Talvolta D. Bosco era obbligato a sostenere dispute, a sciogliere obbiezioni, a dissipare pregiudizii; e ciò faceva con tanto bel garbo, che nessuno offendevasi, e senza che acrimonia di sorta sorgesse a turbare la pacifica conversazione. Egli assicurava che in quei luoghi frequentati da ogni specie di persone, non si ebbe mai un insulto, nè un brutto scherzo. Quando partiva, erano tutti [54] divenuti suoi amici, i quali gli facevano promettere che sarebbe ritornato; e molti, come avevano promesso, andavano, a visitarlo al confessionale. In mezzo a questi colloquii osservava se vi fossero fanciulli, interrogava il locandiere o l'oste se avesse figliuoli, chiedeva ad essi con premura notizie di questi e se fossero buoni, mostrava vivo desiderio che formassero la consolazione dei genitori, domandava per grazia di, poterli vedere, in ultimo instava per aver licenza che venissero nell'Oratorio a frequentare le sacre funzioni. Le madri saputa la novità che accadeva nella loro bottega, spinte dalla curiosità, scendevano dalle loro stanze nel crocchio e commosse insieme coi loro mariti, dagli elogi che il prete loro faceva, e dalla premura che dimostrava pel benessere anche temporale dei loro figliuoli, acconsentivano alle sue domande, specialmente a quella di mandarli a confessare. I figli poi, appena venivano a conoscerlo, non sapevano più distaccarsi da lui.

                Fra i molti fatti ne citiamo uno. Per i suoi fini era andato più volte in un'osteria nelle parti di Valdocco, dove aveva stretta amicizia col figlio dell'oste. Questo giovane, benchè di buona volontà, aveva però poco tempo libero alla domenica per andare in chiesa, essendo continuo il concorso dei buontemponi pei quali era obbligato ad apprestar le mense. Mentre un giorno s'intratteneva con D. Bosco, l'oste venne a sedersi fra di loro, prendendo parte alla conversazione. D. Bosco, colto un momento opportuno, lo pregò a voler permettere che il figlio e la sua famiglia andasse a confessarsi all'Oratorio. Quell'uomo che da più anni non erasi accostato ai Sacramenti, accondiscese volentieri. - Ma ciò non mi basta, esclamò D. Bosco; ho bisogno che venga anche il papà. - L'oste stette un istante pensoso e poi rispose: - Sì, verrò, ma ad un patto.

                - Sentiamo. [55]

                - Che lei accetti un pranzo da me.

                - Accetto.

                L'oste era fuori di sè per la gioia e nella propria abitazione allestì quanto potè e seppe di meglio. D. Bosco andò nel giorno stabilito ed il pranzo riuscì di una vera magnificenza, benchè vi si assidesse la sola famiglia. L'oste ad ogni istante andava ripetendo essere quello il giorno più bello della sua vita. In sul partirsi e ringraziando, D. Bosco concludeva

                - Mantenga la sua parola, sa?

                - Sarò fedele! - rispondeva l'oste.

                Dopo pochi giorni mandava la sua famiglia a confessarsi, ma egli non comparve. Più volte D. Bosco lo incontrò:

                - Ebbene, quando?

                - L'oste accampava pretesti e scuse, ma infine dopo alcuni mesi manteneva la sua parola, confessandosi dallo stesso D. Bosco e mantenendosi con lui sempre in grande amicizia.

                D. Bosco però sapeva ricompensare i locandieri e gli osti della loro arrendevolezza a' suoi salutari consigli e della loro buona condotta. Perciò, parlando o scrivendo ai parroci e alle persone più ragguardevoli dei paesi, rendeva loro noto, facendone fede, il trattamento onesto ed economico che avrebbero trovato negli alberghi che indicava; e numerosi vi affluirono i forestieri ed altresì non pochi i dozzinanti.

                Eziandio nelle botteghe da caffè di Torino D. Bosco esercitava la sua salutare missione.

                Egli comandava una tazza e l'oggetto delle sue sollecitudini era, ben s'intende, qualcuno di que' garzoncelli che recavano le bibite. Entrava sommessamente in conversazione con questo o quello, nell'atto che gli ponevano innanzi la guantiera, ed eglino ben presto gli aprivano il loro cuore: mentre nessuno di coloro che sedevano ai tavolini circostanti avrebbe potuto immaginarsi qual fosse l'argomento dei loro [56] discorsi. Erano poche parole per non destar ammirazione, ma efficaci. La domenica successiva quei giovanetti sul far dell'alba erano già all'Oratorio. Quando poi ebbe aperto l'Ospizio, lasciavano anche la bottega per seguirlo e fissar dimora presso di lui.

                Talora D. Bosco chiamava il padrone e dicevagli

                - Mi farebbe un piacere?

                - Domandi pure; troppo fortunato di servirla.

                - Permetterebbe che qualche volta questo giovanetto venisse a visitarmi?

                - E dove?

                - All'Oratorio in Valdocco. Là potrebbe imparare un po' di catechismo e farsi buono.

                - Ne ha bisogno di farsi buono! È un biricchino, è un insolente, è un poltrone. Ha tutti i difetti immaginabili.

                - Oh possibile! Mi sembra che non debba esser così. E volgendosi al giovanetto, che stringeva le labbra e volgeva gli occhi altrove, soggiungeva: - Non è vero? - Continuando quindi il discorso col padrone: - A tutti i modi, siamo intesi; Lei mi farà questo piacere ed io gliene sarò riconoscente.

                - Oh, quando non vuol altro; contento, contentissimo. E il giovanetto compariva all'Oratorio.

                Talora D. Bosco cercava di invitare il padrone stesso ed i suoi figli a venirsi a confessare, specialmente in tempo di Pasqua. - Ebbene, signor padrone, quando facciamo Pasqua?

                - Siamo cristiani sa! Il nostro dovere lo sappiamo.... ma veda bene, i continui affari... non si ha mica il tempo a disposizione... Basta, vedremo.

                - E i suoi figli Pasqua l'hanno già fatta?

                - I miei figli voglio che si regolino bene: hanno da fare con me, se mancassero a questo dovere. [57]

                - Dunque li manderà?

                - Certamente. E quando Lei sarà in comodo?

                - Tutte le mattine; ma per essere più sicuri di trovarmi, li mandi sabato a sera.

                - Sarà fatto.

                Certe volte per i padroni replicava l'invito, ma in ultimo, acconsentivano ed andavano coi loro figliuoli a confessarsi.

                Un'altra categoria di giovanetti ebbe le cure amorevoli, di D. Bosco: i garzoni del barbiere che imparavano l'arte. Avendo bisogno di farsi radere la barba entrava in una di - queste botteghe, scegliendo di preferenza quelle che in certe ore erano più frequentate. Il barbiere accoglieva il nuovo avventore con quella gentilezza che è proverbiale nei Torinesi, e portagli una sedia, lo pregava di voler attendere, finchè avesse finito di servire coloro che già aspettavano. D. Bosco volgendo lo sguardo e adocchiato il garzone che preparava i rasoi: - Ho premura, replicava, non posso attendere. Voi servite pure tranquillamente questi signori. Quel giovanetto, che vedo disoccupato, potrà farmi la barba a meraviglia.

                - Per carità, rispondeva il barbiere, non si faccia scarnificare da quel marmocchio là. Sono poche settimane che incomincia a maneggiare rasoi: Lei passerebbe un brutto quarto d'ora. E poi è così sbadato, ha così poca voglia di imparare!

                - Eppure, replicava D. Bosco, mi sembra un giovane intelligente. La mia barba non è troppo difficile. Se voi permetteste che incominciasse a far le sue prove sulla mia faccia, mi fareste un piacere. Vedrete che tutto andrà bene.

                - Sia come vuole, concludeva il barbiere, io l'ho avvisato, e uomo avvisato è mezzo salvato.

                - Grazie, rispondeva D. Bosco. E poi voltosi al giovinetto che era venuto rosso per la vergogna all'elogio fattogli [58] dal suo principale - Vieni qua, gli diceva, su, fatti onore. Son certo che il padrone si ricrederà dell'opinione che La formata di te. - E il giovane, rincorato, prima esitava e poi francamente prendeva il rasoio e incominciava a sbarbare il povero prete. Non è a dire quanto quella mano inesperta facesse soffrire D. Bosco. Il rasoio non radeva, e tante volte strappava i peli. D. Bosco, che soffriva molto eziandio, quando il barbiere era molto abile nel suo mestiere, sopportava in quell'istante una vera tortura. Pure sempre tranquillo non dava segni di dolore; e il giovane si rasserenava sempre più, credendo di riuscir bene, e prendeva simpatia per chi gli aveva dato quel segno di stima. Non mancavano i frizzi del padrone a burlare il novizio ed a compatire il prete, ma D. Bosco protestava che il giovane faceva benissimo la propria parte. Finita la dolorosa operazione, non sempre senza che le guancie di D. Bosco riportassero qualche taglio, gli elogi, che il giovane riceveva dal buon servo di Dio, erano come tanti vincoli che allacciavano il cuore di chi era solito a sentir rimproveri. D. Bosco usciva dalla bottega promettendo che sarebbe ritornato, ma a patto che quel giovanetto e non altri gli facesse la barba.

                Di quando in quando cambiava barbiere e si diportava sempre nello stesso modo. La seconda volta che rientrava nella medesima bottega, incominciava a dire qualche parola di, vita eterna al giovanetto garzone, e finalmente concludeva: - Quanto tempo è che ti sei confessato? - E il giovane rispondeva secondo verità a chi egli già considerava come amico suo, e non mancava tante volte di manifestargli interamente l'anima. Poche parole bastavano perchè D. Bosco intendesse come stessero le cose e quindi invitavalo ad andare all'Oratorio la domenica seguente per ivi imparare il catechismo e confessarsi. Talvolta il giovanetto rispondeva [59] che sarebbe andato volentieri, ma che il padrone non avrebbe permesso; e allora D. Bosco intendevasi col padrone, il quale, per non perdere l'avventore, concedeva volentieri licenza. Tal altra fiata quando non vi era in bottega alcun testimonio, D. Bosco interrogava il garzone in presenza del padrone stesso, col disegno di chiamare a Dio il padrone ed il giovane. Domandava quindi al giovane se avesse fatta Pasqua, se ascoltasse la Messa alla domenica e particolarità consimili. Il padrone non tralasciava di entrare in conversazione, e facendo pompa di virtù, protestava, desiderare esso che il giovane fosse un buon cristiano, che tali erano i suoi consigli, ecc., ecc. D. Bosco colle sue maniere così insinuanti, mentre commoveva il giovane ed otteneva da lui promessa di venire all'Oratorio, in sul partire con una paroletta ed un'occhiata al padrone, talvolta riusciva a vederlo poi nell'Oratorio genuflesso a' suoi piedi.

                In simil guisa adoperavasi D. Bosco in ogni altra bottega o casa dove incontrasse fanciulli, e così aveva tutti i giorni il merito di qualche nuova anima ridonata a Dio.

 

 

CAPO VI. D. Bosco predicatore - Sua preparazione alle prediche e sito metodo quando improvvisa - Predicazione continua - Sofferenze nei viaggi - Buon esempio e zelo nelle missioni spirituali al popolo - La messe raccolta, l'affetto e la stima delle moltitudini - Varie predicazioni a Quassolo, ad Ivrea, a Strambino a Villafalletto, a Lagnasco  - Panegirico di genere nuovo in una chiesa di monache.

 

                IL PIU' vivo desiderio di D. Bosco, l'unico scopo della sua vita era la distruzione del peccato e che Dio fosse più conosciuto, servito, adorato ed amato in ogni luogo e da tutti. Ministro consecrato di Gesù Cristo, sentiva in sè tutta la forza di quel detto del suo

                Divino Maestro: “Lo spirito del Signore sopra di me; per la qual cosa mi ha unto per evangelizzare i poveri; mi ha mandato a curare coloro che hanno il cuore contrito”[5].

                Perciò allo studio dei libri santi accoppiava la lettura degli oratori sacri più insigni tenendo per altro sempre per modello il Divin Salvatore, il quale essendo la sapienza incarnata, parlava con ammirabile semplicità per adattarsi all'intelligenza del popolo. [61]

                Dopo il 1844 D. Bosco aveva scritto e corretto un centinaio e più di nuove prediche. Si era preparato le meditazioni e le istruzioni per diciotto giorni di missione da predicarsi al popolo, varii corsi per esercizii spirituali ai religiosi, ai chierici, alle monache, ai giovanetti; varie novene, tridui per le Quarantore, con molti panegirici e discorsi per le principali feste dell'anno.

                Sul principio del suo apostolato non saliva i pulpiti, specialmente delle città e dei borghi più riguardevoli, senza aver prima scritto quanto voleva dire. Era suo assioma, ripetute, le cento volte: “La predica che produce migliori effetti è quella che fu meglio preparata e studiata”. Ciò attestarone, d'aver udito di sua bocca Mons. Manacorda Vescovo di Fossano e D. Albino Carmagnola.

                Senonchè moltiplicandosi le occupazioni, che tutto esigevano il suo tempo, ed essendo egli amantissimo di annunziare la parola di Dio, per ogni argomento nuovo si contentava di scrivere traccie in foglietti di carta, dei quali noi abbiamo la fortuna di possedere un gran numero.

                In appresso non gli fu possibile prepararsi neppure le traccie: talora predicava dopo aver fatta breve riflessione su ciò che voleva esporre, e tal altra, detta un'Ave Maria mentre saliva sul pulpito, improvvisava. Ma quanto felice era la sua estemporaneità! Benchè lento nel parlare, quasi senza gesto, la sua voce argentina penetrava i cuori, e li commoveva colle ragioni le più semplici, In luoghi dove l'uditorio era composto di gente tutt'altro che dedita alle pratiche di religione e che era venuta in chiesa per curiosità, per udire un valente oratore, o per criticare un prete segnato come capo partito contro le loro opinioni, noi stessi abbiamo udito, finita la predica, ripetersi all'unisono in chiesa e in piazza: “Ha detto bene, ha detto bene”. [62]

                Ma eziandio in questi casi il suo parlare era perfettamente ordinato. Incominciava con un testo scritturale: nell'esordio stabiliva con esattezza la definizione dell'argomento, ovvero, enunciava con chiarezza l'oggetto della festa, o il mistero che si celebrava. Quindi svolgeva la definizione, recava una brevissima ragione teologica, esponeva un fatto storico, o un paragone, o una parabola che riuscivano la parte principale del suo discorso, e non mancava mai con alcune riflessioni di scendere alla pratica. Aggiungeremo che era sempre mirabilmente preparato a cambiare argomento nell'atto stesso che si affacciava dal pulpito, secondo gli suggerivano le circostanze o la non preveduta qualità de' suoi uditori. Ma per conseguire buoni risultati con un simile metodo non basta la scienza nel sacro oratore, bensì è necessario che, egli già prima siasi guadagnato un grande ascendente morale sopra i fedeli. D. Bosco predicando, ogni volta che gliene presentavano l'occasione e qualunque fosse il ceto delle persone che lo aspettavano con vivo desiderio, era sempre ascoltato come si ascolta un santo.

                Continua era la sua predicazione. È difficile numerare le popolazioni non solo del Piemonte, ma eziandio dell'Italia centrale che udirono la sua voce. Specialmente in Piemonte non vi è quasi città o paese nei quali egli non abbia predicato. Quando poteva contare sulla diligenza e vigilanza di coloro che aveva incaricati di varii uffizii nell'Oratorio, allontanavasi da Torino, mentre non mancava mai di ritornarvi - nei giorni che richiedevano la sua presenza. Ove egli andava, succedevano mille aneddoti sorprendenti, uno più grazioso, dell'altro e a stento i posteri li crederebbero, se non avessero l'attestazione di serii testimonii che noi verremo citando nel corso di queste memorie. Ad Alba, Biella, Ivrea, Novara, Vercelli, Asti, Alessandria. Cuneo, Mondovì, Nizza [63] Monferrato, Rivoli, Racconigi, Carmagnola, Bra, Foglizzo, Pettinengo, Fenestrelle, ne è tuttora viva la fama.

                Egli, come N. S. Gesù Cristo, si preparava a predicare con una fervorosa preghiera. Preferiva andare fra le popolazioni della campagna. Nell'atto di mettersi in viaggio si muniva sempre del segno di santa Croce, invocava l'aiuto del Signore e recitava qualche preghiera a Maria SS. Mentre essendo in Torino confessavasi regolarmente ogni otto giorni, durante queste sue peregrinazioni umiliavasi più di sovente al tribunale di penitenza. Benchè non patisse di scrupoli, pure non poteva soffrire in sè la più piccola imperfezione, e quindi s'imponeva uno studio di piacere a Dio anche nelle minime cose. Ed è perciò che le sue fatiche erano sempre ricompensate con frutti copiosi.

                Aveva egli inoltre il raro merito di un grande abituale spirito di sacrifizio. Poche, e per brevi tratti, essendo in questi, anni costrutte le prime ferrovie, si doveva viaggiare in vettura o nella così detta diligenza; ed egli pel dondolamento del legno pativa immensamente di stomaco, e pure non passava quasi settimana senza che si assoggettasse a questo tormento. Secondo il suo costume, avrebbe voluto continuare viaggiando a scrivere o correggere i suoi opuscoli, senonchè il male sovente impedivalo, Saliva allora accanto al vetturino, ma ogni scossa gli produceva un continuo eccitamento al vomito. Il vetturino ne era preso da compassione: - Povero prete, esclamava spesso, se potessi in qualche modo aiutarlo! - E giunto ad una stazione, procuravagli qualche bibita offerta di gran cuore, che poi era cagione di peggiori conseguenze. Molte volte si percorreva a piedi un lungo e faticoso, tratto di via, ma non sempre ciò permettevano le distanze da luogo a luogo.

                Giunto al campo delle sue fatiche, accolto festosamente dai parroci, presentavasi qual modello di sacerdote a coloro [64] i quali coabitavano nella casa parrocchiale. Era osservato con attenzione e di continuo, e più d'uno di coloro che gli furono compagni dissero a noi: - Vigilava talmente sovra ogni sua parola ed azione che per mancar meno di lui bisognava non essere uomini.

                Infatti nulla aveva mai a dire per la stanza, talora incomoda che gli era destinata, e per il cibo che gli apprestavano a mensa. Pareva non sentisse il rigore delle' stagioni, benchè talvolta l'abitazione o la chiesa fosse male riparata. Manifestava una mortificazione a tutta prova nel sostenere la prolissità delle udienze, delle confessioni o delle funzioni sacre. La sua umile pazienza era invincibile nel sopportare le contraddizioni, le mancanze di riguardi e la rusticità delle persone colle quali aveva a trattare. Indifferente in tutto che riguardava la sua persona, nulla esigeva più di quello che gli fosse dato, nulla pretendeva, accettando qualunque sito, tempo, che gli fosse assegnato; cedeva umilmente un impiego un posto più onorifico eziandio a chi a lui era inferiore per dignità o per anni, e se il demonio muoveva ostacoli al suo ministero, con una perfetta confidenza in Dio continuava calmo ed imperterrito, e non cedeva.

                Sul pulpito, con un zelo senza amarezza e mai violento, ispirava una viva confidenza nei suoi uditori, ma, senza lusingarli, tutta intiera diceva la verità. In tempo di esercizii e di missioni non perdevasi in discussioni inutili. L' importanza della salvezza dell'anima, il fine dell'uomo, la brevità della vita e l'incertezza dell'ora della morte, l'enormità del peccato e le conseguenze funeste che trae seco, l' impenitenza finale, il perdono delle ingiurie, la restituzione dei maltolto, la falsa vergogna nel confessarsi, l'intemperanza, la bestemmia, il buon uso della povertà e delle afflizioni, la santificazione delle Domeniche e delle feste, la necessità e il [65] modo di pregare, di frequentare i Sacramenti, di assistere al sacrifizio della Messa, l'imitazione di N. S. Gesù Cristo, la divozione verso la SS. Vergine, la felicità della perseveranza, erano i suoi argomenti ordinarii. I titoli di queste prediche li abbiamo tolti da alcuni dei molti suoi autografi, che i suoi vecchi amici e condiscepoli, i quali li possedevano, a noi li consegnarono nel 1900 acciocchè non andassero perduti.

                Siccome predicavasi di buon mattino, e alla sera dopo il tramonto del sole, acciocchè i contadini e gli operai potessero occuparsi lungo il giorno nei loro lavori, D. Bosco, quando avea terminato di ascoltare le confessioni, usciva per paese.

                Andava ad ossequiare le autorità municipali, a visitare e consolare gli ammalati, a mettere pace nelle famiglie ove sapeva esservi dissensioni, a conciliare con buone maniere coloro che l'interesse aveva fatti nemici. Mostrava gran rispetto ai vecchi e dimestichezza coi servitori e coi poverelli. Usando ogni mezzo per trarre la gente a predica, recavasi perfino nelle botteghe e nelle case per invitare i padroni ed i garzoni a venire in chiesa, e costoro si arrendevano facilmente a' suoi inviti. Folle immense accorrevano ad ascoltarlo, e i fanciulli stessi che facilmente si annoiano de' serii ragionamenti, erano avidi di udire la sua parola. E a questi, allorchè era invitato, si prestava volentieri a fare il catechismo, e se li rendeva tanto amici, che ogni volta che potevano si stringevano intorno a lui e non sapevano distaccarsene; e più d'uno fu visto piangere quando D. Bosco lasciava il paese.

                Nè meno tenera e profonda era la riconoscenza degli adulti al giungere del momento di congedarsi da un prete che con tanto affetto loro aveva ridonata la pace del cuore la grazia di Dio, la speranza fondata del paradiso, la gioia nelle famiglie e la carità nel paese verso i poveri e le opere [66] di religione. In queste sue peregrinazioni apostoliche egli diffuse in tutto il Piemonte la pratica devota dei tre gloria Patri da recitarsi dopo l'Angelus.

                Abbiamo detto che D. Bosco dal pulpito non amava disputare; tuttavia sapeva da pari suo sostenere la causa della religione quando vi era costretto dalle circostanze del luogo o dall'invito di un Superiore Ecclesiastico. A Quassolo sopra Ivrea avevano fissata la loro dimora alcune persone, che i paesani, per la poco cristiana condotta, indicavano coll'epiteto di protestanti. Noncuranti delle leggi ecclesiastiche, erano d'imbarazzo al parroco, D. Giacoletti Giacomo, per lo scandalo che ne poteva derivare alla popolazione, mentre coi discorsi spargevano errori gravi contro le verità della fede. I settarii qua e là in varii paesi contavano già i loro adepti Mons. Luigi Moreno pensò adunque di scrivere a D. Bosco, perchè venisse a Quassolo per dettare una sacra Missione. D. Bosco annuì: la fama del suo nome lo precedette e al suo comparire gli oppositori si ritirarono. D. Bosco nelle prediche della sera prese ad esporre il catechismo, intrattenendosi specialmente a spiegare e provare quei punti sui quali l'errore aveva tentato spargere il veleno de' suoi dubbii e delle sue negazioni. Egli però, umile e prudente, non uscì in invettive, non fece allusioni odiose, cercando solamente che i semplici restassero convinti della verità in modo che nessuno potesse ingannarti. Gli avversarii, sorpresi di questa sua mitezza d'animo, ritornarono in paese, ma nulla osarono dire o fare contro chi li combatteva trionfalmente, applaudito da tutti i terrazzani. Il suo dire era di tanta unzione e di tanta persuasione, che trasfondeva agli uditori la propria fede

                Realmente era infaticabile. Basti un esempio. Ad Ivrea dava gli esercizii spirituali al popolo, nella parrocchia di S. Salvatore, facendo quattro prediche al giorno. Nello stesso [67] tempo fu invitato a farne due nel Seminario ai chierici; ed egli accettò. Intanto venne ammalato il predicatore che in que' giorni dettava gli esercizii nel Collegio Civico ai convittori ed egli pregato di supplirlo, andò, predicando eziandio qui due volte al giorno. Erano quindi otto prediche al giorno, e nel tempo rimanente e gran parte della notte tutti lo volevano per confessarsi.

                Quando rientrava in casa, quasi contraffatto per la stanchezza, sua madre rimproveravalo amorosamente di quegli strapazzi eccessivi; ma egli rispondevale sempre: - In paradiso avrò tempo per riposarmi.

                Le sue predicazioni continuarono fino al 1860, anno nel quale essendo la sua presenza necessaria all'Oratorio, per il cresciuto numero dei giovani ricoverati, dovette diminuire a poco a poco le sue assenze dalla casa. Verso il 1865 più non partiva che per fare qualche triduo, panegirico, predica o conferenza.

                Chi legge sarà curioso di conoscere qualche fatto riguardante questo periodo di vita del nostro D. Bosco, per farsi un'idea della potenza della sua parola: ed eccoci a soddisfarlo.

                Tra l'anno 1850 e il 1855 era andato a Strambino il giorno dell'Assunta. Nei paesi vicini saputosi che predicava D. Bosco, vi fu un'affluenza straordinaria di popolo. Quando venne l'ora di salire, in pulpito, benchè la chiesa fosse piena e zeppa, pure gran parte degli accorsi rimaneva fuori. Fu d'uopo pertanto predicare in piazza, ove si eresse in tutta fretta una specie di palco. Il sole batteva con forza sulle teste, scoperte; eppure tutti stavano così attenti, che non si muovevano punto, e neppure coi fazzoletti si tergevano il sudore che si vedeva scorrere a rivoletti sui loro volti. La predica durò un'ora sana. [68] Molte persone però non erano arrivate in tempo per udirlo, ed espressero il desiderio che il domani facesse il panegirico di S. Rocco. Questa festa celebravasi in una cappella, un po' fuori del paese, in mezzo ai campi ed ai prati. Il parroco, D. Comola Gaudenzio vicario foraneo invitò adunque D. Bosco in nome della popolazione, e D. Bosco volentieri accondiscese. La dimane sebbene giorno di lavoro, convennero più migliaia di persone nella spianata innanzi alla cappella, vicino alla cui porta all'aria aperta era collocato il pulpito. Ma appena D. Bosco ebbe proferite le prime parole, il cielo, che da molte settimane era stato sereno, anzi di fuoco incominciò a rannuvolarsi, a lampeggiare e tuonare che parea un finimondo, ed in un istante cadde tal rovescio torrenziale di acqua, che era un diluvio. Quei contadini osservavano, se D. Bosco discendesse per andare al coperto, ma visto che non si muoveva, neppur essi si mossero. Il predicato sostò un istante, e passato il temporale, che non durava lungamente, continuò come se nulla fosse stato. Nè l'attenzione del popolo fu sminuita da quel contrattempo, che anzi più e più crebbe, perchè tutti, nel colmo della gioia, ringraziavano il Signore, per l'abbondanza di pioggia mandata in tempo cotanto opportuno. Infatti le campagne erano fino a quel punto arse da un'ostinata siccità, la quale per ottenere che cessasse, eransi fatte molte preghiere e processioni di penitenza. Quindi poco mancò che il popolo non gridasse al miracolo.

                Altra volta era invitato a fare il discorso in lode di S. Anna in Villafalletto, diocesi di Fossano. Essendosi sparsa la voce che veniva D. Bosco, si radunò una calca così grande, che la moltitudine rimasta fuori di chiesa era dieci volte più numerosa di quella che si pigiava in chiesa. I maggiorenti avrebbero voluto contentare il popolo. Gli uni dicevano [69]

                - Bisognerebbe predicare in piazza. - In piazza no; dicevano gli altri: fa troppo caldo, e si resterebbe in ogni parte sotto il sollione; andiamo nel prato.

                Detto, fatto. Improvvisarono un pulpito all'apostolica in un prato, al quale facevano ombra alberi altissimi e quivi si recarono le confraternite in divisa, e gli altri a migliaia. D. Bosco incomincia la predica, ma la voce era dispersa dall'aria e si perdeva tra le foglie ed il bisbiglio della moltitudine. Benchè gridasse a tutta possa non poteva essere udito neppure dalla metà dei fedeli. Allora una voce stentorea si leva tra la folla: - È impossibile udir la predica; andiamo in piazza; si sentirà meglio. - Tutti i lontani allora, come un sol uomo: - In piazza, in piazza. - I più vicini al pulpito si opponevano alla proposta. Fu una scena difficile a descriversi. Gli uni gridavano, si, gli altri urlavano, no; chi va, chi viene. Questi guardano ciò che il predicatore sta per fare; quelli gli si avvicinano a persuaderlo a discendere, e quasi lo spingono perchè si muova. Il predicatore discende, e i confratelli detti i Battuti si prendono in ispalla quella specie di pulpito e lo portano come in processione fino alla piazza. La moltitudine lo circonda e fa tal massa compatta che per gridare che si gridasse - Fate luogo, fate luogo il predicatore non poteva assolutamente avanzarsi. Finalmente come a Dio piacque D. Bosco giunse presso il pulpito. Ma qui alla prima succede altra scena. Nel trasporto si erano rotti i gradini del pulpito, il quale era abbastanza alto da non potervisi salire senza questi. I più vicini sciolgono ogni difficoltà. Chi fa scala a D. Bosco colle mani, chi con le spalle, chi lo spinge in su, chi lo tiene saldo perchè non precipiti. Ed eccolo sul pulpito. Il bisbiglio continuava tale, che D. Bosco non potea essere udito che dai più vicini. Allora egli gridò: - Ma se desiderate che io predichi [70], fate tutti silenzio. - Fu quella una parola magica. In meno di un minuto non si sentì più un zitto. Si era al 26 di luglio, tutti avevano il capo scoperto, il sole batteva sulle loro teste tanto cocente, che sembrava dovesse abbrustolirlo. Eppure, sebbene quella non fosse una delle prediche più brevi, non si vide un solo a mostrarsi stanco, o far atto d'impazienza. Finite le funzioni, non cessavano di encomiare le magnifiche cose esposte da D. Bosco. Il parroco teologo ed avvocato Mandillo Giovanni ricordava sempre con amore la visita di D. Bosco.

                Prova ancora dell'incanto che D. Bosco esercitava sulle moltitudini fu il suo panegirico di S. Candido e di San Severo nella parrocchiale di Lagnasco, diocesi di Saluzzo, presso Savigliano. Era giunto tardi, e per la premura non aveva ancora pranzato. Il popolo in chiesa attendeva l'oratore essendo finito il vespro. Il parroco già aveva indossato il roccetto per salire egli stesso in pulpito, quand'ecco D. Bosco entrare in sagrestia. Senz'altro indugio, benchè sfinito dal digiuno, incomincia la predica. Avea già parlato per un'ora del solo S. Candido, ma vedendo il tempo trascorso disse esservi ancora la seconda parte del sermone riguardante S. Severo, ma che a quel punto finiva la predica per non stancare l'uditorio. Il popolo ad una voce gli gridò che continuasse. D. Bosco riflettè un istante; il parroco teologo Giuseppe Eaudi dall'altar maggiore gli disse con tono solenne di voce: Vox populi, vox Dei! E D. Bosco continuò per un'altra buona ora rimanendo tutti stupiti e in gran diletto nell'averlo udito.

                Era un diletto che lasciava sempre nei cuori una salutare impressione, poichè qualunque fosse il suo uditorio, presenti eziandio Vescovi, dotti sacerdoti, nobili, scienziati, qualunque argomento trattasse, l'idea dominante, era quella della [71] necessità di salvar l'anima. Anzi più di una volta, contro l'aspettazione di tutti, in feste solennissime, invece di tessere le lodi del Santo Titolare della chiesa, finito l'esordio, svolgeva alcuni punti sui novissimi oppure su qualche comandamento della legge di Dio.

                Un giorno fu invitato a predicare alle religiose di un illustre monastero. Era la festa di una Santa martire loro principale Patrona. Sapendo come possedesse bene la storia ecclesiastica, speravano che descrivesse la loro Santa sotto qualche aspetto nuovo o facesse risaltare circostanze da esse non ancor conosciute di sua vita, e con riflessioni ascetiche e mistiche che dessero prova della sua scienza.

                Invece tutto all'opposto D. Bosco, essendo la chiesa piena eziandio di cospicui signori e di nobili dame, incominciò a dire che da tanti anni, anzi da più di un secolo, i sacri oratori in quel giorno e in quel luogo avevano sempre narrata la vita e fatto gli elogi di quella Santa martire: quindi chiedeva a se stesso qual vantaggio poteasi ricavare dal ripetere fatti che tutti sapevano. Poscia domandando licenza alla Santa martire, l'interrogava se non sarebbe stato conveniente cambiare, almeno per la varietà, il tema della predica per quell'anno; e senz'altro fissò la proposizione che voleva dimostrare, cioè: “Tendere alla perfezione e salvar l'anima per mezzo delle confessioni ben fatte”. Pensate voi come rimase l'udienza!

                D. Bosco parlò così per umiltà, oppure fu spinto da lume superiore a trattare quell'argomento? Comunque sia uno fu sempre il fine delle sue predicazioni: conquistare anime al signore.

 

 

 

CAPO VII. D. Bosco e il Sacramento della Penitenza - Il continuo concorso dei fedeli - Ogni parola di D. Bosco è un invito a salvare l'anima per mezzo della Confessione - Sua mirabile franchezza a Porta Nuova, in Piazza Castello, in Piazza d'armi e altrove nel ricondurre a Dio i peccatori - Gli inquilini della tettoia Visca - Ricca messe di anime fra i vetturali.

 

                GESU' CRISTO ha detto agli Apostoli: “Venite dietro a me e vi farò diventare pescatori di uomini”[6]. E D. Bosco era tutto compreso della dignità e del merito di questa vocazione. Abituale per lui il prorompere in sante aspirazioni che manifestavano un desiderio ardente di conseguire la beatitudine eterna per sè e per quanto gli fosse stato possibile, per tutti gli uomini. Egli aveva fatta sua la sentenza di S. Giovanni Battista de' Rossi, soprannominato in Roma il cacciatore delle anime: “La strada più corta del Paradiso che io ho conosciuta è quella del confessare, essendo un bene grandissimo quello che ne ricava per sè un confessore”. Perciò D. Bosco predicava per poter poi confessare pregava e faceva pregare [73] per i poveri peccatori, ordinando che tutti i suoi giovani recitassero ogni giorno una Salve Regina per la loro, conversione.

                Ed il tribunale di penitenza fu per lui luogo di riposo e di delizia, e non di fatica.

                Infatti non intermise mai questo sacro ministero cui destinava d'ordinario due o tre ore al giorno, e talvolta in occasioni speciali gli accadeva di impiegarvi giorni intieri e talvolta eziandio le intere notti. Neppur durante le sue infermità cessava dal confessare. Varie chiese in Torino furono il campo, nel quale esercitò l'inesauribile suo zelo. Nelle tante sue predicazioni nei varii paesi e città del Piemonte, colla sua scienza e dolcezza, colla sua prudente perspicacia, coi doni soprannaturali dei quali la gente dicevalo fornito, attraeva a sè le moltitudini. Anche dalle prime ore del giorno e poi fino a notte avanzata stava in que' giorni ad ascoltare una folla di penitenti senza fine; e ciò per anni ed anni dal 1844 fino al 1865. Il suo nome suonava presso tutti quelli che lo conobbero come sinonimo di confessione. Quindi era continuo l'accorrere a lui di persone che volevano riconciliarsi con Dio, in qualunque luogo ei si recasse, ancorchè non salisse il pulpito; e specialmente di quelle che, essendo per cadere nel baratro della disperazione, avevano più bisogno della sua carità sacerdotale. Molti venivano in Valdocco. Quante volte, ci narrava D. Francesco Dalmazzo, mi fu detto e ho veduto io stesso, a tarda ora arrivavano nell'Oratorio uomini oscuri in volto, che avendo udito a parlare della santità di D. Bosco, venivano a' suoi piedi per confessare i loro peccati. Bene spesso entravano sfiduciati di ottenere il perdono e poi si vedevano uscire dalla stanza dell'uomo di Dio, col volto raggiante di gioia e il cuore pieno di consolazione. E D. Bosco li aveva invitati a [74] ritornare spesso, assicurandoli che Dio nella sua infinita misericordia aveva cancellate tutte le loro colpe.

                Queste visite erano causa di gaudio ineffabile a D. Bosco, tanto più che egli preoccupavasi con perenne sollecitudine

                della salute eterna di quanti incontrava sulla sua via, ed eziandio di coloro che prima non aveva mai conosciuti. Non riusciva a parlar di altro che di cose spirituali e aveva grandissima facilità nell'introdurre questi discorsi in qualunque occasione, suggerendo pensieri efficaci per il conforto dei buoni e per la conversione dei peccatori. Questi non solo attendeva, accogliendoli con festa, ma spesso ne andava in traccia, e li sollecitava, ora con un consiglio, ora con un invito, ora con una parola alla sfuggita ma penetrante, ad assestare le cose della coscienza. Era in questo di una sorprendente franchezza: - Avete fatto Pasqua? Come stiamo in quanto alle cose dell'anima? Quanto tempo è che non vi siete confessato? - Queste e consimili uscite dirette o indirette, adattate però alle varie specie di persone con cui trattava, erano sempre sulle sue labbra. Noi l'abbiamo udito far domande od insinuazioni di questo genere non solo ad uomini del volgo, a negozianti, a letterati, a nobili signori, ma ancora a principi, a duchi, a senatori, a deputati, a generali d'esercito, a ministri di Stato, e ad altri potenti personaggi noti per opinioni, scritti ed opere contrarie alla Chiesa; ed abbiamo sempre constatato, con grande meraviglia, come nessuno siasi mai offeso per questa sua apostolica libertà, che andava però sempre del pari ad una squisita gentilezza di modi, ad una protesta di stima e riverenza, ad una espressione di sentito affetto e talora ad una opportuna e spiritosa facezia. D. Bosco più tardi era solito a dire a' suoi Salesiani: - Un prete è sempre prete, e tale deve manifestarsi in ogni sua parola. Ora esser prete vuol dire aver per [75] obbligo, continuamente di mira il grande interesse di Dio, cioè la salute delle anime. Un sacerdote non deve mai permettere che chiunque si avvicini a lui ne parta senza aver udita una parola, che manifesti il desiderio della salute eterna della sua anima.

                E D. Bosco riusciva all'intento con grande abilità e frutto. Conversando, sapeva bellamente investigare lo stato morale di certe persone, qualunque ne fosse la condizione, il grado o sapere, persone le quali ordinariamente hanno poco tempo e poca volontà di accostarsi ai SS. Sacramenti. Quindi colla sua amabilità le andava disponendo in modo, che quasi senza avvedersene svelavano le loro interne miserie e così gli davano il destro di essere ricondotti con facilità sul buon sentiero. Incontrando facchini, operai od altri che abitualmente con bestemmie e turpiloqui o imprecazioni offendevano il Signore, egli sapeva loro accostarsi e colla sua gran dolcezza a poco a poco li induceva a dichiararsi in colpa e ben sovente ancora a confessarsi da lui stesso. Citiamo i fatti.

                Verso il 1847, così narra un signore di Cambiano, D. Bosco un mattino camminava fuori di Porta Nuova fra mucchi di rottami,

                fossi, terreni sterili, che poi scomparvero quando venne fabbricato il Borgo Nuovo. Ritornava dalla parrocchia della Crocetta. Ivi si incontrò con quattro giovani dai 22 ai 26 anni, dalle faccie tutt'altro che piacevoli. Questi lo fermarono con finta affabilità e gli dissero: - Ascolti, di grazia, signor abate: costui dice che io ho torto ed io dico che ho ragione: decida dunque Lei chi ha torto e chi ha ragione. - D. Bosco dato uno sguardo attorno e non vedendo nessun altro cittadino comparire in quel deserto quantunque si fosse già a due ore di sole, temette qualche affronto. Quindi si raccomandò a Dio, mentre or questo or quello, raccontando di strane fanfaluche, e senza mai esporre qual fosse [76] la questione da giudicarsi, ripeteva insistendo: - Decida adunque chi ha ragione e chi ha torto.

                D. Bosco, vedendo che lo avevano preso per loro zimbello, pensò: Qui bisogna giuocare d'astuzia per cavarsela liscia; e disse loro: - Sentano signori; qui su due piedi non posso decidere: andiamo tutti a prendere una tazza di caffè al San Carlo e colà io deciderò. - D. Bosco pensava: Purchè possa entrare in Torino, e allora non avrò più timore di nulla.

                A quell'invito uno disse: - Lo paga Lei?

                - Certo che pago io, perchè sono io che faccio l'invito.

                - Bene! andiamo! - E si incamminarono verso le abitazioni, discorrendo come se fossero antichi amici. Giunti vicino alla chiesa di S. Carlo, D. Bosco prese a dire: - Sentano, signori: io promisi di pagar loro una tazza di caffè e sono di parola e la pago; ma io prete voglio pagarla da prete; entriamo perciò primi qui in chiesa a dire una sola Ave Maria.

                - Ah cerca delle scuse Lei! per....

                - No, non cerco scuse; la pago, ma voglio prima che, diciamo una sola Ave Maria.

                - E poi tirerà fuori il rosario....

                - Se dico una sola Ave Maria....

                - Ebbene, andiamo.

                Entrarono, s'inginocchiarono, e recitata quella preghiera, D. Bosco disse: - Orsù andiamo. - Furono al caffè, tutti bevettero la loro tazza. D. Bosco pagò, e uscito dalla bottega fece loro un altro invito. - Giacchè ebbi il piacere di far la conoscenza di loro signori, ora voglio che vengano a prendere un rinfresco in casa mia.

                Accettarono, e D. Bosco, condottili in Valdocco, siccome era già entrato in famigliarità con loro, prese a dire: - Mi dicano un po' in confidenza: quanto tempo è che non si sono [77] confessati? E colla vita che fanno, se la morte li sorprendesse in questo stato, che ne sarebbe di loro?

                Si guardarono l'un l'altro in viso, e poi guardavano Don Bosco che continuava il suo predicozzo. Uno di quelli finalmente esclamò:

                - Se trovassimo un prete come Lei, oh! sì che andremmo a confessarci, ma .....

                - In quanto a questo io ci sono.

                - Ma ora non siamo preparati.

                - Ci penserò io a prepararli. E presone uno per mano e trattolo verso un inginocchiatoio: Qui, qui, gli disse; non tante chiacchere cogli amici, e intanto loro tre si preparino che io sono qui per tutti.

                Così tre di loro si confessarono con sentimenti di vera compunzione, mentre il quarto non si piegò, dicendo che pel momento non si sentiva disposto. Quando partirono promisero tutti e quattro a D. Bosco che sarebbero ritornati a visitarlo. Un Ave Maria recitata da D. Bosco produceva sempre effetti sorprendenti.

                Altra volta a notte fatta venendo egli dai portici di Po, verso piazza Castello, gli si avvicinò uno sconosciuto, il quale senz'altro gli chiese danari. D. Bosco lo intrattenne con le sue amabili maniere, gli trasse di bocca ogni segreto, gli fece vedere la conseguenza della sua vita cattiva; poi sedutosi sopra il parapetto del fosso dietro al palazzo Madama, luogo, in quei tempi piuttosto solitario e oscuro perchè rari vi erano i lampioni, confessò quell'amico di un'ora, inginocchiato al suo fianco. Il canonico Borzarelli, zio del canonico Antonio Nasi, in quel mentre traversava l'immensa piazza e gli cadde sott'occhi quello spettacolo strano in un luogo pubblico. Egli per l'oscurità non riconosceva D. Bosco, ed avvicinatosi ad alcuni i quali da lontano osservavano pure il fatto, chiese chi fosse quel prete. Gli fu risposto: - È D. Bosco! - Il [78] canonico aspettò che D. Bosco finisse, e quando quel tale si allontanò, accostatosi al buon sacerdote, lo accompagnò all'Oratorio e finchè visse restò suo benefattore ed amico.

                Avvenne pure che, trovatosi un giorno D. Bosco in piazza d'armi, s'incontrasse in varii farabutti, uomini già d'età matura, i quali, non essendovi in quell'ora altra gente che vedesse, tolsero ad insultarlo apertamente. D. Bosco con aria gioviale prese a discorrere con loro. Ammansati dalle sue parole e riconoscendo il loro torto, alcuni se ne partirono per le loro faccende. Rimasero solo due, uno dei quali, arrabbiato con D. Bosco stesso ed eccitatore di quella scena disgustosa, voleva farsi dar ragione di non so che. Costui però finì per stancarsi, sorpreso dalla calma del prete, e si allontanò. Quell'unico rimasto continuava ad inveire contro i sacerdoti ed i religiosi, e a dirne ogni peggior male.

                - Veda, lo interruppe D. Bosco, Ella parla male dei preti, e perciò di me che pure sono suo amico; ma questo è solo perchè non mi conosce; se mi conoscesse, parlerebbe in modo diverso.

                Quel tale, stupito, squadrava bene D. Bosco da capo a piedi per ricordarsi se realmente e quando già si fosse in lui incontrato; e D. Bosco proseguiva: - Io sono uno de' suoi più grandi amici; ed ha una prova del mio affetto perchè, mentre Ella mi rimprovera, io non mi offendo, e se potessi farle qualunque servizio, glielo farei volentieri, e immediatamente. Così potessi colmarla come vorrei di ogni felicità e in questa terra e nell'altra vita.

                Questo discorso condusse quel povero uomo a parlare con moderazione, e D. Bosco venne a dirgli schietto: Creda pure, mio signore, che la felicità non si trova in questo mondo, se non si ha la pace con Dio; se Ella è così malcontenta ed arrabbiata, è perchè non pensa guari alla [79] salute dell'anima sua. Se la morte venisse a colpirla in questo istante, certo che non ne sarebbe contenta.

                L'amico si fece prima pensieroso e poi commosso. Don Bosco di parola in parola lo persuase ad andarsi a confessare, essendo che da molto tempo non aveva più saldate le partite di sua coscienza. Temendo però che quella buona disposizione fosse fuoco di paglia e che appena lontano non eseguisse più l'attuale proponimento, lo invitò a confessarsi subito.

                - Son pronto, rispose, ma dove? Qui, in questo stesso luogo.

                - Ma si può?

                - Certo che si può

                Parlando, aveano continuato a camminare, e benchè sempre in piazza d'armi erano giunti ove non eravi persona e varii alberi servivano loro di schermo. Ivi D. Dosco confessò quel poveretto che poi fuori di sè dalla contentezza, non sapea più staccarsi da chi aveagli procurata la pace del cuore.

                Altri fatti gli occorsero di simil genere che sarebbe soverchio qui addurre. Anche un buon signore confidava a noi aver egli fatta la sua confessione a D. Bosco vicino alle torri presso la piazza Emanuele Filiberto.

                In quei primi anni dell'Oratorio, lungo la via della Giardiniera, eravi, come abbiamo già detto, una vasta tettoia dei signori Filippi appigionata all'appaltatore Visca, ove si ritiravano i carri del Municipio. Quivi, oltre i carrettieri, andava a rifugiarsi alla sera una poveraglia di ogni specie, ubbriaconi, bestemmiatori; e sovente all'aria aperta nella mite stagione, ballonzolavano sguaiatamente. Erano vicini che non ispiravano troppa fiducia.

                Un giorno Mamma Margherita stava sulla loggia ripulendo una veste nuova del figlio e dopo averla stesa [80] sulla ringhiera di legno, si ritirava nella stanza per brevi momenti. Quella loggia era poco alta da terra e Margherita ritornando trova che la veste non c'è più. Era stata rubata. La buona donna va in cerca di D. Bosco, e si lamenta con lui di quella cattiva sorpresa fattale: Senz'altro dicevagli, è qualcuno di coloro che stanno oziando in quella tettoia

                - E con questo?

                - Bisognerebbe andar là per ricuperare ciò che mi fu tolto.

                - Solo per questo volete esporvi forse ad una brutta figura?

                - E ti lascieresti portar via una veste nuova, la sola che hai?

                - Che cosa volete farci?

                - Sempre lo stesso tu! Di nulla t'importa.

                - Lasciate un po' andare queste melanconie. Non inquietatevi. La persona che ha presa quella veste ne aveva forse più bisogno di me. Per parte mia, guardate, se chi me l'ha rubata venisse a confessarsi da me, io mi accerterei del suo fermo proponimento di non rubare mai più e poi gli regalerei la veste, e gli darci l'assoluzione in lungo e in largo.

                E realmente sotto quella tettoia erasi acquistati molti amici. Nel tempo pasquale per varii anni soleva recarsi tra quella ciurmaglia e colle sue caritatevoli maniere invitarla a confessarsi: - Venite, miei cari, diceva loro; venite quando vi piace, a qualunque ora vi comodi di mattina, di sera, ad ora tarda, anche tardissima, ed io sarò sempre pronto ad Ascoltarvi. Non prendetevi soggezione di me; siamo amici, e cogli amici si trattano le cose con tutta confidenza. Anzi guardate, vi preparerò alcune buone bottiglie, e aggiustatele cose dell'anima, berremo una volta alla nostra salute. [81] E numerosi accorrevano quei poveretti con fine sincero, e trovarono sempre buona accoglienza. Finite le confessioni Mamma Margherita doveva dare fondo alle sue provviste di vino, poichè ce ne voleva a togliere la sete a quella brava gente. D. Bosco però era contento, perchè egli sapeva colle sue efficaci parole come accendere facilmente in simili cuori, anche nei più insensibili, un po' d'amor di Dio. Fu questo un dono speciale di cui avevalo il Signore favorito. In qualunque luogo si recasse D. Bosco, succedevano fatti di vario genere, che gli porgevano occasione di confessare: nelle carrozze, nelle case private, negli alberghi, nei campi, nelle vie, e sempre con persone a ciò indotte dalle sue amorevoli esortazioni. Potremmo compilare un grosso volume col solo narrare questi aneddoti. Qui ci contenteremo di accennare come D. Bosco diportossi coi vetturini.

                Per questa classe di persone egli ebbe sempre un gran riguardo, dovendo per i suoi viaggi servirsi di vetture pubbliche. Terminata la corsa, dava sempre al carrozziere qualche soldo di più oltre la pattuita mercede, dicendogli con buona grazia: - Questo è per voi. - A chi non sapeva darsi ragione della sua larghezza, diceva Io colgo l'occasione per fare un po' di elemosina a questa povera gente, e dir loro qualche buona parola di cui hanno tanto bisogno.

                Avveniva qualche volta che costoro si abusassero nel domandare la mercede, ed egli la dava sempre quale era domandata, perchè non avvenissero alterchi o bestemmie, e così non fosse oltraggiato il Signore. Anzi voleva che lo stesso facessero i suoi dipendenti. Di questa sua generosità fu testimonio per più di vent’anni D. Gioachino Berto suo segretario.

                D. Bosco adunque colla sua carità si faceva benvolere da tutti quegli uomini poco educati. Ne' suoi viaggi a Novara, [82] a Vercelli, a Casale, ad Asti, e in cento altre città e luoghi, studiavasi di avere un posto in cassetta col carrozziere e quindi aspettava il momento opportuno per guadagnare quell'anima. Il vetturino non tardava a lasciarsi sfuggire di bocca qualche bestemmia e allora D. Bosco, scherzando: - Che cosa avete detto! Son persuaso che proferite simili parole senza riflettere. Voi nel vostro cuore non siete cattivo. Si vede alla faccia che siete un bravo uomo.

                - Ha ragione, sa; rispondeva il vetturino: è un'abitudine che ho presa. Detesto questa maniera di parlare; ma quando non ci penso, son da capo. Specialmente quando sono con i preti, mi rincresce tanto che mi scappino queste parolaccie.

                - Dunque state attento a correggervi

                - Sì, sì, voglio proprio, sa; lo voglio! ripeteva. Ma dopo qualche tempo o per un intoppo, o per una bizzarria del cavallo, o per intercalare, ecco una nuova bestemmia. Don Bosco lo guardava; l'altro rimaneva confuso e ascoltava con attenzione ciò che il buon prete andava dicendogli sulla bontà e sui castighi di Dio, sull'importanza di emendarsi e salvar l'anima. Il ragionamento finiva sempre con un invito alla confessione. Quelle esortazioni erano così bene condotte, che i vetturini si arrendevano sempre. Molti si confessarono stando in cassetta e guidando il legno; altri mentre si faceva lo scambio dei cavalli, nelle stalle, nelle osterie, o nei dintorni.

                Un giorno D. Bosco andava a Carignano, e discorrendo col conduttore del calesse, fra le altre cose uscì a dirgli

                Credo che avrà già fatta la sua Pasqua!

                Il vetturino: - Non ancora; è già molto tempo che non sono più andato a confessarmi: mi confesserei però volontieri da quel prete dal quale ho fatta l'ultima mia confessione; se potessi incontrarlo! [83]

                Costui erasi confessato da D. Bosco trovandosi nelle carceri di Torino, ma in quel momento non lo aveva riconosciuto; mentre anche D. Bosco più non ricordavasi d'averlo visto. D. Bosco continuò ad interrogarlo: - E chi prete dal quale sareste contento di confessarvi? - D. Bosco! Non so se Lei lo conosca. - Se lo conosco! Io sono D. Bosco!

                Il vetturino lo fissò, richiamò le sue rimembranze, lo riconobbe e pieno di contentezza esclamò: - Ma come fare adesso a confessarmi?

                - Lasciate a me le briglie del cavallo e mettetevi in ginocchio: - gli disse D. Bosco.

                Il vetturino ubbidì all'istante e mentre il cavallo lentamente procedeva, si confessò. D. Chiatellino narravaci questo fatto, accaduto come la maggior parte dei già esposti, prima del 1850.

                D. Bosco stesso ci raccontò quest'altro fatto: “Veniva da Ivrea a Torino in omnibus, non essendo allora ancora stata costrutta la ferrovia, e sentii che il cocchiere ogniqualvolta sferzava i cavalli, pronunciava una o due bestemmie. Io allora lo pregai di lasciarmi salir con lui in cassetta. Egli di buon grado accondiscese, e mi sedei al suo fianco. Quindi gli dissi: - Vorrei da voi un piacere …… - Egli m'interruppe dicendo: - Vuole arrivar presto a Torino? Bene! -

                E qui si mise a sferzare con tutta lena i cavalli ed alle sferzate frammischiava bestemmie.

                - Non è questo che voglio, io ripresi; poco m' importa d'arrivare a Torino un quarto d'ora prima o un quarto d'ora dopo. Quello che io voglio, è questo: che non bestemmiate più. Me lo promettete?

                - Oh, se è solamente questo, stia pur sicuro che non bestemmierò più: e sono uomo di parola io! [84]

                - Ebbene, se ciò farete, che cosa volete per premio?

                - Niente, rispondeva colui; sono obbligato a non bestemmiare.

                lo insisteva, ed egli domandò la mancia di quattro soldi: io gliene promisi venti. E qui una sferzata ai cavalli ed una bestemmia. Io lo avvisai ed egli: - Oh! il bestione che sono io: ho perduta la testa.

                - Non vi rattristate per questo, io soggiunsi; guardate vi darò egualmente venti soldi: ma ogni volta che direte ancora una bestemmia, i venti soldi diminuiranno di quattro.

                Va bene, rispose egli; stia certo che li guadagnerò tutti.

                Dopo un bel tratto di via i cavalli rallentavano già il passo, ed il cocchiere sferza e giù una bestemmia Sedici soldi, amico mio, gli dissi.

                Ed il povero uomo si vergognava e diceva: - Davvero che le abitudini cattive non possono più togliersi. E così continuava a rammaricarsi borbottando.

                Dopo un altro pezzo di strada, una sferzata e due bestemmie.

                - Otto, amico mio; siamo ad otto soldi.

                - Possibile, gridava stizzito colui; possibile che siano così tenaci e dannose le male abitudini: lo sono avvilito. Possibile che io non sia più padrone di me stesso? E poi questo maledetto vizio mi ha fatto già perdere dodici soldi.

                - Ma, amico, non dovete rattristarvi per così poco, ma piuttosto pel male che vi fate all'anima.

                - Il suo nome?

                - Oh! sì, rispose egli; è vero, gran male faccio io; ma, sabato voglio andarmi a confessare. È qui di Torino Lei?

                Sì; sono dell'Oratorio di S. Francesco di Sales.

                Bene; voglio venirmi a confessare da Lei. Di grazia, il suo nome? [85]  - D. Bosco.

                - Va bene: ci rivedremo dunque ancora. - E viaggiando fino a Torino pronunciò ancora una bestemmia. Perciò io gli doveva soli quattro soldi, ma gliene feci accettare venti, allegando che lo sforzo di non bestemmiare l'aveva fatto. Licenziatici, io ritornai a casa, ed aspettandolo di sabato in sabato, eccolo finalmente venire nel quarto dopo quell'incontro. Lo vidi mescolarsi coi giovani, ma io subito non lo riconobbi le quando venne il suo turno mi disse: - Non mi conosce?: Sono quel tal cocchiere…… ha già inteso…..: e sappia che io, nei giorni scorsi, in un istante di innavvertenza, pronunciai il santo nome di Dio, ma poi non ho più bestemmiato. Mi son prefisso di stare a pane ed acqua ogni volta che avessi detto una bestemmia; e ci sono stato una volta sola e non, ci voglio più stare”.

                Parecchi di costoro raccontavano molti anni dopo a Don Michele Rua il bello e fortunato incontro avuto con D. Bosco, mostrando ancora la loro riconoscenza a chi avevali rimessi nella grazia di Dio.

 

 

CAPO VIII.
D. Bosco studia e scrive il REGOLAMENTO DELL' ORATORIO di S. Francesco di Sales per gli esterni - Scopo di questo Oratorio - Condizioni per l'accettazione dei giovani

 

                DON Bosco era sempre tutto intento a studiare il maggiore sviluppo ed il progresso dell'Oratorio. Nel convocare tanti giovanetti di varia indole, costumi, educazione, istruzione e stato sociale, non intendeva di agglomerare un'accozzaglia senza ordine e senza disciplina.

                Egli perciò non stancavasi di promuovere l'unità di spirito e di direzione. Quindi vedeva la necessità di fissare norme stabili che guidassero nell'amministrazione di questa parte del sacro ministero le persone di chiesa, le quali con caritatevole sollecitudine vi consacravano le loro fatiche. I giovani intanto, da lui scelti per aiutarlo, li andava educando in modo tutto speciale, e aveva loro minutamente prescritta la condotta che dovevano tenere nella chiesa, nella scuola e nella ricreazione, senza però mettere in carta quelle regole.

                Più volte vi si era provato, ma aveva sempre deposta la penna per varie difficoltà abbastanza gravi, cagionate dai diversi pareri de' suoi coadiutori, e dalle condizioni dei luoghi per i quali l'Oratorio era trasmigrato.

                Tuttavia da più anni aveva presa la sua decisione. Erasi fatto spedire molti regolamenti di Oratorii festivi più o meno antichi, fondati da uomini zelanti della gloria di Dio, i quali [87] fiorirono in varie città d'Italia Voleva esaminare ciò che altri aveva già imparato dall'esperienza. Noi fra le sue carte trovammo ancora: Le regole dell'Oratorio di S. Litigi eretto in Milano nel 1842 nella contrada di S. Cristina; e Le regole per i figliuoli dell'Oratorio sotto il patronato della Sacra Famiglia.

                Tutti questi regolamenti, però, compilati con vario scopo e metodo, imponevano a D. Bosco un'attenta meditazione, perchè potesse farsene un giusto concetto e giovarsene adattandoli al suo scopo. Gli uni erano stati scritti quando le famiglie cittadine almeno in generale, davano ai loro figli la prima istruzione cristiana, li sorvegliavano perchè non patisse danno l'innocenza dei loro costumi e li conducevano alla chiesa e ai sacramenti. Allora era facile il compito assegnato al Direttore dell'Oratorio. Bastava radunare i giovani in certe ore dei giorni festivi, trattenerli in onesta ricreazione, catechizzarli, dare in particolare consigli o riprensioni per raddrizzare le cattive tendenze, far crescere il buon seme che già era stato posto nei loro cuori. Ma nei tempi presenti non si trattava solo di coltivare, poichè in famiglia molti giovani di certe classi sociali più non ricevevano alcuna istruzione religiosa, e stavano lontani dalla chiesa, bisognava quindi prima risanare il loro cuore, svellere le male radici che il cattivo esempio, la corruzione precoce vi avevano fatto germogliare, e quindi seminare i germi della virtù. Anzi devesi aggiungere che molti di questi, perchè perseverassero nel bene, sarebbe stato assolutamente necessario toglierli dal guasto ambiente nel quale vivevano. Una mente sagace poteva eziandio facilmente prevedere come il male sarebbe andato ognora crescendo e in modo spaventoso.

                Adunque era necessario che l'Oratorio moderno popolare divenisse il campo di un vero apostolato, e quivi si adoperassero [88] tutti quei mezzi di santificazione istituti da N. S. Gesù Cristo e amministrati secondo lo spirito della Chiesa. Doveva surrogare la parrocchia con tutte le sue funzioni, come stabilisce il Concilio di Trento. Doveva essere la sede di un'autorità paterna, la quale rimediasse con tutte le sue forze alla negligenza dei genitori e che sapesse cattivarsi talmente l'animo dei fanciulli, da esercitare una vera influenza morale e continua sulla loro condotta.

                Vi erano Patronati che si avvicinavano agli ideali che vagheggiava D. Bosco. Vi si celebrava la Messa, si faceva il catechismo, si procuravano i confessori, si raccomandava la santa Comunione una volta al mese, si assistevano i ragazzi nelle ricreazioni. Ma l'Oratorio si chiudeva a mezzo mattino, e i giovanetti nel pomeriggio non avendo luogo ove raccogliersi, restavano abbandonati a se stessi. Perciò D. Bosco conoscendo che le insidie più gravi ai giovani, specialmente operai, erano tese nella sera, decideva che il suo Oratorio dovesse rimanere aperto l'intero giorno.

                Altri regolamenti di Oratorii festivi, quantunque procurassero tutti gli aiuti spirituali ai giovanetti e li raccogliessero nel dopo pranzo, non accettavano se non quelli che fossero di savia e provata condotta; quindi ordinavano che i parenti stessi li presentassero alla direzione, e se non si comportassero bene, fossero obbligati a ritirarli. Ma D. Bosco voleva che prendessero parte al suo Oratorio non solo i più ignoranti per istruirli, ma anche i giovanetti cattivi per convertirli, purchè non recassero scandalo ai buoni: questi desiderava servissero ai primi di modello e di eccitamento al ben fare. Quindi reputava inutile imporre condizioni di accettazione a chi bisognava talora fare quasi una caritatevole violenza morale per introdurlo al convito del Padre celeste; e non permetteva che fossero congedati quelli che [89] talora lasciavano di frequentare l'Oratorio per mesi e mesi, stimando una fortuna il loro ritorno, anche per poco tempo. Era eziandio evidentemente inutile chiedere guarentigie di buona condotta ad un'autorità paterna o materna, la quale, non solo poco o nulla s'interessava della sorte dei figli, ma su di essi non godeva alcun prestigio, e tavolta financo avversava le pratiche di chiesa.

                D. Bosco ebbe anche i programmi che riguardavano alcuni Oratorii destinati per i discoli che erano ricoverati in ospizii, e nei quali si radunavano eziandio giovani esterni di quella stessa classe. Ma non gli garbava il sistema disciplinare loro imposto, la sorveglianza quasi poliziesca, benchè forse necessaria, e la coercizione per obbligarli alla frequenza. Questo sistema non potea più sussistere per l'opinione pubblica che gli si mostrava contraria, e D. Bosco desiderava che i suoi alunni facessero il bene liberamente e per amore.

                Studiando tutti questi regolamenti prendeva note, modificando adattando, combinando secondo il suo punto di vista, e appigliandosi specialmente a quelli degli Oratorii di S. Filippo Neri in Roma, e di S. Carlo Borromeo in Milano fondato verso il 1820.

                Non fece però sue ed eliminò certe disposizioni che non gli parvero più adatte ai tempi e che avrebbero potuto respingere i giovani, piuttostochè allettarli ad intervenire. Nell'accettazione eccettuò solamente quelli di troppo tenera età o affetti da malattia contagiosa. In pratica trattandosi di insubordinazione, mise per principio una gran tolleranza e ai castighi sostituì l'ammonizione cordiale, insistente ed efficace. Allontanava dell'Oratorio solamente coloro che offendevano gravemente il Signore collo scandalo, e non ammetteva registri ufficiali, che notassero le mancanze dei colpevoli, o degli indifferenti nelle cose di pietà. In quanto alla frequenza [90] dei sacramenti lasciava la massima libertà; nessun obbligo di procurarsi il biglietto di confessione: nessun rimprovero per chi stesse molto tempo senza confessarsi. Nessuna divisione di classi per accedere al Santo Tribunale di, Penitenza: chi primo giunge, primo si confessa, e chi vuol ritirarsi non dà nell'occhio a nessuno. Lo stesso si dica della sacra mensa e nei giorni solenni la colezione è data egualmente a chi si è comunicato e a chi non ha ricevuto il sacramento. Stabilisce i libretti di frequenza, ma questi servono solamente ad attestare chi è degno di premio. Questa libertà però, governata dallo zelo prudente e dalle continue esortazioni di D. Bosco, doveva produrre mirabili effetti.

                D. Bosco adunque esaminati i Regolamenti che gli erano stati trasmessi aveva scritto le proprie osservazioni su di un foglio che ci servì di guida per compilare queste pagine. Sul principio pertanto del 1847, dopo di aver organizzatele scuole serali, in ossequio ai consigli di parecchie autorevoli persone, fra le quali l'Arcivescovo e D. Cafasso, egli si diede finalmente a distendere il suo regolamento e in capo a poche settimane lo ebbe finito. In esso espose quello che tradizionalmente già si praticava nell'Oratorio, designò varii uffizii da compiersi in chiesa, in ricreazione, e nelle scuole, e stabilì norme opportune per ciascuno dei medesimi. Questo, regolamento venne pubblicato verso il 1852 e poscia in edizioni posteriori, fu secondo i bisogni riveduto e perfezionato. Esso è diviso in tre parti. La prima tratta dello scopo degli Oratorii festivi, dei varii impieghi e rispettive regole; la seconda contiene le opere di pietà da praticarsi dai giovanetti e il modo onde questi devono portarsi in chiesa e fuori; la terza, che fu data alle stampe posteriormente, si occupa delle scuole diurne e serali e porge generali avvertenze ultimissime all'uopo. [91]

                Fin da questi anni parecchi Vescovi e parroci, essendone venuti in cognizione, fecero domanda per introdurre gli Oratorii nelle proprie diocesi e parrocchie e ordinarli collo stesso, metodo che il nostro, per quanto era loro possibile. Essi conoscevano la perizia di D. Bosco nell'educare cristianamente i figli del popolo, e ne avevano novella prova in questo Regolamento[7].

 

 

CAPO IX.
Il Regolamento dell'Oratorio festivo prelude alla pia Società di S. Francesco di Sales - Uffizii varii dei coadiutori di D. Bosco nell'assistenza degli alunni esterni - Esattezza de' giovani ai quali sono affidate le cariche inferiori - Difficoltà nell'avere sacerdoti per la direzione - Confronto tra il primo manoscritto delle regole e l'ultima edizione di queste - Incombenze degli uffiziali dell'Oratorio.

 

                A GIUDIZIO di persone autorevoli e Competenti non, sarà opera inutile esporre le Regole dettate da D. Bosco per l'Oratorio festivo e meditare le genuine idee della sua mente ordinatrice. Incominciando a svolgere il suo primo manoscritto dal quale, nel Capitolo precedente, abbiamo appreso qual fosse lo scopo, della sua opera e le condizioni fatte ai giovani per essere accettati nell'Oratorio, si presenta subito spontanea un'importantissima riflessione: cioè che il primario disegno, da D. Bosco, vagheggiato costantemente, e svolto con prudente lentezza, era di preparare le fondamenta alla pia Società di S. Francesco di Sales. Egli stesso svelò più volte tale sua intenzione. Infatti ai Sacerdoti superiori dell'Oratorio festivo dà i titoli corrispondenti agli uffizii, coi quali designerà poi i Superiori della sua Congregazione. Appella sempre coi nome di Rettore, quegli che tiene la direzione suprema, mutando questa [94] denominazione in quella di Direttore, quando diverrà secondaria l'autorità del Capo dell'Oratorio festivo, per averla egli trasmessa ad un suo rappresentante.

                In due articoli accenna alla perpetuità ed all'estensione dell'opera da lui fondata. Nella Parte I, Cap. I, art. 9, ove si parla del Rettore, sta scritto: Egli può nominarsi un successore, la qual nomina però deve essere di un Ecclesiastico ed approvato dal Vescovo. E per dare un fido appoggio al Rettore, nota nel Cap. 11, art. 6: Il Prefetto coadiuverà il Rettore in tutto quello che può e si adopererà per avere comune con liti lo spirito, comune lo scopo e lo zelo per la gloria di Dio. Questi articoli furono cancellati posteriormente al sorgere della Pia Società, ma rimane ancora l'art. 5: Il Prefetto compierà anche gli uffizii del Direttore spirituale nei paesi dove fosse penuria di Sacerdoti. Dunque ei prevedeva che i suoi Oratorii in avvenire si sarebbero fondati anche fuori della città di Torino. Stabiliva eziandio, come vedremo, che gli incaricati di alcuni uffizii fossero eletti, come in un Capitolo, a maggioranza di voti dagli impiegati dell'Oratorio stesso, e fin d'allora ordinava speciali suffragii, non solo alla morte di coloro che lo coadiuvavano nella santa impresa, ma eziandio in occasione di quella dei loro genitori. Finalmente nella Parte 11, Cap. VII, art. 8 insinua nei giovani il gran pensiero della divina vocazione: Nelle cose di grave importanza, come sarebbe nell'elezione del vostro stato, consultate sempre il confessore. Il Signore dice che chi ascolta la voce del confessore ascolta Dio stesso. Qui vos audit me audit. Ma se in questo Regolamento non si scorgeva che un semplice accenno di una futura società religiosa, vi appariva fin d'allora splendido lo spirito che doveva animarla. I giovani, la maggior parte delle volte, vi erano allora indicati col nome di figliuoli, allo stesso modo col quale l'apostolo [95] S. Giovanni chiamava figli i suoi discepoli. A coloro poi che presiedevano, s'inculcava che dovessero essere disposti a fare grandi sacrifizii, nulla risparmiando, nulla trascurando di quanto può contribuire alla maggior gloria di Dio e alla salute delle anime: ed aggiungevasi ad ogni pagina che la carità usata verso i giovani era il mezzo più acconcio per far loro del bene.

                Premesse queste osservazioni generali, vediamo l'organizzazione che D. Bosco ideò pel buon andamento dell'Oratorio. Egli scriveva:

                “Gli uffizii che devono compiersi da coloro, che desiderano occuparsi con frutto dell' Opera degli Oratorii, si possono distribuire tra i seguenti incaricati, che nelle rispettive incombenze sono considerati come altrettanti Superiori. - 1. Direttore. - 2. Prefetto. - 3. Catechista o Direttore Spirituale. - 4. Assistenti. - 5. Sacristani. - 6. Monitore. - 7. Invigilatori. 8. Catechisti. - 9. Archivisti. - 10. Pacificatori. - 11. Cantori. - 12. Regolatori della ricreazione. - 13. Protettore”.

                Si potrà da taluno credere che troppi oltre il bisogno fossero questi ufficii, ma convien riflettere che D. Bosco così E disponeva, perchè molti fossero gli interessati al bene dei giovanetti e quindi maggiore e più estesa la necessaria vigilanza; per aver modo di occupare or l'uno or l'altro secondo le loro attitudini, o abilità; per dare a qualcuno di più, come premio meritato, un segno di speciale confidenza; perchè certe indoli intraprendenti, lusingate da quella preminenza sui compagni, si affezionassero sempre più all'istituto.

                Definiti i principali uffizii colle speciali loro attribuzioni, delle quali non tarderemo a parlare, D. Bosco li affidò a quelli tra i giovani, che per buona condotta ed assennatezza gli parvero più abili a disimpegnarli, creandoli, per così dire, suoi uffiziali od aiutanti di campo. Li avvisava nello stesso [96] tempo non intendere di imporre nè leggi, nè precetti. Siccome egli soleva lasciarli responsabili dell'impiego loro affidato, limitando l'opera sua ad invigilare che ciascuno facesse il propria, dovere, così ognuno si dava grande sollecitudine per conoscere ed eseguire la parte sua nel miglior modo che dato gli fosse. Per questa guisa le cose dell'Oratorio presero ad ordinarsi con molto profitto dei giovinetti, ed anche con grande sollievo dello stesso suo Direttore, il quale poi soleva ogni settimana raccogliere a sè d'intorno i suoi uffiziali, e da esperto generale li animava con fervorose parole a rimanere fedeli e saldi al loro posto, suggerendo le cose da farsi o da fuggirsi per lavorare con buona riuscita. In qualunque altra circostanza venissero a lui, accoglievali sempre con maniere soavi e festose; e aveva scritto per norma di un Direttore: “Egli deve essere pronto ad accogliere con bontà quegli impiegati che a lui si dirigessero, e a dar loro quei suggerimenti che possono tornare utili al mantenimento dell'ordine, e a promuovere la gloria di Dio ed il vantaggio spirituale delle anime. Colla dolcezza e colla esemplarità procuri d'acquistarsi la loro stima e benevolenza”. Talora dava loro qualche premiuzzo, una divota immagine, un libretto e simili, terminando sempre coll'additare loro la bella corona che li attendeva in Cielo. Queste parole e questi atti di confidenza erano di efficacissimo stimolo, e di rado avveniva che, o per negligenza o per mala condotta, si dovesse dispensare qualcuno dal propria ufficio, e privarlo del suo grado.

                Ma se non era difficile trovare giovani di buona volontà ai quali affidare molte incombenze, ci tornava malagevole riguardo agli uffizii di Prefetto e di Catechista, ossia Direttore spirituale. Zelanti sacerdoti accettavano questi due incarichi, senonchè ben presto si stancavano o erano impediti dagli obblighi personali assunti in città, quando nell'Oratorio vi era [97] maggior bisogno dell'opera loro. In conseguenza troppo sovente si mutavano questi Superiori. D. Bosco però non sgomentavasi per così poco, ed assumevasi eziandio i lavori degli altri, aspettando senza premura i nuovi coadiutori, che la Divina Provvidenza gli avrebbe mandati. Per ciò aveva scritto un regolamento completo che non solo abbracciava lo stato dell'Oratorio nel 1847, ma eziandio il suo svolgimento futuro. Quindi stabiliva presentemente ciò che aveva determinato di attuare di mano in mano che ne possederebbe i mezzi, per es., la recita o il canto ogni domenica del Mattutino dell'Ufficio della Beata Vergine: ordinava la Compagnia di S. Luigi ed una biblioteca circolante, alle quali si darà vita in quest'anno; e nello stesso tempo accennava, come abbiamo visto nel Capo precedente, ad una società di mutuo soccorso, che poi si fondò nel 1850.

                Degna di ammirazione è questa previdenza, ma quello che a noi più che tutto importa si è l'esporre in modo compiuto come D. Bosco in tutto il tempo della sua vita, intendesse rendere fruttuosa la missione di un Oratorio festivo.

                A questo fine presentiamo al lettore l'ultima edizione del Regolamento stampato nel 1887, confrontandola col manoscritto del 1847. Le differenze non sono molte, tuttavia, per distinguere i tempi nell'interesse della storia, quanto D. Bosco cancellò dalla prima regola, lo rimetteremo a posto notandolo in carattere corsivo; quanto vi aggiunse oppure incominciò a mettere in pratica verso e dopo il 1852, lo chiuderemo tra parentesi. I capitoli poi o gli articoli che provvedono a dirigere i giovani nella morale e religiosa condotta, li disporremo altrove come annotazioni, secondo che ci suggerirà lo svolgimento dei fatti. Non è occupazione superflua lo studio attento di ciò che deve formare lo scopo principale della nostra attività religiosa. Nelle nostre Costituzioni [98] sta scritto: Primum charitatis exercitium in hoc versabitur, ut pauperiores ac derelicti adolescentuli excipiantur, et sanctam Catholicam Religionem doceantur, praesertim vero diebus festis (I, 3).

                Noi pertanto primieramente riferiremo le attribuzioni degli ufficii, che D. Bosco aveva affidati ai suoi coadiutori, ricordando quel che si legge nel libro dei Proverbi: “Figliuoli, ascoltate i documenti del padre e state attenti ad apparar la prudenza”[8].

 

                CAPO I. Del Direttore. - 1. Il Direttore è il Superiore principale, che è responsabile di tutto quanto avviene nell'Oratorio. - 2. Egli deve precedere gli altri incaricati nella pietà, nella carità, e nella pazienza; mostrarsi costantemente amico, compagno, fratello di tutti, perciò sempre incoraggire ciascuno nell'adempimento dei proprii doveri in modo di preghiera non mai di severo comando. - 3. Nel nominare qualcuno a carica dimanderà il parere degli altri impiegati, e se sono Ecclesiastici consulterà il Superiore Ecclesiastico, (o il Parroco della Parrocchia in cui esiste l'Oratorio, a meno che siano notoriamente conosciuti, e si presupponga nulla esistervi in contrario). - 4. Una volta al mese radunerà i suoi impiegati per ascoltare e proporre quanto ciascuno giudica vantaggioso per gli allievi. - S. Al Direttore tocca avvisare, invigilare che tutti disimpegnino i rispettivi uffizii, correggere, ed anche rimuovere dai loro posti gli impiegati, qualora ne sia mestieri. - 6, Ascolta le confessioni di quelli che si dirigono a lui spontaneamente; terminate le confessioni, il Direttore o un altro Sacerdote celebrerà la Santa Messa, cui terrà dietro la spiegazione del Vangelo (o un racconto tratto dalla Storia Sacra o dalla Storia Ecclesiastica). - 7. Egli deve essere come un padre in mezzo ai proprii figli, e adoperarsi in ogni maniera possibile per insinuare nei giovani cuori l'amor di Dio, il rispetto alle cose sacre, la frequenza ai Sacramenti, figliale divozione a Maria Santissima, e tutto ciò, che costituisce la vera pietà.

 

                CAPO II. Del Prefetto. - 1. Il Prefetto deve essere Sacerdote, e farà le veci del Direttore ogniqualvolta ne occorra il bisogno. - 2. Riceverà gli ordini dal Direttore e li comunicherà a tutti gli altri impiegati; [99] invigilerà che le classi del Catechismo siano provvedute a tempo del rispettivo Catechista, e sorveglierà che durante il Catechismo non avvengano disordini o tumulti nelle classi. - 3. In assenza di qualche impiegato, Egli deve tosto provvedere chi lo supplisca. - 4. Deve badare che i cantori siano preparati sopra le antifone, i salmi ed inni da cantarsi. - 5. (Il Prefetto compierà anche gli uffizii del Direttore Spirituale nei paesi dove fosse penuria di Sacerdoti). Egli è confessore ordinario dei giovani.; dirà messa, farà il catechismo, e se fa mestieri, anche l'istruzione dal pulpito. - 6. Al Prefetto è pure affidata la cura delle scuole (diurne), serali e domenicali.

 

                CAPO III. Del Catechista o Direttore Spirituale. - 1. Al Direttore Spirituale si appartiene l'assistere e dirigere le sacre Funzioni, perciò deve essere Sacerdote; e qualora non possa per se, concerti col Prefetto per cercare chi lo disimpegni nei suoi uffizii. - 2. (Il mattino all'ora stabilita principierà od assisterà al mattutino della B. Vergine; finito il canto del Te Deum, andrà a vestirsi per celebrare la santa Messa della Comunità). - 3. Farà il Catechismo in coro agli adulti, assisterà al Vespro e disporrà quanto occorre per la Benedizione del SS. Sacramento. - 4. Dovrà tenersi ben informato della condotta de' giovani per essere in grado di darne le debite notizie e spedirne i certificati d'assiduità e moralità qualora ne sia richiesto. In caso di Solennità Egli procurerà che vi sia un conveniente numero di confessori, e di Messe; disporrà quanto occorre pel servizio delle sacre funzioni. - 6. Il Direttore Spirituale dell'Oratorio è altresì Direttore della Compagnia di S. Luigi, le cui incombenze sono descritte, ove si parla di questa Compagnia e della società di mutuo soccorso. - 7. Se viene a conoscere che qualche giovane grandicello abbia bisogno di Religiosa istruzione, come spesso accade, Egli si darà massima sollecitudine di fissargli il tempo e il luogo più adatto per fare Egli stesso, o disporre che da altri sia fatto con Pazienza e carità il dovuto Catechismo; si tratta di guadagnare un'anima a Dio. - 8. Si ritenga che gli uffizii del Prefetto e del Direttore Spirituale si possono con facilità riunire nella stessa persona. Qualora non si potesse avere un sacerdote, che copra la carica del Direttore spirituale, tutti gli uffizii che lo riguardano saranno affidati al Prefetto.

 

                CAPO IV. Dell'Assistente. - 1. All'Assistente, che deve essere un secolare Pieno di carità e di zelo Per la gloria di Dio, incombe di assistere a tutte le sacre Funzioni dell'Oratorio, e vegliare che non succedano scompigli in tempo di esse. - 2. Baderà che non avvengano disordini entrando in Chiesa, e che ciascuno prendendo l'acqua benedetta [100] faccia bene il segno della santa Croce, e la genuflessione all'altare del Sacramento. - 3. Se succederà che si portino in Chiesa ragazzini, i quali disturbino con grida e con pianto, avviserà con bontà chi di ragione affinchè siano portati via. - 4. Nell'avvisare alcuno in Chiesa usi raramente la voce; dovendo correggere qualcuno con discorso un po' prolungato, differisca di ciò fare dopo le funzioni, oppure lo conduca fuori della Chiesa. - 5. Nel cantare il Vespro od altre cose sacre, indicherà, occorrendo, in qual pagina del libro si trovi quello che fu intonato.

 

                CAPO V. Dei Sacrestani. - 1. I Sacrestani devono essere tre; (un chierico), e due secolari, scelti fra i giovani dati alla pietà, più puliti, e maggiormente capaci per questa carica. - 2. (Il Chierico è primo. Sacrestano, e a lui particolarmente incombe di leggere il Calendario, mettere segnali a posto nel Messale, e insegnare, se occorre, le cerimonie per servire la Messa privata e per la Benedizione del SS. Sacramento). - 3. Al mattino giunti in Sacrestia, sarà loro prima cura di aggiustare tosto l'altare per la santa Messa, preparare acqua, vino, ostie, particole, calice, e l'ostensorio, se occorre, per la Benedizione; (poscia, mentre si incominciano le Lodi della B. V. M., o al più tardi quando si intona l'inno, invitano il Sacerdote a vestirsi per celebrare la santa Messa. 4. All'ora della predica ne avvisino il predicatore, lo accompagnino sul pulpito, e lo riconducano dopo in Sacrestia. - S. Alla Messa ordinariamente accendano due candele sole; quattro alla Messa della Comunità nei giorni festivi; sei alle Messe solenni. Nelle feste ordinarie al Vespro quattro, nelle Solennità sei; alla Benedizione del Santissimo se ne devono accendere non meno di quattordici: (Sinod. Dioces. Tit. X, 22. - Taurin). - 6. Non si accendano mai le candele mentre si predica, perchè ciò dà troppo disturbo al predicatore, ed agli uditori. - 7. Nella Sacrestia devesi mantenere silenzio, nè mai introdurre discorsi, che non riguardino a cosa di Chiesa, oppur ai doveri dei Sacrestani. - 8. È caldamente raccomandato ad un Sacrestano di mettersi vicino al campanello solito a suonarsi nella Benedizione, per dar segno quando il Sacerdote si volge al pubblico col Santissimo, ma non suonarlo la seconda volta, finchè non siasi chiuso il tabernacolo, e ciò per togliere ai ragazzi una specie di voglia di alzarsi, e uscire di Chiesa con irriverenza a Gesù Sacramentato. - 9. Devono trovarsi in Sacrestia prima che comincino le Funzioni sacre, nè mai partirsi finchè i Paramentali non siano piegati, e tutti gli altri oggetti messi in ordine e sotto chiave. - 10. Non usciranno mai di Sacrestia senza chiudere bene le guardarobe ed i cancelli. [101] Avvisi per coloro che sono addetti alla Sacrestia. - 1. È principalissimo loro dovere aprire e chiudere la porta della Chiesa, mantenere la mondezza di Essa, e di ogni arredo, od oggetto riguardante l'altare, al Sacrifizio della santa Messa, come sono bacini, ampolline, candellieri, tovaglie, asciugamani, corporali, purificatoi, avvertendo il Prefetto, quando faccia bisogno, di lavare biancheria, ripulire oggetti, o rifarli. - 2. Uno dei Sacrestani è incaricato di suonare le campane, e dare col campanello avviso del tempo in cui deve cessare la ricreazione, e della entrata in Chiesa per le sacre funzioni. - 3. (La sera, un po' prima che suoni l'andata in Chiesa, aggiustino le panche disponendole in classi distinte, come viene indicato dal rispettivo numero affisso alla parete della Chiesa. - 4. (Mentre i giovani entrano in Chiesa, i Sacrestani distribuiscano ai Catechisti i catechismi numerati, e cinque minuti prima che finisca il Catechismo due di loro, uno a destra, e l'altro a sinistra distribuiscano i libri per cantare il vespro; verso il fine del Magnificat, passino a raccoglierli e li portino al loro posto; chiudano l'armadio, e consegnino la chiave al capo di Sacrestia).

 

                CAPO VI. Del Monitore. - 1. Il Monitore ha per uffizio di regolare le preghiere vocali che si fanno nell'Oratorio. - 2. Ogni giorno festivo entrato in Chiesa incomincia le preghiere del mattino, continua quelle che accompagnano la S. Messa e recita la terza parte del Rosario della Beata Vergine Maria. Dopo la Messa reciterà gli atti, di Fede, di Speranza e di Carità. - 3. Nelle feste di maggior solennità, al Sanctus leggerà la preparazione della santa Comunione, e quindi il ringraziamento. - 4. Dopo la predica recita un' Ave Maria, ed al mattino vi aggiunge un Pater noster ed Ave per i Benefattori, ed un altro Pater ed Ave a S. Luigi, e finirà coll'intonare: Lodalo sempre sia. 5. La sera prima del Catechismo, appena giunto in Chiesa un competente numero di giovani, intonerà il Padre nostro e il Dio ti salvi. Finito il Catechismo, reciterà gli atti di fede con voce alternata come al mattino, e procurerà di mettersi in quella parte della Chiesa dove più facilmente può essere udito da tutti. - 6. Deve darsi massima sollecitudine per leggere con voce alta, distinta, e divota in modo, che gli uditori comprendano che Egli è penetrato di quanto legge. - 7. Deve parimenti ritenere, che nella santa Messa, all'elevazione dell'Ostia Santa e del Calice, all'Ite Missa est, e nell'atto che il Sacerdote dà la benedizione, si sospendano le preghiere comuni, dovendo ciascuno in quel gran momento parlare a Dio solamente cogli affetti del proprio cuore. - 8. Lo stesso dovrà osservarsi alla sera nell'atto che si dà la Benenedizione col Santissimo Sacramento. [102].

 

                CAPO VII. Degli Invigilatori. - 1. Gli Invigilatori sono giovani scelti fra i più esemplari, i quali hanno l'incombenza di coadiuvare l'assistente specialmente nelle sacre Funzioni della Chiesa nella sera. - 2. Essi dovranno essere almeno quattro, e prenderanno posto in quattro punti o angoli principali della Chiesa (uno prenderà ad invigilare la parte vicina all'altare della Beata Vergine, l'altro quella verso S. Luigi, gli altri due il rimanente della Chiesa nella metà verso la porta grande), e se non v'è motivo non si moveranno dal proprio posto. Occorrendo di avvisare devono evitare il correre precipitato, nè mai passare dinanzi all'Altare Maggiore senza fare la genuflessione. In que' luoghi ne' quali si possono avere i Catechisti dal principio fino al termine della funzione, potrà bastare il solo assistente coadiuvato dai detti Catechisti delle singole classi. - 3. Sorveglino che i giovani, entrando in Chiesa, prendano il loro posto, facciano l'adorazione, stiano con rispetto tanto nell'aspettare quanto nel cantare. - 4. Vedendo taluno ciarlare o dormire, lo correggeranno con belle maniere, movendosi il meno possibile dal loro posto, senza mai percuotere qualcuno anche per motivi gravi; nemmeno sgridarlo con parole aspre, o con voce alta. In casi gravi si condurrà il colpevole fuori della Chiesa e si farà la debita correzione.

 

                CAPO VIII. Dei Catechisti. - 1. Una delle principali incombenze dell'Oratorio è quella di Catechista; perchè lo scopo primario di quest'Oratorio, è d'istruire nella dottrina Cristiana quei giovani che ivi intervengono. “Voi, o Catechisti, insegnando il Catechismo, fate un'opera di gran merito dinanzi a Dio, perchè cooperate alla salute delle anime redente col prezioso sangue di Gesù Cristo; additando i mezzi atti a seguire quella via che li conduce all'eterna salvezza: un gran merito ancora dinnanzi agli uomini, e gli uditori benediranno mai sempre le vostre parole, con cui loro additaste la via per divenire buoni cristiani, buoni cittadini, utili alla propria famiglia, ed alla medesima! civile società”. - 2. I Catechisti per quanto si può siano preti o chierici. Ma perchè tra di noi vi sono molte classi, e d'altronde abbiamo la buona ventura di avere parecchi esemplari Signori, che si prestano a quest'opera, perciò a costoro con gratitudine si offra una classe di catechizzandi. Nel coro per la classe degli adulti, se è possibile, vi sia sempre un Sacerdote. - 3. Qualora il numero dei Catechisti sia inferiore a quello delle classi, il Prefetto d'accordo col Direttore, farà scelta di alcuni giovani più istruiti, e più atti, e li collocherà in quella classe che manchi di Catechista. - 4. Mentre si canta il Padre nostro, ciascun Catechista dovrà già trovarsi nella classe assegnata. - 5. Il Catechista deve disporre la sua classe in forma di semicircolo di cui egli sia nel mezzo; nè mai [103] si curvi verso gli allievi per interrogarli, e udire le risposte, ma si conservi composto sulla persona facendo spesso girare lo sguardo sopra de' suoi allievi. - 6. Non si allontani mai dalla sua classe. Occorrendogli qualche cosa ne faccia cenno al Prefetto, o all'Assistente. - 7. Ciascuno assista la sua classe fin dopo gli atti di Fede, Speranza e Carità, e se può non si muova di posto finchè siano terminate le sacre Funzioni. - 8. Cinque minuti prima che termini il Catechismo, al suono del campanello, si racconterà qualche breve esempio tratto dalla Storia Sacra, o dalla Storia Ecclesiastica, oppure si esporrà chiaramente e con popolarità un apologo, od una similitudine morale, che deve tendere a far rilevare la bruttezza di qualche vizio, o la bellezza di qualche virtù in particolare. - 9. Niuno si metta a spiegare prima di aver imparato la materia di cui deve trattare, e non prima che i giovani sappiano bene a memoria la domanda da spiegarsi. Le spiegazioni siano brevi e soltanto di poche parole. - 10. Non si entri in materia difficile, nè si mettano in campo questioni che non si sappiano risolvere chiaramente e con popolarità. - 11. I vizii che si devono spesso ribattere sono la bestemmia, la profanazione dei giorni festivi, la disonestà, il furto, la mancanza di dolore, di proponimento e di sincerità nella confessione. 12. Le virtù da menzionarsi spesso sono: carità coi compagni, ubbidienza ai superiori, amore al lavoro, fuga dell'ozio e delle cattive compagnie, frequenza della Confessione e della santa Comunione. - 13. Le classi del Catechismo sono divise come segue: in coro i Promossi per sempre alla santa Comunione, e che hanno compiuto i quindici anni. (Alle cappelle di S. Luigi e della Madonna quelli che sono promossi per sempre alla santa Comunione, ma inferiori ai quindici anni). Le altre classi saranno divise per scienza e per età sino ai più piccoli. Nello stabilire le classi di coloro, che non sono ancora promossi alla Comunione, si badi bene di non mettere i piccoli insieme co' più adulti. Per esempio facciasi una classe di quelli, che sono maggiori di quattordici anni: un'altra da' dodici a' quattordici; da' dieci a' dodici. Ciò contribuirà efficacemente a mantenere l'ordine nelle classi, e a palliare quel rispetto umano, che hanno i più adulti, quando sono messi a confronto dei più piccoli. - 14. L'ordine da tenersi nell'insegnare la dottrina cristiana è segnato con numeri posti nelle domande del Catechismo. Le dimande segnate col numero I, s'insegnino assolutamente a tutti e piccoli e adulti. Quelle segnate col numero 2, a coloro che si preparano per la Cresima o per la prima Comunione; le segnate con 3 e 4, a chi desidera d'esser promosso per tutto l'anno. Le dimande segnate coi numeri 5 e 6, a quelli che desiderano di essere promossi per sempre. - 15. Il Catechista del coro per lo più ha soltanto giovani già promossi per sempre alla santa Comunione [104] perciò non esigerà la risposta letterale del Catechismo, ma annunziata una domanda la esporrà con brevità e chiarezza; e per ravvivare l'attenzione potrà fare casi pratici, analoghi alla materia che tratta, e non mai di cose che non siano adattate all'età, e condizione degli uditori. - 16. Ciascun Catechista dimostri sempre un volto ilare, e faccia vedere, come difatti lo è, di quanta importanza sia quello che insegna; nel correggere od avvisare usi sempre parole che incoraggiscano, ma non mai avviliscano. Lodi chi lo merita, sia tardo a biasimare. Tutti gli impiegati liberi in tempo di Catechismo sono considerati come Catechisti, perchè essi sono più in grado d'ogni altro di conoscere l'indole ed il modo di contenersi coi giovani.

 

                CAPO IX. Dell'Archivista o Cancelliere. - 1. Lo scopo dell'Archivista si è di tenere registro di quanto riguarda l'Oratorio in generale ed in particolare. - 2. Scriverà sopra un cartello nome, cognome e carica di ciascun impiegato, e lo appenderà in Sacrestia. Formerà un catalogo di tutti gli oggetti che servono ad uso di Chiesa, (particolarmente quelli destinati e donati per qualche Altare determinato). Nel che seguirà gli ordini del Prefetto. - 3. Avrà cura e ne renderà conto all'uopo dei libri, catalogo, ed altre cose spettanti alla Compagnia di S. Luigi ed alla Società di Mutuo Soccorso. - 4. In cancello apposito chiuderà sotto chiave tutta la musica dell'Oratorio, e non la darà se non al capo dei cantori. Non mai impresterà musica da portar via. Può bensì permettere che taluno la venga a copiare nella casa dell'Oratorio. - 5. A lui pure è affidata una piccola Biblioteca di libri scelti per la gioventù, che Egli può liberamente imprestare per leggersi sul luogo ed anche da portarsi alle rispettive case, ma dovrà notare nome, cognome, dimora di colui al quale fu imprestato; e ciò per sapere dove andare a ripetere il libro imprestato, se dopo un mese non sarà rimesso. (Si vedano le regole del Bibliotecario nella parte 3). - 6. È cura principalissima dell'Archivista di vegliare che non si perda alcuna cosa di proprietà dell'Oratorio, nè oggetto di sorta venga di qui allontanato senza che egli ne abbia preso memoria. - 7. Gli ufficii dell'archivista propriamente spettano al Prefetto, perciò tale carica verrà ad altri affidata nel solo caso che egli noti la possa disimpegnare.

 

                CAPO X. Dei Pacificatori. - 1. La carica dei Pacificatori consiste nell'impedire le risse, gli alterchi, le bestemmie, e qualsiasi cattivo discorso. - 2. Quando avvenissero simili mancanze, che grazie a Dio tra di noi sono rarissime, avvisino immediatamente il colpevole, e con pazienza e carità facciano vedere come simili colpe siano vietate [105] rigorosamente dal Superiore, contrarie alla buona educazione, e quello, che è più, proibite dalla santa legge di Dio. - 3. In caso di dover fare, correzioni, abbiasi riguardo che siano fatte in privato, e per quanto è possibile, non mai in presenza altrui, eccetto che questa fosse necessaria per riparare un pubblico scandalo. - 4. È pure incombenza dei Pacificatori il raccogliere i giovani che veggano in vicinanza dell'Oratorio, condurli in Chiesa con promessa di qualche piccolo premio, a cui certamente il Direttore non si rifiuterà. - 5. I Pacificatori procurino d'impedire con modi graziosi, che alcuno esca in tempo delle religiose funzioni. Niuno si fermi a fare schiamazzo, o trastulli vicino alla Chiesa durante le medesime; succedendo questi casi si esortino con pazienza, a recarsi in Chiesa appena dato il segno del campanello. - 6. È pure affidato ai Pacificatori il riconciliare coi Superiori chi avesse fatto mancanza; ricondurre ai genitori chi da loro fosse fuggito; lungo la settimana incoraggiare i compagni all'assiduità all'Oratorio nel giorno festivio. 7. Finalmente è ufficio dei Pacificatori, usando molta prudenza, condurre a qualche confessore e così riconciliare con Dio, coloro che venissero a conoscere aver bisogno di confessarsi. - 8. Sebbene tutti gli impiegati dell'Oratorio si debbano considerare come altrettanti Pacificatori, tuttavia dite sono specialmente incaricati di tal dovere e saranno eletti a maggioranza di voti dagli impiegati dell'Oratorio. - 9. Il Priore ed il vice Priore della Compagnia di S. Luigi sono Pacificatori nati dell'Oratorio.

 

                CAPO XI. Dei Cantori. - 1. È cosa desiderabile che tutti fossero cantori, perchè tutti debbono prendere parte al canto; tuttavia per impedire varii inconvenienti, che potrebbero avvenire, si scelgono alcuni giovani che abbiano buona voce e sanità, ed a costoro viene affidato la direzione del canto. - 2. Fra di noi vi sono due categorie di cantori: quelli del coro, l'altra davanti all'altare. Niuno però deve essere eletto cantore se non ha buona condotta, e se non sa leggere correttamente il latino. - 3. Per essere poi cantore in coro, si esige che l'allievo sappia solfeggiare e conosca i toni del canto fermo. - 4. La cura del canto è affidata ad un Corista, ossia capo dei cantori, e ad un vice Corista. Essi devono adoperarsi che il canto sia ripartito tra' cantori in modo che tutti possano prendervi parte ed essere animati a cantare. - S. (Al mattino si canta l'Uffizio della B. Vergine Maria a voce corale, ad eccezione degli Inni, Lezioni, Te Deum, e Benedictus che si cantano secondo le regole del canto fermo. Nelle feste solenni si canta tutto in canto Gregoriano). La sera si canta il vespro segnato nel Calendario della Diocesi Dove non si possa cantare il mattutino, si canterà almeno alla sera il Vespro della B V oppure la sola Ave Maris Stella col Magnificat, e l'Oremus ecc. [106] 6. Intonato un salmo od un'antifona, cantino tutti a voce unissona, evitando gli strilli, le intonazioni troppo alte o troppo basse. Quando taluno sbaglia nel canto, non si rida, nè si disprezzi il compagno; ma il Corista procuri di sottentrargli nella voce per metterlo in tono. - 7. I cantori posti davanti all'altare devono stare attenti per rilevare nel medesimo tono e grado di voce tutto quello che verrà intuonato in coro o, dall'orchestra. Il capo Corista procuri che i salmi, ed inni siano cantati alternativamente prima dal coro e poi dalla Chiesa. - 8. L'ultima Domenica di ciascun mese si canta l'Uffizio dei morti per li compagni e benefattori defunti, il quale Uffizio sarà parimenti cantato in suffragio, d'ogni impiegato e del Padre e della Madre sua, la Domenica immediatamente dopo che ne verrà partecipata la morte. - 9. Ai cantori è caldamente raccomandato di guardarsi dalla vanità, e dalla superbia; due vizii assai biasimevoli, che fanno perdere il frutto di ciò che si fa, e producono inimicizie tra compagni. (Un cantore veramente cristiano non dovrebbe mai offendersi, nè avere altro fine se non lodare Iddio, ed unire la sua voce a quella degli Angeli, che lo benedicono e lo lodano, in Cielo.

 

                CAPO XII. Regolatori della Ricreazione. - I. È vivo desiderio che nella ricreazione tutti possano prender parte a qualche trastullo nel modo, e nell'ora permessa. - 2. I trastulli e giuochi permessi sono le boccie, le piastrelle, l'altalena, le stampelle, la giostra a passo del gigante, bersaglio a palla, corda; esercizii di ginnastica, oca, dama, scacchi, tombola, corriere, o barra rotta, i mestieri, il mercante ed ogni altro giuoco che possa contribuire alla destrezza del corpo. - 3. Sono poi proibiti i giuochi delle carte, dei tarocchi, ed altro giuoco che inchiude pericolo, di offender Dio, recar danno al prossimo, e cagionar male a se stesso. - 4. Il tempo ordinario per la ricreazione è fissato al mattino dalle 10 alle 12, e da i a 2½ pomeridiane, e dal termine delle religiose funzioni sino a notte. Nell'inverno anche lungo la sera, non però più tardi delle otto, vi saranno trattenimenti di ricreazione nelle ore, in cui non si disturbino le scuole. - 5. I trastulli sono affidati a cinque invigilatori, di cui uno sarà il capo. - 6. Il capo invigilatore tiene registro del numero e qualità dei trastulli, e ne è responsale. Qualora ci vogliano provviste e riparazioni ai trastulli, ne renderà consapevole il Prefetto. - 7. Gli invigilatori presteranno i loro servizii due per domenica. Il capo veglia solamente che non avvengano disordini, ma non è tenuto a servizio, eccettochè manchi qualcuno degli invigilatori. - 8. Ogni trastullo è segnato con un numero, per esempio: se vi fossero nove giuochi di boccie, si fanno nove cartelli sopra cui si scrive 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7 - 8 - 9. Se ci fossero cinque paia di stampelle si noteranno col numero 10 - 11 - 12 - 13 - 14. E così [107] progressivamente degli altri giuochi. - 9. Giunta poi l'ora della distribuzione, chi vuole un trastullo, deve lasciare qualche cosa in pegno, sopra cui l'invigilatore metterà il numero corrispondente al trastullo preso. In caso che qualche giuoco sia stato guastato o smarrito ne farà partecipe il capo invigilatore od il Sig. Prefetto, al citi ordine e non altrimenti sarà rimesso il pegno. - 10. Durante la ricreazione un invigilatore passeggerà pel cortile, per vegliare che nulla si guasti o si porti via; l'altro non si allontanerà mai dalla camera dei trastulli, ma non si permetterà mai ad alcuno l'introdursi per qualsiasi pretesto nel luogo dove quelli si chiudono. - 11 È particolarmente raccomandato agli invigilatori, il procurare che tutti possano partecipare di qualche divertimento, preferendo sempre quelli che sono conosciuti pei più frequenti all'Oratorio. - 12. Terminata la ricreazione, e verificato che nulla manchi, si metteranno in ordine i giuochi, poscia, chiusane la camera, se ne porterà la chiave al Prefetto.

 

                CAPO XIII. Dei Patroni e Protettori. - 1. I Patroni ed i Protettori hanno l'importantissima carica di collocare a padrone i più poveri, ed abbandonati, e vegliare che gli apprendisti, e gli artigiani, che frequentano l'Oratorio, non siano con padroni presso di cui sia in pericolo la loro eterna salute. - 2. È ufficio dei Patroni il ricondurre a casa quei, giovani che ne fossero fuggiti, adoperandosi per collocare a padrone coloro che hanno bisogno d'imparare qualche professione, o che sono privi di lavoro. - 3. I Protettori saranno due, ed avranno cura di notare nome e cognome e dimora dei padroni, che abbisognano di apprendisti e di artigiani per mandare all'uopo i loro protetti. - 4. Il Protettore dà opera per assistere e correggere i suoi protetti, ma non si assume alcuna obbligazione pecuniaria, nemmeno presso i rispettivi padroni. 5. Nelle convenzioni coi padroni abbiasi per prima condizione, che lascino l'allievo in libertà per santificare il giorno festivo. - 6. Accortisi che qualche allievo è collocato in luogo pericoloso lo assista affinchè non commetta disordini, avvisi il padrone, se parrà conveniente, e intanto s'adoperi per cercare miglior partito al suo protetto.

 

                PARTE III. CAPO V. Del Bibliotecario. - i. Al Bibliotecario verrà affidata una piccola scelta di libri utili ed ameni da distribuirsi ai giovani, che desiderano, e che fanno sperare di fare qualche profitto. - 2. Noterà sopra un registro nome e cognome di quelli cui impresta il libro, avvisandoli, che allo scadere del mese procurino di riportare il libro somministrato. - 3. Terrà pure conto dei libri che entrano ed escono dalla Biblioteca per poterne dar conto a chi di ragione. - 4. Gli [108] addetti alla Biblioteca saranno due, cioè: il Bibliotecario, che distribuisce i libri, e l'Assistente generale, che ne dà il permesso, e prende nota del nome, e dimora dell'allievo, e del titolo del medesimo libro. L'ufficio di Bibliotecario, e di Assistente si possono riunire nella stessa persona, come pure si possono a vicenda supplire, in assenza dell'uno o dell'altro. - 6. Si raccomanda a tutti di non perdere libri, guastarli, o scrivervi sopra il proprio nome, e di restituirli entro un mese.

 

                PARTE II. CAPO I. Incombenze riguardanti tutti gli impiegati di quest'Oratorio. - 1. Le cariche di quest'Oratorio, essendo tutte esercitate a titolo di carità, deve ciascuno adempirle con zelo, come omaggio che presta alla Divina Maestà, perciò debbono tutti incoraggirsi vicendevolmente a perseverare nelle rispettive cariche ed a compierne gli annessi doveri. - 2. Esortino all'assiduità quei giovani, che già frequentano l'Oratorio, e nel corso della settimana invitino dei nuovi ad intervenire. Non mai censurino le regole od altro che riguardi l'andamento dell'Oratorio, nè mai disapprovino in faccia ai giovani le disposizioni del Direttore e degli altri superiori. - 3. È una grande ventura l'insegnare qualche verità della fede ad un ignorante, e l'impedire anche un sol peccato. - 4. Carità, pazienza vicendevole nel sopportare i difetti altrui, promuovere il buon nome dell'Oratorio, degli impiegati, ed animare tutti alla benevolenza e confidenza col Rettore, sono cose a tutti caldamente raccomandate, e senza di esse non si riescirà a mantenere l'ordine, promuovere la gloria di Dio, ed il bene delle anime. - 5. (Avvi grande difficoltà a provvedere individui a coprire tanti uffizii, ed a tale scopo si possono riunire più uffizii nella stessa persona: p. e. l'uffizio dei pacificatori, dei patroni, e degli assistenti, si possono riunire nella stessa persona). - 6. (Similmente l'uffizio dei Prefetto può costituire una carica sola con quella del Direttore spirituale. Il pacificatore, vegliatore, monitore, possono formare un ufficio solo. Così pure l'archivista, l'assistente, il bibliotecario può affidarsi ad uno dei Sacrestani che ne abbia la capacità).

 

 

CAPO X.
Il mattino di un giorno festivo nell'Oratorio - Il contegno dei giovani in chiesa - La santa Messa e le Comunioni - Ripetizioni scolastiche - Dispiaceri di D. Bosco - Dolcezza e carità - Un santo sdegnono non è contrario alla virtù della mansuetudine.

 

                NON sarà discaro ai nostri lettori che ritorniamo sovra un argomento già toccato più volte, ma in tempi diversi, quello cioè dei giorni festivi nell’Oratorio di S. Francesco di Sales. È troppo dolce cosa ripresentarci D. Bosco in mezzo al campo delle sue fatiche, narrare alcune prove della sua carità, delle quali ancora non abbiamo fatto parola, far risorgere quei tempi antichi collo, spirito vivificante che diffondevasi dal suo nuovo regolamento.

                A procedere con ordine, notiamo fin sulle prime il modo col quale di consueto santificavasi il giorno del Signore, e come dopo lunga esperienza avesse sanzione da D. Bosco, nella parte seconda, capo sesto delle Regole:

                “1. Le pratiche religiose tra di noi sono: La Confessione e Comunione, e a tale fine ogni Domenica e festa di precetto, si darà comodità a quelli che vogliono accostarsi a questi due augusti Sacramenti.

                2. L'Uffizio della B. Vergine, la santa Messa, la lezione di Storia Sacra od Ecclesiastica, il Catechismo, il Vespro, [110] il discorso morale, la Benedizione col SS. Sacramento sono le Funzioni religiose dei giorni festivi”.

                Aggiungiamo che una terza parte del Rosario talora si recitava al mattino, tal altra alla sera.

                Vi furono persone pie, ed anche religiose, alle quali non sembravano opportune queste molteplici sacre funzioni e obiettavano aver ragione di temere che i giovani le prenderebbero in uggia. Ma D. Bosco rispondeva sempre: “Diedi il nome di Oratorio a questa casa per indicare ben chiaramente, come la preghiera sia la sola potenza sulla quale dobbiamo fare assegnamento, e si recita il santo Rosario perchè fin dai primi istanti misi me stesso ed i miei giovani sotto la protezione immediata della SS. Vergine”. D'altronde aveva saputo introdurre tanta varietà in queste pratiche, che la folla dei giovani non dava segni di noia; tanto più che in essi sapeva infondere la certezza delle grazie senza numero, eziandio temporali, preparate dal Signore e dalla Madonna in premio della loro divozione.

                Così al mattino per tempo si apriva la chiesuola di Valdocco, e D. Bosco comparendo sulla porta radunava i giovani che puntuali accorrevano da ogni sentiero. Essi ricordavano le sue ammonizioni: “Siamo cristiani, aveva detto loro, perciò dobbiamo venerare tutto quello che riguarda specialmente la chiesa, che è denominata tempio del Signore, luogo di santità, casa di orazione. Qualunque cosa domandiamo al Signore in chiesa, la otterremo: In ea omnis qui petit, accipit. Ah, miei cari figliuoli! che grande piacere recate a Gesù Cristo, che buon esempio date al popolo standovi con divozione e raccoglimento! Quando S. Luigi andava in chiesa, la gente correva per osservarlo, e tutti erano edificati dalla sua modestia e dal suo contegno. Entrate in chiesa senza correre o fare strepito. Fatta la debita riverenza all'altare, o [111] la genuflessione se vi è il SS. Sacramento, andate al posto assegnato e ponendovi in ginocchio adorate la SS. Trinità con tre Gloria Patri. In caso che non sia ancor tempo delle sacre funzioni potete recitare le sette Allegrezze di Maria o fare qualche altro devoto esercizio di pietà. Guardatevi poi bene dal ridere in chiesa o dal parlare senza necessità, perchè basta una parola od un sorriso per dare scandalo e disturbare quelli che assistono alle sacre funzioni”[9].

                I giovani tosto andavano ad inginocchiarsi intorno al luogo destinato per le confessioni e talora D. Bosco con brevissima esortazione preparavali a confessarsi bene, raccomandando una figliale confidenza col loro confessore anche nei [112] soli dubbii di coscienza; quindi sedevasi per ascoltare i penitenti. Venivano eziandio a confessarsi da lui molte altre persone estranee adulte, che poi ascoltavano la santa Messa facendo la loro Comunione coi giovani.

                Finite le confessioni, D. Bosco diceva la santa Messa, quando egli doveva assentarsi, la celebrava qualche altro buon prete, e il più delle volte il Teol. Giovanni Vola. I giovani vi assistevano con molta divozione. D. Bosco non soffriva che una spensierata abitudine li conducesse ai sacri misteri, ma, come ci narrano gli allievi di questi anni, ripetendo sovente ciò che aveva scritto nel Giovane Provveduto, parlava con grande fuoco della natura e del valore infinito del sacrifizio dell'altare. Esclamava: “Il vedere nel mondo tanti figliuoli con volontà deliberata assistere distratti alla santa Messa, irriverentemente, senza modestia, senza rispetto, rimanendosi in piedi, guardando qua e là, è uno spettacolo troppo affliggente. Ah! costoro rinnovano più volte, come i Giudei, i patimenti del Calvario con grave scandalo dei compagni e disonore di nostra santa Religione. Assistete dunque alla Messa, miei cari figliuoli, colle disposizioni di vero cristiano, statevi con modestia e raccoglimento tale, che alcuna cosa non riesca a disturbarvi. Il vostro spirito, il vostro cuore, i sentimenti vostri non siano ad altro intenti che ad onorare Iddio. Supponete di vedere Gesù Cristo nel tempo della sua dolorosa passione soffrire e morire per la nostra salvezza. Abbiate grande premura di andare alla santa Messa, eziandio nei giorni feriali, tollerando a tal fine anche qualche incomodo. Con ciò otterrete dal Signore ogni sorta di benedizioni, per modo che ogni vostro lavoro riuscirà a bene. Pregate per voi, per i vostri parenti e benefattori, e per le anime del purgatorio”.

                I giovani lo comprendevano, e venuto il momento della Comunione, era una scena commoventissima osservare anche [113] nelle feste ordinarie duecento e più di loro, pienamente liberi di sè e prima così sbrigliati, accostarsi alla sacra Mensa colle mani giunte e con grande raccoglimento. Vedeasi la fede splendere nei loro occhi, e D. Bosco comunicandoli gustava una gioia di Paradiso.

                Finita la messa, D. Bosco saliva il pulpito, ed era ascoltato con grande attenzione e piacere dai ragazzi. In quest'anno incominciò a raccontare la Storia Sacra. Come l'ebbe finita passò più tardi ad esporre la Storia Ecclesiastica e poscia la vita dei Papi.

                Era così intelligibile nelle sue narrazioni e nei commenti, che in sul finire, interrogando, come soleva, pubblicamente alcuni, questi non solo ripetevano le sue parole, ma erano in grado di rispondere alle amene, ma pure importanti domande, che loro muoveva. Ciò riferiva Mons. Bertagna Giovanni Battista, che, allora chierico, andava ad insegnare il catechismo in Valdocco.

                Abbiamo già detto che dopo questo sermone del mattino D. Bosco voleva che sempre si cantasse la giaculatoria Lodato sempre sia il nome di Gesù e di Maria. Con ciò intendeva riparare alle tante bestemmie che si udivano nel mondo. Talora egli stesso l'intonava dal pulpito senza attendere la voce del capo cantore. Finita la giaculatoria i giovani uscivano di chiesa cantando l'inno Luigi, onor dei Vergini.

                Quindi la maggior parte andava a casa a far colazione; per alcuni di quelli che rimanevano, secondo la possibilità e i bisogni di ciascuno, avevano luogo varie scuole, come già abbiamo detto; qualche studente era aiutato di grammatica e di sistema metrico con una breve ripetizione; D. Bosco stesso si occupava in tale insegnamento, oppure ne incaricava uno o due suoi amici, come ci asseriva D. Giacomelli. Infine dopo una ricreazione di vario genere, alla quale D. Bosco [114] sempre presiedeva, a mezzogiorno erano tutti licenziati perchè andassero a pranzo.

                D. Bosco provava grandi consolazioni per la corrispondenza affettuosa dei giovani alle sue cure; ma a queste si frammischiò sul principio dell'anno qualche dispiacere da lui vivamente sentito. Ne era cagione il veder trattati talora con modi severi i suoi allievi da qualcuno de' suoi coadiutori.

                Egli stesso raccontava: “Una Domenica sera vidi certo giovane adulto maltrattare uno de' suoi compagni più piccoli. A quell'atto io fremetti e dovetti farmi grande violenza per non parlare. All'indomani però, incontrato quel giovanotto, non tralasciai di fargli un'amorevole correzione”.

                Ma non ostante i ripetuti avvisi, non poteva sempre impedire simili inconvenienti, sia perchè certuni, destinati all'assistenza, erano di natura piuttosto rozza ed imperiosa, sia perchè la loro scarsa pazienza era spesso messa a dura prova. Perciò, specialmente nella chiesa, dispensavano troppo sovente pesanti scapaccioni su quei pochi che dormivano o che disturbavano in tempo della predica o delle orazioni. Per questo motivo talora vi fu malcontento dentro e fuori dell'Oratorio. Temendo però D. Bosco di recar disgusto e di allontanare da sè certi sorveglianti che pur erano di buona volontà, predicando dissimulava e studiava di contenersi; ma, risoluto di porre un termine a quel disordine, accordavasi col giovane Brosio Giuseppe, il quale fin dal 1841 aveva incominciato ed aiutarlo a S. Francesco d'Assisi. Brosio, che a lui si mantenne sempre famigliare ed amico per ben quarantasei anni, fu lieto di poter togliere D. Bosco di pena. Siccome guidava egli le preghiere stando nel presbiterio, finite queste andava a passeggiare su e giù per la chiesa, al fine di prevenire ogni atto violento de' compagni assistenti. Di quando in, quando leggermente scuoteva quelli che dormivano, [115] e talora, se vedeva che volontariamente si abbandonavano al sonno, coll'ingrata sorpresa di un po' di tabacco nel naso li faceva star desti; quelli poi che disturbavano, chiacchierando e muovendosi, li fissava con uno sguardo molto serio che imponeva obbedienza, essendo egli di alta statura e sui venti anni. Se alcuni non davano retta al primo invito, un gesto di minaccia bastava. Intanto qua e là prometteva qualche piccolo premio a chi stesse buono, e allorchè D. Bosco saliva in pulpito, la sua udienza era perfettamente tranquilla.

                A queste industrie D. Bosco aggiungeva la sua persuasiva parola, e nelle prediche, e nei ragionamenti in cortile, raccontava esempii che dimostravano la necessità della fratellanza che doveva regnare tra compagni, e principalmente della buona unione tra i figli dell'Oratorio per essere degni delle benedizioni di Dio. E riuscì nel suo intento. In breve cessò il lamentato disordine e non si udì più alcuna mormorazione a questo riguardo.

                D. Bosco infatti, asserisce il giovane Chiosso che interveniva all'Oratorio in questi anni, non castigava mai, tranne rarissime volte allorchè si trattava di qualche giovane insolentemente ribelle, o bestemmiatore, o sorpreso a fare discorsi immorali. E ciò in quei soli casi nei quali, tolto lo scandalo, sarebbe stato fatale per l'anima di quell'incauto il cacciarlo dall'Oratorio. Difficilmente i compagni si accorgevano della punizione inflitta; ma talora, essendo palese, tutti parteggiavano per D. Bosco, e dicevano: “Ha fatto bene”. E poi ne convenivano eziandio i colpevoli, perchè giammai accadeva che si lasciasse guidare dall'amor proprio ferito: la sua dolcezza era abituale.

                E questa formava il fondo del suo sistema, poichè era fermamente persuaso essere necessario per educare i giovani, aprire i loro cuori, potervi penetrare come in casa propria, [116] per estirparne i germogli del vizio e coltivarvi i fiori delle nascenti virtù. Era suo studio formarli colle sue belle maniere, all'espansione, alla semplicità, alla schiettezza; per guadagnarsi la loro confidenza, cercava di procurare in ogni modo che lo amassero e sapessero di essere amati. I cuori chiusi che nascondevano i loro segreti, vale a dire quasi sempre i loro vizii, coloro che stavano solitarii, cupi, dissimulatori, ipocriti formavano il suo tormento, e studiava ogni via per vincerli e rendersene padrone coi beneficii.

                Il Teologo Savio Ascanio, che in questi anni, come vedremo, visse con lui, disse che D. Bosco usava sempre bei modi, soavi, paterni, ispirati a mansuetudine nell'attirare alla virtù i ragazzi, nè mai lo vide trattare alcuno con sgarbatezza, o minacciare di castighi, anche i più spensierati o discoli. Ed è perciò che l'Oratorio rigurgitava di fanciulli e di adulti, e la maggior parte di essi si accostava ogni domenica ai Sacramenti.

                Tutti coloro che conversavano eziandio una volta sola con lui, restavano innamorati della dolcezza e nobiltà de' suoi modi, della giovialità del suo tratto, dell'opportunità e grazia delle sue parole. Ciò spiega in parte il fascino che esercitava sopra i suoi giovani attirandoli irresistibilmente a sè. I loro cuori sempre aperti e confidenti davano ai loro volti quell'attrattiva speciale ch'è, direi così, la trasparenza dell'anima. Lo circondavano con gaudio ineffabile, e tanto loro costava il separarsi da lui, che non sapevano indursi ad andarsene: quasi bisognava che D. Bosco stesso li staccasse da sè.

                La fisionomia di D. Bosco, ci narrò molte volte Giuseppe Buzzetti, e con lui cento e cento altri, aveva un'espressione simpatica, così bella, amorevole, e direi angelica, che sembrava non fosse cosa di questo mondo; nello sguardo e nel sorriso palesava l'incanto della santità che aveva dentro di [117] sè. Le cento volte si udivano i giovanetti che gli stavano intorno ripetere: “Sembra Nostro Signore!”. Frase divenuta loro abituale.

                Tuttavia sarebbe illusione credere che in D. Bosco tanta amabilità avesse talora principio da debolezza o da trascuranza. Egli sapeva mostrarsi corrucciato, perchè anche l'ira è strumento di virtù, ma non mai fuor di modo e solo quando si trattava dell'onore di Dio oltraggiato. Lo stesso N. S. Gesù Cristo si adirò più volte contro de' Farisei: Circumspiciens eos cum ira[10], e l'ira ben governata non si oppone alla virtù della mansuetudine. Nel corso di queste Memorie vedremo rifulgere anche per questo lato lo zelo del caro D. Bosco.

 

 

CAPO XI. L'’Oratorio festivo dopo il mezzogiorno - Il ritorno dei giovani - La prima ricreazione - Il catechismo e le funzioni sacre - Compelle intrare - La seconda ricreazione e il contegno prescritto ai giovani - D. Bosco anima dei giuochi - Scioglimento di problemi - Avvisi salutari e promesse di premii - La partenza alla sera - Stanchezza di D. Bosco - Meravigliosa riforma di costumi - Speranze per la società.

 

                LE ORE pomeridiane della Domenica non riuscivano per D. Bosco meno faticose di quelle del mattino. Egli sollecitava la sua refezione, poichè verso un'ora, ovvero un'ora e mezzo si riapriva l'Oratorio. I giovani correvano spinti dal vivo desiderio di trovarsi con D. Bosco, il quale aspettavali con eguale desiderio di essere in mezzo a loro, e accoglievali festosamente. Aveva già fatti disporre quanti più giuochi poteva: il cavallo di legno, l'altalena, la sbarra pel salto, e tutti gli altri attrezzi di, ginnastica; e affinchè non succedessero dissidii e risse, segnava il sito dove ogni squadra potevasi divertire a piacimento.

                Intanto il Teol. Borel e il Teol. Carpano si aggiravano per le adiacenze in cerca di quei fanciulli che, venuti da altri borghi della città per divertirsi in quei prati solitarii, nulla sapevano o volevano sapere dell'Oratorio. Scoperto un [119] crocchio di questi, li invitavano con maniere cortesi a venir seco promettendo ai più restii un premio se si arrendessero. E ben di rado tornavano vane le loro esortazioni. Quando questi buoni preti non potevano compiere tale ufficio di carità, D. Bosco ne incaricava or l'uno or l'altro dei catechisti o dei chierici.

                In quel frattempo i giovani incominciavano la ricreazione e D. Bosco stesso aveva loro distribuiti i giuochi. Egli era sempre in mezzo ai ragazzi, ci narrava D. Reviglio. Aggiravasi qua e là, si accostava or all'uno ora all'altro, e, senza che se ne avvedessero, li interrogava per conoscerne l'indole e i bisogni. Parlava in confidenza all'orecchio a questo e poi a quello, dando qualche santo consiglio o invitando ai divini sacramenti. Fermavasi presso coloro che per caso si mostrassero melanconici e studiavasi di infondere in essi l'allegria con qualche lepidezza. Egli poi era sempre lieto e sorridente, ma nulla di quanto accadeva sfuggiva alla sua attenta osservazione, ben sapendo di quali pericoli potesse essere causa l'agglomeramento di giovani di varia età, condizione e condotta. E non intermetteva questa sua vigilanza, anche quand'ebbe chierici e preti assidui nell'assistenza, volendo egli pel primo stabilire col suo esempio il metodo così importante di non lasciar mai i giovani da soli.

                Durante questa ricreazione, oltre i sacerdoti, dei quali abbiam già fatta menzione, giungevano, invitati da D. Bosco, il Teol. Rossi, il Teol. Vola Giovanni iuniore, il Can. Lorenzo Gastaldi, D. Bologna, e alcuni sacerdoti dei Convitto Ecclesiastico. Questi degni ministri del Signore si prestavano volentieri ad insegnare il catechismo e, or l'uno ora l'altro, a fare la predica. Ma nè tutti, nè sempre potevano intervenire all'Oratorio ogni domenica, e benchè rare volte, intrattenersi coi giovani dopo le funzioni. Tuttavia un caro spettacolo in [120] questo momento sorprendeva le persone di cuore. All'apparire di que' buoni ecclesiastici cessavano in gran parte i giuochi, e i giovani correvano in folla e circondavano in gruppi distinti ciascuno di essi, ed anche D. Bosco. Si domandava un racconto, si cantava qualche lode alla Madonna. Ciò accadeva, o prima o dopo, in tutte le ricreazioni.

                Verso le due e mezzo si ripigliavano le funzioni religiose. Era ammirabile l'ordine che regnava fra tanta moltitudine di giovani, anche in mezzo ai più clamorosi e svariati divertimenti. Bastava un tocco di campana perchè tutti tacessero, si ordinassero e contenti si avviassero alla cappella.

                Non bisogna però supporre che simile obbedienza non patisse qualche rara eccezione. Talora alcuni pochi, o perchè venuti la prima volta attirati dal compagni e dai giuochi, o perchè insolentelli di indole, appena udito il segnale di lasciare il divertimento cercavano di fuggire dal recinto dell'Oratorio, rispondendo con un'alzata di spalle a chi li richiamava e facendosi beffe delle esortazioni. Era quindi necessaria un po' d'energia per ricondurli ad imparare le cose di religione, delle quali nulla sapevano, e per impedire che, rimanendo abbandonati a se stessi, non cadessero in qualche pericolo dell'anima e del corpo. Nell'estate la smania di gettarsi a nuoto nella Dora o in qualche profondo canale aveva costato la vita a più di un incauto. Alcune madri avevano condotti a lui i loro figli, asserendo che erano incorreggibili e pregandolo a farli buoni. D. Bosco sentivasi responsabile in faccia a Dio delle loro anime, e talora egli stesso prendeva la rincorsa per fermarli. Ora quasi subito li raggiungeva, ora l'inseguimento durava qualche minuto. Alcuni si rassegnavano e ridendo si lasciavano condurre al catechismo, altri resistevano ed occorreva la virtù di un santo per non irritarsi a tanta caparbietà. Un giorno D. Bosco teneva dietro [121] a due di costoro, e per la corsa era rosso in viso e alquanto affannato. A un tratto comparisce tra le piante D. Giacomelli, il quale esclama: - Ehi! è la seconda volta che ti vedo alterato! - D. Bosco intanto fatti prigionieri i due fuggitivi e tenendoli per mano, dava a D. Giacomelli una risposta che, dimostrava la calma del suo animo: - Che vuoi! Questi benedetti ragazzi cercano di fuggire per non andare in chiesa!

                Intanto nell'Oratorio, dopo la recita della terza parte del Rosario, così avendo D. Bosco variato l'ordine primitivo delle funzioni, si incominciava il catechismo nelle classi, divise secondo l'età e la capacità. I catechisti avevano preso il loro posto e ritti in piedi soprastavano ai giovani ad, essi affidati. D. Bosco, tutto cura, nell'ordinare le classi affinchè l'insegnamento riuscisse proficuo, agli ecclesiastici di maggior dottrina assegnava i più grandicelli, ed eziandio a pii e dotti laici del patriziato torinese, fra i quali poi gli furono di grande aiuto, anche per le scuole, il Conte Carlo Cays e il Marchese Domenico Fossati.

                Egli, potendolo, riserbava per sè il catechismo in coro agli adulti e quando ne era impedito, ne incaricava sempre un distinto sacerdote e più specialmente il Teol. Francesco Marengo. D. Bosco, ben si può dire che possedesse in grado eccelso il dono dell'intelletto, nell'esporre le verità della fede e nell'impugnare gli errori che incominciavano a penetrare nelle menti. Ne parlava con molta chiarezza e facilità, esponendo la dottrina cristiana in modo che la faceva capire a tutte le intelligenze e riusciva un diletto per quanti l'udivano. In ciò il suo zelo era più unico che raro, ci notava il Teologo Leonardo Murialdo, come lo era eziandio nel promuovere lo spirito di pietà nel cuore della gioventù.

                Il catechismo non durava più' di mezz'ora, e cinque minuti prima del fine, il campanello della Messa dava un [122] segnale, che era accolto dai giovani col grido unanime, prolungato: Esempio! - I catechisti allora narravano un bel fatto da loro letto o udito, riguardante specialmente la vita dei Santi, o la storia della Chiesa, o i miracoli della Madonna, con grande piacere dei loro uditori. Quel grido poteva parere poco riverente in chiesa, ma D. Bosco conoscendo che i giovani immobili e silenziosi da parecchio tempo, avevano bisogno di uno sfogo, lo permise allegramente fino al 1868, persuaso che anche questo era gradito al Signore.

                Dopo il catechismo, D. Bosco, se non vi erano altri predicatori, anche alla sera faceva un'istruzione popolare, e dopo la Benedizione, prima di uscire di chiesa, soleva far cantare una laude sacra. Siccome egli amava in modo specialissimo il nome di Gesù, e lo invocava spesso, e lo scriveva con gusto, così preferiva la canzone in onore di questo Nome Santissimo, che incomincia: Su figli cantate. Ogni strofa terminava con un ritornello da lui escogitato, col quale più volte ripetevasi il nome di Gesù. Ed insisteva perchè a tale cantico si partecipasse con allegrezza di spirito e divozione.

                Talvolta D. Bosco non assisteva a tutte le funzioni. Quando ogni classe, anche quella del coro, aveva il proprio, catechista ed un predicatore era pronto a sostituirlo, egli percorreva un largo spazio della regione all'intorno, in cerca di pecorelle randagie, ossia di quel giovinastri ai quali non era facile far intendere ragione.

                Costoro, invece di andare alle parrocchie, si radunavano nei prati, nei viali e specialmente sotto ai portici delle case campestri a giuocare. Egli avvicinavasi bel bello a questi crocchi e con aspetto indifferente stava osservando il giuoco. In mezzo, sovra una sedia o il più sovente per terra, avevano steso un fazzoletto che serviva di tavoliere sul quale mettevano i danari della partita. Si giuocava disperatamente [123] alle carte: a tresette, all'asina, alla capra, e alcuni di questi, giuochi, come per esempio la capra, erano proibiti dalle leggi. Sul fazzoletto si trovavano ammucchiate da 15 a 20 e più lire per giuocata. Non era raro il caso che una questione di giuoco finisse a coltellate.

                D. Bosco adunque si intrometteva nel loro divertimento, e talora vi prendeva parte egli pure. Ma quando vedeva il fazzoletto ben provvisto di lire e i giuocatori scaldati nel gettar le carte, ratto come un lampo, prendeva i quattro angoli del fazzoletto e involgendo danari e carte, il tutto portava seco fuggendo con rapidità.

                I giovani sbalorditi si alzavano e gli correvano dietro gridando: - I danari, ci restituisca i danari! - Ma non potevano raggiungere D. Bosco, il quale nella corsa aveva pochi che potessero stargli a paro. Di quando in quando egli volgendosi diceva loro: - State sicuri; non voglia rubarvi i danari; venite con me, correte, raggiungetemi. Vi restituirò il danaro, anzi vi darò altri regali dei quali voi sarete contenti. Venite, correte.

                E così l'uno fuggendo e gli altri inseguendolo giungevano alla porta dell'Oratorio.

                La cappella era piena di giovani. Il Teol. Carpano, ovvero il Teol. Borel, era in pulpito che già predicava. Ma al giungere di D. Bosco con quella nuova turba di monelli, era indispensabile prendere un fare spigliato ed anche berniesco. Si trattava di calmare quei giuocatori irritati dalla sorpresa poco gradita che loro era stata fatta, e di attirarli in chiesa, e farli restare alla predica. D. Bosco entrava fingendosi ora un negoziante, ora un giovinastro mandato per forza dalla madre a udire la predica, ora uno invitato dal Direttore a venire all'Oratorio, ora anche un buon compagno che aveva condotti altri suoi bravi amici. I giovani [124] già in chiesa si volgevano ridendo, e contenti della scena, che si preparava, si alzavano in piedi per vedere.

                D. Bosco si avanzava talvolta come se fosse un venditore ambulante e gridando. - Torroni, torroni! Chi compra torroni!

                Il predicatore dal pulpito si rivolgeva a lui Olà, biricchino: esci di chiesa! E forse questa la piazza del mercato?

                - Oh bella! lo faccio i miei affari dove c'è da guadagnare. Ho visto qui tanti giovani e ho pensato di vendere i miei torroni.

                - E questo è il rispetto che porti alla casa di Dio?

                I due interlocutori parlavano in piemontese coi frizzi vivacissimi di questo dialetto e, o si proseguiva l'argomento in corso, ovvero s'interrompeva, per intrattenersi sul rispetto alla chiesa, sulla santificazione delle feste, sul giuoco, sulla bestemmia, sulla confessione.

                I giuocatori, entrati in chiesa, all'udire quell'inaspettato battibecco si fermavano, prestavano attenzione, ridevano, finivano con sedersi se vi era ancor posto, e stavano tranquilli fino alla fine del dialogo. Per questo genere di predicazione D. Borel e D. Bosco, facendo l'uno da maestro e l'altro da allievo, disponevano di tanta destrezza ed arguzia da durarla anche un'ora e mezzo, sì che i giovani provavano rincrescimento quando finiva.

                Si incominciava quindi il canto delle litanie. D. Bosco, era sempre in fondo alla chiesa in mezzo a' suoi merlotti. Qualcuno di que' garzoni gli diceva sotto voce. - Quando mi restituisce i soldi? - E D. Bosco: - Ancora un momento; lascia che si dia la Benedizione. - Allora invitava quei giovani a uscire con lui, li conduceva nel cortile, loro restituiva il danaro, aggiungeva qualche bel dono, si faceva [125] promettere che sarebbero venuti tutte le domeniche all'Oratorio, e che non avrebbero più giuocato come prima. Loro, faceva vedere i bei divertimenti che vi erano all'Oratorio, e si divideva da essi in guisa, che innamorati delle sue maniere, infine addivenivano suoi amici. E la domenica seguente prendevano ad intervenire all'Oratorio.

                Così finite le funzioni e dato un po' di svago ai giovani, seguiva la scuola per gli operai, prima o dopo il tramonto, secondo le stagioni, scuola questa a cui prestava D. Bosco la sua opera personale. Riprese le ricreazioni, si protraevano fino all'annottare[11]. [126]

                Ci raccontava il Sig. Castagno, testimonio oculare: “Don Bosco era il primo ai giuochi, l'anima della ricreazione. Colla persona e coll'occhio si trovava in ogni angolo del cortile, in mezzo ad ogni gruppo di giovani, prendendo parte a tutti i divertimenti In una partita incominciava una contesa, e D. Bosco a dire a chi ne era causa: Va là in quell'altro crocchio che manca di un giuocatore lo prendo il tuo posto. - E giuocava ai birilli, alle boccie, al volante, col plauso di coloro che erano felici di aver D. Bosco per compagno. Quando poi in un altro luogo scorgesse qualcheduno che usava modi e parole sguaiate in certi esercizii ginnastici: - A te! dicevagli: vieni al mio posto; io prenderò il tuo. - E facevasi il cambio. Così passava da un punto all'altro del cortile, sempre riportando il vanto di abile giuocatore, cosa che richiedeva sacrificio e fatica continua. “Innamorava il vederlo in mezzo a noi, diceva uno di questi allievi, ora già in età avanzata. Alcuni di noi erano senza, giubba, altri l'aveano, ma tutta a brandelli; questi a stento teneva ai fianchi i calzoni, quell'altro non aveva cappello, o le dita dei piedi sì affacciavano dalle scarpe rotte. Si era scarmigliati, talora sudici, screanzati, importuni, capricciosi, ed egli trovava le sue delizie stare coi più miserabili. Pei più piccini, aveva poi un affetto da madre. Talora due fanciulli per questioni di giuoco si ingiuriavano e si percuotevano. D. Bosco tosto si faceva presso di loro invitandoli a smettere. Accecati dalla rabbia alcuna volta non gli badavano, ed egli allora alzava la mano come in atto di percuoterli; ma ad un tratto [127] si fermava, prendendoli per un braccio li divideva, e tosto quei biricchini cessavano come per incanto da ogni alterco”.

                Sovente schierava in due campi opposti i giovani per la barrarotta, e facendosi egli stesso capo di una parte, si incamminava un giuoco così animato che, parte giuocatori e parte spettatori, tutti i giovani si infiammavano per quelle partite. Da un lato si voleva la gloria di vincere D. Bosco, dall'altro si, faceva festa per la sicurezza della vittoria.

                Non di rado egli sfidava tutti i giovani a sopravanzarlo nella corsa, e fissava la meta destinando il premio al vincitore. Ed eccoli allineati. D. Bosco solleva la veste al ginocchio: - Attenti, grida: Uno, due, tre! - E un nugolo di giovani si slancia, ma D. Bosco è sempre il primo a toccar la meta. L'ultima di queste sfide ebbe luogo precisamente nel 1868 e D. Bosco, non ostante le sue gambe enfiate, correva ancora con tanta rapidità da lasciarsi indietro 800 giovani fra i quali moltissimi di una snellezza meravigliosa. Noi presenti, non potevamo credere ai nostri occhi.

                Accadeva eziandio che allentandosi talora la ricreazione, D. Bosco andasse a riempire le sue saccoccie di caramelle e poscia ne slanciasse un bel numero in mezzo ai crocchi. Pensare a quell'abbruffamento degli uni sugli altri, agli spintoni, alle capriole che si succedevano, volendo ciascuno impadronirsi di uno almeno di quei dolci; quindi come tutti corressero per circondare D. Bosco, gridando: - A me, a me! - Ma D. Bosco prendeva a fuggire, i giovani ad inseguirlo; di quando in quando erano fermati da confetti gettati a piene mani, ma poi ritornavano a rincorrerlo, finchè non fosse esaurita la provvista.

                D. Bosco era affranto da quel moto continuo, ma ciò che più di tutto lo spossava era il parlare sempre dal mattino alla sera, in confessionale, dal pulpito nel catechismo, nella [128] scuola e nella ricreazione. I giovani, e fra questi un certo, numero di studenti, gli facevano mille interrogazioni di ogni genere e sopra ogni argomento, di arti, mestieri, invenzioni, lingua, storia, geografia, e sovra ciò che fu prima della creazione del mondo, e ciò che resterà dopo la sua distruzione, dove era raccolta tanta acqua prima del diluvio, il tutto con un'infinità di perchè quando non sapevano darsi ragione di questo o quello. D. Bosco doveva rispondere con franchezza a tutti, in modo che restassero appagati, avvertendo di non sbagliare e non contraddirsi, perchè i giovani, tenevano per oracoli le sue risposte ed anche le riferivano ai parenti od a persone istruite le quali poi convenivano coll'approvazione. A questo modo si erano formato un concetto altissimo della scienza di D. Bosco che, secondo essi, era unica, inarrivabile. Bisognava quindi che D. Bosco stesse sempre all'erta per non restar nell’imbroglio, poichè se avesse esitato o sbagliato, se una volta sola avesse detto di non saper rispondere, avrebbe perduto, almeno presso alcuni, quell'aureola che per il loro stesso bere importavagli di conservare. Tanto più che gli studenti nelle scuole interrogavano i professori. Questa fama di scienza universale era un vincolo - la stima! - che a lui traeva tutti i giovani più intelligenti, ed erano molti, i quali influivano poi sulle altre centinaia dei più rozzi, e così a D. Bosco tornava facile anche da solo imporsi paternamente a tutti. Egli si era fatta legge di non ignorare veruna di quelle cognizioni che i suoi giovani possedevano, oppure che dovevano avere o avrebbero necessariamente acquistate. Era un nuovo e continuo studio, al quale solo poteva attendere chi aveva come lui una meravigliosa memoria, e crediamo che, per es. alcune sue note sull'algebra fino alle equazioni di secondo grado, appartengano a questi tempi. [129] Tuttavia sarebbe una chimera il supporre che D. Bosco possedesse tutto lo scibile umano; perciò quando non sapeva che rispondere ad una interrogazione, con grande abilità e senza scomporsi, si toglieva dall'impaccio in modo evasivo. Per es. esclamava: - Olà, ho sempre da dire tutto io? Come! Ignorate questa cosa? Rispondete voi almeno una volta! Se ora non sapete sciogliere il quesito, pensateci, chè non vi sono troppe difficoltà. Preparo un bel premio a chi saprà rispondere meglio per la domenica ventura, - E i giovani lungo la settimana si davano d'attorno per sciogliere il problema; andavano ad importunare i maestri, il curato, i periti della materia proposta, e alla prima domenica riportavano trionfanti una risposta, che anche D. Bosco si era preparata. Egli però sapeva ampliarla, esaminandola nelle singole parti, trarne le conseguenze se gli veniva bene aggiungere un fatto storico, riguardante la materia esposta, insomma adornare di veste attraente ciò che gli altri avevano detto in poche parole. Allo stesso modo e collo stesso esito egli proponeva ai giovani interrogazioni di varia natura, giudicando essere un mezzo attissimo a preservarli dal male, il tenere sempre preoccupata con nuove idee singolari la loro mente e la loro fantasia.

                Eziandio in chiesa dopo la predica molte volte annunziava ad essi un problema da sciogliere, non omettendo mai di promettere premii. Colle sue prediche erasi acquistato presso i giovani anche una gran fama di oratore. E infatti sapeva così ben descrivere la magnificenza di Dio creatore e conservatore, le sue misericordie e le sue giustizie, che i giovani uscivano dalla cappella non sapendo, direi, da che parte passassero, tanto rimanevano sbalorditi. Perciò approfittandosi del loro entusiasmo, dall'argomento che aveva svolto traeva la domanda da fare, e diceva:

                Nella prossima festa [130] sappiatemi dire perchè il SS. Sacramento si chiama Eucaristia; quale è il primo naturale significato dell'espressione Paradiso... Altra volta proponeva si spiegasse la parola Morte, un'altra Purgatorio, poi i varii sensi della voce Inferno. Molte di queste dimande le ricavava dalla S. Scrittura: per es.: Trovatemi a qual lingua appartenga la parola parco, per indicare boschi e giardini reali, e usata da Salomone ne' suoi libri.

                I giovani lungo la settimana correvano a visitare molti teologi di Torino e riportavano risposte teologiche, le quali talvolta, per non essere stata esposta la questione nei termini esatti, non erano quelle richieste da D. Bosco. Egli diceva loro: - Non avete indovinato; studiate ancora. - E ritornavano dai loro teologi, per avere più ampie spiegazioni.

                Talora nessuno era premiato. Un giorno aveva chiesta qual fosse l'etimologia presso i latini della parola Peccatum - Nessuno portò la vera risposta, benchè avessero consultati uomini molto eruditi. D. Bosco allora fattosi recare il Metthiae - Martini, lexicon philologicum, lesse che peccatum viene da pecu, ossia pecus pecoris, perchè gli empii camminano come le pecore, le quali non son guidate dal lume della ragione, ma solo condotte dai loro brutali istinti. - I problemi proposti da D. Bosco avevano sempre per oggetto una massima morale.

                Talvolta per varie cause le risposte non erano conformi, e allora D. Bosco diceva: - Roetti, va a prendere in mia camera il tal libro Ed egli lo sfogliava in mezzo alla viva attenzione di tutti, e loro presentava la risposta esatta, e dava il premio ai fortunati. Il Prof. Teol. Ghiringhello venne un giorno a trovarlo e a dirgli ridendo che per carità lasciasse in pace i teologi di Torino, che ormai non ne potevano più per le visite continue dei suoi giovanetti. D. Bosco [131] però ne era contento, perchè così avvicinava molti de' suoi allievi ai santi e dotti sacerdoti della città, i quali con le loro gentili maniere facevano crescere più vive le simpatie verso il clero.

                Avvicendandosi tutte queste scene che, d'estate specialmente, avevano lunga durata, sopravveniva la notte e Don Bosco prima di congedare i giovani soleva dar loro qualche avvertimento. Ora li esortava a guardarsi dalle risse o dall'imporre soprannomi ai compagni, ora a far sempre il loro dovere per amore e non per timor dei castighi, ora ad usar, gran rispetto a tutti i superiori, levando il cappello quando li incontrassero, ora a baciare riverentemente la mano ai sacerdoti che venivano all'Oratorio per far loro del bene, e a rispondere con parole umili e con sincerità alle loro interrogazioni. Raccomandava eziandio a tutti una somma esattezza nell'osservanza delle Regole, sicchè ciascuno facesse a gara di essere il più divoto, il più modesto, il più puntuale negli esercizii di divozione.

                Ma più sovente, dopo che si era informato se tutti i suoi piccoli artigiani avessero lavoro, felice nel venir a conoscere che nessuno all'indomani sarebbe stato vittima dell'ozio, li premuniva contro quei pericoli che s'incontrano eziandio da chi ha fatto proponimento di mantenersi buono. “Qualcuno di voi, ei diceva si troverà in una casa, in una scuola, in una bottega, in un negozio, in una fabbrica, dove si fanno cattivi discorsi; ed io vi suggerisco il modo di liberarvene senza offendere il Signore. Se sono persone a voi inferiori, correggetele coraggiosamente e con severità; qualora siano persone a cui non convenga fare rimproveri, fuggite se potete; e non potendo, state fermi a non prendervi parte nè con parole, nè con sorrisi, e dite nel vostro cuore: Gesù mio, misericordia... Non lasciatevi mai vincere dal rispetto umano. Può [132] darsi che taluno vi metta in canzone e si beffi di voi, ma non importa. Verrà il tempo in cui il ridere e il burlare dei maligni si cangerà in pianto nell’inferno, e il disprezzo dei buoni si muterà nella più consolante allegria in paradiso. Notate peraltro che stando voi fedeli al Signore ne avverrà che gli stessi vostri dileggiatori saranno costretti a pregiare la vostra virtù, di maniera che non oseranno più molestarvi coi loro perversi ragionamenti. S. Luigi aveva preso un tale ascendente sovra i suoi compagni, e vecchi e giovani, che al suo comparire nessuno azzardava una parola meno onesta. Del resto, qualora poi, malgrado tutte le precauzioni, vi trovaste in pericolo di offendere Iddio, fuggite, abbandonate il luogo, la casa, il lavoro, l'officina; sopportate qualunque male del mondo piuttosto che dimorare in luoghi e trattare con persone, che mettono in pericolo la salvezza dell'anima, vostra. State sicuri che Dio e la Madonna SS. non vi abbandoneranno. Anche D. Bosco si impegnerà per aiutarvi con tutte le sue forze e troverà sempre lavoro e pane per i suoi cari figliuoli”.

                Non di rado egli annunziava che avrebbe rese più amene le loro ricreazioni con giuochi di prestigio, o con distribuzione di medaglie, d’immagini, di libretti, con qualche lotteria di premii estratti a sorte, colazioni, merende, musiche vocali e istrumentali, e anche con regali di oggetti di vestiario ottenuti dai benefattori, purchè stessero attenti in chiesa ed imparassero. E siccome tutti sapevano per prova che D. Bosco, manteneva la sua parola, andavano in visibilio per la gioia.

                Dopo una giornata trascorsa in mezzo a tante occupazioni, e per il poco cibo che aveva preso, D. Bosco non poteva quasi più muoversi. I giovani artigiani, che erano gli ultimi a partire, poichè gli studenti ritornavano a casa ad ora meno tarda, gli dicevano sovente: - Ci accompagni fuori! [133]  - Ma io non posso, rispondeva D. Bosco.

                - Faccia un solo passo con noi. - E tanto lo pregavano che usciva. Andato per lo spazio di un tiro di pietra, accennava a ritornare indietro, ma i giovani che non sapevano - staccarsi da lui: - Venga ancora per un piccolo tratto; venga con noi fino a quegli alberi. - E D. Bosco pazientemente li compiaceva. Giunto al luogo indicato, fermavasi, e quei trecento e più ragazzi, piccoli e grandi, gli facevano intorno corona e tutti instavano perchè narrasse un fatto. D. Bosco si scusava, dicendo: - Ma basta; lasciatemi andare a casa, chè sono molto stanco.

                - No, no, rispondevano. Noi canteremo una lode; lei intanto si riposerà e poi ci racconterà un bell'esempio.

                - Ma non ne posso più

                - Un solo e poi basta.

                - Ma non sentite che non ho quasi più voce!

                - Un fatto breve! - La folla intanto cresceva intorno a D. Bosco, perchè la gente passando si fermava e così pure molti soldati che uscivano dalle bettole. Tutti stavano per udire che cosa avrebbe detto il prete. I giovani cantavano due o tre strofe della canzone Lodate Maria; quindi Don Bosco, salito sopra un sedile di pietra o sopra un tumolo di sabbia, diceva: - Ebbene! vi racconto ancora un fatto e poi andate a casa. E raccontava, concludendo E ora basta; buona notte

                I giovani con tutta l'altra folla rispondevano: Buona notte! - e mandavano un ultimo assordante grido di evviva a D. Bosco. Tutti si sbandavano per ritornare alle loro famiglie, o al luogo ove solevano riposare; ma prima ciascuno voleva avvicinarsi a D. Bosco per salutarlo anche una volta. Allora alcuni dei più adulti sostenendolo sulle loro braccia e cantando a squarciagola la nota canzone: Andiamo, compagni [134], D. Bosco ci aspetta, lo riportavano a casa. Entrato in sua camera, sentivasi così estenuato che, più volte venendo Mamma Margherita per invitarlo a cena, egli rispondevale: - Lasciate che mi riposi alquanto. - E rimaneva profondamente assopito; ed anche scosso, non lo si poteva destare. Talvolta andava a cena, e dopo il primo cucchiaio di minestra, restava preso dal sonno, sicchè la testa cadeva sulla scodella. Allora, dopo qualche istante, Brosio Giuseppe ed altri giovanotti, che si erano ivi fermati per fargli compagnia, senz'altro quasi di peso lo trasportavano nella sua stanza, ed egli così vestito com'era si gettava sul letto e non era più capace di voltarsi sul fianco nè di muovere un braccio od una gamba. Aveva lavorato continuamente dalle 4 del mattino fino alle 10 e più della sera.

                Ma quando lungo la settimana cadevano altre feste di precetto, pensi ognuno in quale stato venisse ridotto D. Bosco, non ancor riavutosi dalle fatiche della domenica. Sua madre avvertita alla sera del suo avvicinarsi dai canti marziali dei giovani che lo riconducevano dal Rondò, gli andava incontro sulla porta e gli diceva: - Sei ancora vivo? - Ma il figlio pareva quasi che non sentisse, saliva in camera e, sedutosi sulla prima sedia, o baule, o panca nella quale imbattevasi, subito si addormentava; e talvolta si destò solamente sul far dell'alba. Certe altre mattine si svegliò mezzo vestito, appoggiato col dorso al letto e coi piedi puntati contro il muro.

                Così ogni istante della giornata di D. Bosco era segnato da un atto di sacrifizio che diremo eroico. Nè solo per le fatiche; perchè non bisogna supporre che talvolta non lo ferissero dispiaceri anche gravi. Ciò conoscono per esperienza quanti si prendono cura della gioventù. Ma egli ricordava aver detto N. S. Gesù Cristo: “Guadagnerete le [135] anime vostre mediante la pazienza”[12]. Infatti in mezzo a' suoi giovani, pieno di fiducia nell'aiuto di Dio e nell'efficacia di un'istruzione schiettamente cattolica, soleva esclamare:

                - Spero di potervi vedere tutti un giorno riuniti in cielo!

                Le sue fatiche e le sue speranze erano ricompensate da un risultato sorprendente. Narrava Buzzetti Giuseppe: - Conobbi centinaia di ragazzi, i quali prima di venire all'Oratorio erano del tutto privi d'istruzione e di sentimenti religiosi, mutare in brevissimo tempo costumi; e talmente affezionarsi alle nostre radunanze festive, da non sapersene allontanare, frequentando i sacramenti non solo ogni domenica, ma anche nelle feste soprasettimana. - E il Cari. Anfossi esponeva ciò di che era stato testimonio per molti anni: Vidi io stesso giovanastri adulti e scapestrati, i quali dopo poche feste diventavano buoni e fervorosi. Si mostravano a dito alcuni che, prima di venir con D. Bosco noti per una vita scandalosa, erano poi divenuti dei più edificanti; e diversi di loro avrebbero voluto fare, per umiliarsi, le loro confessioni anche pubblicamente, se D. Bosco l'avesse loro permesso.

                E questa morale riforma continuò, senza essere interrotta mai. D. Bosco, si argomentava di poter riuscire col tempo a cambiare almeno in parte la faccia della società; e non passarono molti anni che dei giovani da lui allevati nella fede e nella pietà se ne trovarono in tutte le parti del mondo, e migliaia di essi divennero capi di nuove famiglie cristiane. “Che tale fosse il suo divisamento, scriveva D. Francesco Dalmazzo, si scorgeva dall'inflessione speciale della voce, dal suo sguardo fisso in alto, quando in ogni occasione che gli si presentava, egli stesso intonava il salmo: Laudate Dominum omnes gentes!”

 

 

CAPO XII. Le principali solennità nell'Oratorio - Le indulgenze Preparativi - La gioia di questi giorni - Straordinarii divertimenti e spettacoli - I giuochi di prestigio - La ruota della fortuna - Lotterie.

 

                ALL'’ORATORIO in nessuna stagione rimanevano giorni di vacanza. Le sacre funzioni si avvicendavano tutti i giorni festivi. Alcuni però di questi si distinguevano fra gli altri per la maggiore solennità, le sante industrie e per le fatiche ancor più gravose cui sobbarcavasi D. Bosco. Erano le feste di S. Francesco di Sales, Titolare dell'Oratorio; di S. Luigi Gonzaga, Patrono principale; dell'Angelo Custode, Patrono dell'Oratorio; e quelle di Maria Vergine, l'Annunziazione, l'Assunzione, la Nascita, il Rosario e l'Immacolata Concezione. D. Bosco raccomandava in queste maggior devozione e raccoglimento, specialmente per l'indulgenza plenaria concessa poi per ciascuna di esse dal Romano Pontefice; e desiderava che i giovani ne comprendessero l'importanza e quindi conoscessero le condizioni necessarie per lucrare tutto l'inestimabile tesoro. “È bene qui notare, scriveva nel Regolamento degli Oratorii festivi, che per lucrare la plenaria indulgenza è prescritto: 1° La sacramentale Confessione e Comunione; 2° Visitare questa nostra chiesa; 3° Far qualche preghiera secondo l'intenzione [137] del Sommo Pontefice”[13]. E nel suo manoscritto autografo si legge: “Nelle occorrenze di queste feste tutti i figli dell'Oratorio e specialmente li incaricati dei varii uffizii, anche per dare buon esempio, sono invitati a partecipare dei celesti favori e ad accostarsi ai santi Sacramenti”.

                Ei non si lasciava sfuggir nessuna di queste occasioni per esortare calorosamente tutti quelli dell'Oratorio ad una comunione generale; e non si stancava mai, benchè tali comunioni per questo o quel motivo si celebrassero per lo meno una volta al mese. Nè si appagava del numero delle comunioni, ma per quanto era in lui si adoperava con vivissimo impegno ad impedire, che neppur una di queste recasse sacrilego oltraggio a N. S. Gesù Cristo. In quanto alla confessione ei ripeteva ciò che aveva pur scritto nell'autografo sopra citato: “Per lucrare le sante indulgenze è indispensabile lo stato, di grazia, perchè non può ottenere la remissione della pena temporale chi meritasse la pena eterna”. E in quanto alla SS. Comunione erano continuamente sulle sue labbra alcune massime, che allievi di questi anni ci ripeterono testualmente:

                “Prima di accostarvi a ricevere l'adorabile corpo di Gesù Cristo dovete riflettere se avete nel cuore le debite disposizioni. Sappiate che quel figlio il quale dopo di aver peccato non vuole emendarsi, cioè a dire, vuole di nuovo offendere il Signore, ancorchè siasi confessato, non è degno di accostarsi alla mensa del Salvatore, e comunicandosi, invece di arricchirsi di grazie, si rende più colpevole, e degno di maggior castigo. Al contrario, se vi siete confessati con un fermo, efficace proponimento di emendarvi, accostatevi pure a ricevere il pane degli Angioli ed arrecherete piacere grandissimo a [138] N. S. Gesù Cristo. Egli stesso quando era visibile su questa terra, sebbene invitasse chiunque a seguirlo, tuttavia dimostrava una benevolenza speciale ai pii ed innocenti fanciulli, dicendo: - Lasciate che questi pargoli vengano a me, e non impediteli! - e dava loro la benedizione. Ascoltate pertanto il suo amorevole invito, e andate non solo a ricevere la sua benedizione, ma Lui stesso in persona”.

                I frutti consolanti delle sue esortazioni erano confessioni senza numero che doveva ascoltare.

                Queste feste imponevano a D. Bosco nuovi impegni. Ad ogni cosa pensava, a tutto provvedeva e metteva la sua opera: ornare la cappella, addestrare i cantori, insegnare le cerimonie ai chierichetti, farsi imprestare dal Rifugio i sacri paramenti che gli mancavano, disporre in sagrestia l'occorrente alle sacre funzioni, stampare l'orario, in persona o per lettera invitare i benefattori, scegliere il Priore, trovare sacerdoti per la Messa solenne e l'oratore per il panegirico, cercare elemosine per sopperire alla spesa, provvedere la colezione per tutti i giovanetti, che si distribuiva senza distinzione, eziandio a quelli che non avessero fatta la S. Comunione. Chi è pratico di Oratorii festivi aggiunga quello che io ometto.

                E alle cure di D. Bosco corrispondeva l'ordine e la gioia nella moltitudine dei figli; e nella cappella, che per essi era divenuta un paradiso, la loro divozione splendeva ancor più viva e più attraente agli occhi di chi si compiaceva osservarli. Per D. Bosco poi era il colmo della felicità, persuadersi che erano tutti in grazia di Dio e nel vederli accostare alla sacra Mensa per lungo tempo, a schiere a schiere.

                Nella sera dopo la Benedizione D. Bosco trovava sempre nuovi modi per divertire i suoi giovanetti, e giuochi riserbati solamente per le grandi solennità. Alla moltitudine di que' dell'Oratorio si aggiungevano numerosi benefattori ed [139] invitati. D. Bosco ciò faceva sempre con uno speciale apparato, disponendo un posto onorevole per i personaggi più insigni. Egli presiedeva sempre e i pacificatori stavano nel cortile vicino per quietare chi recasse disturbo. Un po' di musica istrumentale di amici esterni faceva talora sentire ad intervalli le sue note. Incominciava la corsa nel sacco con una merenda preparata al primo o ai primi che avessero, raggiunta la meta; ovvero la rottura delle pignatte piene di ciambelle. Sopra un modesto albero della cuccagna stavano appesi varii oggetti che aspettavano chi si sarebbe arrampicato fino a quell'altezza per impossessarsene. Eravi il così chiamato, giuoco del rompicollo, consistente in un piano inclinato e molto unto col sapone, il quale però non presentava pericolo di sorta, e si dava un premio a chi ne avesse raggiunto l'orlo superiore: impresa non tanto facile e che destava una viva ilarità per gli sforzi che molti facevano per ascendere, mentre il proprio peso li faceva sdrucciolare. Non mancavano le illuminazioni delle finestre e del cortile, l'ascensione, di globi areostatici e i fuochi d'artifizio.

                Non di raro D. Bosco stesso cingeva il grembiale del giocoliere, e innanzi al tavolino preparato all'uopo faceva giuochi di prestigio coll'antica sua destrezza di mano. Dai bussolotti faceva uscire ogni sorta di pallottole grosse e piccole con altre cose diverse, che facevano strabiliare gli spettatori.

                Faceva andare oggetti nelle tasche altrui, indovinava le carte che altri teneva in mano. Possedeva tal forza nelle dita che quando era in mezzo a' suoi giovani si faceva dare da essi ossa di pesche e le apriva adoperando le sole mani. Se si trovava tra persone che avessero del denaro chiedeva uno scudo in imprestito. Avutolo, diceva al possessore: - Ma guardate che ve lo restituirò solo in pezzi! - Faccia pure gli era risposto. Viva era la curiosità di chi gli stava [140] intorno, ed egli presa la moneta fra quattro dita, la spezzava di un colpo. Da questi esercizii e da quelli di prestigio cessò nel 1860, e l'ultima volta dopo aver esilarati motto i giovani, li atterrì facendoli comparire senza testa.

                Ciò D. Bosco aveva fatto a bello studio. La frase essere senza testa, aver la testa tagliata, frase che sovente pronunciava parlando ai giovani, aveva un gran significato: primieramente cioè dover un giovane essere umile, vincere l'amor proprio, rimettersi alla volontà, al giudizio, al consiglio dei suoi superiori e non ostinarsi nelle proprie inconsulte risoluzioni e nei proprii capricci; e in secondo luogo alludeva, ma più velatamente e più di raro, all'obbedienza religiosa nella Congregazione, che egli voleva per mezzo loro fondare; ossia in altri termini, poichè di Congregazione ancora non parlava, di rimanere con D. Bosco nell'Oratorio per aiutarlo nel salvare la gioventù. Ciò diceva solo e alla sfuggita, a quei che conosceva di molta virtù, d'indole generosa e a lui più affezionati. Altri giuochi gli davano poi argomento in vario modo per avvisare qualcuno, in modo festevole, consigliarlo ed invitarlo al bene.

                Ricordavano questi spettacoli D. Bellia Giacomo, Buzzetti Giuseppe e cento loro compagni, e aggiungevano notizie d'altri trattenimenti che rendevano sempre più belle queste serate.

                Talora D. Bosco in certe feste primarie, p. es., in quella, di S. Francesco di Sales, preparava la ruota della fortuna con biglietti, parte numerati e parte no. Sovra un gran tavolo aveva disposti molti oggetti anche di valore, che era andato a chiedere in dono a' suoi benefattori. Ogni premio, aveva il suo numero. Gli invitati accorrevano in folla; un giovanetto girava la ruota, e D. Bosco stesso estraeva i biglietti, i quali erano dieci volte tanti più dei premii, e li consegnava a chi avea pagato l'importo stabilito. Talora ad [141] uno di quei signori toccavano successivamente dieci o dodici biglietti tutti bianchi, cioè senza diritto al premio, ed essi si, mostravano allegri per l'avuta disdetta, mentre gli spettatori, e specialmente i giovani, ridevano saporitamente. Questa ruota era uno spediente per coprire le spese della festa.

                La sorte era eziandio adoperata per tenere gradevolmente occupati i giovani. Era stabilito che almeno ogni trimestre si facesse per loro una lotteria, cioè alla festa di S. Francesco, di Sales, a quella di S. Luigi Gonzaga, di Maria Assunta in cielo, e di Ognissanti[14]. Gli oggetti a ciò destinati consistevano in libri di divozione o di amene letture, quadretti crocifissi, medaglie, giuocattoli diversi, ed anche pei più esemplari qualche paio di scarpe o qualche taglio di vestito. L'estrazione dei numeri era così combinata, che il premio era a scelta, e chi guadagnava, lo aveva corrispondente alla frequenza e alla morale sua condotta.

                Oltre a queste, quasi ogni mese, D. Bosco disponeva altre lotterie meno solenni, ma non meno attraenti. Era un'occupazione non tanto spiccia scrivere un seicento numeri su altrettanti biglietti da distribuirsi uno per uno a ciascun giovane; ripetere tutte queste cifre su scaccoli separati e accartocciatoli riporli in un taschetto; infine notarle tutte in un registro, e a lato di ciascuna indicare il premio assegnato. D. Bosco sul poggiuolo davanti alla sua stanza, oppure salito sovra una sedia appoggiata alla chiesa, dopo avere annunziate le condizioni della lotteria scuoteva il taschetto, e adagio, volendo protrarre il divertimento il più che poteva, estraeva i numeri e li proclamava ad alta voce. I giovani si pigiavano in cortile, cogli occhi ora fissi in D. Bosco, ora sul [142] loro biglietto che si tenevano in mano. Talora non essendovi premii abbastanza per tutti, più decine di essi dovevano restare a mani vuote; quindi l'ansietà li teneva sospesi per lunga ora, sperando di essere tra i fortunati. Il più delle volte però tutto era ordinato in modo che ad ogni giovarle toccasse qualche coserella e allora la curiosità li rendeva ancor più attenti, fantasticando che cosa mai avrebbero guadagnato. Sul banco vi erano alcune cravattine, un cappello, un berretto, una giubba, una focaccia dolce, frutta, zuccherini ed altri oggetti che dovevano rendere più ameno quel trattenimento. E le risa e i battimani scoppiavano fragorosi quando il banditore annunziava i premii guadagnati da certi numeri. - Una patata cotta, ovvero: una carota, una cipolla, una rapa, una castagna! - E colui che era chiamato non mancava di presentarsi a ritirare il magnifico dono.

                Talvolta i premii erano collettivi, cioè un certo numero di giovani coi loro biglietti ne guadagnavano uno che dovevano poi ripartire fra di loro. Per es., una larga focaccia fra dieci, una bottiglia di birra fra quattro; due pani, due porzioni di salame o di formaggio, una bottiglietta di vino corrispondevano a cinque numeri e formavano un lotto solo. Ma il primo vincitore doveva aspettare che la sorte indicasse gli altri quattro suoi compagni che poi andavano insieme a merendare, ciascuno facendo parte eguale di ciò che loro era toccato. Nuovi commenti e nuove risa provocava la formazione di questi gruppi, fatta dal capriccio della fortuna, che accozzava talvolta caratteri disparati ed avversi. Ma tutto andava pel meglio ed anche i mali umori si dileguavano.

                Nè hassi però a credere che D. Bosco largheggiasse di soverchio in queste occasioni. Eccettuati alcuni casi straordinarii, e quando riceveva a tale fine doni vistosi dai benefattori, sapeva far risparmio di danaro per impiegarlo in altre [143] spese più urgenti. La compra dei premii non oltrepassava mai le dieci lire, e trovava sempre distinti personaggi che volentieri gliene facevano dono. Anzi, aggiungeva D. Michele Rua testimonio del fatto, con tre lire e mezzo spesse volte contentava tutti e in modo sorprendente; e non mancava mai qualche premio di bella apparenza, benchè di poco valore. D. Bosco soleva dire: “I giovani stimano le cose secondo hanno imparato a giudicarle. Non è il molto ma il dato di cuore, anche a poco a poco, e in tempo opportuno che torna loro gradito”.

                Ed egli col suo fare e colla sua parola incantevole tutto rendeva bello ed amabile.

 

 

CAPO XIII. Il canto nelle sacre solennità - Primi strumenti musicali - Nuove scuole, nuovo metodo e nuove composizioni - Pazienza di D. Bosco - I cantori alla Consolata e il maestro Bodoira - I1 canto gregoriano.

 

                NEL CAPITOLO precedente abbiamo descritto come D. Bosco si affaticasse, nel preparare quanto occorreva per entusiasmare i ragazzi nelle grandi solennità. Abbiamo accennato al canto e qui ne parleremo più diffusamente per far sempre meglio risaltare lo zelo costante di D. Bosco. Egli era appassionatissimo per le funzioni di chiesa, perciò continuava la sua scuola di canto, alla quale sul finire del 1847 e nel 1848 dava una, nuova e gagliarda spinta, aumentando il numero degli allievi. Ma quanto grandi difficoltà dovette superare! Egli senza maestro aveva imparato da sè a suonare il pianoforte, e non potendo permettersi in casa sua il lusso di un così costoso istrumento, talora si esercitava su quello di qualche amico sacerdote. Per ritenere in tono i suoi discepoli ed anche per accompagnare le lodi alla Madonna col suono, nel luglio del 1847 comprava per dodici lire una fisarmonica. Per la sua, cappella - tettoia provvedeva il 5 novembre 1847 eziandio un organuccio, che gli era costato la somma favolosa di trentacinque [145] lire. Pensate quali note armoniose doveva emettere. Suonavasi col manubrio e i pezzi musicali del suo cilindro portavano l'Ave maris stella, le Litanie della Madonna, il Magnificat con qualche altro inno della Chiesa. Forse per anni ed anni era stato trasferito da una cappella campestre all'altra nei giorni di solennità. Ma se poteva servire per le feste ordinarie, diveniva inutile allorchè era conveniente variare la musica. Quindi la necessità che D. Bosco trovasse un pianoforte per la sua scuola di canto. Il Teol. Giovanni Vola fu quegli che provvide a quel bisogno donando un cembalo, o meglio una vecchia spinetta che aveva in casa. “Mi costa trenta lire, sapete!” aveva detto mentre la consegnava al giovani venuti per trasportarla all'Oratorio.

                D. Bosco raccolse allora una cinquantina di ragazzi che avevano voce più bella, intelligenza più aperta, e orecchio più fino. Ad alcuni aveva fatto imparare gli esercizii degli intervalli e delle scale; pochi altri, i quali appartenevano a quella antica scuola della quale altrove abbiamo discorso, si erano già avvezzati per la molta pratica a certo suo nuovo metodo, adattato unicamente ad essi ed allo stile musicale di D. Bosco; la massima parte però non aveva mai cantato ed era al tutto ignara dei primi elementi di questa nobilissima arte.

                Perciò D. Bosco, che voleva a qualunque costo celebrare le feste coi canti de' suoi giovanetti, non si scoraggiò alla vista del lungo tempo che occorreva perchè essi imparassero ad orecchio e ritenessero a memoria i motivi musicali. Conformandosi alla loro ignoranza ed al bisogno, e non trovando facili musiche, a quelle, come abbiamo già detto, da lui composte negli anni trascorsi, aggiunse una sua nuova Messa, un Tantum ergo, ed altri salmi pel vespro. Ricavava sovente le sue armonie, con qualche modificazione, dalle varie [146] laudi sacre che i giovani conoscevano perfettamente, aggiungendo qualche nota per l'introduzione e per il finale. V'intrometteva tratti di canto gregoriano, tolti ora dall'antifonario ed ora dal graduale, che reputasse più maestosi e devoti facendovi talora leggere variazioni od accordi. Qualche semplice motivo era eziandio trovato dal suo genio, specie negli a solo.

                Questo suo lavoro, benchè sembri così esiguo da non doverne tener conto, pure, lo diciamo con franchezza, era il principio lontano di riforme nella musica sacra da lui ardentemente desiderate. In fatti un gran numero di maestri poco istruiti e poco amanti dello studio, seguendo l'andazzo dei tempi, abborracciavano i Kyrie, i Gloria, i Credo, le altre parti cantabili della Messa, unendo insieme cori e a soli di opere teatrali. Così facevano per i vespri; e si udiva sul motivo della Stella confidente cantarsi il Tantum ergo e il Genitori. Parole sacre e musica profana. D. Bosco non poteva soffrire questa specie di sacrilegio.

                Egli adunque, seduto alla spinetta ed avendo innanzi schierati i suoi cantori novizii, tante volte batteva i suoi motivi sui tasti, li cantava egli stesso, li faceva ripetere dal suo coro, che finalmente riusciva a farli imprimere nella loro memoria. La scuola però procedeva con stento, perchè talora un certo numero degli allievi, essendo operai, erano impediti dall'intervenire.

                Venuta la vigilia d'una festa, distribuiva le parti che ciascuno doveva eseguire e qui a nuove prove era messa la longanimità di D. Bosco. Il domani alcuno dei cantori non compariva all'ora stabilita, punto da invidia o da gelosia, offeso per non essergli toccata quella parte che desiderava, o per congeneri motivi. D. Bosco rimaneva allora negli imbrogli e doveva egli stesso eseguire la parte di chi era [147] rimasto a casa, o accomodarsi come meglio poteva con altri cantori. Era quella una specie d'ingratitudine, perchè ai cantori ed a quelli eziandio che vestivano da chierici per servire la santa Messa, al mattino di una festa D. Bosco faceva, qualche regaluccio o concedeva una speciale colazione.

                La domenica seguente quei giovanetti permalosi ritornavano all'Oratorio come se nulla fosse stato. E D. Bosco si guardava bene dal far loro rimproveri, dissimulando in quel, momento l'offesa per non irritarli, e non essere con ciò causa, che si allontanassero dall'Oratorio. Egli per primo capo metteva sempre il fine di non porre impedimento alla salute delle anime. “Colla pazienza si accomodano tante cose!” diceva. Tuttavia, per ovviare a questi inconvenienti, faceva, imparare le parti a solo contemporaneamente a più giovanetti, cosicchè mancando il migliore dei cantori, questi poteva essere supplito da altri; e i capricci avevano un freno, potendosi vedere soppiantati da un rivale negli immaginarii onori, e così un dispetto non poteva ottenere lo sfogo desiderato. A suo tempo però, benchè tardivo, D. Bosco non mancava di porgere un ammonimento fruttuoso a chi aveva bisogno di modificare la propria indole, esortandolo a cantare col solo pensiero di far cosa grata a Dio.

                Questa musica fu un'attrattiva di più per legare i fanciulli all'Oratorio festivo e per attirarne sempre dei nuovi. Anche la gente estranea e i sacerdoti che venivano in Valdocco rimanevano meravigliati di quel nuovo coro infantile, il quale corrispondeva così bene alle cure del maestro, e domandavano e facevano premura di averlo a cantare nelle loro chiese.

                Era però necessario che D. Bosco lo guidasse, poichè nessun maestro del mondo vi sarebbe riuscito: “Io solo, diceva D. Bosco ridendo, era capace a dirigere quell'orchestra”. [148]

                Infatti la sua partitura era indecifrabile. Alcuni motivi erano, scritti politamente colle sue note, di altri era notata solamente la prima frase; una sgraffa, una lettera, un numero indicava una ripresa, ovvero un ritornello. Non mancava, qualche nota di canto fermo. Le indicazioni della chiave degli accidenti e del tempo erano rimaste nella penna e nella mente di D. Bosco.

                Fu invitato una volta co' suoi giovani a cantare una, Messa nel santuario della Consolata, ed egli vi si portò all'ora convenuta con pochi cantori, recando con sè il cartolare di., una Messa da lui composta. Organista di quella chiesa era, il celebre maestro Bodoira. D. Bosco gli chiese con un misterioso sorriso, se avrebbe potuto accompagnare il canto, essendo, la Messa affatto nuova. “Qualche cosa farò”, rispose alquanto, risentito Bodoira, il quale era valente nell'interpretare a prima vista qualunque musica anche delle più difficili. E non volle dare neppure uno sguardo a quello spartito che D. Bosco gli presentava. Scocca l'ora della Messa, apre il fascicolo contenente la musica, dà uno sguardo, crolla il capo e tenta di suonare. Tutti i cantori sono fuori di tono. - Ma chi ci capisce? Qual chiave è questa? Io ne ho abbastanza, esclama, e preso il cappello, scende in chiesa, e se ne va pe' fatti suoi. Don, Bosco che aveva preveduta questa ritirata, siede all'organo e con maestria accompagna la Messa sino al fine senza che i giovani sgarrassero una sola nota. La bellezza delle voci, il loro contegno divoto, e i volti che esprimevano fede ed innocenza attraevano i cuori del popolo. Venuti i giovani in sagrestia ebbero molti elogi pel loro canto, come pure fu lodato il suonatore dell'organo credendo quei religiosi che fosse il maestro Bodoira. E questa lode riuscì tutta ad onore di D. Bosco, che aveva accompagnato così bene, e tanto più sincera quanto meno era sospetta. Ci fu narrato questo racconto [149] da un distinto dottore in belle lettere, che fu allievo dell'Oratorio nei primi tempi.

                D. Bosco intanto, perchè aveva l'anima e la fantasia piena di armonie celestiali e uno squisito senso musicale, faceziando apprezzava, per quel che valevano, i suoi capi d'opera; i quali tuttavia per la carità, dalla quale erano ispirati, per l'umile sentire di sè che animava l'autore, ben potevano essere fregiati coll'iscrizione: “In cospectu angelorum psallam tibi”. Scherzando e con mezzi insufficienti, come in tutte le altre sue imprese, fondava la scuola di musica, che saviamente condotta non solo doveva essere di lustro e decoro al divin culto, ma riuscire eziandio un buon mezzo di educazione tanto morale, quanto intellettuale per i suoi allievi. E il culto della musica doveva riuscire in perpetuo uno dei distintivi delle sue Case, da lui giudicato come elemento necessario della loro vita.

                E fin d'allora, per dimostrare il pregio nel quale tenevalo, alla festa di Santa Cecilia invitava a pranzo e faceva sedere alla sua tavola i primi cinque o sei giovanetti cantori di migliore abilità e condotta, pratica che amò continuare per molti anni.

                Animati i cantori, e con loro provveduto all'attuale necessità, dopo pochi mesi egli organizzava una scuola preparatoria e destinava a maestro il giovane Bellia Giacomo. Non solo D. Bosco voleva far cantare, ma insegnare a cantori. L'arredo della scuola non poteva competere con rivali. Per leggio serviva una sedia, posta sopra di un tavolino appoggiato al muro, e su questa si collocavano i cartelloni dei primi esercizii di musica che egli stesso aveva scritto a stampatello. Il Teol. Nasi e D. Chiatellino ebbero poi eziandio a fare, quando potevano, alcune ripetizioni, direi di perfezionamento, a quelli che D. Bosco designava come di migliori speranze. [150]

                Intanto in città si era sparsa la notizia di queste lezioni. Essendo la prima volta che avevano luogo pubbliche scuole di musica e così numerose, e la prima volta che il canto era insegnato in classe a molti allievi contemporaneamente, vi fu un concorso stragrande di curiosi. Lasciò scritto D. Bosco: “I famosi maestri d'armonia Rossi Luigi, Blanchi Giuseppe, Cerutti Giuseppe e altri venivano per più settimane, quasi ogni sera, ad ascoltare le mie lezioni. Ciò era in contraddizione col proverbio che dice non essere l'allievo sopra il maestro, mentre io non sapeva un milionesimo di quanto sapevano quelle celebrità; tuttavia la faceva da maestro in mezzo di loro. Essi per altro non venivano da me per ricevere insegnamenti, ma per osservare come fosse il nuovo metodo, direi simultaneo, che è quello stesso oggidì praticato nelle nostre Case. Nei tempi passati ogni allievo che avesse desiderato imparar la musica vocale doveva cercarsi un maestro che gli desse lezioni separate. Quando tali allievi erano sufficientemente istruiti, si univano, formavano i cori, e sotto abile professore d'orchestra si esercitavano a cantare pel teatro o per la chiesa”.

                Quei valenti professori ammiravano adunque il silenzio, l'ordine e l'attenzione degli allievi, le varie industrie colle quali D. Bosco riusciva nell'insegnare a molti insieme una musica che, se non era classica, aveva però le sue difficoltà, e come sapesse far modulare le voci nel passaggio da tono a tono; come, calcolandone l'estensione, li addestrasse a cantar da soprano senza che i giovani si stancassero e senza nocumento della loro sanità. E in ciò, essi stessi affermarono di aver imparato più cose da D. Bosco, e ne seguirono l'esempio e il metodo. Egli intanto dimostrava non essere inferiore al suo compito e che sarebbe riuscito o per sè solo, o coll'aiuto altri al di là di quello che potevasi prevedere. Infatti quella scuola iniziale, quella povera spinetta dovevano dipoi [151] produrre musici di assai notevole abilità, non pochi organisti di vaglia, centinaia di scuole che levarono bella fama di sè; e l'autorità comunale di Torino assegnò a D. Bosco un premio di mille franchi per l'ardore col quale promoveva la musica vocale ed istrumentale. Da questa e altre occasioni D. Bosco traeva argomento di raccomandare ai giovani radunati il rispetto, la riconoscenza e l'obbedienza a coloro che presiedevano alla città, e le sue parole producevano buoni effetti.

                Ma egli di tutto ciò non ancora soddisfatto, vagheggiava grandi masse di voci, non a modo di concerto musicale, ma come spontanea espressione della preghiera e degli inni del popolo fedele. Voleva il canto liturgico, ma genuino e non eseguito alla grossa.

                - Così, egli diceva, i fedeli troveranno in chiesa quelle attrattive di cui tante belle cose ci lasciarono scritte gli antichi, e segnatamente S. Agostino. Più tardi ripeteva le cento volte che la sua più grande consolazione era l'udire una Messa in canto gregoriano nella chiesa di Maria Ausiliatrice, cantata da tutti i giovani, cioè da circa mille voci in due cori. Per esso ciò toccava il non plus ultra del sublime.

                Perciò fin dal 1848 al sabato sera, non tenendosi in questo giorno le solite scuole, divideva i giovani in due classi. La prima classe era occupata ed esercitata a leggere i salmi del vespro specialmente, sicchè i giovanetti più non cadessero in errore di pronuncia e di senso. La seconda classe era composta di quelli, che sapendo già leggere correntemente i salmi, imparavano il canto corale delle antifone per la domenica seguente. Va notato che gli allievi erano tutti poveri artigiani.

                Quando poi egli ebbe un bel numero di giovanetti ricoverati, nei primi mesi dell'anno scolastico faceva loro imparare il metodo del canto fermo. Tutti i nuovi entrati in tempo [152] di vacanza erano applicati a studiare le note ed i solfeggi; gli altri, che già questo canto conoscevano, i salmi, le antifone, le messe. Era eziandio suo desiderio e mira che i giovani ritornando al proprio paese fossero di aiuto al parroco nel cantare alle sacre funzioni. Tanto più che egli vedeva come a poco a poco il rispetto umano e l'ignoranza, avrebbero disertate le cantorie parrocchiali. Voleva che i giovani fossero introdotti nella scuola di musica vocale, solo quando conoscessero il canto gregoriano. Di quanto abbiamo esposto in questo capitolo abbiamo testimonii D. Rua Michele, Mons. Giovanni Cagliero e mille altri.

 

 

CAPO XIV. D. Bosco e le confessioni dei giovani - Sua pazienza e sua industria coi più piccoli - Corrispondenza, consolazioni e casi commoventi - Senza rispetto umano - Confidenza in D. Bosco - Regolamento per le confessioni e comunioni.

 

                FESTE, ricreazioni, giuochi, musiche, lotterie, scuole, per D. Bosco erano altrettanti mezzi rivolti ad un solo scopo, senza che ei la risparmiasse ad incomodi e sacrificii: indurre i suoi giovani a confessarsi bene e con frequenza.

 

                “Cari figliuoli, diceva continuamente, e lo aveva stampato nella prima edizione del Giovane Provveduto, se voi non imparate da giovani a confessarvi bene, correte pericolo di non apprenderlo in vita vostra, e per conseguenza, di non confessarvi mai a dovere, con vostro grave danno e a rischio di vostra eterna salvezza. E prima di tutto vorrei che foste persuasi che qualunque colpa voi abbiate sulla vostra coscienza, vi sarà perdonata nella confessione, purchè vi accostiate colle debite disposizioni”. E queste disposizioni le insegnava e spiegava, insistendo in modo affettuoso e convincente, sulla sincerità dell'accusa, per così guadagnare la piena confidenza de' suoi giovanetti. Nello stesso tempo sapeva rappresentare alle loro menti la formidabile cosa che è il peccato mortale, e al loro cuore i mille motivi che abbiamo di amare Iddio. “Il Signore essendo un buon padre, prova grande [154] dispiacere, quando è costretto a condannare qualcheduno all'inferno. Noi eravamo i condannati a morte, e Gesù per salvarci è morto per noi. Vogliamo ancora offenderlo?” Ed esortandoli a mantenere i proponimenti fatti e a praticare i mezzi suggeriti dal confessore per non cadere mai più in peccato, raccomandava loro di prendere queste tre risoluzioni nelle quali, tutte le altre si concentravano, pregando Maria, la cara loro Madre, ad aiutarli per mantenerle:

                1ª Di voler diportarsi in chiesa con grande divozione. 2ª Prestare pronta obbedienza ai genitori e a tutti gli altri Superiori. - 3ª Essere grandemente animati per l'adempimento dei doveri del proprio stato, e di voler lavorare per la maggior gloria di Dio e per la salvezza dell'anima.

                Oltre a ciò, egli che aveva l'usanza di salutare l'Angelo custode di quelli che incontrava, pregava eziandio gli Angioli de' suoi giovanetti perchè lo aiutassero nel farli buoni, e ai giovani stessi raccomandava che in loro onore recitassero tre Gloria Patri.

                In conseguenza di tante sue belle e sante maniere i giovani si sentivano attratti al Sacramento della Penitenza con grande soavità, sia per l'amore, la stima e la confidenza che professavano verso D. Bosco, sia pel vedere come per lui il confessare fosse la sua vita, la sua consolazione. E non solo nell'Oratorio, ma per le medesime ragioni in tutte le città e paesi ove andasse, i giovanetti sentivansi condotti verso di lui da una misteriosa attrattiva. Per D. Bosco avere intorno a sè una folta corona di giovanetti che aspettavano la loro volta per raccontargli i segreti dell'anima, era, direi così, il suo trionfo. Aveva faticato tanto a raccogliere quelle care anime, che il rimetterle nella santa grazia di Dio formava la sua delizia e inebbriavalo di giubilo.

                Talvolta, in ispecie nei primordii dell'Oratorio, D. Bosco [155] ne aveva intorno cento fra i più giovani che volevano confessarsi. Ma nulla avvezzi a idee di ordine ed essendo le prime volte che si accostavano a questo sacramento, colla loro rozza impazienza avrebbero persuaso qualunque altro sacerdote, non essere possibile compiere convenevolmente quel sacro ministero. Non trovandosi allora nessun catechista che li assistesse, gli uni gridavano di voler essere i primi, gli altri si urtavano per farsi avanti, e altri respingevano coloro che tentavano soppiantarli. Era fatica improba mettere un po' di calma in quel garbuglio; ma finalmente, se non altro, tutti erano in silenzio ed inginocchiati. D. Bosco, allora rivoltosi a quegli che eragli più vicino, alzava la mano per fare su di lui il segno della santa croce; ma ecco che tutti i più vicini si segnavano come se per ciascuno di loro fosse dato il segnale di incominciar l'accusa. E D. Bosco, sempre imperturbabile e sorridente, era allora costretto a confessare stando in piedi con una mano tenendo indietro gli altri che gli si gettavano addosso e coll'altra approssimando il suo orecchio alla bocca di chi si confessava, perchè nessuno potesse udirne l'accusa. In quell'istante però ciò che notavasi di mirabile, era la trasformazione che succedeva nei penitenti di mano in mano che si accostavano a D. Bosco. Divenivano calmi come se fossero lontani da ogni disturbo, intenti solo a ciò che dovevano dire: alla brevissima ammonizione loro fatta da D. Bosco, vedevasi dal loro volto quanto ne fossero compresi, e, ricevuta l'assoluzione, si ritiravano silenziosi in un angolo solitario a fare la penitenza. Quasi vedevasi la grazia del Signore stendere le sue ali misericordiose sopra D. Bosco e i suoi giovanetti. Non corse però gran tempo che i giovani incominciarono a tenere un miglior contegno; sebbene non mancassero altre difficoltà che D. Bosco doveva studiarsi di superare. Ne riporteremo una fra le altre. [156] D. Bosco tutti accoglieva benignamente, fossero pur rozzi, ignoranti, sbadati, poco disposti, e trovava la maniera per guadagnarli a Dio. Egli stesso diceva di certe classi di giovanetti: “Vengono a confessarsi e poi dicono nulla, ed anche interrogati non rispondono. Questi, quando si confessano nelle parrocchie, è bene chiamarli d'innanzi e non lasciarli alle grate, perchè così si potranno far parlare con maggior facilità. Vale tanto a questo riguardo porre loro una mano sul capo, per impedire che non guardino qua e là come usano fare. Per lo più si riducono a dire tutto, ma bisogna da principio usare tanta e tanta pazienza, e continuare a far loro varie interrogazioni e ripeterle con carità, perchè incomincino a dir qualche cosa. Mi capitò di incontrarne di quelli che a me stesso pareva impossibile strappar loro una sola parola, e mi riuscì poi a confessarli con questo stranissimo espediente. Vedendoli sempre muti ad ogni mia domanda, li interrogava: “Hai già fatto colazione stamattina?

                - Si! mi dicevano sorridendo.

                - L'hai fatta con buon appetito? - Sì!

                - Quanti fratelli hai in casa? - e altre cose simili.

                Allora essi incominciavano a rispondere alle interrogazioni che io faceva per conoscere lo stato della loro coscienza e poi seguitavano con tutta facilità ad esporre i casi loro”.

                Qui non è luogo che noi ci distendiamo a descrivere le varie industrie che adoperava perchè i suoi penitenti si confessassero bene. Ciò si vedrà nel corso di queste Memorie. Diremo ora solamente della folla di coloro che lo avevano scelto per confessore.

                Egli moltissime volte al sabato stava in confessionale le 10 e 12 ore consecutive. E quei giovanetti, prima così insofferenti di freno e pieni di vivacità, aspettavano pazientemente [157] il loro turno per far bella la loro coscienza. Avveniva spesso, che essendo già le undici o eziandio la mezza notte, D. Bosco si addormentasse mentre confessava. Il penitente accortosene, taceva, e non osando svegliarlo, dopo aver aspettato alquanto, sedevasi sull'inginocchiatoio. D. Bosco dopo un'ora, due ore, si destava al rumore che facevano i giovani russando. Erano le 3 o le 4 del mattino e la sagrestia dell'Oratorio presentava una scena singolare. Un giovane dormiva così inginocchiato come era, colla testa appoggiata nell'angolo, della stanza; un altro seduto sulle calcagna; questi accoccolato per terra, col capo sulle braccia, incrociate sulle ginocchia; quello seduto colle gambe distese e le spalle appoggiate alla parete. Alcuni colla testa reclinata sulle spalle dei vicini; altri coricati sul pavimento.

                D. Bosco contemplava quello spettacolo commoventissimo. Pensare che quei poveri giovanetti erano fuori delle case loro, senza che i parenti si dessero nessuna premura di venirli a cercare, lasciati in piena balía di se stessi, assuefatti prima a girovagare di notte per la città, liberi di commettere qualunque trascorso, e poi avere per legittima conseguenza delle loro azioni la prigione e la galera in questo mondo, e forse la dannazione nell'eternità. Eppure essere adesso così pazienti, perseveranti per poter confessarsi, e là tranquilli, lontani dal pericolo di mal fare.

                Al muoversi di D. Bosco qualcuno sì svegliava, guardavasi attorno e poi sorrideva al sorriso di D. Bosco.

                - Che cosa facciamo qui?

                - Andare a casa non vale più la spesa. Dunque confessiamo.

                - Confessiamoci!

                E si ripigliavano le confessioni. Coloro che si erano svegliati, si accostavano per i primi, lasciando che gli altri [158] dormissero. Venivano poi svegliati un dopo l'altro in modo che avessero tempo di fare ancora un po' di preparazione.

                Intanto spuntava l'alba ed ecco si batteva alla porta replicatamente ed entrava la folla dei giovani che venivano all'Oratorio; la sagrestia era invasa dai nuovi penitenti, e le confessioni continuavano senza interruzione fino alle 9 o alle 10 antimeridiane.

                “Quante volte, ci narrava Buzzetti Giuseppe, vidi Don Bosco in questi anni passare le notti intere ad ascoltare i giovani in confessione, trovandosi al mattino seguente seduto ancora nello stesso confessionale ove erasi posto al tramonto!”.

                Accadde una sera, vigilia di grande solennità, che suonate le dieci vi fosse ancora un bel numero di penitenti da confessare.

                - Andate a dormire, o figliuoli, loro disse D. Bosco; è tardi molto!

                - No, continui a confessare, abbia pazienza: esclamavano i giovani.

                Continuò ma in breve tempo un dopo l'altro tutti si addormentarono. D. Bosco stesso si abbandonò sul braccio, di Gariboldi nell'atto che confessavalo e fu preso dal sonno. Il fanciullo aveva le mani congiunte, tenendo disteso e sporgente l'antibraccio sul banco. Verso le 5 antimeridiane Don Bosco si destò e visti tutti i giovani che adagiati per terra dormivano, si rivolse a Gariboldi che fino allora era stato sveglio, e gli disse: - Omai è tempo che andiamo a riposo. - Ma in così dire gli altri si svegliarono, e D. Bosco a continuare le confessioni.

                Verso le 2 pomeridiane portatosi in cortile vide che Gariboldi aveva il braccio dritto legato al collo e fasciato

                - Che hai fatto, caro Gariboldi, a quel braccio?

                - Oh! niente, rispondeva il giovane; e non voleva dir nulla a D. Bosco. [159] D. Bosco, che lo conosceva per un giovane vispo e ardito, non si acquietò e volle assolutamente sapere che cosa avesse al braccio.

                - Dacchè lo vuote proprio sapere glielo dirò. - E narrogli il fatto. Quel braccio era nero e livido da fare compassione, poichè durante la notte era stato immobile tra l'inginocchiatoio e la testa di D. Bosco, e il giovane, pieno di venerazione per il suo Direttore, non aveva osato destarlo, benchè per quell'indolenzimento soffrisse non poco.

                Di qui si può argomentare quale confidenza i giovani avessero riposta in lui. In qualche domenica, nella quale, egli era andato a predicare fuori di casa, essi venivano a frotte all'Oratorio, e non trovandolo in cappella, andavano da Mamma Margherita: - Dov'è D. Bosco?

                - Non c'è: è andato a Carignano.

                - E dove si passa per andare a Carignano? chiedevano alcuni.

                - Vedete; si va a Moncalieri e poi c'è lo stradone che mena sino là. E che cosa volete da lui?

                - Confessarci!

                - Ma ha lasciato qui un prete che tenga il suo posto.

                - Noi vogliamo D. Bosco. - E si mettevano anche in viaggio come se Carignano fosse allo svolto della porta. Arrivavano a Carignano verso le 11 antimeridiane, polverosi, stanchi, affamati, e subito cercavano ove fosse D. Bosco.

                Appena incontratolo: - Oh, finalmente, caro D. Bosco! Venga ad ascoltarci! Vogliamo confessarci e fare la santa Comunione.

                E siete ancora digiuni? S'intende!

                D. Bosco scendeva in chiesa, e confessatili li comunicava. Intanto egli era in angustia non essendo possibile rimandarli [160] digiuni. I parroci però pieni di carità lo toglievano d'imbarazzo e commossi per quella pietà, allestivano un po' di pranzo. I giovani poi salivano in orchestra e cantavano i vespri, le litanie, il Tantum ergo in musica, che avevano imparato nelle scuole serali. Niuno può credere la meraviglia e' la contentezza dei terrazzani nell'udire quei canti. Quindi rifacevano la lunghissima via per ritornare a casa. Ciò accadde molte volte a Sassi, a Superga e in altri paesi più vicini. Se erano arrivati al mattino in tempo, cantavano eziandio la Messa in musica e alla sera erano fuor di sè dalla gioia quando D. Bosco ritornava in loro compagnia.

                In questi tempi i giovani volevano tutti confessarsi da lui. D. Bosco invitava altri sacerdoti, e fra questi il P. Luigi Dadesso, Oblato di M. V.; ma pochi o nessuno volevano servirsi del loro ministero. Quindi i confessori straordinarii o si presentavano solamente per breve tempo o cessavano d'intervenire. I giovani preferivano che D. Bosco ritardasse l'ora della Messa, quantunque non celebrata regolarmente ad ora rigorosamente fissa, ma sibbene dopo che D. Bosco, il quale doveva dirla, avesse finite le confessioni; e pazientavano digiuni per fare la santa Comunione.

                Così di questo singolare affetto e commovente divozione abbiamo inteso a parlare da moltissimi che divenuti uomini dicevano di D. Bosco: “Egli mi diresse spiritualmente per cinque, otto, dodici anni, e se attualmente sono quel che sono, e per riguardo all'anima e per riguardo alla mia onorevole posizione sociale, devo tutto a lui”.

                Non si può conoscere l'un mille delle vere conversioni che operava la carità di D. Bosco. Ci piace scegliere un fatto di cui noi stessi fummo testimonii. La sagrestia era piena zeppa di fanciulli inginocchiati, e un giovanotto operaio sui diciotto o vent'anni, alto di persona e tarchiato, con un viso [161] serio serio si confessava. Era la prima volta che si avvicinava a D. Bosco. Con voce piuttosto forte, sicchè tutti potevano intendere, prese a narrare le sue miserie le quali non erano nè poche, nè leggiere. Invano D. Bosco lo avvertì di parlar più dimesso, e col fazzoletto bianco cercava di ammortire la sua voce. I compagni più vicini lo toccavano dicendo: “Parla piano!”. Ma egli non badando a nessuno continuava come prima; e senza desistere di quando in quando dava del piede a coloro che lo importunavano. I giovani dovettero, per non udire, turarsi le, orecchie colle dita.

                Ricevuta l'assoluzione, baciò la mano di D. Bosco con tale scoppio di labbra, che fece sorridere più d'uno. Quindi si alzò per ritirarsi, e quando si rivolse, la sua fisionomia aveva un'espressione di pace, di umiltà e di gioia sorprendente. Egli intanto cercava di farsi largo tra quella folla stipata, che da una e dall'altra parte gli andava ripetendo: “Perchè parlar a voce così alta? Hai fatti conoscere a tutti i tuoi peccati”. Il giovanotto si fermò, allargò le braccia e con un candore singolare. “E con questo? esclamò; che importa a me che abbiate udito! Li ho commessi, è vero, ma il Signore mi ha perdonato. Da qui avanti sarò buono. Ecco tutto!” E ritiratosi in disparte s'inginocchiò, e immobile protrasse per una buona mezz'ora il suo ringraziamento.

                D. Bosco stesso ne' tardi suoi anni ricordava con grande piacere i fatti sopra narrati, e diceva a noi che l'ascoltavamo con vivo interesse:

                “Non potete immaginare quanto grande sia il rincrescimento che ora provo di non potermi più intrattenere coi giovani esterni e specialmente coi muratori, tra i quali io poteva fare e, coll'aiuto di Dio, faceva tanto bene. Ancora adesso quando posso conversare qualche tempo con loro, provo la più grande consolazione. Essi allora mi amavano tanto, [162] che qualunque cosa io avessi loro detto, l'avrebbero fatta. Diceva ad alcuno: - Quando verrai a confessarti?

                - Quando vuole: vengo anche tutte le domeniche.

                - No; io desidero solo che tu venga ogni due o tre domeniche.

                - Ebbene; lo farò.

                “Ed io proseguiva: - Perchè vuoi venirti a confessare?

                - Per mettermi in grazia di Dio.

                - È ciò che importa soprattutto; ma solo per questo?

                “E mi rispondeva: - Per farmi del merito.

                - E per altro motivo?

                - Perchè il Signore lo vuole.

                - E per altro?

                “Il giovane non sapeva più che cosa dire. Allora io gli diceva: - E perchè piace a D. Bosco, che è il tuo amico e cerca il tuo bene.

                - A queste parole restavano commossi, mi prendevano la mano, la baciavano e ribaciavano, versando alcune volte lagrime di consolazione. Ciò io diceva per ispirar loro sempre maggior confidenza”.

                Non era l'uomo, ma il sacerdote che loro domandava i cuori per darli a Dio, e a questo fine aveva dettate nel Regolamento dell'Oratorio Festivo le norme pratiche per accostarsi degnamente alle fonti della grazia, Confessione e Comunione[15].

 

CAPO XV. Giorni feriali - Contegno dei giovani fuori dell'Oratorio - Visite alle officine - Il buon cuore di un fanciullo e l'invetriata - Una rissa per amore di D. Bosco. - Gli Spazzacamini - Le suppliche ai signori per soccorsi ai poveri della città - Gli studenti in Valdocco nel giovedì - Conferenze agli impiegati nell'Oratorio - Il ritorno di Don Bosco in Torino dopo una predicazione - Suo Incontro coi giovani nella piazza Emanuele Filiberto.

 

                DON Bosco scorgeva ed amava in ciascuno de' suoi giovani la persona di Gesù C. adolescente, ed era sua cura che risplendessero colla grazia di quel modello divino. E i fanciulli con quell'intuito che direi quasi infallibile, proprio della loro ingenua età, erano certi del suo puro affetto verginale, pronto per loro a qualunque sacrifizio, e di egual animo accoglievano i suoi consigli. Perciò D. Bosco poteva guidarli pure in tutti i momenti dei giorni di lavoro, benchè fossero lontani da lui. Questo era eziandio il frutto delle sue fatiche nelle scuole serali. I suoi allievi avevano presso di sè il Giovane Provveduto, leggendo il quale ricordavano quanto da lui avevano udito nelle prediche.

                “La prima virtù di un giovane è l'obbedienza al padre, e alla madre. Pregate per essi ogni giorno, affinchè Dio loro, conceda ogni bene spirituale e temporale. Dopo le preghiere [166] del mattino recatevi dai vostri genitori per intendere i loro, ordini e non intraprendete cosa alcuna senza il loro consenso. Prestate loro assistenza se ne hanno bisogno, sia per quei servizii domestici di cui siete capaci, e molto più consegnando loro ogni danaro o roba che vi possa per regalo o per mercede venire tra le mani, e farne quell'uso che dai medesimi, vi verrà suggerito. Siate sinceri coi vostri maggiori, non coprendo mai con finzioni i vostri mancamenti, molto meno negandoli. Dite sempre con franchezza la verità; perchè le bugie, oltre all'essere offesa di Dio, ci rendono figli del demonio, principe della menzogna, e fanno sì che conosciuta la verità voi sarete reputati menzogneri, disonorati presso i vostri, superiori e presso i vostri compagni. Un buon figliuolo deve lungo il giorno attendere a quelle cose che riguardano il proprio stato e indirizzare ogni azione al Signore, dicendo: Signore, vi offerisco questo lavoro: dategli la vostra santa benedizione. Prima di prendere il cibo e dopo fate il segno della santa croce, e recitate la vostra breve preghiera. Non abbiate rossore di comparire cristiani anche fuori di chiesa.

                “Lungo il giorno leggete un tratto della vita di qualche santo, p. es. quella di S. Luigi, oppure una delle considerazioni poste in principio di questo libro. Talvolta pensate agli avvisi che il confessore vi diede nell'ultima confessione. Recitate tre volte al giorno la salutazione angelica nelle ore stabilite. Accompagnate il santo Viatico quando è portato agli infermi, e non potendo andare dite un Pater ed Ave. Ripetetelo quando la campana dà il segno di un'agonia, qualora foste impediti di intervenire alla chiesa a pregare pel moribondo Al segno della morte dite tre Requiem aeternam in suffragio di quell'anima che è passata all'eternità. Alla sera recitate la terza parte del Rosario (se non l'avete ancor [167] recitata lungo il giorno) in compagnia dei vostri fratelli e delle vostre sorelle, ma divotamente, nè troppo in fretta, senza appoggiarvi incivilmente sulla tavola o sugli scanni o sedendo sulle calcagna. Dopo le orazioni della sera, fermatevi alcuni istanti a considerare lo stato di vostra coscienza e se vi trovate rei di qualche grave peccato, fate di cuore un atto di contrizione promettendo di confessarvene il più presto possibile”.

                D. Bosco, mentre nel Giovane Provveduto aveva aggiunti a questi altri importantissimi avvisi, perchè tenessero lontano dalla loro anima il peccato quei giovani che abitavano coi genitori, altri consimili ammonimenti, ma più generali, stampava nel Regolamento dell'Oratorio per quelli che non vivevano sotto la tutela di una famiglia[16]. [168]

                Immenso è il bene morale che arrecavano ai giovani le suddette norme, perchè molti vi si attenevano fedelmente, altri non trascuravano almeno le più essenziali; in quanto poi alle pratiche di pietà, se non tutte, era difficile che qualcuna giornalmente non la ricordassero e mandassero ad effetto.

                D. Bosco però nella settimana, essendo in Torino, continuava, come aveva incominciato al Convitto di S. Francesco, a fare or qua or là le sue ispezioni per mantenere i frutti raccolti nella domenica. Uno dei precipui suoi impegni era di visitare i padroni dei giovani dell'Oratorio nelle loro officine o botteghe, specialmente quando poteva dare o ricevere buone notizie degli apprendisti. Tutti riconoscevano in quelli che frequentavano la casa di D. Bosco un evidente miglioramento riguardo ai costumi ed all'istruzione religiosa; e molti capi d'arte si rivolgevano a lui per avere dei garzoni, sapendo per esperienza che erano obbedienti, onesti e laboriosi. Tuttavia egli domandava sempre informazioni sulla loro condotta, e ripetutamente i capi di fabbrica e di negozio gli attestavano la loro soddisfazione, perchè quei giovani, oltre ad essere rispettosi, riuscivano abili nei loro mestieri. E Don Bosco non mancava di dare la lode dovuta a chi se l'era meritata, lode che tornava loro tanto cara che sentivansi stimolati ad essere migliori. Il vedere comparir D. Bosco in un laboratorio era una festa per i capi d'arte e per i garzoni, e quando si congedava lo pregavano a ritornare presto a visitarli. Ed ei li compiaceva e talora conducendo qualche nuovo garzone. Nel percorrere le vie di Torino incontrava sovente poveri fanciulli, che gli chiedevano l'elemosina e non di rado aveva nulla in saccoccia. Allora con belle parole li confortava a sperare nella Provvidenza Divina, esortavali a non viver nell'ozio e a cercarsi lavoro; quindi invitavali a [169] venire nell'Oratorio la Domenica seguente. Egli poi se continuavano ad essere, senza loro colpa, disoccupati, cercava per essi un padrone, al quale caldamente li raccomandava più che non avrebbe fatto un padre amoroso. In queste visite alle officine, che furono continue per anni ed anni, lo accompagnavano più volte D. Giacomelli e il Prof. Can. G. B. Anfossi.

                Ma non solo i giovani dati alle arti, ma eziandio quelli sparsi nei negozii, o nelle piazze gli addimostravano il loro affetto e la loro riconoscenza. Ci terremo paghi di darne qualche saggio.

                Quante volte i Torinesi videro per le contrade sbucare all'improvviso i giovani dalle porte delle case e dei negozii e accalcarsi attorno a lui per baciargli la mano! Ed essi a rimanere commossi per tanta affezione, e ammiravano la grande pazienza dell'uomo di Dio. Il prevosto Teol. Giorda, che fu parroco di Poirino, lo vide un giorno circondato da numerosi giovani, che, per stringerlo amorosamente e festeggiarlo, lo urtavano e spingevano a segno che corse più volte pericolo, di essere gettato a terra. Allora il prevosto alquanto indispettito si avvicinò e rimproverandoli voleva allontanarli; ma D. Bosco dolcemente a dirgli: - Lasciali, lasciali fare.

                Una sera D. Bosco camminando lungo un marciapiede in via Doragrossa, ora chiamata via Garibaldi, passò innanzi all'invetriata di un magnifico fondaco da panni il cui cristallo teneva tutta l'ampiezza della porta. Un buon giovanetto dell'Oratorio, il quale ivi serviva da fattorino, visto D. Bosco, nel primo slancio del suo cuore, senza riflettere che l'invetriata era chiusa, corre per andarlo a riverire; ma dà col capo nel cristallo e lo riduce a pezzi. Al rovinoso cader dei vetri D. Bosco si ferma e apre la vetrata; il fanciullo tutto mortificato gli si fa da presso; il padrone esce di bottega, alza la voce e grida; i passeggieri fanno crocchio. - Che cosa [171] sui 12 o 13 anni. Un lustrascarpe vedendolo: - Oh D.Bosco, esclamò, venga qui da me: voglio lustrarle le scarpe.

                - Ti ringrazio, mio caro, ma ora non ho tempo.

                - Le pulisco in un momento, sa!

                - Un'altra volta; ho premura.

                - Ma io gliele lustro e lei non mi darà niente. È solamente per avere il piacere e l'onore di farle questo, servizio.

                A questo punto un spazzacamino bruscamente l'interruppe. - Lascia un po' andare la gente per la sua strada

                - Oh bella! parlo con chi voglio.

                - Ma non vedi che ha premura?

                - Che cosa c'entri tu? io conosco D. Bosco, sai?

                - Ed io pure lo conosco.

                - Ma io sono suo amico.

                - Ed io pure.

                - Ma io gli voglio più bene di te.

                - No; sono io che gli voglio più bene.

                - Sono io!

                - Sono io!

                - Vuoi tacere sì o no?

                - No, no! Io voglio parlare.

                - Guarda che ti pesto il grugno

                - Tu? fa la prova

                - Sei una bestia

                - Lo sei tu!

                Ed uno si slanciò sull'altro, e incominciarono una tempesta, di pugni e calci. Si presero per i capelli, si gettarono per terra, si rovesciò la cassetta del lustrascarpe, e spazzole e lucido andarono qua e là. D. Bosco si mise in mezzo: - Pace, pace, amici miei, non fate così! [172] A stento furono divisi, ma si guardavano sempre inviperiti uno contro dell'altro:

                - Ti dico e lo sostengo che gli voglio più bene io! Io sono andato a confessarmi.

                - Io pure.

                - A me ha dato una medaglia.

                - A me un libretto!

                - Dica Lei, D. Bosco, non è vero che vuol più bene a me?

                - No, ti dico!….. A me!

                - Ma dica Lei, a chi vuol più bene fra noi due?

                - Ebbene, esclamò D. Bosco: sentite! Voi mi proponete una questione molto difficile. Vedete voi la mia mano? e loro mostrava la destra; vedete voi il mio dito pollice e l'indice? A quale dei due credete voi che io voglia più bene? Lascierei tagliarmi più uno che l'altro?

                - Vuol bene a tutti due!

                - Così io voglio bene a voi due; siete come due dita della mia stessa mano. Nello stesso modo amo tutti gli altri miei giovani... E quindi non voglio che vi battiate; venite con me: non facciamo scene. Sono figure poco belle, queste: venite. E s'incamminò tenendosi vicini i due contendenti. Intorno a lui camminavano gli altri spazzacamini e lustrascarpe, e dietro una piccola folla che erasi radunata a quel battibuglio. Così si andò chiacchierando fino alla basilica dei SS. Maurizio e Lazzaro ove si divisero, e i giovani andarono a sedersi al sole sulla gradinata di quel tempio.

                Lo spazzacamino fu poi ricoverato all'Oratorio, e riuscì un giovane buonissimo e delle più belle speranze. Era della valle d'Aosta. Venne la madre a visitarlo, sentito che il figlio era stato messo a studiare non le parve conveniente, che proseguisse. - Uno spazzacamino prete? esclamava. No, non va! [173] D. Bosco esortolla a lasciare che le cose andassero avanti e poi si sarebbe veduto. La madre accondiscese. Ma il figlio fu preso da un malessere che lo costrinse ad andare a casa, ove morì di una morte da santo.

                - Quanti buoni giovani, diceva D. Bosco, ho trovato fra questi spazzacamini. Era nera la loro faccia, ma tante volte quanto bella la loro anima, quando venivano a confessarsi.

                Verso di essi egli dimostrava una carità tutta particolare. Quando li incontrava, per lo più li soccorreva con qualche elemosina e li invitava sempre a venire a' suoi Oratorii.

                Gli spazzacamini erano in quel tempo l'oggetto delle sue ricerche speciali. Questi piccoli savoiardi scendevano innocenti dalle loro montagne, senza alcuna idea della malizia del mondo, ignari perfin del dialetto. Perciò, non solo avevano bisogno di istruzione religiosa, ma di più era necessario preservarli dal cadere nei lacci di scellerati compagni. Don Bosco riuscì molto bene in questa sua impresa, traendoli a sè, provvedendoli anche del necessario alla vita, sorvegliandoli, e co' suoi avvisi salutari conservandoli buoni. Quante consolazioni gli procurarono questi ingenui figliuoli.

                Continuò egli a durar la fatica di andare in cerca di giovani per l'Oratorio festivo, e specialmente pel catechismo, della quaresima, fino al 1865.

                Mentre così si andava guadagnando i giovanetti poveri, non trascurava di occuparsi degli adulti e delle loro povere famiglie, specialmente nei giorni feriali. Tornato a casa verso mezzogiorno, non erasi ancor levato da mensa, che già prendeva la penna per iscrivere suppliche in favore di quei popolani che si trovavano nell'indigenza. Fu un'opera di carità che sembra di menoma importanza, mentre deve annoverarsi fra le più belle compite da D. Bosco. Finchè ebbero [174] in Torino ferma stanza la Casa Reale e i Ministeri, gli infelici solevano ricorrere a queste Autorità con suppliche per venir sollevati dalle loro miserie. Di ogni specie erano i casi dolorosi e i bisogni urgenti. Senonchè moltissimi poverelli non sapevano scrivere, molti non avevano chi accondiscendesse ad esporre gratuitamente in un foglio le loro domande; e non mancavano persino quelli che non possedevano un soldo per provvedersi carta da rispetto. Perciò un gran numero di costoro accorrevano all'Oratorio, e D. Bosco ascoltava pazientemente i loro mesti racconti e li rimandava soddisfatti. Nei primi cinque o sei anni egli stesso compieva, questo lavoro in sè importunissimo, ma per lui facile e grato. Quando potè destinare più tardi una stanza ad uso di portieria, quivi a certe ore dispose, che un chierico o altra persona idonea, fosse pronta a dare udienza a chi ricorreva e stendesse debitamente la supplica. Ciò stabiliva massime per quei giorni, nei quali egli avrebbe dovuto allontanarsi da Torino. La spesa della carta molte volte sostenevala egli stesso e non si deve credere che, a lungo andare, fosse importo tanto leggiero. Non passava giorno senza che si presentasse più di un supplicante, e ciò dal 1847 fino oltre al 1870. Anche alle più illustri e generose famiglie di Torino, erano indirizzate dimande di soccorso. Furono adunque migliaia e migliaia che vennero in questo modo consolati ottenendo in gran parte il loro intento, e perciò l'Oratorio acquistava nei dintorni una grande popolarità. D. Bosco però a costoro che a lui ricorrevano chiedeva se avessero figli, e in caso affermativo, dati i consigli opportuni pel bene di quelli, si faceva promettere che li avrebbero mandati ai catechismi.

                Egli prendevasi cura altresì di quei giovani i quali, venuti in Torino a perfezionarsi in qualche arte, gli erano stati raccomandati dagli amici di provincia. [175] Carlo Tomatis, ora professore di disegno nella Regia Scuola tecnica di Fossano, nel 1847 studiava pittura e plastica presso il professore Boglioni. Un giorno gli si presenta D. Bosco e, chiestogli il nome, il paese, lo interroga delle condizioni in cui attualmente si trovava. Tomatis gli rispose cortesemente, e quindi interrogò a sua volta: - E lei chi è? - E D. Bosco: - Sono il capo dei biricchini; sto in Valdocco; domenica vienmi a trovare, e ci divertiremo - D. Bosco si era portato a cercar di Tomatis, perchè glielo aveva raccomandato il Teol. Bosco, professore nel Seminario a Fossano. Il buon giovane, nella prima domenica dopo questo incontro, aspettata da lui con viva impazienza, corse in Valdocco, che trovò gremito da una moltitudine, nella massima parte composta d’artigiani, e da quel giorno tutte le feste dell'anno andava a passarle nell'Oratorio con D. Bosco, e talora vi si recava anche nei giorni feriali.

                La prima volta che vi entrò in un giovedì, vide con sorpresa un gran numero di studenti.

                Infatti l'Oratorio era al giovedì il convegno di molti studenti dei collegi di Torino, i quali venivano per intrattenersi con D. Bosco e per farvi un'allegra ricreazione che durava tutto il dopopranzo fino a tarda sera, essendo messi a loro disposizione tutti i giuochi e gli attrezzi di ginnastica. D. Bosco stava sempre in mezzo a loro, e colle stesse sante industrie colle quali traeva al Signore i figli del popolo, conduceva eziandio al bene i giovanetti delle famiglie borghesi; e legavali a sè con eguale affezione. Gran parte di questi li conosceva già prima facendo il catechismo nelle classi civiche, altri erano condotti dai loro compagni.

                Se non spossava le sue forze fisiche come nella domenica, attesa la miglior educazione, ingegno e coltura di questi giovani, tanto maggiore rimaneva la stanchezza della sua [176] mente. Doveva continuamente rispondere a questioni scolastiche o scientifiche e proporre problemi che dovevano essere sciolti nella prossima vacanza.

                Nel congedarli raccomandava loro soprattutto di fuggire l'ozio, di star sempre occupati adempiendo con ogni diligenza i loro lavori scolastici. Ma soggiungeva: “Non intendo per altro che vi occupiate da mattina a sera senza nessun sollievo, perchè io vi voglio bene e vi concedo volentieri e in gran numero tutti quei divertimenti nei quali non vi è peccato. Tuttavia non posso a meno che raccomandarvi tutti, quei trastulli, che, mentre servono di ricreazione cagionandovi diletto, possono recarvi qualche utilità. Tali sono lo studio, della storia, della geografia e delle arti meccaniche e liberali, il canto, il suono, il disegno, ed altri studii e lavori domestici, i quali ricreando possono procurarvi cognizioni utili ed oneste, e contentare i vostri parenti e i vostri superiori. In certi giorni che vi sentite svogliati adornate altarini, aggiustate immagini e quadretti, libri, quaderni.

                “Potete anche divertirvi in giuochi, trattenimenti atti a sollevare e non ad opprimere lo spirito ed il corpo; ma non recatevi mai a questi senza la debita licenza, e qualche volta alzate la mente al Signore offerendo quei trastulli a gloria e onore di Lui. - Oltre a ciò ripeteva sempre: - Frequentate i santi Sacramenti, siate divoti di Maria SS.; abborrite le malvagie letture più che la peste; fuggite dai compagni cattivi più che dal morso di un serpente velenoso”.

                Al giovedì raccoglieva eziandio intorno a sè a conferenza i suoi maestri catechisti ed altri giovani impiegati nell'Oratorio festivo, e letto qualche Capitolo del Regolamento, esortato ciascuno di essi a praticare esattamente gli articoli riguardanti il proprio uffizio, constatato qualche inconveniente al quale bisognava riparare con opportuno rimedio, raccomandava [177] loro di essere sempre i più esemplari e zelanti nelle pratiche di pietà e che quando volevano confessarsi e comunicarsi procurassero di farlo nell'Oratorio, perchè questo contribuiva molto al buon esempio e ad animare gli altri alla frequenza de' Sacramenti. Li esortava, che essendo essi i più istruiti, si facessero a raccontare agli altri degli esempii edificanti nel tempo della ricreazione. Soprattutto loro raccomandava somma riverenza ai Sacerdoti che assistevano all'Oratorio, procurando di chiedere sempre permissione quando dovevano assentarsene. E soleva sovente ripetere: “Qualora udiste o vedeste qualche cosa sconveniente a questo santo luogo, procurate di darne segretamente avviso al Superiore, affinchè egli impedisca quanto possa tornare ad offesa di Dio”.

                Così D. Bosco anche nei giorni feriali non riposava un istante, ma solo cambiava lavoro, e di qualunque genere fosse, come scrivere lettere, opuscoli, confessare, predicare, era sempre pronto; e in qualunque radunanza si facesse, ora a molti, ora a pochi, teneva più volte al giorno qualche discorsetto sulle verità della fede o sulle pratiche della morale cattolica.

                Se recavasi a predicare fuori di Torino, al suo ritorno attendevalo sempre una festosa accoglienza. I giovani dell'Oratorio informandosi dell'ora in cui sarebbe ritornato, andavano ad aspettarlo al ponte di Po o al ponte Mosca. Erano più decine. Appena spuntavano i cavalli dell'omnibus scoppiavano i saluti con un formidabile: Evviva D. Bosco! Tutti gli si lanciavano incontro e circondavano la carrozza. Il carrozziere montava sulle furie, li sgridava, li minacciava colla frusta, dava loro i titoli più sonori, ma riusciva a nulla perchè gli altri continuavano a correre e ad acclamare, e così entravano in Torino. La gente si fermava a vedere [178] quelle turbe di ragazzi allegri e trafelanti, mentre D. Bosco sorridendo li salutava colla mano, chiamandoli per nome. Quando poi la vettura fermavasi, allora i giovani facevano tanto ressa contro lo sportello che i viaggiatori non potevano scendere. Il carrozziere balzato di cassetta correva per far largo, ministrando scappellotti a destra e a sinistra. D. Bosco che era sceso gli diceva: - Poveri figliuoli! Sono i miei amici, sapete!

                - Lei ha di questa fatta di amici? Si vede che non li conosce: sono birbanti, mascalzoni, oziosi. Via di qua!

                Tutti intanto si erano stretti a D. Bosco per baciargli la mano e per accompagnarlo, mentre il carrozziere scrollava le spalle e si allontanava brontolando.

                Ancora un fatto. La sera dei Morti del 1853 i giovani convittori ritornavano dal Camposanto. D. Bosco era rimasto un po' addietro. Quand'ecco tutti i lustrascarpe, i venditori di zolfanelli, gli spazzacamini sparsi in piazza Emanuele Filiberto al vederlo mandano un grido, gli corrono incontro, lo circondano e fanno risuonare l'aria di mille evviva. Don Bosco sorridente erasi fermato. I convittori, arrestato il passo, osservano quella scena commovente. Fra questi vi era il giovanetto Francesia Giovanni. La gente si affollava. Le sentinelle di un quartiere vicino stavano indecise se gridare all'armi. Altri soldati vengono sulla porta. I carabinieri corrono temendo chi sa che cosa; forse qualche ferimento, furto o tumulto. Ma D. Bosco intanto procedeva in mezzo a quel trionfo di nuovo genere, che dimostrava quanto grande fosse l'influenza della Religione sugli animi di quei fanciulli.

 

 

CAPO XVI. Il carnevale nell'Oratorio - Il catechismo nella quaresima - Zelo di D. Bosco nell'andare in cerca di giovani per il catechismo - Incontri spiacevoli e lepidi - Metà quaresima.

 

                NEI CAPITOLI precedenti di questo volume abbiamo esposto il racconto in complesso della missione di D. Bosco per quasi tre lustri: ma ora conviene procedere con ordine cronologico, tanto più che i pubblici avvenimenti intrecciandosi e collegandosi più strettamente colla vita di D. Bosco porranno, accennati in tempo opportuno, chiaramente in mostra qual nobiltà di fine egli si prefiggesse in tutte le sue azioni.

                Il 17 febbraio del 1847 era il giorno delle ceneri, e D. Bosco andava allestendo quanto era necessario per il catechismo quotidiano nella quaresima. Ed i provvedimenti da lui adottati in detto anno, servirono di norma per i continuatori dell'opera sua fino ai giorni nostri; e furono stampati molto tempo dopo nel Regolamento degli Oratorii festivi.

                D. Bosco adunque nella domenica di sessagesima incominciò ad avvertire i giovani che nella domenica seguente e il lunedì e martedì ultimi giorni di carnevale, vi sarebbero stati trattenimenti e giuochi straordinarii che li avrebbero [180] molto divertiti. Era suo disegno toglierli dai baccanali della città, dove avrebbero potuto vedere e udire cose nocevoli alle loro anime, e tenerli lontani dai compagni pericolosi, i quali ogni cosa si credono lecita tra il vortice di una follia universale. I giovani accolsero con plauso quell'invito, e in quei tre giorni invasero l'Oratorio, trovandovi i mezzi per abbandonarsi alla più viva ed innocente allegria, mentre D. Bosco, con distribuzione di regali e con una buona merenda, faceva dimenticare al maggior numero che in Torino vi fossero i tripudii del carnevale. E intanto con varie pratiche di pietà santificavansi le anime, risarcivasi il Signore delle offese che in quel tempo riceveva dal mondo, suffragavansi le Anime sante del Purgatorio. Si fece l'esercizio di buona morte, e dopo il mezzogiorno del martedì D. Bosco e il Teol. Borel tennero in cappella un'istruzione amenissima in forma di dialogo, che destò l'ilarità di quei buoni figliuoli. La benedizione col Santissimo Sacramento, pose termine alle funzioni religiose. Qualche anno dopo D. Bosco volle che si cantassero anche i vespri. Ripigliavasi quindi, e animatissima, la ricreazione fino ad ora tarda. Il giuoco preferito in questo giorno era quello della pignatta. Ad avere un'idea di questo divertimento il lettore s'immagini appesa ad una corda una pignatta con entro frutta, dolci o altri commestibili, e talora piena d'acqua, o di rape e patate, mentre un giovane cogli occhi bendati, con un bastone in mano, circondato dai compagni, gira attorno cercando di colpirla. Ad' ogni istante quale gli grida avanti, quale indietro, chi a destra, chi a sinistra, chi sì, chi no; così che il poverino non sapendo a chi prestar fede, or si ferma, or si avanza, finchè di tante voci facendosi un criterio di maggiore o minore probalità di trovarsi a tiro, si pianta lì, misura attento e poi giù un colpo da orbo. Il più delle volte ci batte a [181] cinquanta metri di distanza dalla pignatta; talora più o meno vicino; di rado colpisce nel segno. Se sbaglia, si ride a sue spese; se indovina, tutti si gettano carponi e si affaccendano ,a chi più coglie della caduta manna, restando pur talvolta bagnati e burlati. A chi colpisce, rimane l'onore della vittoria ed un salametto od un gingillo assicurato. Egli però getta subito il bastone, e si strappa la benda dagli occhi per arraffare qualche altra cosa. Rotta la pignatta, se ne sostituisce un'altra e si rinnova il divertimento. Molte volte negli anni seguenti si formava un fantoccio di paglia, che rappresentava il carnevale, si portava attorno nel cortile sovra una barella improvvisata tra gli schiamazzi dei giovani che andavano alle stelle ; e si finiva col dargli fuoco.

                Il mercoledì delle Ceneri incominciavano ad attuarsi le disposizioni necessarie pel catechismo quaresimale. Desiderando D. Bosco che ogni classe fosse composta di soli dieci o dodici allievi, bisognava che fossero molto numerosi i catechisti, e se questi mancassero, darsi d'attorno per cercarne dei nuovi Per ciascuno di questi si preparava un foglio o un libretto nel quale egli tenesse nota esatta de' suoi alunni e desse ogni giorno il voto di condotta e di profitto. Il disporre i posti e i banchi per le classi era pure un pensiero non indifferente.

                La Domenica prima di quaresima i giovani venivano classificati secondo la relativa loro età e scienza. Era stabilito che se in una classe vi fosse qualcuno già adulto, ma ignorante di religione, lo si dovesse consegnare a D. Bosco, perché potesse fargli impartire un'istruzione adattata. I catechisti S'impegnavano sicchè gli allievi fossero sufficientemente istruiti nei Misteri principali, e in modo speciale sulla Confessione e Comunione, prima che finisse la quaresima. Siccome molti giovani, specialmente gli apprendisti nelle officine e [182] nelle costruzioni, non potevano presentarsi alle rispettive parrocchie in quelle ore nelle quali generalmente insegnavasi la dottrina cristiana in preparazione alla Pasqua, così Don. Bosco aveva preso, con suo grave incomodo, il partito che nel suo Oratorio si facesse il catechismo tutti i giorni feriali, nel pomeriggio dalla mezza sino ad un'ora e mezzo. Per tal guisa i catechizzandi avevano tempo a pranzare, recarsi ali catechismo e trovarsi per tempo nella scuola, nel laboratorio o sulle fabbriche, senza dar motivo a lamenti, nè ai maestri ai padroni.

                Il lunedì dopo detta domenica si incominciavano le istruzioni catechistiche, alle quali per oltre a 30 anni presiedette D. Bosco stesso. Aveva assai del piacevole il modo, che si usava per chiamarvi i giovanetti. Poco dopo il mezzogiorno, sullo stile di S. Francesco di Sales, un fanciullo a ciò deputato, dato di piglio ad un grosso campanello, prendeva, a girare nei dintorni e per le vie principali agitandolo senza compassione; quel suono penetrando nelle vicine case ricordava il dovere del catechismo ai padri ed ai figli, ed era stimolo a, quelli per mandarli, a questi per intervenire. Dopo alcuni minuti era bello il vedere frotte di fanciulli spuntare da tutte parti, farsi attorno al piccolo campanaro, accompagnarlo qua e colà, e al tintinnio aggiungendo il proprio esempio, invitare altri ad unirsi con essi e condurli all'Oratorio. Dopo una mezz'ora questo rigurgitava di giovanetti, che divisi nelle varie classi, assistevano alle lezioni del proprio catechista, con un'attenzione che edificava.

                Intanto fin da questi primi giorni D. Bosco osservava se fra quelli che intervenivano ve ne fossero da cresimare. In tal caso, e quando un Vescovo poteva accondiscendere alla sua, domanda, divideva i cresimandi in due o tre classi e faceva dar loro istruzione a parte sul modo di ricevere questo [183] Sacramento. Desiderava che non più tardi della metà della quaresima fossero cresimati, perchè vi fosse poi tempo a prepararli per la Pasqua. Se mancava il Vescovo, e non era tanto facile averlo, ne riteneva scritti con diligenza i nomi, e rimandava ad altro tempo quella funzione.

                Accorgendosi inoltre che parecchi giovani non potevano partecipare durante il giorno a quelle istruzioni, stabilì per loro comodità e vantaggio il catechismo serale, il che diede origine a quel catechismo, che finiti i lavori del giorno, ora van facendo gli operai cattolici ai giovani apprendisti durante la quaresima.

                Eziandio nelle sere del sabato si faceva la dottrina, ma lasciando comodità di confessarsi a quelli che lo desideravano. Anzi D. Bosco aveva massima cura che i catechizzandi si confessassero almeno una volta ed anche di più nel corso della quaresima, e ciò per evitare gli inconvenienti che sogliono accadere quando si accostano per la confessione pasquale. Così rendeva più facile il compito del confessore, più breve l'accusa del penitente, e con una meno lunga aspettazione non si stancava quella moltitudine che voleva confessarsi.

                Ma D. Bosco non si contentava che molti giovanetti venissero a sè, spontaneamente, ma di più andavane in cerca specialmente nella quaresima. In quei primordii spesse volte fu visto salire su per le scale delle case e dei palazzi in costruzione, passeggiare per i ponti, intrattenersi cogli impresarii e coi capi mastri, e poi chiamare intorno a sè i garzoni muratori per invitarli al catechismo. La gente che passeggiava per i viali pubblici, si fermava per contemplare lo strano spettacolo di un sacerdote lassù così in alto su quegli assi o su quelle scale. Gli uni esclamavano: - È matto quel prete che va lassù? [184] Altri interrogavano: - Chi sarà mai? - Coloro che lo conoscevano dicevano nei crocchi: - Oh! è D. Bosco in cerca di fanciulli.

                Egli andava a far visita ai proprietarii ovvero ai capi delle grandi officine, di cotone, di ferro, di legnami, e li pregava che, nello stesso loro interesse, lasciassero venire i loro apprendisti all'Oratorio pel catechismo. Le sue ragioni erano così convincenti, che non trovavano opposizione od ostacolo: quindi la licenza veniva concessa ben volentieri. I giovani, suonato il mezzodì, andavano a casa, pranzavano in fretta per non perdere un sol momento di istruzione cristiana, correvano in Valdocco attorno a quel prete dal quale sapevano di essere grandemente amati e quindi si trovavano al loro posto sul lavoro nell'ora stabilita. I padroni, vedendo l'entusiasmo dei garzoni e come a vista d'occhio diventassero più morigerati, fedeli, obbedienti, concessero loro una mezz'ora di più per stare fuori dell'opifizio, acciocchè potessero mangiare più riposatamente, e senza ansietà stessero al catechismo.

                Quando D. Bosco incontrava un fanciullo sulla porta di una casa o dovunque, si fermava e interrogavalo: - Come ti chiami?

                - Giacomo, Antonio.

                - Come stai? Stai bene?

                - Io sì!

                - Quanti anni hai?

                - 9, 10, 12.

                - E sei bravo?

                - Il piccolino faceva una smorfia.

                - Hai ancora papà e mamma?

                - Si.

                - C'è nessun altro in casa tua? [185]

                - C'è mio nonno.

                - Hai fratelli e sorelle?

                - Sì! - e ne indicava il numero.

                - Sei più buono tu od essi?

                - Io!

                - E tuo papà e tua mamma stanno bene?

                - Sì! - ovvero: - Mio padre è ammalato.

                - E tuo nonno è ancora giovane?

                - No, è vecchio!

                - Sei buono a farmi una commissione?

                - Sì!

                - Ti ricorderai?

                - Oh, sì!

                - Tornando a casa, dirai a tuo nonno che D. Bosco gli manda il buon giorno; prendi questa medaglia, portala a papà e gli dirai che D. Bosco lo saluta! - E il giovane correva a casa tutto contento di avere una commissione da fare, e il vecchio nonno, il padre, la madre andavano fuor di sè per la contentezza dell'improvviso saluto. Se le medaglie erano per tutta la famiglia, come spesso accadeva, se ne faceva la distribuzione con molto piacere. Quando poi D. Bosco ripassava innanzi alle loro case, venivano tutti fuori per ringraziarlo de' suoi saluti e della sua bontà. E D. Bosco s'intratteneva a parlare con loro, li esortava a mandare i giovanetti al catechismo e diceva al capo di famiglia: - Sabato dovete farmi un piacere.

                - Diavolo! s'immagini! e quale è questo piacere?

                - Mandare la vostra famiglia a confessarsi. La Pasqua si avvicina.

                - Ben volentieri; e ci verrò anch'io, perchè ne ho di bisogno, sa! Sono due anni che non ci sono più stato.

                - Ebbene, venite; aggiusteremo le cose da buoni amici. [186]

                - Ma ne sentirà delle grosse, che non istanno nè in cielo nè in terra!

                - Sono proprio quelle lì che voglio io. - E così, ridendo faceva del gran bene alle anime.

                Queste scene graziose si ripetevano quasi tutti i giorni, ovunque D. Bosco andasse, anche fuori di Torino.

                A certa distanza dall'Oratorio, a ponente e a levante, alcune case racchiudevano un cortile abbastanza vasto. Quivi abitava agglomerata molta poveraglia, e le donne in certe ore si vedevano radunate lavorando e facendo comaratico. D. Bosco compariva sulla soglia della porta e salutandole diceva loro scherzando: - Olà! avete figliuoli da vendere?

                - Oh D. Bosco; non sono merce da negozio i nostri figliuoli!

                - Non per me, ma per il Signore, che li vuole e ve ne darà il premio. Or dunque mandateli al catechismo - E le madri ridevano e promettevano.

                Ma non bisogna credere che D. Bosco andando a raccogliere i giovani facesse opera senza sacrifizio; non tutti si arrendevano al primo suo invito; e chi acconsentiva noi faceva sempre con buon garbo. Doveva trattare con persone grossolane nelle parole e nei modi, qualche volta con gente importuna che si approfittava del momento per chiedere un'elemosina, che non poteasi rifiutare. E poi nelle stanze a pian terreno di tutte quelle case vi erano bettole e bagordi, e quindi non difficili incontri poco piacevoli. Eppure D. Bosco, che aveva un sentire così delicato, con prudente pazienza sopportava, dissimulava il suo disgusto, non faceva rimproveri quando li scorgeva inutili, era con tutti cortese.

                Lasciando da parte i fatti disgustosi ne riporteremo un solo molto lepido. [187]

                Un certo Tes abitava presso l'Oratorio. Costui si ubbriacava quasi tutte le settimane, e in tale stato se incontrava D. Bosco gli si avvicinava, e:

                - Oh D. Bosco! esclamava. Lei è un bravo prete! Oh io Le voglio tanto bene! Si lasci fare un bacio, se lo lasci fare - Ma no! mai più! - diceva D. Bosco schermendosi da quelle carezze.

                - Ma è forse male fare un bacio a Lei che è un prete così buono! Se fosse cattivo... no... ma... Ebbene, so io come fare! Le prometto che domenica vengo a confessarmi da Lei... ma Lei si lasci baciare.

                - Venite come volete; io vi ascolterò volentieri, vi darò una penitenza leggiera... ma ora lasciatemi andare per i fatti miei.

                - Ma non sono mica ubbriaco, sa! E intanto misurava la strada barcollando. Sono un po' male in gamba, perchè ho bevuto un quintino di più - ma sono in pieno possesso delle mie facoltà mentali. E poi, se avessi bevuto di quel cattivo, pazienza, ma era di quel buono, proprio buono! e vinum bonum laetificat cor hominis. - E così dicendo, gli metteva le mani sulle spalle. E D. Bosco con tutta calma a stento riusciva a staccarlo da sè, guardandosi però bene da ogni sorriso che indicasse disprezzo, o parola che potesse essere presa in mala parte. Schivava, come egli disse, di cagionare antipatie le quali in vita e anche in punto di morte fanno talora respingere un sacerdote. Egli infatti era chiamato sovente ad assistere i moribondi nei dintorni.

                Questo brav’uomo però non andava mai a confessarsi, e la dimane tutto serio incontrando D. Bosco più non faceva motto della sua promessa.

                Così si appressava la metà quaresima, e le classi dei catechizzandi occupavano ogni spazio dell'Oratorio. Ma in [188] tale giovedì D. Bosco dovette risolversi a non radunare i giovani per evitare certi scherzi che erano cagione di risse e di scandalo. Il popolano, attaccato ad antiche usanze, si prendeva in questo giorno un gusto matto di mandare una sega a qualche amico o farla chiedere a questi da qualche semplicione, o eziandio da qualche furbo che non avvertiva il giorno e lo scherzo, e questi era poi accolto dai burloni, con battimani e grida poco piacevoli. Altri tagliavano un foglio di carta in forma di sega e la appiccicavano dietro alle spalle sul vestito di un compagno e gli facevano gazzarra attorno. Ora siccome non tutti prendevano in buona parte il giuoco e i burlati si indispettivano, non rare volte succedevano scene disgustose. Non potendosi sradicare queste usanze in sè innocenti e non volendo D. Bosco proibirle, pensò essere miglior partito concedere vacanza.

 

 

CAPO XVII. L'Oratorio scuola di rispetto - Nuove rimostranze dei parroci - L'esame di catechismo - Le promozioni alla prima Comunione - Lettera dell'Arcivescovo e la nuova parrocchia dei fanciulli abbandonati - Erezione della Via Crucis in Valdocco - La Pasqua - Premii e lotteria - Sempre nuovi giovani al catechismo.

 

                L’ORATORIO di S. Francesco di Sales era una scuola di rispetto e di obbedienza verso tutti coloro che sulla terra rappresentano l'autorità del Signore. D. Bosco aveva scritto a chiare note nella sua prima, edizione del Giovane Provveduto questi moniti a' suoi giovanetti: “Obbedite ad ogni vostro superiore Ecclesiastico o secolare, come altresì ai vostri maestri, ricevendo volentieri con umiltà e rispetto tutti i loro insegnamenti, consigli e correzioni, tenendo per certo che ogni cosa si fa per vostro vantaggio... Vi raccomando un sommo rispetto ai sacerdoti; scopritevi il capo, in segno di riverenza quando parlate con essi o li incontrate per le strade e baciate loro ossequiosamente la mano. Guardatevi principalmente dal disprezzarli con fatti o con parole... Chi non rispetta i sacri ministri, deve temere un gran castigo dal Signore”. [190]

                E a coloro che più non intervenivano all'Oratorio inculcava: “Vi raccomando di fare ogni possibile per intervenire alle vostre parrocchie per l'adempimento dei doveri da buon cristiano, essendo il vostro Curato in modo particolare destinato da Dio ad aver cura dell'anima vostra”.

                E nelle edizioni seguenti di quest'aureo libro, spiegando sempre meglio le sue intenzioni, esortando i giovani più adulti a frequentare i Sacramenti nelle Congregazioni e negli Oratorii, aggiungeva: “Eccettuate per altro la Comunione Pasquale, che si deve fare alla propria parrocchia; anzi, quando ne avete la comodità, procurate parimenti di accostarvi ai Santi Sacramenti nella stessa vostra chiesa parrocchiale pel buon esempio altrui”. E ciò applicava eziandio alle comunioni nei giorni feriali.

                I parroci di Torino non ignoravano in qual modo Don Bosco educasse i suoi giovani, e mentre ne constatavano gli effetti per il maggior rispetto e deferenza che questi, incontrandoli, loro dimostravano, ne erano a lui grati. Ma benchè gli fossero tutti personalmente amici, alcuni non avevano cessato di riguardare l'Oratorio come un contro altare innalzato di fronte alle loro chiese. E in quest'anno ne muovevano nuove rimostranze all'Arcivescovo. Infatti non si trattava più di un semplice catechismo fatto nelle sole Domeniche in luoghi ristretti, ma di un vero e solenne catechismo quaresimale, mentre questo tenevasi contemporaneamente in tutte le parrocchie della città. E in Valdocco si radunavano tanti catechizzandi quanti non ve n'erano nella maggior parte delle chiese di Torino, computati insieme. “A chi spetta, dicevano, l'ufficio d'insegnare? A chi il dovere di riconoscere con un esame se un giovane è istruito abbastanza nella dottrina cristiana e se merita di essere promosso alla Comunione o per sempre o per un tempo determinato? Non è diritto riconosciuto nei [191] parroci di comunicare per la prima volta i loro fedeli? Come si potrà conoscere chi ha soddisfatto all'obbligo pasquale e chi no?” E qualcuno aggiungeva, che per troncare ogni questione, non sarebbe stato cattivo consiglio che D. Bosco fosse destinato a Viceparroco in qualche paese di montagna.

                D. Bosco ripeteva loro che la maggioranza de' suoi giovani non apparteneva alla popolazione stabile della città, e che in quanto agli altri i parenti non si curavano di mandarli alla parrocchia; ma non gli venne fatto di persuaderli, quei buoni sacerdoti.

                Allora invitò il parroco del Carmine, Teol. Dellaporta a venire nell'Oratorio, perchè rilevasse in persona la verità di sue asserzioni. Venne, si mise in mezzo ai giovani e loro incominciò a chiedere a quale parrocchia appartenessero: - Io - rispondeva uno - sono di S. Biagio.

                - E dov'è questa parrocchia?

                - A Biella!

                - E tu? - chiedeva ad un altro.

                - Io sono di Santa Filomena.

                - Ma dov'è questo borgo?

                - Sul Lago di Como.

                - E tu? - ad un terzo.

                - Di Santa Zita.

                - Santa Zita?

                - Sissignore, presso Genova.

                - Io a S. Eusebio di Vercelli - E così in varii modi molti risposero che erano di Novara, di Novi, di Nizza e di altre città e villaggi.

                - Ma qui a Torino dove abitate?

                Alcuni sapevano dire il nome della via e il numero della porta, ma non conoscevano quale fosse la parrocchia sotto cui era la loro abitazione; altri avean cambiato più volte [192] domicilio in pochi mesi seguendo un loro capo squadra; altri dormivano alla ventura cercando un rifugio notte per notte. Chi non era più co' parenti, chi li aveva perduti, e chi non avevali mai conosciuti. - Il Teol. Dellaporta, persuaso da quelle risposte, riconobbe il gran bene che faceva D. Bosco, essendo i giovani da lui raccolti veramente gli abbandonati, dagli altri.

                Anche D. Gattino parroco di Borgo Dora, sotto la cui giurisdizione era la casa Pinardi, si recò un giorno a parlare con D. Bosco, e dopo aver visitato l'Oratorio e le classi gli disse: - Tutto va bene, ma non so come Lei potrà continuare la sua opera qualora il parere dei parroci Le fosse contrario. Io però Le prometto, nella prima radunanza nostra del collegio, di prendere le sue difese per quanto mi sarà possibile.

                La ringrazio, replicò D. Bosco, ma capirà che la questione non si può sciogliere come essi desiderano. Io non ho nessuna difficoltà di dire a tutti questi giovani che prima s'informino quale sia la loro parrocchia attuale e là vadano a, prepararsi per la Pasqua. Ma vorranno essi abbandonai, l'Oratorio? E se io li congedassi, vi andranno o non piuttosto si sbanderanno in mezzo alle strade o per i prati? E chi li andrà a raccogliere? E se facessero qualche monelleria chi sentirassi in grado di trattenerli?

                - Non ha torto, osservò D. Gattino... ma pure... vedremo.

                Venne eziandio Padre Serafino da Gassino Curato di N. S. degli Angioli, il quale avendo conosciuto tra i giovani più d'uno che sapeva della sua giurisdizione, ne fece osservazione a D. Bosco, il quale rispose: - Ma io non ho difficoltà di congedarli anche tutti, questi giovani; trovino essi il modo di prenderne cura. Basta una parola dell'Arcivescovo, ed io [193] lascio tutto, e me ne ritorno a Castelnuovo ove non avrò tanti fastidii.

                - Avrei un progetto che, mi sembra, accomoderebbe bene la cosa, disse il nuovo venuto. Non potrebbe in questo tempo di quaresima condurre alla mia parrocchia i giovani che mi appartengono e quanti altri non hanno domicilio fisso? Presso di me non potrebbero compiere il dovere pasquale? Io Le assegnerò un confessionale nella mia chiesa e là potrà fare tutto il bene che le piace.

                - La cosa pare spiccia, osservò D. Bosco; ma in questo caso non dovrei dare la preferenza al mio Curato di S. Simone e Giuda? Se, io vengo nella sua chiesa, Lei permetterà che vengano i giovani delle altre parrocchie, i quali non vorranno certamente distaccarsi da me? Sarebbe suscitare più viva ancora la stessa questione tra i parroci! E se vengono tutti i miei settecento e più giovani, dove li metteremo? E se Lei escludesse quelli che non sono della sua parrocchia, potrei io permettere che rimangano abbandonati? E osservi ancora, mio caro signor Curato, un punto degno di riflessione, se non altro in teoria: io dovrei diventare suo viceparroco?

                - Ha ragione, concluse il parroco di N. Signora degli Angeli, la questione non è così piana come sembravami a prima vista. Basta... ne parleremo ancora... Vedremo che cosa deciderà il nostro Collegio.

                Comparve in ultimo il curato di S. Agostino Teol. Ponzati il quale più degli altri era fermo nel sostenere il suo diritto per il catechismo e la Pasqua. Discusse lungamente con D. Bosco, il quale arrecò ogni fatta di ragioni, ma sempre dicendosi pronto a cedere, solo che così volessero i suoi Superiori Ecclesiastici. La calma di D. Bosco e l'ineluttabile forza de' suoi ragionamenti impacciarono il suo oppositore, [194] il quale però nel congedarsi concluse: - Comunque decida il Collegio dei parroci, intendo riservare a me il diritto di dare l'esame per la promozione alla prima Comunione.

                D. Bosco gli fece notare che si trattava di un centinaio di giovani ogni anno; ma il buon parroco replicò la sua conclusione in tono perentorio.

                Giunta intanto la settimana di Passione, D. Bosco ordinava che ogni catechista esaminasse i proprii allievi, li dichiarasse promossi alla santa Comunione se li trovava idonei e ne desse a lui il voto per metterlo in un registro a parte. D. Bosco stesso e altri sacerdoti presiedevano a quell'esame.

                Ma i giovani della parrocchia di S. Agostino li mandò al loro Curato.

                Il parroco, vista quella turba: - Che cosa volete da me? disse loro un po' brusco.

                - L'esame di catechismo per la prima Comunione.

                - Tornate altra volta: ora non ho tempo. - E quei giovani sì restituirono all'Oratorio dicendo: - L'esame non ce l'ha voluto dare.

                - Ma, osservò D. Bosco, gli avete detto che sono io che vi mandavo?

                - Questo no!

                - Ebbene, ritornate e pregatelo in mio nome che abbia la bontà di esaminarvi.

                I giovani rifecero i loro passi. Invece del parroco trovarono in sagrestia un addetto alla chiesa, e ripeterono la domanda in nome di D. Bosco. Il sagrestano li squadrò da capo, a piedi. Erano tutti adulti e alcuni avevano la barba. - Come! esclamò con ironia: Mi meraviglio! Avete ancor da fare la prima Comunione? Oh i piccolini! Avete aspettato abbastanza a quel che pare! Non c'è male! - E proseguiva di questo tenore. [195] I poveri giovani, che avevano fatto uno sforzo per assoggettarsi a prendere quell'esame, ritornarono da D. Bosco confusi, umiliati, protestando di non voler più saperne di esame. D. Bosco allora si presentò all'Arcivescovo esponendogli lo stato delle cose, e Monsignore, preso tempo a riflettere, gli promise di fargli conoscere per lettera le sue decisioni. Intanto D. Bosco, sul finire della settimana di Passione, annunziò nell'Oratorio, che nella Settimana Santa sarebbesi incominciato un triduo di prediche, in quel giorno e in quell'ora che egli giudicò di maggiore comodità a' suoi giovanetti. La voce di D. Bosco, del Teol. Borel e di altri santi preti non cessò di infervorare in questa Settimana per anni ed anni le turbe, che si preparavano a ricevere degnamente il pane Eucaristico.

                Ma essendo straordinario oltre ogni credere il numero degli accorrenti al tribunale di penitenza, D. Bosco assegnò loro alcuni giorni distinti per l'adempimento dei doveri religiosi. Il Lunedì santo al mattino incominciavano le confessioni dei più piccoli non ancora promossi alla santa Comunione; questi raccomandava ai confessori da lui invitati perchè li trattassero con molta pazienza e carità, ispirassero loro grande confidenza per ottenere un'accusa sincera, infondessero nei loro cuori un santo orrore al peccato, essendo essi pur troppo capaci di offendere Iddio, facessero loro concepire dolore dei loro falli, e per quanto era possibile non li rimandassero senza assoluzione.

                Per quelli che dovevano comunicarsi la prima volta, se fossero stati motti, aveva fissato un giorno distinto per loro soli. Non badava all'età, o a certe consuetudini; ma quando sapevano distinguere tra pane e pane ed erano sufficiente mente preparati, li mandava alla sacra Mensa. Aveva grande premura che Gesù prendesse per tempo possesso dei loro [195] I poveri giovani, che avevano fatto uno sforzo per assoggettarsi a prendere quell'esame, ritornarono da D. Bosco confusi, umiliati, protestando di non voler più saperne di esame. D. Bosco allora si presentò all'Arcivescovo esponendogli lo stato delle cose, e Monsignore, preso tempo a riflettere, gli promise di fargli conoscere per lettera le sue decisioni. Intanto D. Bosco, sul finire della settimana di Passione, annunziò nell'Oratorio, che nella Settimana Santa sarebbesi incominciato un triduo di prediche, in quel giorno e in quell'ora che egli giudicò di maggiore comodità a' suoi giovanetti. La voce di D. Bosco, del Teol. Borel e di altri santi preti non cessò di infervorare in questa Settimana per anni ed anni le turbe, che si preparavano a ricevere degnamente il pane Eucaristico.

                Ma essendo straordinario oltre ogni credere il numero degli accorrenti al tribunale di penitenza, D. Bosco assegnò loro alcuni giorni distinti per l'adempimento dei doveri religiosi. Il Lunedì santo al mattino incominciavano le confessioni dei più piccoli non ancora promossi alla santa Comunione; questi raccomandava ai confessori da lui invitati perchè li trattassero con molta pazienza e carità, ispirassero loro grande confidenza per ottenere un'accusa sincera, infondessero nei loro cuori un santo orrore al peccato, essendo essi pur troppo capaci di offendere Iddio, facessero loro concepire dolore dei loro falli, e per quanto era possibile non li rimandassero senza assoluzione.

                Per quelli che dovevano comunicarsi la prima volta, se fossero stati motti, aveva fissato un giorno distinto per loro soli. Non badava all'età, o a certe consuetudini; ma quando sapevano distinguere tra pane e pane ed erano sufficiente mente preparati, li mandava alla sacra Mensa. Aveva grande premura che Gesù prendesse per tempo possesso dei loro [196] cuori. Non trascurava in certi casi di seguire l'usanza diocesana di promuoverli alla comunione per una sola volta, o per tre o quattro in quell'anno, ed eziandio secondo la licenza che dietro domanda sarebbe loro accordata. Questa pratica aveva per fine di costringere i giovani, se volevano essere promossi per sempre, ad assistere ai catechismi quaresimali ancora per qualche anno, poichè senza questa riserva certuni non li avrebbero più frequentati.

                D. Bosco però era solito a promuovere per sempre, non solo quelli che erano bene istruiti nelle verità della fede nel tempo pasquale, ma eziandio in qualunque tempo dell'anno, anche senza speciali solennità.

                Intanto Mons. Fransoni premuroso di sciogliere D. Bosco da' suoi impicci, così gli scriveva nel Mercoledì santo:

 

30 Marzo 1847.

 

                                Molto Rev. Signor Padrone Oss.mo,

 

                Fatto maturamente riflesso a quanto V. S. M. R. mi accennava l'altro giorno, mi sono determinato ad autorizzarla come in virtù della presente l'autorizzo, ad istruire ed ammettere alla prima Comunione quei giovani che intervengono alla sua pia istituzione. Ad oggetto poi che i rispettivi signori parroci dalla cui giurisdizione dipenderebbero tali giovani possano conoscerli, converrà che loro partecipi aver Ella, con mia speciale delegazione esaminato ed ammesso alla prima Comunione i tali e tali, indicandone i nomi, ed aver essi soddisfatto in virtù della medesima al pasquale precetto nella, Cappella destinata pei medesimi.

                Nel soggiungerle poi che la suddetta delegazione s'intende estesa anche all'ammettere i medesimi al sacramento [197] della Cresima, con munirli del relativo consueto biglietto, mi rinnovo coi sensi della più perfetta stima.

 

                Di V. S. M. R.

 

D. O. S.

LUIGI Arcivescovo

 

                Torino, Sig. D. Giovanni Melchiorre Bosco.

 

                Con questo formale decreto era tolto ai parroci qualsiasi futuro pretesto a rimostranze, le quali però non si potevano - dire ingiustificabili, se l'Arcivescovo non avesse dichiarata la sua volontà.

                Mons. Fransoni diceva loro: - Le Cappelle degli Oratorii saranno le parrocchie di que' fanciulli che le frequentano. - E adducendo la ragione delle sue concessioni a D. Bosco, aggiungeva: - Stante la circostanza che molti giovani sono forestieri e che gli altri tutti sono per natura volubili ed incostanti, senza gli Oratorii che in bel modo ve li attirino, molti non andrebbero in chiesa, e così crescerebbero ignoranti e discoli. - I parroci si arresero senza esitare alla sua decisione, e D. Bosco compiacevasi di chiamar l'Oratorio

                “La parrocchia dei fanciulli abbandonati”.

                Se la lettera dell'Arcivescovo consolava D. Bosco, aveva eziandio data maggior lena a' suoi catechisti, i quali non risparmiavano fatiche e premure perchè i figli del popolo si apparecchiassero ai santi Sacramenti colle migliori disposizioni, ascoltassero attenti il triduo di prediche, che incominciava il Giovedì santo nell'ora stessa consacrata prima al catechismo, e mettessero in pratica i brevi, ma caldi avvisi che D. Bosco loro andava suggerendo di quando in quando.

                In questi giovani catechisti poi si trasfondeva lo zelo e lo spirito di D. Bosco, poichè quantunque non facessero vita [198] comune con lui, or l'uno or l'altro stavano sempre al suo fianco dal mattino alla sera, studiavano ogni suo passo, erano edificati da' suoi esempii, lo imitavano anche in quegli atti, di pietà che sembravano di minore importanza.

                E qui mi si consenta a proposito una digressione.

                Lo spirito religioso di D. Bosco si manifestava continuamente eziandio nel rispetto, nell'amore e nella stima per tutti quegli atti di culto e pratiche di pietà che la Chiesa senza imporre approva, promuove e raccomanda. Tali sono l'uso dei sacramentali, l'assistenza alle funzioni di chiesa, la recita in comune del rosario, l'aggregarsi a pii sodalizii, la recita dell'Angelus, la benedizione della tavola, l'esercizio della Via Crucis. Riguardo a quest'ultima, vivissima era la sua divozione verso i misteri della passione e morte di Gesù Cristo. Ne meditava con affetto i dolori, e discorrendone, si commoveva così che le parole gli venivano meno e muoveva gli uditori al pianto. Raccomandava a tutti i suoi dipendenti questa tenera divozione, e sapeva parlarne in modo tenerissimo al tribunale di penitenza.

                Egli perciò aveva fin dall'anno antecedente presentata all'Arcivescovo la seguente supplica, scritta dal Teol. Borel.

 

                               “Eccellenza Reverendissima,

 

                I sacerdoti applicati all'istruzione dei giovani dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, recentemente aperto in Valdocco, fuori di questa Capitale, affine di accendere vieppiù la pietà ne’ giovani accorrenti in grande numero, bramerebbero di erigervi la santa pratica della Via Crucis; osano perciò ricorrere rispettosamente alla Pastorale cura di V. E. Reverendissima. [199] Supplicandola umilmente a volersi degnare di accordar loro questo favore e delegare chi Ella giudica per la erezione della medesima....

                Che della grazia”.

 

                L'11 Novembre 1846 era stata concessa l'implorata erezione della Via Crucis colla clausula che ne avesse incarico alcun religioso sacerdote della famiglia minoritica, deputato dal proprio superiore: salvi i diritti Arcivescovili e parrocchiali. La concessione era firmata dal Can. Celestino Fissore Provicario generale e dal Teol. Gattino Curato. La firma del proprietario Francesco Pinardi attestava il suo consenso. Il 1° Aprile Fr. Antonio dell'Ordine dei Minori Osservanti di S. Francesco, Guardiano del Convento di S. Tommaso in Torino, deputava il Padre Buonagrazia, predicatore e confessore approvato dall'Ordinario, ad erigere le sopraddette stazioni. D. Bosco aveva comprati i quattordici quadretti colle rispettive croci, sborsandone 12 lire. La sua povertà non gli aveva permesso una spesa maggiore.

                Il medesimo 1° Aprile, Giovedì santo, con solennità, alla presenza dei molti giovani, il Padre Buonagrazia, seguendo le forme prescritte dalla Sacra Congregazione delle Indulgenze, benedisse i quadri colle croci, e portati in processione attorno alla cappella furono appesi ai posti designati. Ad ogni quadro che si collocava commemoravasi la stazione da quello rappresentata, e per la prima volta si eseguì il breve modo per praticare la Via Crucis stampato nel Giovane Provveduto. Vi furono dei canti ed il francescano pronunciò qualche fervorino. Nel Venerdì santo D. Bosco volle che fosse ripetuto questo esercizio di pietà, arricchito dai Sommi Pontefici da indulgenze senza numero. Si poteva trovar mezzo [200] più efficace per far conoscere l'amore infinito che Gesù porta agli uomini, ed il dovere che questi hanno di corrispondervi?

                Compresi da questo pensiero i giovani dell'Oratorio, tutti artigiani, la Domenica di Risurrezione fecero la Pasqua. Benchè D. Bosco avesse loro data tutta la comodità e libertà necessaria per confessarsi invitando altri sacerdoti, più centinaia solo a lui vollero confidare i segreti della loro coscienza.

                Con tale festa, rallegrata da quanto D. Bosco poteva disporre perchè i suoi giovani fossero pienamente contenti, non finivano ancora le sue occupazioni pasquali.

                Nella Domenica in Albis ebbe luogo la solenne distribuzione dei premii a quelli che colla loro frequenza e buona condotta si erano segnalati nell'intervenire al catechismo in tempo di quaresima. Erano presenti molti invitati, perchè D. Bosco volle che la premiazione rivestisse il più solenne aspetto che fosse possibile, ed ebbe parole di lode e di incoraggiamento per quei bravi figliuoli, con promesse da parte del Signore di altri premii ben più ricchi e consolanti.

                Nella seconda Domenica dopo la Pasqua, 18 Aprile, si fece la lotteria per coloro che avevano frequentato nell'anno l'Oratorio Festivo. Questo ordine di cose in preparazione e chiusa del tempo pasquale si mantenne negli anni successivi e fino ancora ai presenti.

                Terminate le feste, D. Bosco riordinava subito le classi pel catechismo domenicale. In queste settimane in fatti giungevano in Torino molti giovanetti forestieri per imparare un mestiere, o per lavorare come braccianti. Di costoro un bel numero sarebbe venuto all'Oratorio e bisognava quindi mutar di posto in chiesa quelli che erano stati promossi alla santa Comunione, formandone classi a parte.

                Questa classificazione però non poteva mantenersi per molti mesi, e D. Bosco nei primi giorni di Novembre riordinò [201] le sue squadre. La maggior parte dei giovani muratori, essendo interrotti i lavori di costruzione, ritornavano ai loro paesi, e molti giovanetti montanari scendevano in città o soli o con qualche parente, per guadagnarsi un pane che era troppo scarso tra le nevi dei loro villaggi. Gli uni si davano all'accattonaggio, gli altri facevano il mestiere dell'arrotino, o vendevano lavoretti in legno; i più erano spazzacamini. Invitati da D. Bosco, spinti dagli amici, prendevano nell'Oratorio il posto di quelli che erano partiti; e con essi non pochi loro coetanei torinesi, i quali, finite le divagazioni della bella stagione, si rifugiavano in un luogo simpatico pei loro sollazzi.

                Più tardi si aggiunsero altri figli del popolo, che frequentavano le scuole elementari, ed erano così numerosi, che sul principio dell'autunno D. Bosco dovette formare di essi una categoria distinta da quella degli altri giovani operai.

                Così più volte all'anno si rinnovavano in gran parte le turbe giovanili intorno a D. Bosco, con quanta sua fatica e con quanto vantaggio delle loro anime a voi l'immaginare.

 

 

CAPO XVIII. Necessità di un ospizio - Un crocchio di monelli - Tentativo fallito - Il primo giovine ospitato - Il primo sermoncino avanti il riposo - Il primo letto e il primo dormitorio - Umile ed oscuro principio e benedizione di Dio - Il pianto di un orfanello.

 

                FINO a questo punto D. Bosco, in Valdocco, erasi occupato quasi esclusivamente ad organizzare i mezzi per far rifiorire l'istruzione religiosa coi catechismi e la letteraria colle scuole domenicali, serali e diurne, e per eccitare alla virtù i giovanetti con acconce pratiche di pietà. Ma un altro bisogno sentivasi pur grande assai. La quotidiana esperienza faceva toccare con mano a D. Bosco che per giovare efficacemente a un certo numero di giovanetti non bastavano le scuole e le radunanze festive, ma era d'uopo fondare un caritatevole ospizio.

                Molti di loro, e torinesi e forestieri, mostravansi pieni di buona volontà di darsi ad una vita morigerata e laboriosa; ma, invitati a principiarla o a proseguirla, solevano rispondere che non avevano nè pane nè abiti nè casa onde ripararsi; ed erano talora costretti ad una vita così stentata, ed alloggiare in siti così pericolosi, da far dimenticare in un giorno o in una notte i buoni proponimenti di una [203] settimana intera. Difatti la maggior parte di essi, o accettati o intrusi, passavano le notti nelle stalle, nelle rimesse e nei pagliai; o a cielo scoperto, sulla nuda terra e sulle panche dei viali pubblici; ora rannicchiati sotto i portici dei palazzi, dietro una porta trovata aperta, o in un sottoscala. Alcuni di questi poveretti erano perfino impediti di venire la Domenica all'Oratorio, perchè obbligati a procurarsi con fatica il pane giornaliero. D. Bosco cercava soccorrerli il meglio che poteva: dava pare e minestra ai più affamati, mamma Margherita raccomodava o rammendava i brandelli dei loro abiti già troppo usati; ma che potevasi fare di più? D. Bosco mentre li compiangeva nel veder lì così derelitti più volte fu udito esclamare: - Mi fanno tanta pena questi poveri giovani, che se fosse possibile darci loro il mio cuore in tanti pezzi! - Egli pertanto ed il Teologo Borel da qualche tempo studiavano il modo di riuscire nella costruzione di un piccolo ospizio. Avevano gettato un motto al Sig. Pinardi per conoscere a qual prezzo avrebbe venduta la sua casa, ma la risposta era stata: - Ottantamila lire!

                D. Bosco non aveva replicato, ma nella sua mente incominciò a colorire un vastissimo disegno, con quella fortezza d'animo che forse nessuno de' suoi contemporanei potè superare, e così che prima di morire potè vederlo compiuta a tenore dello scopo che sì era proposto. Una potenza misteriosa lo spingeva sempre avanti. Quindi, benchè privo di beni di fortuna, risolvette di mettersi all'opera, dicendo: - Cominciamo; i mezzi verranno. - Prevedeva con certezza che si preparavano tempi di grandi calamità, ma sapeva eziandio che “chi bada ai venti, non semina, e chi fa attenzione alle nuvole, non mieterà”[17]. [204]

                Senz'altro preparò un ripostiglio per alloggiare di notte i giovanetti che avrebbe conosciuti più bisognosi di quella carità. Il ripostiglio era un fienile presso all'Oratorio stesso, e provvide una certa quantità di paglia, alcune lenzuola e coperte, e in mancanza di queste un sacco entro cui ravvolgersi alla meglio. Non potè fare altrimenti, perchè non disponeva ancora di tutte le camere. Ma in sul bel principio questa sua paterna sollecitudine fu assai male ricompensata. Eccone il fatto.

                Una sera di Aprile del 1847 D. Bosco, essendosi dovuto fermare più a lungo in città presso un malato, veniva a casa tardi passando pei prati, detti in allora i prati di cittadella, coperti oggidì di superbi palazzi. Quando egli fu presso ai quartieri sulla via di Dora Grossa (ora via Garibaldi) e a principio del Corso Valdocco, eccoti un crocchio di circa 20 giovinastri dal primo pelo, ignari ancora di Don Bosco e dell'Oratorio, i quali, scorto un prete che veniva alla loro volta, cominciarono a gettare frizzi poco gentili. - I preti sono tutti avari, diceva uno. - Sono superbi ed intolleranti, soggiungeva un altro. - Facciamone la prova con quello là, gridò un terzo; e via dicendo.

                A queste voci poco lusinghiere D. Bosco aveva preso a rallentare il passo; egli avrebbe voluto evitare quel circolo, ma accortosi che non era più in tempo, tirò innanzi, e vi s'introdusse coraggiosamente. Non dandosi per inteso di averli uditi:

                - Buona sera, cari amici, disse loro: come state?

                - Poco bene, signor Teologo, rispose il più audace; abbiamo sete, e non abbiam quattrini; ci paghi Lei una pinta[18]. [205]

                - Sì, sì, ci paghi una pinta, signor Abate, gridarono tutti gli altri con isquarciata voce: una pinta, una pinta, altrimenti non lo lasciamo più andare. - In così dicendo lo accerchiarono siffattamente, che era impossibile dare un passo.

                - Ben volentieri, disse allora il buon prete, ben volentieri io ve la pago; anzi, stante il numero in che siete, ve ne pagherò anche due; ma voglio bere anch'io con voi.

                - Si figuri! signor Teologo, s'intende. Oh! che buon prete è Lei! Oh! se tutti fossero così. Andiamo adunque, andiamo all'albergo delle Alpi qui vicino.

                E a D. Bosco fu giuocoforza accompagnarsi con quei disgraziati, e per evitare maggiori guai, e per vedere se mai gli riuscisse di far loro qualche bene all'anima.

                Ognuno può immaginarsi che spettacolo fosse quello! Un prete in un albergo, cinto da cotale corona! All'entrare tutti fecero tanto di occhi; ma quanti si trovavano colà presenti, non tardarono a sapere chi fosse quel prete, e perchè vi fosse, e niuno ne prese scandalo.

                Chiamato l'oste, D. Bosco mantenne la data parola, e fece portare una e poi un'altra bottiglia ancora. Quando vide i suoi monelli alquanto esilarati, e fattisi più mansueti e benevoli, egli disse loro: - Ora voi dovete farmi un piacere.

                - Dica, dica, signor D. Bosco (aveva già loro manifestato il proprio nome), dica pure, non solo un piacere, ma due, ma tre gliene faremo, perchè d'ora innanzi vogliamo essere suoi amici.

                - Se volete essere miei amici, voi dovete farmi il piacere di non più bestemmiare il nome di Dio e di Gesù Cristo, come taluni hanno fatto in questa sera.

                - Ha ragione, rispose uno dei bestemmiatori, ha ragione, signor D. Bosco. Che vuole? Talora la parola ci scappa senza che ce ne accorgiamo; ma per l'avvenire non sarà [206] più così, e ce ne emenderemo mordendoci la lingua. Lo stesso promisero gli altri.

                - Bene; io ve ne ringrazio e me ne parto contento. Domenica poi vi aspetto all'Oratorio. Ora usciamo di qui, e voi da bravi giovinotti recatevi ciascuno alla propria casa.

                - Ma io non ho casa, prese a dire uno di loro; ed io nemmeno, aggiunse un secondo; e così parecchi altri.

                - Ma dove andavate a dormire alla notte?

                - Talvolta presso a questo o a quell'altro stalliere insieme coi cavalli dell'albergo; tale altra al dormitorio comune, dove si dorme per quattro soldi; e qualche notte in casa di un conoscente ed amico.

                D. Bosco si accorse ben tosto del pericolo di immoralità in cui versavano quei poverini, la maggior parte forestieri, e quindi soggiunse: - Allora facciamo così: quelli che hanno casa e parenti se ne vadano; - e intanto li salutò, ed essi se ne partirono; - gli altri vengano con me.

                Ciò detto, riprese la via di Valdocco, seguito da dieci o dodici di quei meschini, poichè per istrada se ne erano aggiunti altri sei:

                Arrivato all'Oratorio, dove la madre lo aspettava ormai con ansietà, D. Bosco fece recitare a' suoi ospiti il Pater noster e l'Ave Maria, che avevano quasi dimenticato; poi per una scala a piuoli li condusse sul mentovato fienile; diede a, ciascuno un lenzuolo ed una coperta, ed infine raccomandato loro il silenzio ed il buon ordine, ed augurato una felice notte, discese di colà, contento di aver dato principio, come ei si credeva, al divisato Ospizio.

                Ma non era di cotal gente, che la divina Provvidenza voleva servirsi per gettare le fondamenta di un sì magnifico edifizio, e D. Bosco ebbe a persuadersene fin dall'indomani. Infatti al mattino appena giorno egli esce di camera per [207] vedere i suoi giovinotti, dir loro una buona parola e invitarli che si rechino ciascuno al lavoro presso al proprio padrone. Fattosi nel cortile, egli non ode il minimo rumore. Credendo che fossero tutt'ora immersi nel sonno, sale per isvegliarli; ma quei bricconi si erano alzati due ore prima, e se l'erano chetamente svignata, portando via lenzuola e coperte per andarle a vendere.

                Il primo tentativo di un Ospizio andava dunque fallito, ma non falliva la buona volontà di colui, che n'era da Dio incaricato.

                Era una sera di maggio in sul tardi; la pioggia cadeva dirotta; D. Bosco e sua madre avevano poc'anzi cenato, quando si presenta loro alla porta un giovinetto sui quindici anni, tutto bagnato da capo a piedi, che domandava pane e ricovero. Era stato a loro indirizzato da qualche persona conoscente dell'Oratorio, o meglio dalla Provvidenza di Dio, che in quella sera appunto voleva dare incominciamento all'Ospizio di S. Francesco di Sales.

                La buona mamma Margherita lo accolse amorevolmente in cucina, lo avvicinò al fuoco, e, dopo averlo riscaldato e asciugato, gli porse una fumante minestra e pane.

                Ristorato che fu, D. Bosco lo interrogò donde venisse, se aveva parenti e che mestiere esercitasse. Egli rispose: - Io sono un povero orfano, venuto poc'anzi da Valsesia per cercarmi lavoro, e fo il muratore. Aveva con me tre lire, ma le ho spese prima di guadagnarne altre; adesso non ho più niente, e sono più di nessuno.

                - Sei già promosso alla Comunione?

                - Non sono ancora promosso.

                - Hai già ricevuta la Cresima?

                - Non ancora.

                - E a confessarti sei già stato? [208]

                - Sì, qualche volta, quando viveva ancora la mia cara madre.

                - E adesso dove vuoi andare?

                - Non so: dimando per carità di poter passare la notte in qualche angolo di questa casa.

                Ciò detto, egli si mise a piangere. A questa vista la pia Margherita che aveva un cuore di tenera madre, pianse ancor essa. D. Bosco n'era estremamente commosso. Dopo, alcuni istanti egli riprese a dire:

                - Se sapessi che tu non sei un ladro, cercherei di aggiustarti in questa casa; ma altri mi portarono via una parte delle coperte, e temo che tu mi porti via il resto.

                - No, signore: stia tranquillo; io sono povero, ma non ho mai rubato niente.

                - Se vuoi, domandò a D. Bosco sua madre, io lo accomoderò per questa notte, e domani Iddio provvederà.

                - Dove volete metterlo?

                - Qui in cucina.

                - E se vi portasse via le pentole?

                - Procurerò che ciò non succeda.

                - Fate pure, ch'io sono contentissimo.

                Allora la madre ed il figlio uscirono fuori, e aiutati dall'orfanello raccolsero alcune teste di mattoni, fecero con essi quattro pilastrini in mezzo alla cucina, vi adagiarono due o tre assi, e vi sovrapposero il materasso tolto per quella sera dal letto di D. Bosco con due lenzuola ed una coperta.

                Questo fu il primo letto ed il primo dormitorio del Salesiano Ospizio di Torino, che contiene oggidì circa mille ricoverati, diviso in quaranta e più cameroni! Chi non ravvisa in questo fatto la mano di Dio?

                Preparato il letto, la pietosa donna fece al garzoncello un sermoncino sulla necessità del lavoro, della fedeltà e della [209] Religione. Ella, senza punto avvedersi, diede così l'origine ad una pratica, che si mantiene tutt'ora nell'Oratorio, e che anzi venne introdotta in tutte le Case da esso dipendenti: di volgere cioè alcune cordiali parole ai giovanetti alla sera prima del riposo; pratica feconda di ottimi risultati.

                Infine lo invitò a recitare le preghiere.

                - Non le so più, rispose egli arrossendo.

                - Le reciterai con noi, soggiunse la buona madre; e postisi in ginocchio gliele fecero ripetere parola per parola. Auguratogli la buona notte, D. Bosco e sua madre uscirono di colà per portarsi a riposo; ma questa, per assicurare le sue pentole, ebbe la precauzione di chiudere a chiave la cucina, e più non aprirla che al mattino. Ma il giovinetto non era punto un furfantello come gli altri e voleva guadagnarsi onestamente il pane; anzi per la sua condotta egli era ben degno di servire di prima pietra fondamentale ad un Istituto, tutto affatto provvidenziale.

                Al domani D. Bosco gli cercò un posto ove lavorare. Il fortunato ragazzo continuò a portarsi per mangiare e dormire all'Oratorio sin verso l'inverno, quando cessando il lavoro, ritornò in sua patria. D'allora in poi non se ne ebbe più notizia alcuna, e si ha ragione di credere che egli sia morto poco dopo. A malgrado di molte ricerche, non ci riuscì di scoprire il nome di questo primo ospitato, per la ragione che in quel tempo D. Bosco non teneva ancora registro dei ricoverati, essendo questi soltanto eventuali, e come di passaggio. Ma forse così ha disposto il Signore, perchè viemeglio spiccasse il suo intervento in un'Opera ormai cotanto grandiosa, la quale ebbe sì umile ed oscuro principio.

                Dopo questo un secondo se ne aggiunse poco di poi; ed ecco in quale occasione. Sul principio di giugno di quell'anno [210] stesso, un giorno verso il cader del sole D. Bosco dalla chiesa di S. Francesco d'Assisi si recava verso l'Oratorio. Giunto sul viale del Corso S. Massimo, appellato ora Corso Regina Margherita, vide un povero ragazzo in sui dodici anni, che appoggiato il capo ad un olmo piangeva dirottamente. L'amico della gioventù gli si avvicina:

                - E che hai, figliuolo mio? gli domandò; perchè piangi?

                - Piango, rispose il poverino tra i singhiozzi e a stento, piango perchè sono abbandonato da tutti. Mio padre morì prima ch'io potessi conoscerlo; mia madre, che mi prodigò tante cure, la mia povera madre, che mi voleva tanto bene, è morta ieri, e l'hanno portata poc'anzi a seppellire.

                Ciò detto si pose a lagrimare più dirottamente ancora, da muovere a compassione.

                - La notte scorsa dove hai dormito?

                - Ho ancora dormito nella casa d'affitto; ma oggi il padrone, a motivo della pigione non pagata, si appropriò le poche masserizie che vi erano, e appena trasportato il cadavere di mia madre, chiuse la camera, e io son rimasto orfano e privo di tutto.

                - Adesso che cosa vuoi fare e dove vuoi andare?

                - Io non so che fare nè dove andare. Sento bisogno di ristoro per non morir di fame; ho bisogno di ricovero per non cadere nel disonore.

                - Vuoi venire con me? Io farò di tutto per aiutarti.

                - Sì che vengo, ma Lei chi è?

                - Chi io sia, il conoscerai dappoi; per ora ti basti il sapere che io voglio farti da fedele amico.

                Ciò detto, invitò il fanciullo a seguirlo, e poco dopo consegnavalo nelle mani di sua madre Margherita, dicendole: Ecco un secondo figlio, che Dio ci manda: abbiatene cura, e preparate un altro letto. [211] Essendo di una famiglia civile già benestante, ma ridotta alla miseria, il giovinetto fu posto in qualità di commesso in un negozio di Torino. Col suo ingegno svegliato, colla sua fedeltà a tutta prova, egli sui 20 anni era già riuscito a crearsi in società una posizione onorata e lucrosa. Divenuto padre di famiglia, si condusse sempre da buon cittadino e buon cattolico, e fu ognora affezionato al luogo ed all'uomo, che lo ha raccolto, istruito, educato.

                Dopo questi due, più altri se ne aggiunsero; ma di quell'anno per difetto di locale D. Bosco si limitò al numero di sette, che per la loro buona condotta furono pel suo cuore altrettante allegrezze e gioie, che lo incoraggiarono a proseguire l'ardimentosa impresa. Fra questi vi fa Giuseppe Buzzetti, che già prima poteasi dire di casa in Valdocco, tanto era famigliare con D. Bosco. Una domenica sera Don Bosco, mentre congedava i giovani, lo aveva trattenuto per mano e, rimasto solo con lui, dicevagli - Verresti a stare con me?

                - Volentieri: ma cosa dovrò fare?

                - Quello che fanno gli altri compagni che ho in casa e poi altre cose che a suo tempo ti dirò…… e ne sarai contento. Ne parlerò col tuo fratello Carlo e faremo quanto sarà meglio nel Signore. - E il fratello che da sette anni era assiduo all'Oratorio, accondiscese alla proposta di D. Bosco; Giuseppe prese allora stanza in Valdocco, ma continuò ad esercitare in Torino il suo mestiere di garzone muratore.

                Pochi furono questi primi giovani, eziandio perchè Don Bosco col suo zelo illuminato metteva sempre in pratica il detto: Festina lente. Era nemico delle precipitazioni e soleva dire che queste conducono ai passi i più falsi: ma incominciata un'opera, la continuava con fermezza e indefessamente. Avea destinato per dormitorii due stanze attigue, in ciascuna [212] delle quali, capaci a stento di quattro letti, collocò un crocifisso, un'immagine di Maria SS. e un cartello che portava la scritta: Dio ti vede! Non prescrisse alcun Regolamento speciale. Le norme giornaliere date dal Giovane Provveduto e alcuni suoi avvisi alla sera dovevano allora bastare. La sua prima esortazione fu questa: - Un sostegno grande per voi, figliuoli miei, è la, divozione a Maria SS. Ella vi assicura che se sarete suoi divoti, oltre a colmarvi di benedizioni in questo mondo, per mezzo del suo patrocinio avrete il paradiso nell'altra vita. Siate adunque intimamente persuasi che tutte le grazie, le quali voi domanderete a questa buona, Madre, vi saranno concesse, purchè non imploriate cosa che torni a vostro danno. E tre grazie, in modo particolare a Lei dovete chiedere con vive istanze: Di non commettere mai peccato mortale in vita vostra: Di conservare la santa e preziosa virtù della purità: Di star lontani e fuggire dai cattivi compagni. Per ottenere queste grazie reciteremo ogni giorno tre Ave Maria, un Gloria Patri, ripetendo per tre volte la giaculatoria: Cara Madre Vergine Maria, fate ch'io salvi l'anima mia.

                Intanto al mattino di buon'ora nella piccola cappella si incominciarono a recitare tutti i giorni le orazioni in comune e la terza parte del Rosario, mentre D. Bosco celebrava la santa Messa. Da quel punto in Valdocco non si cessò più neppure per un giorno solo di dar lode a Dio col Rosario e con santo Sacrifizio, malgrado la corrente contraria che andavasi formando in quei tempi contro queste pratiche giornaliere di pietà. Quando D. Bosco era assente da Torino lo sostituivano all'altare sacerdoti da lui invitati, e ordinariamente or l'uno or l'altro dei due teologi Vola. Alla Domenica gli alunni interni prendevano parte a tutte le funzioni dell'Oratorio festivo. [213] Questi nei giorni feriali, provvisti di pane si recavano a lavorare in città, e D. Bosco, sollecito a guisa di padre, a pranzo e a cena apparecchiava loro minestra abbondante, pane e talora qualche companatico. Li forniva anche di vestimenta, secondo il bisogno o la possibilità.

                Mentre D. Bosco provvedeva ai loro bisogni materiali noi lo vedremo prendersi cura anche maggiore di quelli dell'intelletto e del cuore. Che egli avesse attitudine e vocazione ad educare cristianamente la gioventù lo mostrerà il fatto perchè l'esito si vide straordinariamente meraviglioso, prima coi giovani esterni e poi coi giovani ricoverati che dal numero di sette dovevano crescere a migliaia. Ma Dio era il fondamento del suo sistema. Aveva studiato la pedagogia nella santa Scrittura dettata da quel Divino educatore il quale rialzò l'uomo caduto e lo vuole simile a sè, perfetto, santo, beato, immortale. Quindi D. Bosco si adoperava ad istruire i suoi allievi, prima di tutto nelle verità più essenziali della fede, poi, a misura che progredivano, faceva loro imparare il piccolo catechismo della Diocesi e quindi per quelli di maggiore capacità dava anche a studiare il catechismo grande. Infine insegnava ai più avanzati in questa istruzione le ragioni per confutare gli errori del giorno. Alla scuola di D. Bosco la scienza della salute dell'anima teneva il primo posto.

 

 

CAPO XIX. La Compagnia di S. Luigi - Sue regole - La prima accettazione di ascritti - Alcuni alunni dei Gesuiti - I primi esercizii spirituali nell'Oratorio - Il Teologo Federico Albert - Consolanti conversioni - Conseguenze di questi esercizii.

 

                DON BOSCO in tutte le sue spirituali industrie, come nel regime dell'Oratorio, spiegò il maggior zelo, prudenza, giacchè tutto studiava dapprima al cospetto di Dio nella preghiera e poi colla lunga, riflessione andava provando in appresso grado a grado, quale poteva essere l'efficacia di questi mezzi che voleva, adottare a vantaggio dell'anima de' suoi allievi. E da ciò seguiva che non ebbe mai a recedere dall'uso delle pratiche introdotte constatando i felici risultati che ne provenivano.

                Dopo aver posto in mano agli alunni dell'Oratorio il Giovane Provveduto, cotanto utile, per la pietà e per i buoni costumi, dopo aver gettate le basi organiche con un Regolamento per promuovere e conservare l'unità di amministrazione, e fondato l'ospizio, era mestieri di dare eccitamento al bene operare con qualche pratica stabile ed uniforme che collegasse Insieme i più virtuosi, destasse fra di loro una santa emulazione, ed essendo in molti, li rendesse forti contro il rispetto umano. D. Bosco pensò quindi d'instituire [215] la Compagnia di S. Luigi Gonzaga, allo scopo d'impegnare i giovani a praticare costantemente le virtù che furono in questo Santo più luminose. Intendeva avviarli ad una vita così morigerata e pia, da addivenire sale e luce in mezzo alla moltitudine dei compagni. Per la qual cosa egli escogitò e compose alcune poche ma sugose regole, che gli sembrarono più opportune e le presentò all'Arcivescovo. Il Venerando Pastore che non tralasciava mai d'incoraggiar per quanto poteva i disegni di D. Bosco, le esaminò e le fece esaminare da altri, e il giorno 11 aprile 1847 gliele rimandava, scrivendo di suo pugno le seguenti osservazioni.

 

                               “Molto Rev. Signor P.ne oss.mo,

 

                Ho fatto esaminare il progetto di regolamento per la Compagnia di S. Luigi, o per meglio dire, per quei giovani che vorranno mettersi sotto il suo patrocinio mediante un tenore di vita che aspiri ad imitarne le virtù, e mi risultò, che, mentre la cosa sostanzialmente è senza dubbio ottima in se stessa, converrebbe però spiegare in qualche luogo, che le relative promesse non obbligano sotto colpa neppure veniale. Inoltre la promessa di accostarsi ai Sacramenti ogni otto giorni sembra troppo forte e che basterebbe ogni quindici giorni, con anche maggior frequenza, occorrendo particolari solennità della Chiesa; inoltre quel dover dire al superiore il motivo, per cui non si è andato ai Sacramenti, può cagionare imbrogli anche gravi. Finalmente l'ultimo periodo dell'articolo relativo, cioè il secondo, ove si esorta a frequentare i Sacramenti, dopochè nel principio già si dice di accostarvisi ogni otto giorni, resta fuori di luogo.

                Nel ciò significarle, mi rinnovo colla più perfetta stima ecc.

 

LUIGI Arcivescovo” [216]

 

                D. Bosco nello schema presentato all'Arcivescovo, aveva fissata la Confessione e la Comunione ogni otto giorni, perchè il fiore de' suoi giovani, aggregati in questa Compagnia, avessero un'occasione novella di ricevere il loro Divin Salvatore. L'esortazione che sembrava superflua, di frequentare i Sacramenti, aveva per iscopo di eccitare indirettamente i più fervorosi ad accostarsi qualche volta alla sacra Mensa anche nei giorni feriali; l'invito a quelli che non fossero venuti per confessarsi e comunicarsi di manifestare il motivo della loro assenza, altro non era che un ritegno a non mancare all'Oratorio festivo con poco buon esempio dei compagni. Tuttavia D. Bosco, obbedì subito al consiglio del suo Arcivescovo, e depennò, modificò, aggiunse secondo gli era stato indicato.

                Mons. Fransoni con Rescritto autografo il 12 aprile 1847 approvava la Compagnia di S. Luigi; concedeva alla medesima 40 giorni di indulgenza a lucro spirituale degli aggregati ogni qualvolta recitassero la giaculatoria Gesù mio, misericordia, invocazione già arricchita da Pio IX con 100 giorni; e Monsignore stesso volle pel primo essere iscritto al pio sodalizio.

                Le regole furono le seguenti; e tali si conservano tuttora.

                1. Siccome S. Luigi fu modello di buon esempio, così tutti quelli che desiderano di farsi ascrivere nella sua Compagnia devono adoperarsi ad evitare quanto può cagionare scandalo, anzi procurare di dare buon esempio in ogni cosa, ma specialmente nell'esatta osservanza dei doveri di un buon cristiano. S. Luigi fin da fanciullo fu così esatto nell'adempimento di ogni suo dovere, così amante degli esercizii di pietà, e così divoto che quando andava in chiesa, la gente correva per osservarne la modestia ed il raccoglimento.

                2. Ogni quindici giorni ciascun Confratello procurerà di accostarsi alla S. Confessione e Comunione, ed anche con più [217] frequenza, specialmente nelle maggiori solennità. Queste sono le armi con cui si porta compiuta vittoria contro il demonio, S. Luigi ancor giovinetto si accostava a questi Sacramenti ogni otto giorni, e divenuto alquanto grandicello, con maggior frequenza. Chi per qualche motivo non potesse adempiere questa condizione, col consiglio del Direttore della Compagnia potrà mutarla in altra pratica di pietà. Si esortano inoltre gli ascritti a frequentare i Sacramenti, e assistere alle sacre funzioni nella propria loro Cappella per edificazione dei compagni.

                3. Fuggire come la peste i compagni cattivi, e guardarsi bene dal fare discorsi osceni. S. Luigi non solo evitava tali discorsi, ma era così modesto, che niuno ardiva proferire parola per poco sconcia alla sua presenza.

                4. Usare somma carità verso i compagni, perdonando volentieri qualunque offesa. Bastava fare un'ingiuria a San Luigi per averselo tosto amico.

                5. Grande impegno pel buon ordine della Casa di Dio, animando gli altri alla virtù ed a farsi ascrivere alla Compagnia. S. Luigi pel bene del prossimo andò a servire gli appestati, il che fu cagione della sua morte.

                6. Mettere grande diligenza nel lavoro e nell'adempimento dei proprii doveri, prestando esatta ubbidienza ai proprii genitori ed agli altri superiori.

                7. Quando un Confratello cadrà infermo, ciascuno si darà premura di pregare per lui, ed anche aiutarlo nelle cose temporali, nel modo compatibile colle proprie forze.

                A questi articoli fondamentali nella Parte seconda al Capo XI del Regolamento dell'Oratorio, D. Bosco aggiungeva alcune norme perchè la Compagnia avesse una ben determinata organizzazione. Trascriviamo il suo primo autografo. [218]

                “1. Lo scopo che si propongono i soci della Compagnia di S. Luigi si è di imitare questo Santo nelle virtù compatibili al proprio stato, ed avere la protezione di Lui in vita, e in punto di morte.

                2. L'approvazione dell'Arcivescovo di Torino, deve animarci ad aggregarci a questa Compagnia.

                3. A maggior tranquillità di tutti vuolsi notare, che le regole della Compagnia di S. Luigi non obbligano sotto pena di peccato nemmeno leggero; perciò chi trascura qualche regola della Compagnia, si priva di un bene spirituale, ma non fa alcun peccato. La promessa che si fa all'Altare di S. Luigi non è un voto; chi però non avesse volontà di mantenerla, fa meglio a non iscriversi.

                4. Questa Compagnia è diretta da un Sacerdote col titolo di Direttore Spirituale e da un Priore il quale non dev'essere Sacerdote.

                5. Il Direttore Spirituale è nominato dal Superiore dell'Oratorio. È suo uffizio di vegliare che tutti i Confratelli osservino le regole; fa l'accettazione di quelli, che gli paiono degni; tiene il catalogo de' vivi e dei defunti; è visitatore degli ammalati della Società di Mutuo Soccorso. Il tempo della sua carica non è limitato.

                6. Il Priore si elegge a pluralità di voti da tutti i Confratelli della Compagnia insieme radunati. La sua carica dura un anno e può essere rieletto. Il tempo stabilito per la elezione del Priore è la sera del giorno di Pasqua.

                7. La carica di Priore non porta alcuna obbligazione pecuniaria. Se fa qualche oblazione in occasione della festa di S. Luigi, di S. Francesco di Sales, od in altre circostanze, è a titolo di limosina. È pure uffizio suo di vegliare nel coro e procurare che il canto sia ben regolato, e che le Solennità si facciano con decoro. [219]

                8. Al Priore è raccomandata la parte disciplinare delle regole dell'Oratorio, ed è coadiuvato dal vice - Priore, che è pure eletto a pluralità di voti la Domenica in Albis”.

                Grande entusiasmo eccitò tra i giovani dell'Oratorio l'annunzio di questa Compagnia, che fu denominata da essi dei fratelli di S. Luigi, e in tutti si accese vivo desiderio di farvisi ascrivere. Ma affinchè non accadesse di dover ripetere il detto del profeta: Multiplicasti gentem et non magnificasti laetitiam, ed anche per lasciare ad ognuno un più forte stimolo a riformare la propria condotta, D. Bosco per l'accettazione appose due condizioni. La prima si era che l'aspirante facesse un mese di prova, mettendo in pratica le regole e dando buon esempio in chiesa e fuori; la seconda, che fuggisse i cattivi discorsi e frequentasse i santi Sacramenti. Questa disposizione produsse ben tosto nei giovanetti un notabilissimo miglioramento vuoi nei costumi, vuoi nella pietà.

                La prima accettazione venne fatta in una Domenica del mese di maggio, cioè il giorno 21, che fu la prima delle sei precedenti alla festa di S. Luigi. Fu questo un avvenimento per l'Oratorio di imperitura ricordanza. I giovani stipavano la chiesuola, ansiosi di contemplare quella novità. I postulanti erano in ginocchio innanzi alla statua di S. Luigi, e a D. Bosco, vestito di cotta e stola bianca. Cantato il Veni Creator, mosse ai congregati le interrogazioni che soglionsi rivolgere a chi domanda di essere aggregato a qualche pia società e recitata la Salve Regina, i cantori intonarono: Elegi abiectus esse in domo Dei mei, magis quam abitare in tabernaculis peccatorum. Intanto ciascuno dei postulanti scrisse o fece scrivere il proprio nome nel formolario e quindi ciascuno lo lesse a chiara voce. Eccone il tenore.

                “Io N. N. prometto di fare quanto posso per imitare S. Luigi Gonzaga, perciò di fuggire i cattivi compagni, di [220] evitare i discorsi osceni, di animare gli altri alla virtù colle parole e col buon esempio, tanto in chiesa come fuori di chiesa; prometto altresì di osservare tutte le regole della Compagnia. Questo spero di eseguire coll'aiuto del Signore e colla protezione del Santo. Ogni giorno dirò:

                Glorioso S. Litigi Gonzaga, vi supplico umilmente di ricevermi sotto la vostra protezione e di ottenermi dal Signore l'aiuto onde praticare le vostre virtù in vita per fare una santa morte ed essere un dì partecipe della vostra gloria in Paradiso. Così sia.

                Pater, Ave, Gloria ecc.

                Gesù mio, misericordia.

 

                Il…………………18

 

IL DIRETTORE

 

                D. Bosco tenne una breve esortazione ai nuovi soci, dimostrando quanto piace al Signore di essere servito in gioventù, e conchiuse la funzione cantando l'Oremus di S. Luigi.

                Finita quella cara cerimonia, coi nomi e cognomi dei novelli ascritti, incominciò il Registro generale della Compagnia. Era dessa una nuova occupazione alla quale assoggettavasi lietamente. Infatti egli, o qualcuno da lui incaricato, talora ogni settimana, e sempre una volta al mese, radunati a parte i soci, teneva loro una breve conferenza sopra qualche articolo dei Regolamento, o sopra qualche fatto della vita di S. Luigi o di alcuna delle sue virtù. Un segretario era incaricato di redigere i verbali, notando le deliberazioni con un transunto delle parole del Direttore, o del conferenziere straordinario. Così si continuò e si continua tuttavia.

                In quei giorni il giovane Picca Francesco, che frequentava il collegio dei Gesuiti posto ove ora è il Museo d'antichità, [221] essendo molto influente sugli animi dei compagni, ne condusse quindici in Valdocco, li presentò a D. Bosco e li fece ascrivere a detta Compagnia. Da quel punto essi per qualche tempo, aiutarono i catechisti dell'Oratorio, avendoli i loro superiori dispensati dalla Congregazione della Domenica.

                D. Bosco intanto maturava l'attuazione di un altro mezza dei più efficaci per la santificazione di un certo numero de' suoi giovani: la pratica dei santi spirituali esercizii. Gli alunni interni erano appena quattro o cinque, ed essi specialmente egli aveva in mira; senza escludere però i più adulti che frequentavano l'Oratorio festivo, fra i quali ne aveva preparati ed invitati alcuni ad uno spirituale ritira di sette od otto giorni. Grandi erano le difficoltà per la mancanza di camere in cui ritirarli, per l'incomodo di un'assistenza continua che tutta avrebbe pesato sopra di lui, per l'indole vivace de' giovani che non avrebbero inteso l'importanza del silenzio e del raccoglimento, per i rumori continui cagionati dai vicini e dai molti che affluivano a casa Pinardi, per il disturbo che ne provavano i parenti o i padroni, e per le spese non indifferenti che doveva incontrare. Non ostante che la sua cucina mancasse perfino delle stoviglie più necessarie era deciso di ammannire il pranzo agli esercitandi, perchè andando alle case loro a mezzogiorno non avessero occasione di troppo distrarsi. Tuttavia egli non aspettò a procacciare quel vantaggio a' giovani quando già ogni cosa fosse stata convenientemente disposta a tale scopo, persuaso della verità dell'aforismo che l'ottimo è nemico del bene. Perciò in questo stesso anno 1847 volle che avessero principio gli esercizii; e la Divina Provvidenza gli mandò il predicatore nella persona del teologo Federico Albert, Cappellano Palatino, che fu valentissimo oratore apostolico e morì in concetto di santità nel 1876 Vicario parrocchiale a Lanzo. D. Bosco [222] narrò in qual modo lo incontrò la prima volta, ricordando come da quel momento divenisse suo cooperatore e rimanesse sempre in relazione con lui, anche quando per altre sue occupazioni non poteva più venire all'Oratorio. Ecco le parole di D. Bosco: “Una domenica del 1847 essendo io nell'Oratorio, vidi venirmi incontro un giovane sacerdote il quale dopo i saluti di convenienza, si fece a dirmi - Sento che V. S. ha bisogno di qualche prete che lo aiuti nel fare il Catechismo e nell'indirizzare questi ragazzi al bene. Se crede che io sia capace a qualche cosa, mi presto ben volentieri.

                - Ella si chiama?

                - Teologo Albert.

                - Ha già predicato?

                Qualche volta, rispose con grande umiltà; ma se è il caso, mi preparo. E se non sarà il caso di predicare, Ella avrà bisogno di chi lo aiuti a fare catechismi, a scrivere, a copiare.

                - Ha già qualche volta dettati esercizii spirituali?

                - Non ancora, ma se mi dà un poco di tempo, io mi metterei attorno a prepararmi e proverei.

                - Bene; io ho varii giovani, veda: alcuni che stanno già qui con me ed altri verrebbero di fuori, e mi pare che andrebbe tanto bene se facessero gli esercizii spirituali. Si prepari pel tal tempo e poi vedremo.

                Io potei radunare una ventina di ragazzi e furono i primi esercizii spirituali che siansi dati nell'Oratorio”.

                Erano quei giovani una mescolanza dei migliori coi peggiori. Fuori di questi, nessun altro fu ammesso ad ascoltare le prediche. Alcuni di coloro che vi assistettero, fra i quali Giuseppe Buzzetti, ci attestarono aver queste prediche prodotto in loro una straordinaria impressione. Il Signore benedisse quegli esercizii, e D. Bosco ne fa molto contento. Alcuni [223] giovani, intorno ai quali erasi lavorato lungo tempo inutilmente, da quel punto si diedero davvero ad una vita virtuosa.

                D. Bosco pur a costo di qualunque sacrificio, volle che una tale pratica si ripetesse ogni anno, sicchè continuò con un progresso sempre crescente di vere conversioni e di frutti singolari di santità: in tutta quella settimana proseguì per varii anni a tenere gli esterni a pranzo con sè e talora fin in numero di cinquanta. Di questa occasione prevalevasi specialmente per conoscerne l'indole, per animare nella pietà fervorosa i tiepidi, per incoraggiare vieppiù i ferventi, e per scrutarne eziandio le vocazioni, avviando poi alla carriera ecclesiastica quelli che ravvisava essere chiamati a tale stato. Queste cure però esercitava con tale spontaneità e prudenza, che mentre lasciava i giovani pienamente liberi nel loro operare, eccitava in essi un grande amore verso Dio e le cose celesti, e un gran distacco dalle cose di questo mondo. Ed era causa di grande consolazione al suo gran cuore, il vedere non pochi figli del popolo, occupati nell'apprendere un umile e faticoso mestiere, aspirare con perseveranza dopo gli esercizii non solo ad una vita buona, ma addirittura percorrere la via della santità. Nè questa è esagerazione, perchè noi potremmo fare molti nomi, che ci vennero palesati da Giuseppe Buzzetti. Fare col Giovane Provveduto un po' di meditazione tutte le mattine, levarsi presto per andare alla chiesa e fare la santa Comunione quotidiana, o almeno due o tre volte per settimana, recarsi verso sera a visitare per un po' di tempo Gesù in Sacramento, erano le divozioni di questi buoni giovani. Nella Domenica nel tempo della ricreazione vi era sempre chi dopo le funzioni fermavasi nella chiesuola e pregava per un tempo notevole; qualche altro ritiravasi dietro la siepe dell'orto di mamma Margherita per non essere disturbato da alcuno, e quivi, piegate le ginocchia, recitava [224] il santo Rosario; altri passeggiavano nel vialetto dell'orto, leggendo qualche libro di pietà, o la vita di un santo o conversando di cose di religione; vi furono taluni che digiunavano più volte alla settimana, e praticavano altre mortificazioni e penitenze. Sovratutto commoveva la franchezza colla quale alcuni si mostravano in pubblico ferventi cattolici, prendendo le difese della Religione, e impedendo il male fra i compagni. Certe indoli violente e superbe si mutarono in benigne ed umili per sforzo risoluto di volontà unito, alla preghiera. Più d'uno si era fatto una legge di dar buon esempio per riparare gli scandali dati quando nessuno aveagli ancora insegnato il timor di Dio; e se qualcuno lodavali per la loro esemplare condotta in famiglia, nell'opificio e dovunque, rispondevano con un'espressione ingenua di fisionomia: - Oh, una volta era tanto cattivo! È D. Bosco che mi ha salvato!

                E questa benedizione, per iniziativa di D. Bosco, si propagò in tutto il mondo, sicchè oggigiorno ogni anno si predicano alla gioventù specialmente popolana un seicento e più corsi di esercizii spirituali, i quali Dio sa quante migliaia di anime conducano a salvamento.

 

 

CAPO XX. Le sei Domeniche di S. Litigi - Annunzio della prima visita di Mons. Fransoni - I preparativi - La festa di S. Litigi e la funzione in chiesa La Cresima - Il teatrino - Parole dell'Arcivescovo - La processione - La fine della festa - Socii d'onore - Come D. Bosco preparava i giovani a ricevere la Cresima - Sua, divozione allo Spirito Santo.

 

                INTANTO approssimavasi la festa di S. Luigi.

                A fine di ben prepararsi a questa solennità, i giovani avevano celebrato con particolare impegno le sei Domeniche, in ciascuna delle quali molti di loro si accostavano ai Sacramenti per lucrare l'Indulgenza plenaria concessa dal Pontefice Clemente XII. Si rammenta che in quell'occasione D. Bosco, per facilitare a tutti la frequenza ai Sacramenti, come soleva fare di quando in quando, diede facoltà di andarlo a trovare in qualunque ora del giorno e della sera. Al sabato poi egli aveva da confessare sino a notte avanzata, e talora sin dopo le undici, e al mattino della domenica dalle quattro sino al tempo della Messa e spesso sino alle nove o dieci. Erano due cose degne di ammirazione: la pietà e pazienza dei giovani e lo zelo instancabile di D. Bosco, il quale pel bene delle anime stava come inchiodato nel tribunale di penitenza ore ed ore di seguito, se ne togli un brevissimo riposo nel cuore della notte. Anzi gli avvenne [226] parecchie volte, come già abbiamo narrato, in non poche circostanze di proseguire le confessioni tutta la notte, cosicchè i primi penitenti del mattino trovavano ancora intorno a lui gli ultimi della sera. Per tal guisa, succedendosi gli uni agli altri, obbligavanlo a rimanere in confessionale sino a 16, 17 e 18 ore consecutive. Questa dura fatica non poteva non colpire la fervida immaginazione dei giovani; sicchè molti dei venuti all'Oratorio nell'ultime ore e che erano i più trascurati, vedendo il povero prete a sacrificare in questo modo la propria vita senza verun temporale interesse, aprivano gli occhi, pensavano all'anima e si convertivano al bene più facilmente che fatto non avrebbero, se avessero udito la migliore predica del mondo.

                Nè qui fu il tutto. Molti giovani che frequentavano l'Oratorio, specialmente i forestieri, dovevano ancora ricevere il Sacramento della Confermazione. Perciò D. Bosco venne in pensiero di farlo amministrar loro dall'Arcivescovo nell'occasione della festa di S. Luigi e nello stesso Oratorio. Recatosi pertanto da Monsignor Fransoni gliene fece rispettoso invito, che il benevolo Prelato accolse di buon grado, ed assicurò che sarebbe venuto non solo a cresimare, ma eziandio a celebrare la Messa e a distribuire la santa Comunione. Indicibile la gioia che recò a tutti la grata notizia, ed incredibile il lavoro che cadde in allora sulle spalle dei Direttore. Il Catechismo della domenica essendo insufficiente, lo si fece anche alla sera di ogni giorno. Il concorso fu immenso. Tuttavia coll'aiuto di zelanti sacerdoti e signori laici della città si prepararono egregiamente i cresimandi, e pel giorno prefisso tutto fu all'ordine. Nello stesso tempo D. Bosco e chi era incaricato dell'ufficio di Prefetto, e Direttore spirituale avevano preso insieme i debiti concerti col Priore della Compagnia di S. Luigi per quanto occorreva. [227]

                Era la prima volta che Mons. Fransoni veniva, a visitare l'Oratorio in Valdocco, e che facevansi tali funzioni nella Cappella; epperciò, sebben poverelli, nulla risparmiarono i giovani, per rendere la festa più splendida che si potesse. I musici prepararonsi a rallegrarla con melodiosi concenti: i sacrestani ornarono con buon gusto la chiesa, e mancando di tappeti, supplirono ingegnosamente con lenzuola e coperte da letto e tele colorate disposte a festoni. Venne eziandio per opera loro preparato un modesto padiglione ed un bell'arco di trionfo davanti la porta d'ingresso coperto di frondi e fiori, portante questa iscrizione: In questa prima tua visita, o inclito Antistite, allievi e superiori di quest'Oratorio festanti li accolgono e ti offrono un serto coi figliali affetti del loro cuore.

                Neppure i campanari mancarono alla parte loro. Non bastando la piccola campana a mandare molto lontani i suoni festivi essi diedero di piglio ad un grosso campanello, e fin dalla vigilia girando pei dintorni lo agitarono opportune et importune, da far sapere a chi premeva e a chi no, come al domani nell'Oratorio si faceva la festa di S. Luigi, onorata dalla presenza di Mons. Arcivescovo. Altri, ed ecclesiastici e laici, prepararono i biglietti per la Cresima; taluni i giovanetti per la Confessione e Comunione; parecchi per la declamazione, pei dialoghi e pel teatrino. Il teologo Giacinto Carpano scrisse e fece imparare da alcuni giovani una commediola intitolata: Un Caporale di Napoleone, da rappresentarsi nel giorno della festa. D. Bosco poi pensava a tutte queste e sì svariate cose, attendeva personalmente alle più importanti, dava ordini e sorvegliava che si eseguissero. Insomma in quei giorni tutto era in moto; e i pensieri e le parole e le azioni di ognuno miravano ad un fine solo: la festa di S. Luigi e il modo di ben celebrarla. [228] Ed ecco questa giungere finalmente. Affinchè tutti vi Potessero prendere parte venne fissata al 29 Giugno, solennità dei SS. Pietro e Paolo, perchè essendo festa sovra settimana i giovani non avevano da recarsi a ricevere dai padroni la paga, nè venivano costretti al lavoro, e perciò trovavansi liberi fin dal mattino. Di buonissima ora un buon numero, di essi già assiepava D. Bosco e più altri sacerdoti per confessarsi, e verso le sette la folla erane si grande, che mai, per lo innanzi. Pareva che tutta la gioventù di Torino si fosse riversata nell'Oratorio; così che molti di quelli i quali, non avevano da ricevere la Cresima, dovettero rimanersi fuori di chiesa, e recarsi ad udire la Messa al Santuario della Consolata.

                Poco dopo le sette si vide spuntare la carrozza dell'Arcivescovo. Lo accompagnavano varii ecclesiastici della città con due Canonici della Metropolitana. Venne poi anche il Nuncio Apostolico Pontificio di Torino, con parecchi distinti, personaggi. Altri sacerdoti che già erano nell'Oratorio vestiti di cotta gli andarono processionalmente incontro. Arrivato sotto il detto padiglione, D. Bosco gli si fece innanzi e lesse una bella allocuzione, colla quale esprimeva la gioia che provava egli, i Sacerdoti, i Signori suoi Cooperatori e i giovani tutti, nel vedere tra di loro l'amoroso e benemerito, Pastore; mostrava soprattutto il vivo desiderio di fargli un'accoglienza degna dell'alto suo carattere e della sua bontà incomparabile; e lo pregava a non guardare la meschinità degli apparati, ma l'affetto interno che era grandissimo. Fra le altre cose gli diceva: “Noi vorremmo possedere preziosi arredi, per adornare le squallide mura di questa casa; vorremmo avere i più bei fiori per seminarne la strada per cui passar sovete; vorremmo esser padroni di ampie ricchezze per presentarvi doni e regali non indegni della vostra persona. Ma [229] tutto questo non sarebbe che il simbolo del nostro cuore, pieno di stima, di riconoscenza e di amore per Voi. Or bene, poichè la nostra povertà non ci permette di offrirvi i simboli, noi vi preghiamo, o eccellentissimo Monsignore, di gradirne la realtà. Sì, gradite i nostri ossequii; gradite i nostri affetti, gradite le preghiere che in questo giorno innalziamo al Signore, perchè vi colmi di grazie e vi conservi ancora per molti anni in vita, affinchè noi possiamo godere più a lungo delle finezze della vostra beneficenza, e voi possiate vedere più copiosi i frutti della vostra insigne carità”.

                Entrato in Cappella e vestito dei sacri paramenti, l'Arcivescovo celebrò la Messa, durante la quale distribuì il pane degli Angeli a parecchie centinaia di giovinetti. Al vedere coi proprii occhi tanti giovani, in gran parte una volta trascurati nei loro doveri di pietà e di religione, i quali ora stavano in chiesa e si appressavano alla Comunione con un contegno che rapiva a divozione, il buon Prelato provò un piacere celestiale, e confessò poscia che fu quella una delle funzioni che maggiormente lo avevano commosso e deliziato. “Come non sentirmi innondare il cuore di gioia, andava egli dicendo, al vedermi attorniato da più centinaia di giovanetti virtuosi e pii, che forse senza di quest'opera provvidenziale sarebbero, come tanti altri, caduti nel vizio e nell'empietà? Come non sentirmi spuntare sulle ciglia una lagrima di contentezza, scorgendo in sen della Chiesa e in braccio a Gesù Cristo tanti agnelli, che senza il pascolo e i recinti dell'Oratorio sarebbero forse andati a cibarsi di erbe avvelenate, incorsi nelle zanne dei lupi e divenuti lupi essi medesimi?”.

                Anche un fatterello avvenne nel mentre che egli dispensava la Comunione. Un buon ragazzo non ricordò più l'avviso dato in proposito da D. Bosco; perciò quando Monsignore prima di presentargli la sacra Particola gli porse, [230] secondo l'uso, l'anello a baciare, egli invece di baciarlo, lo prese colla bocca.

                Dopo la Messa, invocato il divino Spirito, Monsignore amministrava il Sacramento della Confermazione a circa 300 giovani, e prima di licenziarli volse loro acconcie parole, suggerite dalla circostanza.

                In questa occasione accadde un lepido episodio già accennato in altro volume, ma che giova qui ricordare. Secondo il consueto delle altre chiese, erasi pure innalzata nella Cappella, dell'Oratorio, accanto all'altare, una specie di sedia episcopale, che altro non era fuorchè uno sgabello velato da setini, avente per base un tavolato coperto di un tappeto, sopra cui il Pontefice doveva ascendere. Salitovi per parlare colla mitra in capo, l'Arcivescovo non riflettè che le volte della Cappella non erano così alte come quelle della sua Cattedrale, e perciò non avendo chinata la testa, diede nel soffitto colla punta della mitra. In quel momento lasciò sfuggire un modesto sorriso e mormorò sotto voce dicendo: “Bisogna usare rispetto a questi giovani, e predicar loro a capo scoperto”; e così fece. Monsignor Fransoni non dimenticò mai, questa particolarità; si compiaceva di raccontarla sovente, ed eccitando D. Bosco a fabbricare pei suoi giovanetti una chiesa più vasta, soggiungeva graziosamente: “Procuri per altro di farla abbastanza alta, affinchè io non abbia più da levarmi, la mitra per predicare”.

                Ai cresimati Monsignore ricordò brevemente il significato, delle sacre cerimonie che aveva compite sopra di loro; e li esortò a mostrarsi forti contro le tentazioni da buoni soldati di Gesù Cristo. “Combattete specialmente il rispetto umano, disse loro, e non vi avvenga mai di tralasciare il bene o di commettere il male pel vano timore delle dicerie, degli scherni, degli insulti dei cattivi. Che direste voi di un soldato che si [231] vergogna della sua divisa, ed arrossisce del suo Re?” Aggiunti poscia alcuni avvisi opportuni, conchiuse: “Nell'amministrare la Cresima io ho poc'anzi augurata la pace a ciascuno di voi in particolare, dicendo: Pax tecum. Or questa pace dolcissima auguro a tutti insieme, e dico: Pax vobis. Sì, abbiate sempre la pace, miei cari figliuoli; abbiate la pace con Dio, la pace con voi medesimi, la pace col vostro prossimo. Pace con tutti, eccetto col demonio, col peccato e colle massime del mondo. A questi tre nemici muovete anzi una guerra implacabile, consolandovi però sempre col pensiero che da questa guerra perseverante sino alla morte verrà la vittoria; e da questa vittoria una pace eterna”.

                Uscendo di Cappella i giovani ricevettero alla porta pane e companatico, provveduto dalla carità dello stesso Arcivescovo, che volle in questo modo pagar loro la festa, e mostrarsi pastore non solamente dell'anima, ma eziandio del corpo.

                Se fu divota la funzione in chiesa, non fu meno dilettevole la festa preparata al di fuori, a cui dopo un qualche ristoro degnossi prender parte anche Mons. Arcivescovo. Era quello eziandio il suo giorno onomastico; e quindi, colta la propizia occasione, i giovani gli lessero da bel principio varii componimenti in poesia ed in prosa. Fra gli altri piacque assai un grazioso dialoghetto tenuto da alcuni fanciulli, e condotto con una mirabile disinvoltura. Dopo queste letture cominciò il teatrino, e venne fuori il celebre Caporale di Napoleone. Costui altro non era che un graduato in caricatura, il quale, ad esprimere la sua contentezza in quella solennità, usciva in mille facezie. Esso fu di sì amena ricreazione per l'esimio Prelato, che ebbe a dire di non aver mai riso cotanto in vita sua. Il teatrino erasi preparato nel cortile, avanti alla chiesuola, dalla parte della strada. [232] Finito il trattenimento, l'Arcivescovo si alzò e fece una bella allocuzione. Era presente, fra gli altri da noi conosciuti, D. Francesco Oddenino. Monsignore cominciò dall'esternare la grande consolazione che provava nel vedere in quel giorno i frutti ubertosi dell'Oratorio, equiparandola a quella dei Missionarii, quando tra la povertà delle loro Cappelle si vedono circondati dalle famiglie dei novelli Cristiani, ricchi dell'oro della carità e del fervore; tributò ampie lodi a quanti vi lavoravano intorno, ecclesiastici e laici; e facendo risaltare la nobiltà di questa parte di Ministero, con parole che soleva trarre fuori dal suo petto pieno di zelo per la Chiesa, per le anime e sopra tutto per la gioventù, tutti eccitò a preservare in quest'opera caritatevole, assicurandoli di sua speciale benevolenza.

                Rivolto poscia ai giovani, li esortò a portarsi all'Oratorio con assiduità e buon volere; segnalò i grandi vantaggi che ne avrebbero ricavati: vantaggi spirituali e materiali; vantaggi per la vita presente e per la vita futura. “Ahi! quanti miserabili, egli esclamò con paterno accento, quanti miserabili stanno oggidì gemendo in fondo ad una oscura prigione, e sono peso a se stessi, sono l'infamia di loro famiglie, il disonore della Religione e della Patria; e perchè? Perchè nell'aprile dei loro anni non ebbero un uomo amico e benefico, non ebbero un angelo visibile, che almeno nei giorni festivi li raccogliesse dalle vie e dalle piazze, lì tenesse lontani dai pericoli d'immoralità e dai mali compagni, li ammaestrasse sui loro doveri di cristiani e di cittadini, mostrando quanto sia onorabile il lavoro, e quanto vituperevole l'ozio. Di voi, o miei cari, non sarà così, io lo spero. Qui venite pertanto finchè le circostanze della vita ve lo permetteranno; fate tesoro degl'insegnamenti che vi s'impartiscono; fatene regola della vostra condotta per tutta la vita, e io vi assicuro che ancora nella vostra età più tarda voi benedirete il giorno [233] in cui imparaste la via, che vi guidò in questo asilo della scienza e della virtù. Io non posso por fine al mio dire senza ringraziarvi della cordiale accoglienza che mi avete fatto. Sì, ringrazio delle affettuose espressioni che a nome di tutti mi hanno rivolte i poeti ed i prosatori; ringrazio i comici del giocondo divertimento che mi hanno procurato; ringrazio i musici che hanno cantato sì bene; ringrazio quelli che lavorarono eziandio ad innalzare padiglioni ed archi; ringrazio soprattutto coloro che con tanto zelo cooperarono fin qui alla vostra coltura; ringrazio tutti e di tutto. E poichè nei vostri componimenti voi mi chiamaste Pastore e Padre, io vi assicuro che tale vi sarò, ed avrovvi sempre per miei agnelli e per miei figli carissimi”.

                Era tosto mezzogiorno, quando l'Arcivescovo si mosse per ritornare in Episcopio. Allora successe un commovente spettacolo. E qui bisogna avvertire che Monsignor Fransoni, era di sì belle maniere e così affabile, che bastava vederlo, udirlo, parlargli un istante per prendere tosto ad amarlo ed usargli la più figliale confidenza. Adunque i giovani, quando lo videro partire, gli si affollarono tanto attorno da impedirgli il passo. Chi voleva baciargli la mano, chi toccargli le vesti, chi gridava grazie e chi evviva; facevano ricordare le solenni acclamazioni colle quali il popolo cristiano dei primi secoli della Chiesa salutava un Vescovo: Deo gratias; Episcopo vita; te Patrem; te Episcopum: ed egli pareva il Salvatore in mezzo alle turbe commosse. Se fosse stato loro concesso, gli avrebbero, come gli antichi ai loro Re e come ancor essi a D. Bosco, fatto un trono delle loro braccia, e portatolo a casa in trionfo. Questo slancio fece dire al Fransoni: “Mi convinco oggi più che mai, che la gioventù ha buon cuore e se ne può fare quello che si vuole, quando si prenda per la via della carità”. Riuscito a salire in [234] vettura il degnissimo Arcivescovo tra una salva di fragorosi evviva, tra gli ossequii e i ringraziamenti di D. Bosco, partiva benedicendo l'Oratorio dal più profondo dell'animo.

                Partito che ei fu, si stese una specie di verbale in cui si notava chi aveva amministrato quel Sacramento, nome e cognome del padrino colla data del luogo e del giorno; quindi, si raccolsero i biglietti, che ripartiti secondo le varie parrocchie, vennero portati alla Curia Ecclesiastica, perchè li trasmettesse al rispettivo parroco. I giovani allora si recarono ancor essi alle loro case pel pranzo; ma verso le due già erano ritornati. Sino alle quattro ebbero luogo nel cortile varii trastulli; quindi si cantarono i vespri e si fece il panegirico, in cui si dimostrò S. Luigi modello della gioventù, soprattutto nella virtù della modestia e nel darsi per tempo a Dio. Con un bello e nuovo stendardo seguì poscia la processione. Di questa tra le altre cose si ricorda che un grazioso fanciullo, vestito da chierichetto, camminava innanzi alla statua con un bel giglio in mano. Nell'aspetto e nel devoto contegno egli risvegliava l'idea di S. Luigi, e quindi gli occhi di tutti erano rivolti a lui, rinnovandosi a un di presso il caro spettacolo, che già avveniva al tempi del Santo, quando la gente correva in chiesa per contemplarlo a pregare, parendo ad ognuno di vedere un angioletto sotto mortali spoglie. Rientrati in chiesa, si cantò il Tantum ergo in musica, e si diede la benedizione coll'Augustissimo Sacramento.

                La festa si chiuse alla sera collo spettacolo di alcuni fuochi artificiali, e coll'ascensione di palloni areostatici. Erano circa le ore nove, quando D. Bosco chiamati i giovani a sè d'intorno, fece loro cantare le due prime strofe dell'inno: Luigi onor dei vergini; poscia li esortò a recarsi a casa con ordine e quiete, ed essi lo ubbidirono gridando ancora una volta: Viva S. Luigi, viva D. Bosco! [235]

                Qualche tempo dopo, D. Bosco annunziò che alcuni grandi personaggi si erano fatti ascrivere alla Compagnia di S. Luigi, come socii di onore, ed essi rimasero non poco edificati ed ammirati, quando udirono il nome del Grande Pio IX, del Cardinale Giacomo Antonelli, di Mons. Luigi Fransoni, di Monsignor M. Antonucci, allora Nunzio Apostolico alla Corte di Torino e poi Cardinale Arcivescovo di Ancona, ed altri.

                Questa solennità che lasciò la più salutare impressione nei giovani, fu ripartita negli anni seguenti, assegnando quasi sempre D. Bosco giorno diverso e per onorare S. Luigi e per amministrare la santa Cresima. Ma se il primo crebbe sempre più di splendore per gli ascritti alla Compagnia, per un migliaio e più di comunioni e per la processione, il secondo non era meno importante per lo zelo del servo di Dio e per i vantaggi duraturi delle anime. Indefesso nel preparare i giovani, loro spiegava che cosa fosse la Cresima, quali, effetti produceva nell'anima e con quali disposizioni si dovesse ricevere. Dopo averli confessati nella vigilia o nel mattino stesso in cui si doveva amministrare tal Sacramento, dopo essere andato incontro al Vescovo sulla porta della chiesa, egli prendeva parte alla sacra funzione per assistere e tener raccolti i cresimandi. Passava lungo le file in cui erano disposti e diceva ancora qualche parolina all'orecchio, all'uno e all'altro dei più bisognosi, pieno del santo desiderio che il Divin Paracleto trovasse in quei teneri cuori un tempio meno indegno.

                Da quel momento sovente loro ripeteva, come essendo divenuti soldati di Gesù Cristo dovessero dimostrarsi pieni di coraggio col manifestare innanzi al mondo la loro fede e nell'essere pronti a qualunque sacrificio piuttostochè offendere il Signore. Loro raccomandava più calorosamente di prima il segno della santa Croce, come professione di fede, arma [236] contro il demonio, divisa, parola d'ordine, che distingue il cristiano dall'infedele, e quindi li esortava a farlo con divozione e sovente; aveva la pazienza di segnalare i varii difetti in cui per ignoranza o per negligenza taluni cadevano e per correggerli tra le varie industrie usava quella di mettere in burla coloro che si segnavano male, come se, invece di compiere un atto di religione, volessero pararsi le mosche. Egli poi colla sua viva fede ne dava l'esempio, poichè in tutte le circostanze pubbliche e private faceva il segno della Croce così compito e posatamente, che anche in questo era un'edificazione a vederlo.

                Inoltre per ricordare ai giovani i doni che infonde lo Spirito Santo, celebrava con singolare pietà la novena e festa di Pentecoste, ed eccitava i suoi a fare altrettanto. Per più anni egli stesso predicava e più tardi faceva predicare da altri sacerdoti in tutte quelle sere ed impartiva la benedizione col SS. Sacramento.

                Da questo suo zelo, da questa sua fede verso lo Spirito d'amore, possiamo anche argomentare quale sia stata la sua preparazione, quando egli aveva ricevuto da Mons. Gianotti l'augusto indelebile carattere della santa Cresima.

 

 

CAPO XXI. Ciò che vide una suora del buon Pastore, e pronostico di D. Bosco - Il Gesuita moderno, di Vincenzo Gioberti Pio IX concede a' suoi popoli varie riforme politiche e arti dei settarii per ottenerle - Gli applausi a Pio IX giudicati da Mons. Fransoni e da D. Bosco - Gridate, Viva il Papa e non Viva Pio IX. - Cartelli nell'Oratorio che ricordano la dignità del Vicario di Gesù Cristo - Applausi insidiosi al Clero secolare - Accuse ingiuste contro il Vescovo di Asti.

 

                GIUSEPPE BUZZETTI ci narrava un avvenimento dì quest'anno che affermò essere stato allora noto a tutti quelli dell'Oratorio.

                Mentre D. Bosco celebrava Messa al Buon Pastore una suora mandò un grido acutissimo in tempo dell'elevazione, sicchè turbò tutta la comunità. D. Bosco a stento potè continuare il santo Sacrifizio, e non conobbe la cagione di quel grido, ma la suora venne poi all'Oratorio a chiedergli scusa del disturbo che aveagli arrecato nell'atto della celebrazione.

                - Che cosa avete visto? - chiese D. Bosco.

                - Gesù nell'Ostia sotto forma di bambino tutto grondante sangue.

                - E ciò che cosa vorrebbe dire? [238]

                - Non lo so!

                - Sappiate che ciò indica una gran persecuzione che sì prepara contro la Chiesa! - E il doloroso pronostico poche settimane dopo incominciava ad avverarsi. Infatti, stampato in Isvizzera, in moltissime copie era introdotto nel Piemonte il Gesuita Moderno, opera in sette grossi volumi di Vincenzo Gioberti. Versando egli torrenti di odio e di plateali ingiurie contro la Compagnia di Gesù, aveva ricopiato quanto nel corso di due secoli scrissero di calunnioso e di maligno, per farla apparire esecranda, ogni genia di eretici e di increduli; ma però, coll'orpello di buon zelo e di sana dottrina frammischiando alle violenti invettive, lunghe pagine di magnifici elogi al Papato. Così si ottemperava alle istruzioni segrete date da Giuseppe Mazzini nell'ottobre 1846. “Si strilli e si gridi contro i Gesuiti che personificano il clero…..La potenza clericale è personificata nei Gesuiti. L'odioso di questo nome è una potenza pei socialisti; ricordatelo!”[19]. Perciò Gioberti coinvolgeva in quelle sue diffamazioni personaggi esimii del clero e del laicato, le Istituzioni di S. Raffaele e di S. Dorotea; dipingeva coi più neri colori Ordini e Congregazioni religiose, specialmente gli Ignorantelli; e non risparmiava le Dame del Sacro Cuore, accumulando contro di esse tante malvagie menzogne da disgradarne i romanzieri più scellerati. Stendeva pure due pagine nel combattere il Convitto Ecclesiastico di S. Francesco d'Assisi, affermando che il Teol. Guala era un Gesuita e gesuitica la sua istituzione; che nel Convitto si insegnava una morale troppo lassa; che era una fabbrica di bugie, un seminario di errori, un'officina di giaculatorie, un ritrovo politico, ecc. [239]

                Immenso fu in Italia e fuori il rimbombo dell'opera Giobertiana; le sette la strombazzarono in tutti i toni come gloriosa, benemerita, imperitura. Il nome di Gioberti fu dato alle strade e ai caffè, e festeggiato ed elevato alle stelle da un volgo ignorante, sobillato dai mestatori. Dappertutto si vedevano i suoi busti e i suoi ritratti. Tutto facevasi perchè divenissero popolari le idee del Gesuita Moderno, il cui fine primario era di fuorviare l'opinione pubblica a danno degli Ordini religiosi, togliere a questi l'educazione della gioventù, aizzare contro di loro le ire della plebaglia e costringere le autorità a bandirli e così impedire che facessero il bene tra il popolo. Tenevansi sicuri della vittoria, ed ecco quasi scherzo della Divina Provvidenza, proprio in quel tempo era fondato l'Ospizio di S. Francesco di Sales in Valdocco!

                Eziandio in Roma i capi delle congiure seguivano fedelmente le istruzioni di Mazzini sul modo di circonvenire il Papa e gli altri Sovrani. “Il Papa, aveva scritto, si avanzerà nelle riforme per principio e per necessità... Profittate della menoma concessione per riunire le masse, non fosse altro per attestare la riconoscenza: feste, canti, assemblee... dare al popolo il sentimento della sua forza e renderlo esigente... uno scalino per volta….Ottenuta una legge liberale, applaudite e domandate quella olio deve seguire”.

                Il Papa infatti, animato da santi pensieri, disposto a far tutto pel bene del suo popolo gli accordava certe libertà che più parevano desiderate; e subito si organizzarono imponenti dimostrazioni popolari per ringraziarlo e per chiedere ad alta voce nuove riforme. E Pio IX il 15 marzo aveva concessa la legge sulla stampa con una libertà dentro giusti limiti, la quale però non impedì che in agosto nella sola Roma si pubblicassero cinquanta giornali, la maggior parte detestabili, corruttori dello spirito dei cittadini. Il 14 giugno [240] Egli nominava un consiglio di Ministri, composto però di ecclesiastici, e i settarii, aspettando il momento opportuno per imporre al Papa un Ministero di laici, fecero udire unito al grido di Viva Pio IX, quello di Viva Gioberti, Viva l'Italia, e misto ad inni quasi repubblicani. Il 5 luglio avendo poche truppe a' suoi ordini permetteva che fosse istituita la guardia civica per la tutela dell'ordine pubblico, e così i rivoluzionarii ebbero le armi. Alcun tempo dopo, ordinato e nominato, il Consiglio comunale di Roma, inaugurava la Consulta di Stato; ma fra i consultori che rappresentavano le singole città del regno erano stati eletti non pochi cospiratori fra i più pericolosi. E intanto non vi era lode e gloria che non si tributasse a Pio IX.

                A Torino giungevano le notizie di Roma ed anche qui continuavano ad ogni occasione le grida frenetiche, ostinate di Viva Pio IX. Mons. Fransoni però aveva compreso tra i primi che sotto quelle esagerate espressioni di entusiasmo si celava l'artificio delle sette, e sollecitato dal Papa a muovere i fedeli in aiuto degli Irlandesi che lottavano contro la fame, il 7 giugno 1847 scriveva in una sua lettera pastorale: “Quella essere un mezzo assai acconcio di mostrare ossequio al Pontefice, e perciò averglisi a dar plauso. Non come quei tali che applaudono a Pio IX, non per quello che è, ma per quello che vorrebbero Egli fosse. Doversi ancora riflettere, che non il battere fragoroso di palma a palma, nè l'incomposto acclamar tumultuoso, sono gli applausi che possono a Lui tornar graditi, bensì l'ascoltarne docilmente gli avvisi, e il pronto eseguirne, non che i comandi, gli inviti”. D. Bosco non la pensava diversamente dal suo Arcivescovo. Naturalmente anche all'Oratorio era un gridare a tutta gola di viva e di osanna al gran Pontefice; tanto più che D. Bosco parlava sempre del Papa colla massima stima; ripeteva frequentemente [241] essere necessario di stare uniti al Papa perchè egli era quell'anello che unisce i fedeli a Dio, e preconizzava fatali cadute e castighi a quelli che presumevano osteggiare o censurare anche menomamente la S. Sede; e tanto era l'amore che sapeva infondere verso di questa ne' suoi giovani, che sentivansi disposti ad esserle sempre obbedienti e fedeli e a difenderla anche a costo della vita. I giovani adunque ripetevano: Evviva Pio IX; ma con meraviglia intesero D. Bosco che cercava di cambiar loro le parole in bocca: - Non gridate Viva Pio IX, ma Viva il Papa!

                - Ma perchè, gli domandarono, Ella vuole che gridiamo Viva il Papa? Pio IX non è appunto il Papa? - Avete ragione, replicava D. Bosco: ma voi non vedete più in là del senso naturale; vi è certa gente che vuol separare il Sovrano di Roma dal Pontefice, l'uomo dalla sua divina dignità. Si loda la persona, ma non veggo che si voglia prestar riverenza alla dignità di cui è rivestita. Dunque se vogliamo metterci al sicuro, gridiamo Viva il Papa! - E tutti i giovani ripetevano: Viva il Papa!...

                - Ed ora, continuava D. Bosco, se volete cantare un inno in lode del glorioso Pontefice, s'intoni pure quello che ha testè composto il Maestro Verdi:

 

Salutiamo la santa bandiera Che il Vicario di Cristo innalzò.

 

                E tutti prorompevano in un coro fragoroso cantando quell'inno che secondo l'interpretazione di D. Bosco, era un omaggio al vessillo della santa Croce.

                Più di una volta vennero alla Domenica, nei giorni di maggior fermento, alcuni signori in voce di buoni cristiani, ma liberali. Entusiasmati al vedere tante centinaia di baldi giovani, dopo brevi parole d'incoraggiamento li invitarono a [242] gridare Viva Pio IX; ma riuscì loro non grata sorpresa sentire un tuono di cinquecento e più voci che rispondeva: Viva il Papa! - Non era stata dimenticata la lezione di D. Bosco, e perchè questa rimanesse sempre più impressa, egli collocò in ogni parte del piccolo Oratorio cartelli stampati per invitare i giovani ad obbedire al Papa, a riverirne gli ordini, a rispettarne l'autorità. Su uno si leggeva: - Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa - Su un altro:

                - Dove è Pietro ivi è Dio - Un terzo: - Io sono con voi sino alla consumazione de' secoli - Dove è Pietro ivi è la Chiesa - Pasci le mie pecorelle.

                Narrava D. Bosco al Card. Bernabò nel 1873: “Nel 1847 lessi alcuni fogli di arrabbiati rivoluzionarii; eravi scritto: “S'incominci a gridare Viva Pio IX ma giammai Viva il Papa; si dia opera a screditare i Gesuiti, ma non toccate il Pontefice. I preti buoni lodateli, incoraggiateli e tentate lusingarne l'amor proprio colla lode, i preti cattivi se potete tirarli dalla vostra parte farete un gran guadagno”. E questo programma fu messo in pratica alla lettera, e fin d'allora, chi non fosse stato cieco, si poteva vedere, come ogni mossa dei liberali fosse diretta a tribolare e spodestare il Papa, togliendogli tutti i mezzi e gli appoggi umani. Essi vanno tuttora ripetendo: Quando non abbia più nessuna speranza di riacquistare ciò che gli fu tolto, bisognerà pure che ceda e si pieghi ai nostri voleri”.

                A questo fine adunque nel 1847 mentre Gioberti assaliva il clero regolare, si incominciò astutamente dai congiurati a blandire il clero secolare. Mazzini aveva scritto: “Conviene conciliarsi il clero, e guadagnarne ad ogni modo l'influenza... Il clero non è nemico delle Istituzioni liberali…. Se voi poteste in ogni capitale creare dei Savonarola, faremmo passi da gigante….. Non attaccate il clero nella sua fortuna e nella [243] sua ortodossia, promettetegli la libertà e lo vedrete nelle vostre file... L'essenziale è che il termine della grande rivoluzione sia sconosciuto. Non lasciamo mai vedere che il primo passo da fare……”.

                E la parola d'ordine delle loggie in Torino fu adunque: Lodate i preti. Chi non era iniziato alle segrete cose nulla capiva dell'inusitata riverenza e cordialità colla quale il clero era trattato anche da quelli che poco usavano alla Chiesa. Ogni ricorrenza patriottica non tardò ad avere il suo epilogo nella visita di un santuario, nell'assistenza ad una Messa, o ad un Te Deum colla benedizione del SS. Sacramento. Il prete era invitato ai congressi, ai circoli, alle dimostrazioni e trattato con tutti i riguardi che poteva desiderare. Nell'Università di Torino, ove erano trincerati i giansenisti come in una cittadella, gli studenti delle varie facoltà si affratellavano coi chierici e coi preti, che frequentavano le scuole teologiche. Questi talora non potevano sottrarsi alle ovazioni più entusiastiche dei compagni e dei professori. Fuori di là anche di lontano potevasi sapere il passaggio di qualche insigne Ecclesiastico, o di una camerata degli alunni del Seminario alla frenesia colla quale la folla gridava: Viva i Preti! Viva i Seminaristi! - Non è quindi a far meraviglia se in quei primi giorni non pochi tra il clero minore pigliarono parte al movimento liberale. Gli uni eransi riscaldato il cervello colla lettura degli scritti Giobertiani; gli altri poi, in maggior numero, erano di quegli illusi o ingenui, che non sapevano vedere ove tendessero tante acclamazioni smaccate. E nemmeno cadevano in sospetto, che le riforme politiche che da tutti sembravano desiderarsi, potessero avere qualche lato pericoloso, mentre vedevano che Pio IX medesimo ne aveva largite alcune al suo popolo. Tutti costoro potevano facilmente abboccare l'esca delle acclamazioni, ma [244] non tutti i preti si lasciarono abbindolare dai popolari entusiasmi e fra costoro va collocato in prima linea D. Bosco, il quale era persuaso che agli osanna sarebbero seguiti i crucifige. Anzi interrogato in questo stesso anno dai suoi amici sugli avvenimenti presenti e futuri della Chiesa, aveva risposto: che la rivoluzione sarebbe andata a poco a poco fino, alle ultime conseguenze de' suoi propositi!

                Ed incominciava ad esserne prova il modo col quale trattavasi coi Vescovi, mentre dimostravasi tanta tenerezza pel clero inferiore. Contro Mons. Filippo Artico, Vescovo di Asti vigilante custode della disciplina ecclesiastica, nel 1847, si era, inventata un’infame calunnia. La potestà civile prima spalleggiò i detrattori, e il Senato di Piemonte, non curando il concordato del 1841 che stabiliva il Papa solo essere giudice dei Vescovi, mandò con grande apparato i suoi delegati nella stessa città di Asti. Questi istruirono contro Monsignore un processo criminale; ma dovettero proclamarne l'innocenza, tanto luminose ne furono le prove. Il Re, per temperare il dolore di quell'esimio prelato e dargli segni di stima, lo volle seco a Racconigi. Ma ciò non valse a por termine alle manifestazioni ostili e agli sfregi della cricca Astigiana contro il buon Vescovo, il quale sul finir dell'anno, non potendo vivere sicuro in città, ritirossi nella villa Episcopale sulla vetta di un solitario colle. Ma qui neppure gli fu concessa un po' di quiete, essendo fatto bersaglio di inverecondi motteggi. Gli tornarono però di gran conforto in tante amarezze le difese che di lui aveva pigliate tutto l'Episcopato Subalpino e la costante amicizia di D. Bosco.

 

 

CAPO XXII. Proponimenti di D. Bosco negli esercizii spirituali a S. Ignazio - Minacce di Carlo Alberto dell'Austria - D. Bosco e l'Istituto della Carità - Ospitalità generosa - Viaggio a Stresa - D. Bosco lontano conosce ciò che accade nell'Oratorio - Stazione dei giovani a Moncucco nella passeggiata ai Becchi - Il primo studente nell'Oratorio - I primi sacerdoti che hanno stanza con D. Bosco - Signori e signore che si prendono cura dei giovani esterni ed interni - I medici.

 

                MENTRE tutti i buoni vivevano in gravi apprensioni per il misterioso agitarsi dei nemici della Chiesa a S. Ignazio sopra Lanzo si iniziavano i santi spirituali esercizii. D. Bosco per amore della povertà evangelica, per varii anni, accompagnato da D. Giacomelli, vi andava a piedi, percorrendo oltre a trenta chilometri in un mattino solo. Il Prof. D. Alasonatti Vittorio di Avigliana tenne memoria che in quest'anno D. Guala e D. Cafasso avevano invitati a predicare un padre Gesuita ed un Canonico di Vercelli. D. Bosco scriveva in un foglio: “Proponimenti fatti negli esercizii sp. del 1847.

                Ogni giorno: Visita al SS. Sacramento.

                Ogni settimana: Una mortificazione e confessione.

                Ogni mese: Leggere le preghiere della buona morte. Domine, da quod jubes et jubes quod vis. [246]

                Il Sacerdote è il turibolo della Divinità. TEODOTO. È soldato di Cristo. S. Giov. G.

                L'Orazione al Sacerdote è come l'acqua al pesce, l'aria all'uccello, la fonte al cervo.

                Chi prega è come colui che va dal Re”.

                Riconfortato e riposato nello spirito, D. Bosco scendeva dalla solitudine e dalla pace dei monti per ritornare in città, ove ben presto l'ambiente politico fu scosso da inaspettati avvenimenti. La questione dei sali tra il Piemonte e l'Austria toccava già il periodo acuto di una vicina guerra, quando, giunse la notizia che le truppe austriache, col pretesto di necessaria difesa pel regno Lombardo - Veneto, avevano occupata la città di Ferrara violando i diritti Pontificii. Questo fatto accresceva nuovo sdegno nel cuore degli italiani e nuovo ardire alle sette. Cogli evviva patriottici incominciaronsi a udire da ogni parte le grida: Fuori il barbaro; abbasso, l'Austria. Carlo Alberto, risoluto di non separare mai la causa propria da quella del Papa, si affrettava a far sapere al Pontefice come fosse egli pronto a' suoi servigii coll'esercito e colla flotta; e nell'agosto il Conte di Castagnetto leggeva al congresso agragrio di Casale una lettera a lui scritta dal Re, colle seguenti frasi: “Se la Provvidenza ci manda la guerra per l'indipendenza d'Italia, io monterò a cavallo co' miei figli, mi porrò alla testa del mio esercito... Un bel giorno, sarà quello in cui si potrà gridare: Alla guerra per l'indipendenza d'Italia”. Tutti i giornali ripeterono queste frasi, le quali produssero una penosa sensazione in quanti prevedevano le conseguenze di tale guerra.

                D. Bosco intanto sentiva che non avrebbe resistito a sopportare da solo per lungo tempo tutto il peso così gravoso dell'Oratorio: e non trovava chi volesse far vita comune con lui consacrandosi intieramente e per sempre alla salvezza [247] della gioventù. Aveva per qualche anno accarezzata l'idea di ascriversi a qualche Istituto già esistente, dal quale gli si lasciasse compiere il suo disegno o gli si dessero mezzi da poterlo eseguire. Desiderava vivamente di circondarsi di confratelli, nei quali potesse infondere ciò che egli sentiva nell'ardente suo cuore. Da parte sua era disposto ad essere obbedientissimo a chiunque nell'Istituto da lui prescelto, fosse deputato a comandargli; anzi avrebbe preferito poter condurre avanti il suo piano, passo per passo, guidato dall'ubbidienza di un superiore.

                “Ma la Vergine Maria, ci narrava più tardi D. Bosco, mi aveva indicato in visione il campo nel quale io doveva lavorare. Possedeva adunque il disegno di un piano premeditato, completo dal quale non poteva e non voleva assolutamente staccarmi. Io era in modo assoluto responsabile della riuscita di questo. Vedeva chiaramente le fila che dovevo tendere, i mezzi che doveva adoperare per riuscire nell'impresa; quindi non poteva espormi al rischio di mandare a vuoto un tale disegno col sottoporlo in balia del giudizio e della volontà di altri. Ciò non ostante in questo stesso anno 1847 volli osservare con maggior diligenza se già esistesse qualche Istituzione nella quale io potessi aver la sicurezza di eseguire, il mio mandato, ma non tardai ad avvedermi che no. Per quanto fosse santissimo lo spirito che animavale e lo scopo al quale tendevano, tuttavia non corrispondevano a' miei fini. Questi furono i motivi che mi rattennero dall'ascrivermi a qualche Ordine o Congregazione di religiosi. Quindi ho finito collo starmene solo, e invece di unirmi a socii già provati nella vita di comunità ed esercitati nelle varie opere del ministero apostolico, dovetti andare in cerca, secondo che mi era stato indicato nei sogni, di giovani compagni che io stesso doveva scegliere, istruire, e formare”. [248] Tuttavia non eragli stato vietato di cercare un appoggio per l'opera sua in qualche Congregazione, e di studiarne le costituzioni se adattate a' suoi tempi.

                Egli perciò lasciavasi attirare da una speciale simpatia e da un vivo interesse verso l'Istituto della Carità. Conosceva per fama la virtù e la dottrina onde il suo fondatore e i suoi religiosi erano forniti; sapeva aver essi a Rovereto tenute istruzioni serali ai poveri artigiani per allontanarli dall'osteria e dal vizio; a Trento e altrove essere stati aperti da essi Oratorii festivi per i giovanetti; la loro predicazione ai popoli della campagna produrre un gran bene; e i loro missionarii ricondurre in Inghilterra molte anime all'ovile di Gesù Cristo. Nello stesso tempo era convinto che le basi del loro ordinamento monastico fossero appunto come si convenivano ai nuovi tempi e che dessero garanzia di stabilità e difesa contro l'uragano ormai inevitabile che addensavasi contro gli Ordini religiosi e i loro patrimonii. Alla proprietà collettiva avevano sostituito il diritto, almeno in radice, della proprietà personale, e quindi non potevano sorgere cavilli che contestassero un possesso soggetto alle leggi comuni. D. Bosco aveva eziandio riflettuto sull'importanza di potersi giovare in certe occasioni dell'influenza che l'Abate Rosmini esercitava in Torino sugli uomini nuovi rivestiti di autorità, e quindi la convenienza di averlo amico e protettore. Era suo sistema premunirsi diligentemente con ogni mezzo umano, lasciando poi con fiduciosa rassegnazione, che la Divina Provvidenza guidasse le cose a suo beneplacito.

                Agevolava i suoi intenti l'amicizia da lui stretta con alcuni sacerdoti dell'Istituto della Carità, di stanza nell'Abbazia di S. Michele della Chiusa, i quali emulavano lo zelo e le fatiche degli antichi figli di S. Benedetto; e l'aver egli, D. Bosco, indirizzati al loro noviziato di Stresa alcuni de' suoi [249] giovani, desiderosi di abbracciare lo stato religioso. L'ospitalità da lui offerta a questi buoni padri, i quali non avevano casa in Torino, rendeva più intime quelle attinenze. Qualunque volta l'Abate Rosmini giungesse in Torino il Marchese Gustavo Benso di Cavour volevalo in casa sua; ma i suoi discepoli qui condotti dagli affari o bisognosi di riposo in un lungo viaggio, venivano per più anni a prendere alloggio nell'Oratorio. D. Bosco faceva loro quelle migliori accoglienze che permettevagli la sua povertà, e quei generosi, avvezzi ad una vita austera, erano sempre di tutto contenti.

                Quando poteva, assegnava loro una cameretta, e se la piccola casa era occupata da altri ospiti, conduceva il nuovo venuto nella sua stanza, gli cedeva il proprio letto e in un piccolo spazio celato da un armadio che serviva come di steccato, stendeva per terra un materasso e su quello si coricava. Se però il forastiero era persona di riguardo, andava a cercarsi un cantuccio da passarvi la notte o in cucina o nella sagrestia. E così continuò fino al 1854

                Riconoscenti per queste e per altre sue attenzioni, spesse volte i padri Gilardi e Fledelicio lo avevano con insistenza invitato a recarsi a Stresa; ma era stato ritenuto dagli affari. Finalmente nell'autunno del 1847 ci decidevasi a quel viaggio. Andava per avere un abboccamento coll'Abate Rosmini e chiedere il suo giudizio su varii progetti che stavangli a cuore e dei quali noi più tardi dovremo parlare; e nello stesso tempo per intrattenersi alquanto con i suoi giovani, da lui mandati a quel noviziato.

                Prima di partire consegnava l'Oratorio al Teol. Carpano e ai due giovani Barretta e Costa, che erano i factotum e i cantori principali; raccomandò caldamente l'assistenza dei loro compagni, quindi montò sul calesse dell'impresario Federico Bocca, il quale in persona volle accompagnare D. Bosco [250] guidare il suo cavallo. È dal signor Bocca che ebbimo i seguenti e pochi cenni di questo viaggio.

                Dopo alcuni giorni, essendo Domenica, a un certo punto, della via, D. Bosco, che silenzioso erasi concentrato ne' suoi pensieri, esclamò ad un tratto: “Ecco, che approfittandosi della mia assenza, Barretta e Costa non sono andati all'Oratorio; e il Teol. Carpano non è al suo posto, e invece ora fa la tale e la tal altra cosa”

                Bocca, udite queste parole, ne prese nota per verificarle al ritorno. Toccate le stazioni di Chivasso, Santhià, Biella, Varallo, Orta, a Miassino nell'osteria piena di persone, D. Bosco co' suoi modi gioviali ed affettuosi, avendo preso, ascendente su tutti, narrò la vita di S. Giulio con gran piacere di quella gente, poco avvezza ad ascoltare panegirici. Partito di là visitò i piccoli Seminarii di Gozzano e S. Giulio, della diocesi di Novara, ed alloggiò presso i signori Razzini, e giunse a Stresa passando per Arona e S. Carlone. Quivi con suo rincrescimento trovò che l'abate Rosmini era lontano; ma il padre Fledelicio lo accolse con gran festa, perchè sperava che D. Bosco sarebbesi fatto Rosminiano. Lo condusse quindi alle isole Borromee, ad Intra, a Pallanza e al Santuario di S. Caterina del Sasso al di là del lago Maggiore, ove si vede un gran macigno star miracolosamente quasi sospeso in aria sopra il sacro edifizio. Intanto osservando ed interrogando conobbe perfettamente lo spirito dei Rosminiani e come non andasse d'accordo col suo in varie opinioni e su certi principii. Tuttavia non disse parola che palesasse il suo pensiero. Contento per le amorevolezze di quei novizii e dei loro Superiori, ritornò a Torino, passando per Arona, Novara, Vercelli, Chivasso. Varie scene graziose e salutari per le anime erano accadute cogli osti presso i quali erasi fermato per rifocillarsi, e al solito aveva confessaio [251] vetturini e stallieri. Il viaggio era durato quasi dodici giorni. Il Sig. Bocca andò subito dal Teol. Carpano e gli disse:

                - Lei Domenica non era al suo posto nell'Oratorio ed ha fatto questo e questo.

                - Da chi lo ha saputo?

                - Da D. Bosco in persona.

                Il Teologo, che era di naturale sanguigno, si tolse la berretta di capo, e gettandola dispettosamente per terra: - Ecco lì, esclamò, sono subito andati a raccontargli tutto. Chi glielo ha detto? - E ammutolì e si calmò quando seppe che D. Bosco solo da sè aveva indovinata o veduta la sua assenza. Così pure il Sig. Bocca, constatò avverate le parole, di D. Bosco, riguardo ai due giovani cantori.

                D. Bosco fermossi per poco tempo in Torino.

                Pel 2 ottobre disposta col Teol. Borel una passeggiata di tutto l'Oratorio a Superga, dove erasi comprata molta uva per una merenda, partiva a piedi per la solita gita ai Becchi, con alcuni allievi. Sua madre accompagnavalo col suo canestro appeso al braccio. Fintantochè si era nelle vie della città, discorreva col figlio sul modo di alloggiare e invigilare quei buoni ragazzi; ma uscita dalla cinta del dazio e avanzandosi per le strade solitarie, incominciava ad alta voce il rosario, al quale tutta la comitiva rispondeva. I Signori Moglia suoi antichi padroni e benefattori, avvertiti per lettera del suo passaggio, preparavano ogni cosa nella loro cascina per accoglierlo degnamente. Nei primi anni egli andava con soli quattro o cinque giovani, poi con dieci o quindici. L'ultima volta furono venticinque, e cessò dall'andare alla Moglia, perchè temette abusare della generosità de' suoi ospiti e pel numero sempre crescente dei suoi compagni. Il suo arrivo, era un giorno di festa e di allegria. Per i giovani era [252] preparata una gran polenta con salsiccia in quantità, che essi stessi facevano cuocere. D. Bosco co' suoi coadiutori, quando avea con sè preti e chierici, sedevano a mensa col padrone e colla sua famiglia. Di qui D. Bosco riprendeva il suo cammino per Morialdo, ove soleva dimorare nella sua casa paterna per qualche settimana, aiutando D. Cinzano nella festa del Rosario.

                Ritornato a Torino, conduceva con sè in Valdocco il primo studente di Castelnuovo d'Asti e suo cugino di nome Alessandro, figlio del signor Pescarmona Giovanni Battista. Il padre, ricco possidente, aveva formata con D. Bosco una convenzione, colla quale obbligavasi a pagare una regolare retta mensile e a provvedere il figlio di abiti, libri e quanto potesse occorrere in occasione di malattia. Doveva questi ascriversi al terzo corso di lingua latina e abitando con D. Bosco andare alle lezioni di un Professore in città, che aveva nome Giuseppe Bonzanino. Il padre sapendo le strettezze nelle quali si trovava D. Bosco, volle anticipargli la somma totale convenuta per tre anni.

                Abbiamo fatto cenno di questo fatto per ricordare una massima che D. Bosco fin d'allora stabiliva per l'accettazione di un alunno pel suo Ospizio. “Abbiamo per iscopo, diceva, di raccogliere e mantenere gratuitamente giovani poveri, e non è giusto che colui il quale poco o molto possiede di beni suoi o di sua famiglia, volendo essere ammesso fra noi, si profitti delle elemosine che sono elargite per gli altri. Questo principio servirà nel fissare la somma mensile, più o meno tenue, per la pensione di un giovanetto”.

                Il giovane Alessandro non fu il solo che D. Bosco fece sedere alla sua propria mensa. Egli era sempre in cerca di coadiutori che gli prestassero mano nel far prosperare l'opera sua; quindi volentieri dava alloggio in sua casa ad ecclesiastici [253] e ad altri che desideravano stabilirsi in Torino per gli studii o per diversi motivi. Costoro corrispondevano una pensione convenuta. D. Palazzolo, il suo amico e discepolo a Chieri prendeva stanza con lui il 23 ottobre 1847, e il giorno 29 dello stesso mese ed anno venne pure in Valdocco D. Pietro Ponte, che forse fu il secondo che ebbe l'ufficio di Prefetto nell'Oratorio festivo; abitarono con D. Bosco per tutto il 1848 mentre erano impiegati in chiese della città. Le due torte settimanali con erbe non erano presentabili a quei pensionarii. La mensa perciò fu imbandita a pranzo e a cena all'incirca secondo l'usanza delle comunità. Vi era il necessario per nutrirsi, ma certamente facevano difetto le delizie. Le insistenze altrui non indussero D. Bosco a cambiar sistema. Perciò i suoi commensali non si fermarono lungo tempo con lui, il quale per volontà deliberata faceva una vita di continuo sacrifizio e mortificazione. Era solito ripetere con S. Paolo. - Avendo gli alimenti e di che coprirci contentiamoci di questo[20].

                Qui sta bene il ripetere come la sua povertà e mortificazione eccitasse' i benefattori a soccorrerlo più largamente vedendo che nulla riteneva per sè; come fosse per essi una prova che nessun fine umano lo guidava nel sostenere tanti disagi e stenti; e come inducesse le anime generose ad imitare il suo zelo col prestargli in vario modo eziandio l'opera loro. Alcuni nobili signori e borghesi si unirono ai catechisti e ai giovani maestri, e li aiutavano in chiesa e fuori di chiesa nei loro uffizii. Essi davansi specialmente premura di cercare tra i giovani, quelli cui mancava il lavoro; procuravano di metterli bene in assetto ed in grado di potersi presentare [254] nelle officine o nei negozii, e li collocavano presso qualche onesto padrone andando a visitarli sul lavoro lungo la settimana. D. Bosco in una conferenza ai cooperatori nel 1878, esclamava: - Era proprio la Divina Provvidenza che lì mandava, e per mezzo loro il bene andò moltiplicandosi Questi primi cooperatori salesiani, sia ecclesiastici che secolari, non guardavano a disagi ed a fatiche, ma vedendo come molti giovani discoli si riducessero nella via della virtù, sacrificavano se stessi per la salvezza degli altri. Molti io ne vidi lasciare ogni comodità di loro case e venire non solo tutte le domeniche, ma ben anco tutti i giorni della quaresima, e ad un'ora che li disagiava moltissimo, ma che era più comoda per i ragazzi, a fare il catechismo. Li vidi eziandio durante l'invernale stagione recarsi ogni sera in Valdocco per vie e sentieri dirupati, pericolosi, coperti di neve e di ghiaccio per fare scuola nelle classi che mancavano di maestro, impiegandovi il maggior tempo possibile. - Fra costoro si debbono annoverare il Conte Cays di Giletta, il Marchese Fassati e poi il Conte Callori di Vignale e il Conte Scarampi di Pruney, il quale nel 1900 in età di 80 anni parlando col Prof. D. Celestino Durando piangeva di consolazione e di tenerezza ricordando D. Bosco e questi anni antichi.

                Insieme coi coadiutori erano comparse nell'Oratorio le coadiutrici, delle quali D. Bosco eziandio parlava nella conferenza suddetta: “Si faceva vieppiù sentire il bisogno di aiutare materialmente i nostri poveri fanciulli. Ve ne erano di coloro i cui calzoni e la giubbetta erano in brandelli, e ne pendevano i pezzi da ogni parte, anche a scapito della modestia. Ve ne erano di quelli che non potevano mai cambiarsi quello straccio di camicia che avevano in dosso; erano così luridi che nessun padrone li voleva accogliere a lavorare nella [255] propria officina. Fu qui che incominciò a campeggiare la bontà e l'utilità che arrecavano le cooperatrici. Io vorrei ora a gloria delle signore torinesi raccontar ovunque come molte di esse, sebbene di famiglie così cospicue e delicate, tuttavia non avessero a schifo prendere quelle giubbe, quei calzoni ributtanti e colle loro mani aggiustarli; prendere quelle camicie già tutte lacere, e forse mai passate nell'acqua, prenderle esse stesse, dico, lavarle, rattopparle e consegnarle poi nuovamente ai poveri ragazzi, i quali attirati dal profumo della carità cristiana perseverarono nell'Oratorio e nella pratica delle virtù. Varie di queste benemerite signore mandavano biancheria, vesti nuove, danari, commestibili e quant'altro potevano. Alcune sono presentemente qui ad ascoltarmi e molte altre furono già chiamate dal Signore a ricevere il premio delle loro, fatiche ed opere di carità”.

                Queste sante donne si erano raggruppate intorno a mamma Margherita, e prima fra tutte, colla sua buona sorella, la signora Margherita Gastaldi, madre del Can. Lorenzo Gastaldi, e con essa la Marchesa Fassati; poi un'altra illustre dama di Corte; e altre ancora, le quali non isdegnavano di associarsi all'umile contadina del Becchi per rimendare stracci nella povera sua stanzetta.

                E quando D. Bosco incominciò a ricoverare gli orfanelli, con una abnegazione materna esse ne presero cura come dei proprii figli. Ogni sabato portavano agli allievi camicie e fazzoletti. Ogni mese somministravano lenzuola pulite e talora rappezzate con diligenza. Era la signora Gastaldi che prendevasi cura di far lavare la biancheria. Alla domenica passava in rivista i letti, poi come un generale d'armata, schierava gli alunni, ad uno per uno osservava se eransi cambiata la camicia, se si erano lavate le mani ed il collo. Quindi, fatto mettere da parte tutto ciò che doveasi mandare [256] al bucato, lo faceva trasportare presso le persone che aveva incaricate di quel lavoro. Dava eziandio una rivista agli abiti per vedere se abbisognassero d'essere riparati, ricorrendo, sovente a varii pii istituti e case di educazione femminili, che gareggiavano nel prestarsi a questo lavoro di beneficenza. Essa passava gran parte della giornata nella guardaroba dell'Oratorio aiutando la buona Margherita a tenerla in ordine; provvedeva o faceva provvedere quanto mancava per i letti e per le persone; somministrava quanto poteva eziandio aiuti in danaro, cosicchè i giovani la consideravano, insieme con la sua sorella, come particolare benefattrice. Per più anni durò in quest'opera di carità, anche dopo la morte della madre di D. Bosco.

                Fin qui abbiam detto delle cure di cui erano oggetto i figli dell'Oratorio quando erano sani, ma dobbiamo aggiungere che essendo infermi, fin dal principio, non mancarono loro insigni benefattori che li assistettero, alleviarono i loro dolori e si studiarono di restituirli in sanità. I giovani esterni D. Bosco sapeva raccomandarli ai medici di beneficenza, pronto anche a procurare soccorsi ai più indigenti, quando, erano curati in famiglia; quelli che erano stati trasportati agli ospedali indicavali alle suore infermiere ed ai dottori, perchè usassero loro speciali riguardi; gli uni e gli altri poi visitava con affetto di padre. In quanto ai giovani ricoverati in Valdocco egli fin da quest'anno volle che vi fosse il medico della casa e il primo fu il Dottor Vella, nativo di Cavaglia. D. Bosco portavagli grandissima affezione, come pure a suo, fratello che, mandato con altri chierici dalla Curia di Monsignor Fransoni, veniva ad insegnare il catechismo nell'Oratorio. Il Dottore si dedicò con grande affetto a quest'opera di carità, continuando fino al 1856, e cessando quando fu nominato professor di medicina nell'Università di Bologna. [257] Al Vella successero altri medici valenti, animati dello stesso suo spirito, dei quali faremo cara memoria nel corso della nostra narrazione; ma oltre questi, direi così, curanti ordinarii, furono centinaia di sanitarii che nel corso di quaranta e più anni gratuitamente, ad un invito di D. Bosco o de' suoi rappresentanti, di giorno e di notte, venivano a visitare e curare qualche alunno gravemente ammalato. Erano uomini di grande fama per sapere, esperienza, abilità nelle più difficili operazioni chirurgiche, occupatissimi da mane a sera; eppure, non ostante il grave incomodo, ringraziavano chi lì aveva chiamati, e si dicevano pronti a prestar l'opera loro ogni volta ve ne fosse bisogno. E i figli del popolo erano trattati del pari dei figli dei grandi signori. Tanto può la gentilezza d'animo unita alla carità cristiana. Onore ai medici di Torino! Non cesseranno le nostre preghiere e la nostra riconoscenza, perchè non solo le Sacre Carte ci insegnano: “Rendi onore al medico per ragione della necessità”, ma aggiungono esser desso un dono del Signore: “perchè egli è stato fatto dall'Altissimo”[21].

 

 

CAPO XXIII. Il giovane ebreo di Amsterdam - Suo incontro con D. Bosco nell'Ospedale - Sua storia - Una sua sorella si rende cattolica - Suoi dubbii religiosi - Causa della sua malattia - Conferenze con D. Bosco - Maneggi degli Ebrei per impedire la sua conversione - Battesimo e morte preziosa.

 

                NELL'ANNO 1847 e 1848 la Divina Bontà adoperò D. Bosco come strumento di una meravigliosa conversione. Un giorno andando egli secondo il consueto nell'ospedale di S. Giovanni, fu avvisato dalla Superiora delle monache, suor Serafina di Buttigliera, come fossevi entrato per curarsi un giovane ebreo in sui 23 anni, il quale mostrava propensione a farsi cristiano. D. Bosco diede alla suora prudenti regole per incominciarne l'istruzione, senza impegnarsi in controversie, e promise di prendersi a cuore quella povera anima. La suora intanto, per intrattenere piacevolmente il giovane ebreo, fra le altre cose prese a narrargli quanto sapeva intorno a D. Bosco, specialmente del suo amore ai giovanetti e quanto avesse operato ed operasse per essi in Torino. Il giovane ebreo ascoltava con meraviglioso e crescente diletto questi racconti, sicchè insensibilmente si accese di vivo desiderio di conoscere questo prete. Ed ecco un [259] bel giorno entrargli in camera suor Serafina, la quale aveva prima invitato D. Bosco, e dire all'infermo: “Vengo a darle una notizia che le farà piacere, io spero. In questo momento è giunto nei cameroni quel D. Bosco del quale abbiamo tanto parlato. Se desidera vederlo, conoscerlo, io lo introdurrò. È questa una visita che cagionerà a lei una grata distrazione”.

                Il giovane contentissimo disse alla suora: “Sì, sì, tanto volontieri!”. D. Bosco venne. Era quella una delle camere più nobili dell'ospedale. Il giovane che ancora avea tanto di forze da stare fuor di letto, era seduto. All'entrare del prete si alzò e si tolse rispettosamente il berretto che colla visiera gli celava il volto. Era di aspetto gentile, che svelava un'anima sofferente. D. Bosco alle prime interrogazioni conobbe aver quegli un'indole ottima e un cuore sincero; la prima sua visita fu breve, ma aperse la strada a molte altre che furono di lunga durata e di frutto consolante. Il giovane, appena conosciuto D. Bosco, sentissi animato di una simpatia tenera e profonda pel prete cattolico; quindi gli narrò tutta la sua storia.

                Si chiamava Abramo, era nativo di Amsterdam, ove abitavano i suoi parenti, ricchissimi di censo. Di grande ingegno, aveva fatti rapidi progressi nella scuola, ed essendo l'idolo della famiglia veniva largamente soddisfatto in ogni suo desiderio di divertimenti, teatri, convegni, agiatezze. Tuttavia egli erasi mantenuto sempre morigerato. Aveva una sorella maggiore della quale era amantissimo, di nome Rachele: nutriva ella segreto desiderio di farsi cristiana, e avendone trovato modo, o leggendo di nascosto ottimi libri che trattavano di religione, o essendosi incontrata con qualche persona cattolica, di istruirsi nella verità, veniva a poco a poco insinuando Pel fratello massime cristiane, senza però che egli se ne avvedesse. Rachele aveva qualche anno di più di [260] Abramo, e, decisa di farsi suora della Carità, toccati i 17 anni, palesò al padre il suo pensiero, chiedendo licenza di andare in Francia. Il padre si sdegnò altamente, e non potendo smuoverla dal suo divisamento, non volle assolutamente permettergliene l'andata finchè non fu maggiorenne. Allora acconsentì che partisse per dove meglio le talentasse, ma diseredolla, non accordandole alcun sussidio per vivere. Però una sua zia, pur essa ebrea, mossa a compassione, la provvide della somma necessaria per costituirle la dote, onde potesse entrare tra le figlie di S. Vincenzo. Rachele andò a Parigi; ma Abramo, quando seppe che la sorella voleva farsi cattolica e suora, concepì per lei una profonda avversione, in gran parte cagionata dal crederla disamorata di lui. Tuttavia nel suo cuore stavano scolpiti sufficientemente i sentimenti cristiani, bastanti a tenere vivo un principio di dubbio sulla sua religione.

                La mamma sua noti tardò ad avvertire questo dubbio e per mantenerlo costante nella fede ebraica andavagli spesso raccontando le ridicole e paurose favole del Talmud, minaccianti terribili castighi agli Ebrei che mutassero religione. Abramo però si mostrava incredulo e andava ripetendo: “Ma che cosa debbo temere da quella maga, che voi mi dite, vivesse già fin dai tempi di Adamo? Se ancora esiste, come voi mi assicurate, deve esser ben vecchia e quindi ha poca potenza di farmi del male”. Il padre, che era superstizioso all'eccesso, vedendolo sempre più allontanarsi dalle sue opinioni, anzi talora deriderle, fece venire un dotto Rabbino che lo persuadesse colle sue ragioni. Ma Abramo, che era di sottile ingegno, questionò specialmente sul punto capitale del regno eterno promesso da Dio a David e chiedeva ove fosse questo regno nei tempi presenti. Chiedeva pur sempre e ripeteva: “Sta scritto nei libri di Mosè che non [261] sarà tolto lo scettro da Giuda e il Capitano dal suo fianco, finchè non venga il Messia. Ora se il Messia non è venuto, dove è il nostro regno di Giuda?  E se il regno di Giuda è stato tolto, non è egli segno che il Messia è già venuto?”. Il Rabbino, per quanto si sforzasse, non riuscì a soddisfarlo.

                Il padre, che lo amava come figlio prediletto, vedendolo sempre agitato e desideroso d'istruirsi nella religione lo mandò ai ministri protestanti, perchè vedessero essi di sciogliere le sue obbiezioni, persuaso che lo avrebbero potuto appagare senza che abbandonasse le credenze nelle quali era nato. Costoro si adoprarono a trarlo nella loro setta; al giovanetto però non sembrava religione una società senza sacrificii, senza riti solenni, senza unità, senza dottrine certe. Quegli sciagurati allora, per convertirlo, lo incamminarono nella strada del vizio, e pur troppo egli cadde in quel laccio. Conseguenza però del disordine fu una lenta malattia di petto, della quale, quando Abramo provò i primi sintomi, riconoscendone la causa nei perfidi consigli dei Protestanti, si accese di odio verso il Cristianesimo. Fece quindi amare lagnanze col padre perchè avevalo indirizzato ai ministri. Ma il padre gli rispondeva: “Hai voluto conoscere il Cristianesimo, e quelli ne sono i maestri”. Ad Amsterdam infatti tutto ciò che avea nome di Cristianesimo era protestante. Tali i tribunali, i templi, la società. I Cattolici erano pochi e sconosciuti, anzi il loro nome e quello della Religione nostra santissima non aveva mai risuonato al suo orecchio. Abramo era quindi persuaso che la sorella Rachele coll'essersi fatta cristiana appartenesse ai protestanti.

                Persistendo intanto quel malore, i parenti decisero di provare modo di guarirlo sotto la cura dei più esperti medici; lo mandarono perciò a Vienna, ove si trattenne qualche tempo in quegli ospedali, trattato con ogni lautezza, perchè [262] il padre non guardava a spese. La malattia però proseguendo il suo corso, si credette conveniente tentare se gli fosse di giovamento prima l'aria di Innsbruch e poi quella di Torino. Le prove non riuscirono, e la polmonite risolvevasi in vera etisia. In sulle prime fu accolto premurosamente in una casa di ricchi Ebrei, i quali però, temendo per i loro ragazzi, lo mandarono a Chieri. Ma qui peggiorando ritornò a Torino presso quei suoi parenti, i quali dopo qualche giorno finirono col metterlo nell'ospedale di S. Giovanni, affittando una stanza.

                Fu allora che ebbe la fortuna di incontrarsi con D. Bosco, il quale le prime volte che lo visitò non gli parlò punto di religione, ed entrò in argomento solo quando fu sicuro della sua affezione. Abramo conobbe allora il suo errore intorno al Cristianesimo, che aveva confuso con una setta di protestanti e restò ammirato della bellezza del Cattolicismo. Gli Ebrei però seppero delle visite prolungate di D. Bosco e si misero in guardia per impedire quella conversione. Da quel punto riuscì difficile parlare con Abramo di religione, e D. Bosco rare volte potè ancora avvicinarlo. Gli erano state messe ai fianchi due serve che lo sorvegliassero continuamente, l'una di giorno, l'altra di notte. Abramo era angustiato, desiderando sempre più d'istruirsi, quando si avvide che una di quelle serve parlava solamente il francese, l'altra il francese e il tedesco. Conoscendo egli a perfezione eziandio la lingua inglese, comunicò quella scoperta a suor Serafina, la quale sapeva pure l'inglese, e rimasero d'accordo di continuare l'istruzione religiosa in quella lingua, sicuri di non essere intesi. D. Bosco dirigeva la suora nel modo di procedere in quel catechismo, dandole a leggere le Discussioni dirette agli Ebrei di Paolo De Medici e Gli Ebrei del Teol. Vincenzo Rossi di Mondovì: due opere, nelle quali sono [263] esposti gli argomenti per convincere gli Ebrei che il Messia cioè Gesù Cristo è venuto. Le due serve presenti a quei dialoghi, benchè non intendessero parola, sospettarono e fecero rapporto ai padroni, i quali avevano dal padre l'incarico di impedire assolutamente ad Abramo di farsi cattolico. Quindi vollero che fosse trasportato a Chieri; ma la ripugnanza che vi era nelle famiglie ebree di Chieri per quella infermità, non potè esser vinta dalla prospettiva di un grosso lucro, e consigliò a lasciarlo nell'ospedale di S. Giovanni. Intanto la malattia precipitava, gli Ebrei stavano all'erta, e il padre avvertito ordinò che a qualunque costo, o vivo, o morto, il figlio fosse mandato ad Amsterdam. Ma i medici si opposero risolutamente a ciò che essi chiamarono omicidio, dicendo non esservi più nessuna speranza di guarigione, e che per la debolezza il giovane sarebbe morto prima di tempo a causa del viaggio. Gli Ebrei di Torino sull'ultima ora vedendo che non poteva più guarire e vinti dal superstizioso terrore che hanno dell'avvicinare i morenti, lo abbandonarono, poco curandosi di guardarlo dai Cristiani. Colto il momento opportuno D. Rossi cappellano lo battezzò, lo comunicò, gli diede l'Olio santo a due ore dopo mezzanotte. Gli Ebrei nulla seppero. D. Bosco alcuni giorni dopo andava per visitarlo ma s'imbattè nella corsia in un convalescente che lo chiamò.

                - Va forse a far visita al giovane Abramo?

                - si.

                - È morto ieri sera!

                Sei mesi aveva durato infermo in quell'ospedale.

                Quando D. Bosco fu a Parigi nel 1883, andato a far visita alle suore di Carità, chiese se in quella casa si trovasse ancora una suora di Amsterdam che prima era Ebrea.

                - Sì, sì, c'è ancora, rispose la suora portinaia: Rachele [264]

                - Or bene, le direte che io debbo darle ultime notizie di suo fratello.

                - Suo fratello? È morto da un pezzo.

                - Lo so, ma si può dire che è morto col capo appoggiato a questo braccio.

                - Dunque è morto cattolico? La sorella lo seppe che si era fatto cristiano; ma fu una voce vaga, nulla di certo.

                - Io posso assicurarla di certa scienza! Quando potrò vedere suor Rachele?

                - Ritorni domani a dirci la santa Messa ed io parlerò alla Superiora. Quanto sarà contenta suor Rachele!

                All'indomani D. Bosco non mancò. Grande fu la gioia della buona sorella in quell'abboccamento. Aveva innanzi quel sacerdote che il Signore aveva destinato per compiere la salvezza eterna del suo caro fratello, e veniva a sapere che il seme da essa sparso tanti anni innanzi aveva dati i suoi frutti di vita eterna. D. Bosco celebrò Messa e predicò, e tutte quelle buone suore passarono con Rachele un giorno di vera festa.

 

 

CAPO XXIV. Bisogno di un secondo Oratorio festivo - Accordo di due amici - Suggerimento di Monsignor Fransoni - Il capitano in cerca di una posizione strategica - Un colpo di fulmine - Le api e l'annunzio del nuovo Oratori - Visite - Le lavandaie inferocite e poi ammansate.

 

                QUANTO più D. Bosco e l'incomparabile suo aiutante, il Teologo Borel, e gli altri loro coadiutori davansi sollecitudine nel promuovere l'istruzione scolastica e religiosa nell'Oratorio di S. Francesco di Sales, altrettanto più cresceva il numero dei giovanetti, che lo frequentavano. Nel giorno di festa erano questi in sì grande folla, che una parte appena poteva raccogliersi nella cappella; laonde in tempo delle sacre funzioni era mestieri trattenerne un ducento e più nelle scuole, o in un angolo del cortile. Questo poi, sebbene non affatto ristretto, era divenuto nondimeno insufficiente al libero divertirsi; imperocchè ei ti pareva una piazza d'arme, nella quale pei troppo fitti soldati torni pressochè impossibile fare gli esercizii militari senza pigiarsi, urtarsi l'un coll'altro, o darsi delle involontarie sciabolate. Occorreva quindi un provvedimento.

                Una festa del mese di agosto, dopo le funzioni della sera,

                Don Bosco prese il Teol. Borel in disparte e così gli parlò: [266] Da qualche Domenica in qua, ed oggi sopratutto, V. S. avrà osservato lo sterminato numero di giovanetti all'Oratorio: non sono meno di ottocento. Come vede, in chiesa non istanno più tutti, e gli altri si premono che è una compassione. Nel cortile poi che ne diciamo? Ad ogni istante l'uno cade sopra l'altro; sembra il giuoco dei mattoni. E più andiamo innanzi e peggio sarà. Diminuirne il numero col metterne fuori una parte non conviene, perchè sarebbe come un lasciarli, anzi esporli al pericolo di perdizione. Come fare adunque, signor Teologo?

                - Ho veduto tutto, rispondeva questi, e mi sono convinto che un sito, il quale da principio pareva abbastanza spazioso, si fece ormai ristrettissimo; ma dovremo di bel nuovo levare le tende, ed emigrare altrove, come fanno tutti gli anni le grue e le rondinelle?

                - A me pare, riprese D. Bosco, che potremo rimediare in altro modo. Da varie domande fatte sono venuto a conoscere che un buon terzo di questi ragazzi vengono qui sin da piazza Castello, da piazza S. Carlo, da Borgo Nuovo e da S. Salvario, facendo chi uno e chi due miglia di cammino. Or se noi aprissimo un secondo Oratorio da quelle parti, non le sembra che otterremmo egualmente il nostro intento pur rimanendoci qua?

                A questa uscita di D. Bosco, il savio Teologo stette alquanto a pensare, e poi con un' aria di gioia: optima propositio, esclamò, ottima proposta. In questo modo noi conseguiremo due vantaggi: diminuendo il numero dei giovani di quest'Oratorio potremo coltivar meglio i rimanenti e intanto ne tireremo al nuovo Istituto altri molti, i quali ora non si portano a questo, perchè troppo lontano. Dunque mettiamoci all'opera. - Così l'accordo dei due amici era perfetto. [267] Anzitutto fin dal domani D. Bosco si presentò a Monsignor Fransoni, e gli espose il bisogno ed il progetto di un secondo Oratorio per le adunanze festive, domandando l'appoggio del suo illuminato consiglio. Il degnissimo Arcivescovo lodò ed approvò il saggio divisamento, e conoscendo il bisogno della popolazione che gli era affidata, suggerì che l'impianto del nuovo Istituto si facesse al mezzodì della città.

                Confortato dalle parole del venerato Pastore, D. Bosco andò ad esporre il suo disegno eziandio al Curato della Madonna degli Angioli, e questi non solo ne fu contento, ma promise che lo avrebbe aiutato il più largamente che gli fosse possibile. Rassicurato da questa risposta si condusse un giorno nelle parti di Porta Nuova, e visitò parecchi siti di quei dintorni. Dopo aver bilanciato i motivi di maggiore o minore opportunità dell'una e dell'altra posizione, deliberò di scegliere un sito sul così detto Viale del Re, ora Corso Vittorio Emanuele II, nelle vicinanze del Po. Quel luogo è presentemente coperto di magnifici palazzi, intersecati da spaziose vie e deliziosi giardini; ma in quel tempo non era che un vasto gerbaio, con alcune casupole sparse qua e colà in disordine e senza disegno, abitate generalmente da lavandaie. Essendo una regione libera e come fuori di città, ombreggiata inoltre ne' suoi dintorni, prestavasi molto a pubblici convegni. Sopratutto nei giorni festivi radunavansi colà nugoli di giovinetti a fare i monelli, molti dei quali vi duravano nel tempo stesso del Catechismo e delle funzioni parrocchiali, crescendo nell'ignoranza delle cose religiose e nella scienza di ogni malizia. Era quindi luogo molto adattato per lo scopo che si prefiggeva D. Bosco, il quale da esperto capitano lo elesse appunto quale posizione strategica per istabilire i suoi accampamenti. [268] Sorgeva colà presso una casetta, con una misera tettoia ed un cortile. Domandato di chi fossero, seppe che ne era proprietaria una certa signora Vaglienti. Egli pertanto andò a trovarla, ed espostole lo scopo di sua visita, la pregò che volesse affittargli quel locale. La buona signora si mostrò disposta al contratto, ma non potevasi accordare sull'annuo prezzo della pigione. Dopo un lungo disputare si correva ormai pericolo di rompere le trattative, quando un caso singolare venne a togliere ogni difficoltà. Il cielo era rannuvolato. In quell'istante si fa sentire un colpo di fulmine così gagliardo da mettere in grande turbamento la pia signora, la quale voltasi a D. Bosco gli disse: - Iddio mi salvi dal fulmine, e io le concedo la casa per la somma che lei mi esibisce.  Io la ringrazio, rispose D. Bosco, e prego il Signore che la benedica ora e per sempre. - Dopo alcuni momenti cessa il rumoreggiare del tuono, si estinguono i lampi, e il contratto viene stipulato a lire 450. In tal guisa anche il fulmine mostravasi propizio a D. Bosco, facendogli da mediatore benevolo.

                Licenziati gl'inquilini, furono tosto mandati i muratori a preparare la cappella. Intanto D. Bosco una Domenica, raccolti intorno a sè i giovani, dava loro l'annunzio, che presto si sarebbe aperto un secondo Oratorio. È tuttora ricordata la graziosa similitudine, che usò nel comunicare la grata novella.

                - Miei cari figliuoli egli disse, quando le api si sono moltiplicate di troppo in un alveare, una parte di loro se ne esce, costituisce un'altra famiglia, e vola ad abitare altrove. Come vedete, qui siamo tanti, da non sapere più dove rivoltarci. Nella medesima ricreazione di tratto in tratto or l'uno or l'altro è sospinto, cacciato a terra e ne porta insanguinato il naso. In cappella poi stiamo pigiati come le acciughe. Allargarla a colpi di schiena e di spalla non ci [269] conviene, che potrebbe caderci addosso. Che faremo adunque? Noi imiteremo le api: formeremo una seconda famiglia, e andremo ad aprire un secondo Oratorio.

                Queste parole furono accolte da un grido di gioia. Lasciato calmare alquanto il giovanile entusiasmo, il buon Sacerdote riprese la parola e disse: - Ora voi sarete curiosi di sapere dove si aprirà il nuovo Oratorio, e quali di voi lo dovranno frequentare; vorrete sapere quando si aprirà, se presto, se tardi; e qual nome gli sarà dato. Fate silenzio e risponderò in breve. - L'Oratorio sarà impiantato verso Porta Nuova, a poca distanza dal ponte di ferro, sul Viale del Re, detto anche viale dei platani, da cui è fiancheggiato. Quindi dovranno frequentarlo quelli di voi, i quali abitano in quelle parti, sia perchè più vicini, sia perchè col loro esempio vi attirino altri giovani di quei dintorni. - Quando lo si aprirà? - Presentemente gli operai già stanno eseguendo i lavori per la cappella, e io spero che nel giorno otto del prossimo dicembre, festa dell'Immacolata Concezione di Maria, noi potremo benedirla. Così, come questo primo, noi apriremo il secondo Oratorio in un giorno consacrato alla gran Madre di Dio, mettendolo sotto la valida sua protezione. - E qual nome gli daremo noi? - Lo chiameremo Oratorio di S. Luigi, per due ragioni: la prima si è per dare ai giovanetti un modello d'innocenza e di ogni virtù da imitare, quale si è appunto S. Luigi Gonzaga, propostoci dalla Chiesa stessa; la seconda per riconoscenza e gratitudine al veneratissimo nostro Arcivescovo Monsignor Luigi Fransoni, il quale tanto ci ama, ci benefica, ci protegge. Vi piace? Siete contenti? - Una fragorosa salva di Sì fu la risposta, seguita da ripetuti Evviva S. Luigi, Evviva l'Oratorio di Porta Nuova, Evviva D. Bosco. Non vi fu mai plebiscito più innocente, più lieto, più unanime. [270] Tale notizia, portata dai giovanetti in seno alle loro famiglie, scuole e laboratorii, fece ben tosto il giro del quartiere. Quindi di quando in quando drappelli di fanciulli si portavano a visitare il sito del nuovo Oratorio, e vedendo come fosse ben adattato ai loro graditi trastulli, ne andavano in gioia, e loro pareva ogni giorno mille che venisse aperto. Per siffatta guisa alcune settimane innanzi alla sua inaugurazione l'Istituto era già per quelle parti conosciutissimo.

                Non a tutti però tornò gradita la deliberazione presa da madama Vaglienti. In quel sito alcune lavandaie avevano la loro abitazione, lo stenditoio e i mastelli per il bucato. Appena seppero che D. Bosco aveva affittato quel locale, per farne un Oratorio, divennero siccome furie, e, riscaldatesi l'una coll'altra, risolvettero di assalire in corpo il povero Prete, e colle ingiurie e colle minacce costringerlo a disdire il contratto. Pertanto un giorno che D. Bosco colla signora Vaglienti erasi recato a visitare le camere appigionate per vedere il da farsi secondo il bisogno, ecco a circondarlo una dozzina di quelle donne. Rosse in faccia come altrettanti gamberi, cogli occhi scintillanti per rabbia e furore, colle braccia inarcate sui fianchi, a guisa di spiritate presero ad eruttare sopra di lui una lava d'ingiurie ed imprecazioni, che non mai l'eguale. Prete senza cuore e senza carità, che male le abbiamo fatto noi, perchè ci venga a cacciare via da questa casa? - Non vi sono in Torino altri luoghi più liberi per farvi il monello coi bricconi e coi ladri? Sarebbe meglio che si rompesse il colto. - Che le venisse un accidente. - Vada alla malora lei ed il suo Oratorio. Se non va, sapremo cacciarnelo: abbiamo buone mani, sa, e sapremo lavarle la faccia; e in così dicendo gliele mostravano in atto minaccioso. - Don Bosco per acquetarle, ascoltate, diceva, ascoltate, buone donne. - Non vogliamo [271] ascoltare niente affatto, gridavano quelle: ci lasci stare queste camere; vada via di qua, o lo faremo portare più morto che vivo. - Qualcuna difatto più inviperita alzava già la mano sopra il mal capitato D. Bosco, quando madama Vaglienti fattasi innanzi: “Voi v'ingannate, disse, mie care inquiline: voi credete che questo Sacerdote venga qui per togliervi il pane, ed invece egli viene per darvene. Piantando in questi luoghi un Oratorio, e poi un Collegio di giovani, egli vi darà biancheria da lavare, calze da pulire, camicie e lenzuola da rappezzare, e via dicendo. Perchè dunque ve la prendete contro di lui, mentre invece dovreste ringraziando? In quanto poi all'alloggio, io stessa ve ne cercherò un altro qui vicino. Così voi sarete egualmente presso il Po, godrete la medesima comodità di lavare ed esporre al sole i vostri bucati, e nel tempo stesso avrete più lavoro e maggior guadagno”.

                Questa savia parlata della padrona fu come una manata di sabbia sopra due sciami di api in lotta tra loro, o meglio come uno spruzzo d'acqua benedetta sopra uno stormo di spiriti folletti. Le lavandaie cominciarono a tacere, poi a udire ragioni, infine a domandare perdono delle loro insolenze, e per allora lasciarono in pace D. Bosco e il suo Oratorio.

                Ma ben altre battaglie si stavano preparando più pericolose ed aspre; e non solamente contro D. Bosco ed il suo Oratorio.

 

 

CAPO XXV. Congedo del Ministro La Margherita - Supplica al Re per l'emancipazione dei Valdesi e degli Ebrei - Pubblicazione delle prime Riforme civili - Libertà di stampa Entusiastiche dimostrazioni popolar; - Avvisi dell'Arcivescovo al clero e ai fedeli - D. Bosco benchè invitato non prende parte alle dimostrazioni - Processioni mensili in onor di S. Luigi e l'amore alla Chiesa tenuto vivo nei giovani - D. Bosco presso Mons. Fransoni - I Seminaristi.

 

                LA LETTERA scritta dal Re al Conte di Castagnetto svelava decisioni prese. Infatti il 9 ottobre il Conte La Margherita, l'unico dei Ministri che non adulasse il Sovrano, fu congedato dal Ministero e nel governo ebbero pieno trionfo i liberali rimanendo padroni del campo. Carlo Alberto non tardò ad accorgersi del suo errore, ma troppo tardi.

                Di questo si vide subito un primo effetto. Il Marchese Roberto d'Azeglio, fratello del Conte Massimo, si fece capo di una sottoscrizione, sollecitando quanti erano amici della libertà di ricorrere al Re e domandargli che gli Ebrei e i Valdesi cessassero di essere sottoposti a leggi speciali, fossero pareggiati agli altri sudditi, concedendo loro ciò che si chiamava [273] emancipazione. Non pochi, anche del clero, che non avevano badato alle espressioni ereticali scritte in quella supplica, si lasciarono accalappiare dalle parvenze di giustizia e di libertà. Eppure tali decreti erano stati sanciti per difendere i cattolici dalle seduzioni dei Valdesi, dalle rapacità degli Ebrei, e dall'intolleranza e dall'odio degli uni e degli altri.

                Il Marchese erasi rivolto eziandio al Vescovi, ma questi presentarono al Re una protesta contro la ragionevolezza del favore che s'implorava. D. Bosco pure fu sollecitato a porre la sua firma, facendoglisi osservare che si erano già sottoscritti sei canonici della metropolitana, dieci curati dalla città, e altri canonici, parroci e semplici sacerdoti in numero di cento. D. Bosco lesse quell'indirizzo e quindi rispose cori pacatezza:

                - Quando vedrò qui la firma dell'Arcivescovo, allora vi apporrò anche la mia! - La supplica ebbe poco più di seicento firme, non tutte di Torinesi, e fu poi presentata al Sovrano il 23 dicembre.

                Stretti al loro partito i Valdesi e gli Ebrei, si accinsero i liberali colle più vive istanze ad indurre Carlo Alberto a mettere in opera le desiderate innovazioni politiche e civili. Ma siccome il Re mostravasi irresoluto, i giornali stranieri, ispirati da Massimo d'Azeglio, incominciarono a parlare dell'influenza perduta dal Re del Piemonte e dell'opinione pubblica in Italia volta contro di lui. Carlo Alberto irritato e impaurito per quei biasimi e per quelle satire, si arrese, e dal 29 ottobre al 27 novembre pubblicava le prime Riforme contenute in una serie di editti. Comprendevano: Un magistrato supremo di cassazione; discussione orale nella procedura criminale; abolizione del foro e di giurisdizioni speciali per alcuni enti civili; trasferimento dal militare al civile delle attribuzioni di polizia; riordinamento del consiglio di Stato libertà ai comuni di eleggere tutti i proprii consiglieri [274] libertà di stampa con censura preventiva. In questo ultimo editto, pur dichiarando vietata la stampa di opere che offendessero la religione e i suoi ministri, o la pubblica moralità; non si fece conto della Revisione Ecclesiastica; e nel fatto si tennero sottoposte alla censura civile anche le pubblicazioni pastorali dei Vescovi, i catechismi e tutti gli altri libri religiosi e di chiesa, e la stessa Bibbia.

                I Vescovi reclamarono l'osservanza delle leggi sancite dal Concilio Lateranense V e dal Tridentino, non per loro vantaggio ma pel bene dei popoli, per la difesa della fede, per la sicurezza del trono, per la gloria del Re. Ma nulla ottennero e Mons. Andrea Charvaz offeso rinunziava alla sua diocesi di Pinerolo.

                Intanto dal 29 ottobre Torino fu in preda a un delirio di feste, e più mesi durarono le manifestazioni entusiastiche di tripudio per quelle riforme. Si incominciò con una splendida illuminazione spontanea combinata prima. Turbe immense di popolo vestite a festa, ornate sul petto di coccarde tricolori, con una selva di bandiere percorrevano le piazze e le vie acclamando, l'Italia, Carlo Alberto, Pio IX, Gioberti. Quasi ogni giorno serenate coi canti degli inni patriottici. I capi setta spargevano e allargavano quel movimento in tutte le classi operaie: ad ogni poco si tenevano pubbliche adunanze e banchetti; le società commerciali mandavano messaggeri al Re per offrirgli vite e sostanze qualora a difesa della patria volesse cavare la spada dal fodero. Carlo Alberto non poteva uscire di palazzo senza essere assordato dalle grida di plauso e dai battimani. Il 2 novembre partendo egli alla volta di Genova, dove aspettavanlo altri chiassosi trionfi, fu accompagnato dalla moltitudine fino al Po con fiori e sbandierate. Altra luminaria generale si accese pel 4 novembre onomastico del Re, e si cantò un solenne Te [275] Deum nella chiesa del Miracolo. E l'anima di tutte queste ed altre scaltrissime evoluzioni fu Roberto d'Azeglio.

                Mons. Fransoni vedendo allora che a molti ecclesiastici anche provetti si era appigliato l'ardor febbrile di novità, di sottoscrizioni e feste civili, e con lodi esagerate levavano al cielo le Riforme, Carlo Alberto, e Pio IX, l'undici novembre con un avviso pubblicato nelle sagrestie, cominciò col vietare al clero di prendere parte alle dimostrazioni politiche, dicendo fra l'altro che i ministri della Chiesa debbono essere i primi a dimostrare la loro devozione al Re, ma non già con secolareschi festeggiamenti, sibbene coll'osservare premurosamente i doveri che ad esso li legano. - E il 13 novembre con una circolare ai parroci, data licenza di cantare il Te Deum se ne fossero richiesti, ingiungeva loro di esporre al popolo: che il modo di rendere grazie al Signore e averlo propizio alle nostre preghiere si è, liberar l'anima dalla schiavitù del peccato: nè potersi sperar bene da chi, mentre si fa promotore di qualche sacra funzione, sprezza le leggi ecclesiastiche esservi sempre stati di tali che per celare le loro opere malvagie si coprono del manto di religione.

                A questo franco parlare rumoreggiavano contro il santo prelato le recriminazioni tra i liberali, alle quali facevano eco un buon numero di ecclesiastici secolari e regolari con apprezzamenti che indicavano la mancanza in loro di una netta cognizione dei fatti. Si diceva essere Mons. Fransoni partigiano dell'Austria e de' Gesuiti, nemico dell'Italia, osteggiatore dello stesso Sommo Pontefice che era acclamato e benedetto da tutto il mondo. Si spargeva a Voce e a stampa che Pio IX sarebbe stato il capo e il centro della lega Italica; che si era alleato con Carlo Alberto, del quale era nota la grande pietà, per la cacciata degli Austriaci; e che [276] gli aveva mandata in dono una spada da sè benedetta e col motto cesellato: In hoc gladio vinces, e altre panzane di simil conio.

                Fra i critici di Monsignore vi erano alcuni preti che sentendo il peso della disciplina ecclesiastica, speravano fosse venuto il tempo di scuotere il giogo dell'autorità episcopale; vi erano religiosi che facevano combriccole manifestando desiderii di riforme interne nei loro conventi, di mutazioni di qualche regola un po' austera, di temperamento all'autorità, del Superiore, di un regime popolare di maggior libertà e che poi furono dimessi o chiesero d'uscire di Congregazione.

                Ma il clero pio, laborioso, e seriamente occupato nel sacro, ministero era coll'Arcivescovo.

                Fra tanti vaneggiamenti spiccava brillantemente l'esimia prudenza di D. Bosco, fermo di non prendere mai parte, o, da solo o co' suoi giovani, alle dimostrazioni di piazza. Egli vedeva chiaro, che sotto il colore di libertà si mirava a sommuovere i popoli contro i diritti di tutti i legittimi princìpi e in modo speciale contro quelli del Romano Pontefice. Perciò non si mostrava favorevole alle innovazioni politiche, ma si asteneva egualmente dall'opporvisi con atti o parole ostili. Era suo programma, diceva, fare il bene, il solo bene e a qualunque costo. Tuttavia non potè mantenere senza molestie il suo proposito. Persone autorevoli ed influenti sapendo che egli poteva disporre di tante centinaia di giovani, fra i quali un bel numero di adulti, lo invitarono ad accrescere con quelli le turbe che accorrevano alle feste ed alle sfilate; ma egli non ostante le profferte, le insistenze e i rimproveri, sempre ricusò.

                Un giorno incontrossi con Brofferio, il quale gli disse: Domani in piazza Castello è già fissato il posto per lei e per i suoi giovani. - E se io non andassi, rispose D. Bosco, [277] vi saranno altri che l'occuperanno. Io ho affari urgentissimi che non permettono dilazioni.

                - Ma crede forse che ci sia dei male nel dar una pubblica testimonianza del proprio amore alla patria? osservò Brofferio con un leggero tono sarcastico.

                - Io credo niente; ma le faccio osservare che sono un semplice prete, senza autorità riconosciuta dai poteri dello Stato ed il cui ufficio si limita al predicare, confessare e fare il catechismo. Io non posso esigere ubbidienza dai giovani fuori della mia cappella, e quindi non è possibile che mi prenda responsabilità in circostanze così solenni.

                Intanto D. Bosco preparava dimostrazioni e sfilate di altro genere. Il due settembre aveva comprato per 27 lire una statua di Maria SS. Consolatrice col suo piedestallo, e deliberò che in quell'anno e nell'anno successivo si portasse processionalmente nel dintorni dell'Oratorio quando ricorrevano le feste principali della Gran Madre di Dio Stabilì eziandio che in onor di S. Luigi la prima Domenica di ciaschedun mese si facesse una bella processione nel recinto dell'Oratorio, fissando per l'esercizio mensile della Buona Morte l'ultima Domenica. Questo esercizio fu arricchito da Pio IX con una Indulgenza Plenaria applicabile alle Anime sante del Purgatorio, e a tutti quelli che intervenissero alla processione furono concessi 300 giorni. Ora mentre in città s ventolavano per le vie mille bandiere, e musiche e canti erano eccitati da passioni patriottiche, nell'Oratorio schiere di giovani, seguendo umili gonfaloni, uscivano dalla chiesuola colla piccola statua di S. Luigi tra gigli e fiori, giravano intorno all'orto di mamma Margherita cantando le glorie dell'innocenza e della purità e ritornavano davanti all'altare per essere benedetti dal Divin Salvatore. La processione mensile si fece regolarmente per un anno o poco [278] più, cioè per tutto il tempo che durarono le dimostrazioni in città. - Queste e altre pratiche di pietà, che erano assolutamente necessarie in que' giorni, fecero un bene immenso, e D. Bosco stesso si meravigliava nel vedere come i giovani si lasciassero da esse attirare. Ogni arte, come vedremo, la più lusinghiera, la più atta a colpire la fantasia, ad irritare gli affetti patriottici, ad accendere le passioni adoperavasi dai settarii, per rappresentare la Chiesa come nemica della libertà e del benessere dei popoli. Quindi per più anni in molti dei popolani si dovette deplorare mancanza o languore di fede; e irriverenza, anzi avversione contro i Vescovi e i Sacerdoti. Non si può formare idea fino a qual punto giungessero le vertigini delle teste riscaldate. D. Bosco diceva umilmente a D. Turchi Giovanni: - Quanto sono contento d'esser sacerdote! Se non fossi tale, che cosa mai sarebbe stato anche di me in que' tempi? - Ciò che sentiva eragli norma per far giungere al cuore dei giovani la sua parola, dissipare i pregiudizii, insegnare la verità, tenere acceso in essi l'amore alla religione.

                Tutte queste cure non lo distoglievano dal prendere parte alle angustie e ai dolori di Mons. Fransoni, e siccome per lui vi era sempre portiera alzata nel palazzo Arcivescovile, negli ultimi mesi del 1847 e nei primi del 1848 vi si recava tutte le sere verso le 5½ e vi rimaneva fino alle 8. Sovente il giovane Francesco Picca venendo dalle scuole di Porta Nuova lo incontrava, ed era invitato da lui ad accompagnarlo. - Ben volentieri, gli rispondeva: ma dove è incamminato?

                La risposta era quasi sempre la stessa: - Dall'Arcivescovo. - Quivi il giovane prete e il venerando Prelato s'intrattenevano sui gravissimi avvenimenti che si andavano succedendo con tanta rapidità; e D. Bosco era sovente [279] incaricato di missioni difficili e delicate, poichè eranvi tali che spiavano ogni parola, scritto, o passo dell'Arcivescovo.

                I tempi si facevano ogni giorno più tristi. Le Commissioni che dovevano vigilare sulla stampa permettevano che fossero impressi libri scellerati, lasciavano libera la via a tutti i più empi volumi e fascicoli stampati in Francia e in Svizzera, e non cercavano di interdire romanzi, commedie, tragedie, poesie piene di odio contro la Chiesa, che già da tempo si introducevano clandestinamente nelle case, nelle università e quando si - poteva anche nei conventi e nei seminarii. Nello stesso tempo i capi delle sette incominciavano a maneggiare l'arma strapotente del giornalismo e videro per i primi la luce l'Opinione, il Risorgimento la Concordia.

                Se ciò già tanto affliggeva Monsignore, più grave ancora gli fu un dolore, che direi quasi domestico. Si manifestava nei seminaristi un'inquietudine insolita, un'intolleranza di disciplina. Incontrato un giorno il nunzio Apostolico per le vie della città, non gli diedero quelle mostre di riverenza che erano doverose. La lettura di certi libri, il rumore di tante feste, i consigli clandestini dei mestatori avevano accesa ed esaltata anche la mente dei chierici. Avvezzi a non veder nelle cose oltre la corteccia, si erano lasciati sedurre dalle lustre di rispetto alla religione, che avevano saputo apporre i settarii a quel movimento nella sua origine, e chiamavano codini, gesuiti, pessimisti, uomini che non capivano nulla, quei sacerdoti i quali si adoperavano a farli rinsavire, pronosticando tutt'altro che giorni felici per la patria e per la Chiesa.

                Ed ecco il 4 dicembre essendosi preparata una grande ovazione a Carlo Alberto che ritornava da Genova, la maggior parte di essi decisero di pigliarvi parte. L'Arcivescovo ne fece loro severo divieto, dichiarando che avrebbe riputati indegni degli ordini sacri i chierici contravventori a' suoi ordini. Nello [280] stesso tempo aveva disposto che si lasciassero aperte le porte del Seminario, Ma circa 80 chierici uscirono a sera tarda e si unirono alla folla acclamante. Nella solennità poi dei Santo Natale Mons. Fransoni che Pontificava, ebbe l'ingrata sorpresa di vedere i suoi seminaristi schierati in presbitero, col petto fregiato di coccarde tricolori.

                A queste angoscie però dovettero recare qualche lenimento le preghiere e le comunioni dei giovani di Valdocco alla messa di mezzanotte e l'apertura dell'Oratorio di S. Luigi a Porta Nuova.

 

 

CAPO XXVI. Facoltà concesse dall'Arcivescovo per l'Oratorio di S. Luigi - Invito - Felice presagio - Apertura - Primo sermoncino - Il dono della madre - Rettifica di una data - Il primo Direttore - Insulti e sassate.

 

                IL SAC. GIOVANNI BONETTI così narra nel Cinque lustri di Storia dell'Oratorio Salesiano l'inaugurazione solenne dell'Oratorio di S. Luigi a Portanuova.

                “Avvicinandosi il tempo prefisso per la sua apertura, fu domandata a Monsignor Fransoni la facoltà di benedire la cappella del nuovo Oratorio, con quante altre occorressero a pro dei giovanetti; e lo zelante e sempre benevolo Arcivescovo le concesse amplissime e senza restrizione di sorta. Aveva delegato per quella benedizione il Curato della Madonna degli Angioli, che sì fece sostituire dal Teol. Borel.

                La Domenica precedente D. Bosco diede avviso che nella festa consecutiva avrebbe avuto luogo la inaugurazione dell'annunziato Oratorio, e invitò i giovani della parte meridionale della città a trovarsi fin dal mattino per tempo sul luogo già loro ben noto; che si sarebbe data comodità di confessarsi; poscia benedetta la cappella; celebrata la Messa e distribuita la santa Comunione a chi vi si fosse preparato.

                Sì, portatevi numerosi e divoti, miei cari figli, ci disse, [282] perchè si tratta di onorare degnamente la Immacolata ed Augusta Regina del Cielo, e Madre nostra carissima; si tratta di pregarla che si degni di volgere i suoi occhi benigni sopra il nuovo Oratorio, prenderlo sotto il suo manto, proteggerlo, difenderlo, farlo prosperare per la salute di tanti giovanetti. Coloro poi, che sono di queste regioni, facciano altrettanto nell'Oratorio di S. Francesco di Sales. Così in quel giorno memorando noi formeremo come due famiglie, le quali, quantunque separate di corpo, saranno nondimeno unite di spirito nel celebrare in due parti opposte di Torino la più santa, la più amabile delle creature, la gran Madre di Dio, stata sempre pura ed immacolata.

                Usciti di chiesa una turba di giovani furono attorno a D. Bosco e al Teol. Borel, e chi prometteva di condurre al nuovo Oratorio il parente, chi il vicino, chi il compagno; laonde i due Sacerdoti ebbero un felice presagio che per bontà di Dio l'opera loro non avrebbe fallito.

                Alla vigilia della festa la cappella da dedicarsi a S. Luigi era allestita. Un quadro del Santo, candellieri, candele, tovaglia, camice, pianeta, piviale, panche, inginocchiatoi, non che un piccolo armadio con una mensa ad uso di sacrestia, erano stati provveduti dalla carità di parecchi benefattori e benefattrici, che costituivano in allora i così detti Cooperatori di D. Bosco. La massima parte dei sacri paramenti vennero ricamati colle stesse loro mani da alcune pie signore. Quei pochi oggetti che ancor mancavano per le sacre funzioni vennero portati dall'Oratorio di S. Francesco di Sales, o pigliati ad imprestito dalla vicina parrocchia.

                L'otto dicembre 1847 era finalmente spuntato in mezzo alla neve, che cadeva turbinosa e fitta. Compievasi in quel giorno il terzo anniversario dacchè D. Bosco presso l'Ospedaletto della Marchesa Barolo benediceva in onore di S. Francesco [283] di Sales la prima cappella del nostro Oratorio, che da quel tempo prendeva il nome dal dolcissimo Santo, e dilatavasi in modo sorprendente. Come a certa prova che questo secondo avrebbe pure, come il primo, arrecato immenso vantaggio alla gioventù ed avuta la stessa felicissima sorte, Iddio dispose che gli si desse principio nella medesima circostanza, cioè in un giorno sacro alla Vergine Immacolata, vigile custode e sostegno potente delle opere più belle. Anche le bianche falde, che dal cielo cadevano, furono di lieto augurio. Parve difatto che il Signore volesse con ciò indicare che i giovanetti di questo Oratorio si sarebbero col tempo moltiplicati come i fiocchi di neve, il cui candore fosse altresi quale un simbolo di quella innocenza, che verrebbe nelle anime loro conservata o ricondotta. Il Santo ancora, che si prendeva a titolare ed esempio, era pure alla sua volta un'arra sicura di un tanto bene. Che queste non fossero illusioni l'evento lo comprovò in appresso.

                Il tempo cattivo non trattenne i giovani dal recarsi a nuovo Oratorio in numero grande. Al mattino circa le sette parecchi già vi si trovavano per confessarsi, e intorno alle otto la cappella erane piena. D. Bosco dovendo attendere all'Oratorio in Valdocco, la funzione venne eseguita dal Teologo Borel. Ei benedisse la chiesetta, celebrò la Messa, dopo la quale voltosi sull'altare fece un breve e cordiale sermoncino, che in sostanza fu questo.

                - Io non posso qui contenermi, o giovani carissimi, dal manifestarvi la immensa, gioia, che m'innonda il cuore, in questo momento avventurato. - Dette queste parole il buon Teologo si fermò un istante, perchè la commozione gli tolse la voce: egli piangeva di consolazione. Ripigliato poscia il suo dire continuò: - Il tempo ed il freddo non vi hanno scoraggiati. La divozione alla Madonna, e l'amore al vostro [284] nuovo Oratorio vi scaldarono il cuore, traendovi qui divoti e numerosi. Parecchi avete pur fatta la santa Comunione; tutti udiste la Messa con particolare raccoglimento. Io ne godo molto, e nel tempo stesso apro il cuore ad una grande speranza. Sì, io spero che voi continuerete a portarvi qui con assiduità e buon volere. Spero che col vostro esempio e savii consigli vi condurrete ancora molti altri compagni. Spero che questo Oratorio di S. Luigi sarà degno fratello di quel di S. Francesco, e che ambidue guadagneranno molte anime a Dio. Oh! la Vergine Immacolata, nella cui festa abbiamo dato incominciamento a quest'opera, ci aiuti, ci protegga, ci difenda.  E qui fattosi strada, e colta la circostanza del giorno, egli esortò i giovani a fuggire il peccato, e a praticare soprattutto la virtù della purità, proponendo per modello S. Luigi, della cui vita raccontò alcuni fatti edificanti.

                Finito il discorso, si recitarono alcune preghiere, si cantò la giaculatoria: Sia benedetta, e si uscì di chiesa con ordine e silenzio. Alla porta i giovanetti trovarono persona appositamente incaricata di distribuire a ciascuno una pagnottella ed una fetta di salame, che tutti ricevettero di buon rado, quale un dono, che loro faceva la Madre celeste, e mangiarono con singolare appetito per esser l'ora già alquanto avanzata.

                Credo inutile il fermarmi a dire dell'andamento festivo di questo Istituto. Basta il notare che vi fu introdotto il regolamento dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, ed ogni cosa facevasi e si fa collo stesso metodo”.

                Fin qui la narrazione di D. Bonetti, il quale, come abbiamo letto, fissa al giorno 8 dicembre l'apertura dell'Oratorio di S. Luigi e la stessa data troviamo nel dizionario di Goffredo Casalis, Articolo Istituti di beneficenza, Voi. XXI, anno 1851. [285] Ma sorge una grave difficoltà, perchè il Decreto di Monsignor Fransoni, che delega il Curato della Parrocchia della Madonna degli Angioli a benedire la cappella di detto Oratorio e concede la facoltà di celebrarvi quindi la santa Messa, porta in tutte lettere la data del diciotto dicembre mille ottocento quarantasette. E non si può credere che vi sia stata una licenza antecedente a voce, perchè D. Bosco nella relazione storica manoscritta sulla Pia Società di S. Francesco di Sales, mandata alla santa Sede nel 1864 per ottenere la prima approvazione, dice chiaramente che il Superiore Ecclesiastico con Decreto del 18 Dicembre 1847 concedeva la facoltà di aprire un novello Oratorio dedicato a S. Luigi. Non è dunque ammissibile che siasi celebrata la santa Messa prima di ottenere la debita autorizzazione Come andò pertanto la cosa? Crediamo che il Sac. Bonetti abbia confusi insieme due fatti. L'apertura e l'inaugurazione dei locali dell'Oratorio può benissimo aver avuto luogo nella sera della festa di Maria SS. Immacolata, mentre al mattino i giovani di quella regione erano andati al solito a fare le loro divozioni nell'Oratorio di Valdocco; nelle due Domeniche seguenti al dopo pranzo si saranno radunati nella cappella non ancor benedetta, per il catechismo e per la predica; e ciò per noti dover recarsi in Valdocco due volte al giorno in così fredda stagione e con sere così brevi. Escludiamo la solennità del Santo Natale, che correva in Domenica dopo il giorno 18, poichè il Teol. Borel doveva essere troppo occupato nelle sacre funzioni al Rifugio. In conclusione, a noi pare che una festa così solenne siasi celebrata, o nel giorno di S. Stefano o in quello di S. Giovanni Evangelista, che allora erano feste di precetto, religiosamente osservate dalla popolazione. Ponderate ancora varie altre circostanze e specie la stanchezza insopportabile che avrebbero portato due feste [286] immediate di tal fatta, a noi sembra motto probabile che precisamente nella solennità dell'Apostolo S. Giovanni siasi benedetta la cappella e celebrata la prima Messa. E nulla osta che in tale occasione, salvo il Rito, Maria SS. Immacolata abbia divisi gli onori col suo figlio adottivo.

                Ma proseguiamo nel nostro racconto.

                Siccome D. Bosco non poteva assumersi la direzione immediata di quell'Oratorio così egli d'accordo coi Teol. Borel l'affidò successivamente a varii zelanti Sacerdoti di Torino, mandando ogni festa, mattino e sera, a coadiuvarli varii giovani più adulti ed assennati. Sovente andava egli stesso o il detto Teologo. Pel primo ne fu eletto a Direttore il Teol. Giacinto Carpano, che, coadiuvato dal Sac. Trivero, con affettuosa sollecitudine provvedeva quanto mancava ancora al decoro della cappella e procurava di acquistarsi l'amore e la confidenza dei giovani. E vi riuscì così bene che questo divenne l'emulo del primo Oratorio.

                Più di cinquecento fanciulli, attesta D. Michele Rua, accorrevano all'Oratorio di S. Luigi, che egli stesso visitò più volte, essendo ancor giovanetto, e poi chierico facendovi il catechismo.

                Ivi dopo le religiose funzioni si incominciò e continuossi sempre a fare una scuola ai giovani, ove nel modo più semplice si insegnava loro a leggere e a scrivere, l'aritmetica, il canto gregoriano e la musica. Eziandio lungo la settimana moltissimi poveri giovanetti non tardarono ad intervenire alle scuole serali elementari. Eravi pure un annesso cortile ove si facevano loro eseguire esercizii militari e ginnastici e trovavansi provveduti di tutti quei leciti giuochi che loro tornavano maggiormente a grado.

                Tuttavia siccome già spirava troppo forte l'aria della libertà, il Teol. Carpano ricevette da quelle parti serii affronti. [287]

                Egli doveva portarsi volta per volta il vino e l'ostia per la santa Messa, le particole per chi faceva la S. Comunione e un po' di pane per la sua colazione; ed essendo d'inverno e rigido pungendo il freddo, portava eziandio sotto il mantello un fascio di legna per riscaldare alquanto una cameretta che serviva di sagrestia. Un mattino, mentre tutto solo percorreva le vie ancor silenziose di Borgo Nuovo, alcuni malviventi vedendolo così avviluppato nel mantello, come sollecito a nascondere chi sa che cosa, cominciarono a gridare; e sospettosi, gli corsero d'appresso, gli aprirono con violenza il mantello e quasi glielo gettarono a terra. Scoperto quel fascio di legna e udito da lui che erano destinate per riscaldare i poveri ragazzetti operai dell'Oratorio di S. Luigi, confusi e meravigliati si allontanarono.

                Una sera poi mentre dall'Oratorio ritornava alla casa assai stanco, arrivato nell'antica piazza d'armi fu assalito da una tempesta di sassi. Mentre si credeva giunto alla sua ultima ora, sente una voce che grida: “Lasciatelo stare, è il Teol. Carpano!”. E a un tratto cessò la sassaiuola e fu un miracolo se ne rimase illeso.

                Il demonio incominciava a dimostrare la sua furia contro il secondo asilo che aprivasi alla gioventù pericolante.

 

 

CAPO XXVII. Il 1848 - Costante fermezza di Mons. Fransoni - Carlo Alberto promette lo Statuto - Emancipazione dei Valdesi D. Bosco si rifiuta di partecipare alle dimostrazioni politiche - È chiamato in Municipio.

 

                L'ANNO 1848 dava principio a grandi avvenimenti. Le sette cosmopolite erano pronte ad entrare in azione. Da un'estremità all'altra d'Italia si chiedevano ai principi le riforme civili. I giornali del Piemonte erano pieni delle invenzioni di sevizie, angherie, oppressioni fatte soffrire dagli Austriaci ai Lombardo - Veneti e in Torino formidabili si levarono le grida di guerra e di abbasso all'Austria, la quale ingrossati i presidii nelle provincie italiane del suo, dominio, vi teneva in arme 80.000 uomini. Ma a queste grida si frammischiavano ancor più feroci quelle di morte ai Gesuiti, perchè i settarii spargevano la voce che questi religiosi fossero partigiani dell'Austria e che Carlo Alberto a loro istigazione non avesse concessa l'amnistia per i delitti politici, la guardia civica e la diminuzione del prezzo del sale. Gli scritti del Gioberti avevano eziandio acceso l'odio contro le Dame del Sacro Cuore spacciandole affigliate alla Compagnia di Gesù.

                Intanto Carlo Alberto credeva ancora di poter comporre insieme le pretensioni rivoluzionarie e le regie prerogative [289] di monarca assoluto: Egli aveva detto: - La Costituzione io non la darò mai! - Ma il 7 gennaio i Capi del giornalismo piemontese si radunavano per domandargliela. Era una rispettosa minaccia, e il Sovrano ne rimase perplesso ed impaurito. Ed ecco che il 12 gennaio scoppiava sanguinosa la rivoluzione in Sicilia, preparata dai mazziniani, mentre minacciavano di sollevarsi le provincie napoletane; e Ferdinando II concedeva la Costituzione, imitato poco dopo dal Granduca di Toscana. Come una scintilla elettrica il primo febbraio, con queste notizie, si sparge nella cittadinanza torinese il motto d'ordine: - Non vogliamo essere al disotto della Toscana e di Napoli.

                - E Brofferio e Azeglio colle bande dei demagoghi venuta la sera correvano per le strade colle torce accese, e serenando quasi tutta la notte sotto le finestre del Ministro Napolitano, acclamavano la Costituzione con alti e rumorosi evviva. Si voleva pure che per questo motivo l'Arcivescovo concedesse di cantare un Te Deum nella chiesa di S. Francesco di Paola, ma si ebbe una risposta negativa. Questo franco contegno di Mons. Fransoni irritava quei capoccia che volevano la libertà per tutti, fuorchè per il clero. Una turba di mascalzoni aveva già di pieno giorno mandate grida furiose sotto le finestre del suo palazzo, ed altra volta, circondata la sua carrozza mentre tornava da visitare il Teol. Guala gravemente infermo nel convitto Ecclesiastico, lo insultava con fischi ed urla.

                In questi giorni assemblee incessanti e sinistre incominciarono a pretendere un governo liberale. Re Carlo Alberto fu avvertito dai Ministri della necessità di dare la Costituzione prevedendosi altrimenti inevitabile un conflitto tra il governo e il popolo. L'immensa maggioranza dei cittadini era a siffatte novità o indifferente o contraria, ma i pochi s'imponevano ai molti. Il 5 febbraio gran folla si assembrò in piazza Castello. [290]

                Una deputazione del Municipio andò a chiedere al Re la promulgazione delle Istituzioni rappresentative e la milizia cittadina. Il 7 febbraio Carlo Alberto, profondamente commosso per l'importanza della concessione che doveva fare, sedeva coi Ministri in pieno consiglio. Fissando i punti principali dello Statuto, insistè che in quanto alla libertà della stampa, per i libri religiosi, si richiedesse la permissione Vescovile, e che la proprietà Ecclesiastica rimanesse assolutamente intangibile. Stringendo il tempo e il differir più oltre potendo diventar esiziale, l'8 febbraio fu promulgata la promessa dello Statuto esponendone in 14 articoli i punti fondamentali: I poteri del Re; le due camere legislative; il modo di imporre i tributi; la libertà della stampa soggetta a leggi repressive; la libertà individuale guarentita; l'inamovibilità dei giudici; l'istituzione della milizia comunale. Con ciò Carlo Alberto spogliavasi di una parte dì sua Regia autorità per investirne il popolo rappresentato dalla Camera dei Deputati e dal Senato, mutando così il suo governo assoluto in governo costituzionale.

                Questa promulgazione fu seguita da nuove e caldissime manifestazioni popolari, ma il Municipio non diede esecuzione alla deliberata luminaria generale, avendo il Re fatto conoscere che non gli andava a grado. Il 9 febbraio molti chierici uscirono di bel nuovo dal Seminario andando a passeggio per la città colla coccarda sul petto, riscuotendo così le lodi dei giornalismo rivoluzionario che li eccitò a nuove ribellioni. Intanto D. Bosco continuava ogni giorno a stare per più ore presso il suo Arcivescovo.

                Il 12 febbraio ebbe luogo una funzione di ringraziamento nella chiesa del Miracolo coll'intervento dei decurioni, celebrando il Sacro rito l'Arcivescovo, il quale con lettera assai breve lo stesso giorno dava facoltà a tutte le chiese della [291] Diocesi di cantare un solenne Te Deum. Si attendeva da tutti che Mons. Fransoni, come avevano fatto altri Vescovi, desse qualche cenno sullo Statuto nell'annunciare l'indulto della vicina quaresima che aveva principio l'8 di marzo. Ma egli nella lettera pastorale del 24 febbraio ne tacque, e raccomandò ai parroci che nelle prediche non entrassero in cose politiche. Questo scritto fu dai liberali severamente giudicato e preso come evidente argomento di avversione alle concesse franchigie, e quindi si macchinava il modo di allontanare l'Arcivescovo dalla Diocesi.

                Intanto la supplica per l'emancipazione dei Valdesi e degli Ebrei era stata in parte esaudita dal Re, e il 17 febbraio un decreto dichiarava essere ammessi i Valdesi a godere di tutti i diritti civili e politici, a frequentare le scuole dentro e fuori della università e a conseguire i gradi accademici. Nulla però sì innovava di quanto era in vigore sull'esercizio del loro culto e le scuole da essi dirette. Si andava perciò dì festa in festa.

                Il 27 febbraio il Municipio deliberò di celebrare pomposamente la promessa dello Statuto con una messa solenne e un Te Deum nella chiesa della Gran Madre. Monsignor Fransoni fu pregato di presiedervi e dar facoltà di cantare la S. Messa sotto il portico di quella. Egli ricusò questa licenza e di intervenirvi, e solo permise che di là si desse la benedizione col SS. Sacramento. La dimostrazione fu quella di una processione pubblica splendidissima. La gente concorsavi da tutto il Piemonte, dalla Liguria, da Nizza, dalla Savoia, dalla Sardegna e dalla Lombardia gremiva l'immenso tratto di strada che si stende dalla reggia fino all'altra riva del Po. Vi intervenne il Re coi principi, il Municipio, le deputazioni dei Comuni coi proprii gonfaloni, quelle delle provincie, le società artigiane e in capo ad esse una [292] comitiva di Valdesi. La moltitudine cantava a piena gola: Fratelli d'Italia, l'Italia si è desta. Molti chierici, non ostante un nuovo e preciso divieto dell'Arcivescovo, si erano recati sopra un terrazzo in via Po. Quell'immensa processione non aveva ancora bene spiegati i suoi giri sinuosi, quando giunsero da Parigi i primi dispacci che annunziavano la caduta, di Luigi Filippo, la guerra civile nelle strade di Parigi e la proclamazione della Repubblica in Francia. L'annunzio di quella catastrofe colpì il Re di tanto sgomento, che non lo, seppe dissimulare nè colle parole, nè col colore del volto. Se un tale avvenimento fosse accaduto un mese prima, non avrebbe certamente concessa la Costituzione. Il Prevosto della Metropolitana, assistito da quattro canonici e da altri del clero impartì dall'alto della maestosa gradinata la benedizione col SS. Sacramento. Ma quel tripudio e il contegno della moltitudine fu una vera profanazione del giorno festivo, e i buoni ne trassero un triste presagio.

                Il Marchese Roberto d'Azeglio quella stessa sera vide varie centinaia di Valdesi, concorrere intorno alla sua casa co' loro pastori a cantargli l'inno della loro allegrezza, come fecero in quello stesso giorno gli Ebrei del ghetto Torinese iniziati da lui alla gloria e alla felicità della nuova Italia. E ben si meritava questi applausi. Le sette avevano, organizzato quella sfilata fin dal principio dell'anno per imporre al Re la Costituzione, e l'esecuzione era stata commessa al Marchese, il quale si adoperò colla solita maestria, invitando con lettere e circolari i municipii ad accorrere. Avendo il Re ceduto prima, quell'immensa dimostrazione aveva servito a festeggiare la promessa dello Statuto. Fu un tradimento che per forza delle cose mutavasi in trionfo. Forse Carlo Alberto lo ignorò. Ma l'astensione dell'Arcivescovo e di D. Bosco è prova della loro mirabile prudenza. [293] Infatti anche a D. Bosco erasi presentato il Marchese Roberto d'Azeglio invitandolo con insistenza che alla testa de' suoi giovanetti volesse partecipare con tutti gli altri Istituti di Torino alla festa spettacolosa nella piazza Vittorio Emmanuele. Più volte erasi intrattenuto con lui famigliarmente nelle case patrizie di Torino, e si teneva certo che avrebbe accondisceso. Ma D. Bosco gli rispondeva: - Signor Marchese, questo Ospizio ed Oratorio non forma un ente morale: esso non è che una povera famiglia, la quale vive della carità cittadina; e noi ci faremmo burlare se facessimo di simili comparse.

                - Per lo appunto, riprese il nobile patrizio; sappia la carità cittadina che quest'Opera nascente non è contraria alle moderne istituzioni. Ciò le farà del bene; aumenteranno le offerte, ed io stesso ed il Municipio largheggeremo in suo favore.

                - Io la ringrazio dei suo buon volere, ma è mio fermo proposito di attenermi all'unico scopo di fare del bene morale ai poveri giovanetti, per mezzo dell'istruzione e del lavoro, senza ingombrare loro il capo d'idee che non sono da essi. Coi raccogliere giovanetti abbandonati e coll'adoperarmi di renderli alla famiglia ed alla società buoni figli ed istruiti cittadini, io fo vedere abbastanza chiaramente che l'Opera mia, lungi dall'essere contraria alle moderne istituzioni, è anzi tutta affatto conforme ed utile alle medesime.

                - Capisco tutto, soggiunse il D'Azeglio, ma Lei si sbaglia, e se persiste in questo sistema l'Opera sua sarà da tutti abbandonata e si renderà impossibile. Bisogna studiare il mondo, mio caro Don Bosco, bisogna conoscerlo e portare gli antichi e moderni istituti all'altezza dei tempi.

                Le sono riconoscente dei consigli che mi dà, ottimo signor Marchese, e saprò trarne profitto; ma Lei mi perdoni [294] se io non posso co' miei giovanetti fare atto di presenza alla prossima festa. La S. V. m'inviti a qualche luogo, a qualche opera in cui il sacerdote possa esercitare la sua carità, e mi troverà pronto a sacrificare sostanze e vita; ma io non voglio turbare la mente de' miei giovani col farli assistere a spettacoli, dei quali non sono in grado di apprezzare il vero significato. E poi, signor Marchese, nelle condizioni in cui mi trovo è mio fermo sistema tenermi estraneo ad ogni cosa che si riferisca a politica. Non mai pro, non mai contro.

                D. Bosco intanto gli faceva vedere la sua casa e parlavagli de' suoi progetti futuri, mentre raccontavagli con quale regolamento giornaliero occupasse i giovanetti. Il Marchese ammirando ogni cosa lodava altamente tutto, ma giudicava: tempo perduto quello che s'impiegava nelle lunghe preghiere, e diceva che a quell'anticaglia di 50 Ave Maria infilzate una dopo l'altra non ci teneva guari e che D. Bosco avrebbe dovuto abolire quella pratica noiosa.

                - Ebbene, rispose amorevolmente D. Bosco: io ci sto molto a tale pratica: e su questa potrei dire che è fondata la mia istituzione: e sarei disposto a lasciare piuttosto tante altre cose ben importanti, ma non questa; e anche se facesse d'uopo rinunzierei alla sua preziosa amicizia, ma non mai alla recita del S. Rosario.

                Trovato D. Bosco irremovibile nel suo principio, il nobile uomo se ne partì, e da quel giorno non ebbe più alcuna relazione con lui.

                Ma queste replicate ripulse di D. Bosco a non voler comparire tra le file dei dimostranti, la sua illimitata devozione al Capo della Chiesa ed all'Arcivescovo, non erano ignorate da chi sorvegliava perchè non sorgesse qualche improvviso moto reazionario. Chi era avvezzo da tanti anni alle congiure, ad ogni passo temeva che i supposti avversarii adoperassero [295] le stesse sue armi; e i lunghi e giornalieri colloquii di D. Bosco con Mons. Fransoni, e le centinaia di giovani che parevano pronti ad ogni suo cenno, avevano accresciuti i sospetti. Perciò di quando in quando egli fu chiamato agli uffizii del palazzo municipale, ove fra gli impiegati era vivo il fermento per la mutazione di forma nel governo. Alcuni di quei signori lo sollecitavano a manifestare le proprie opinioni e a fare qualche atto che lo mettesse in onore presso il partito liberale. Ma D. Bosco non diede loro che mezze risposte. Rifiutare era un dichiararsi nemico dell'Italia, accondiscendere valeva un'accettazione di principii che egli giudicava di funeste conseguenze. Quindi non condannava mai nessuno e non approvava. Vi fu chi gli disse sdegnosamente: - E non sa Lei che la sua esistenza sta nelle nostre mani? - Ma D. Bosco fece le viste di noti intendere la minaccia. Si era presentato col fare di un bonomo, colla barba da radere, colle vesti indosso più che dimesse colle scarpe quasi rosse e camminando alquanto grossolanamente. Sembrava uno de' più romiti cappellani di montagna. Perciò gli impiegati del municipio, che in quei giorni lo conoscevano solo per nome, finirono cori averlo in concetto di persona da non curarsi, quasi fosse uomo misero di mente; ed egli rendendosi trascurabile non era temuto. Ci par quasi di vedere riprodotto lo stratagemma di David alla Corte di Achis re di Seth.

 

 

CAPO XXVIII. La cacciata dei Gesuiti - Dimostrazioni ostili al Convitto Ecclesiastico, al Rifugio ed all'Arcivescovo - La chiusura del Seminario - Malvagi scrittori - Premunizioni - Vile attentato contro D. Bosco.

 

                GLI INSULTI contro i Gesuiti si ripetevano ogni giorno.

                Una deputazione di cittadini si presentava al Re per chiederne l'espulsione dallo Stato; ma non essendo ricevuti nè esauditi, si lasciò che la plebe compiesse in Torino i voti della massoneria. La sera del 2 marzo un'accozzaglia di settarii del Piemonte e di banditi dai varii Stati della penisola, fracassando vetri e sfondando porte, irrompeva con urla selvagge nelle case dei Gesuiti ai Santi Martiri e al Collegio del Carmine, e sforzava i religiosi ad uscirne in mezzo ad imprecazioni e ad insulti. La polizia venne a richiamar l'ordine quando l'oltraggio fu consumato. Il giorno dopo i tumultuanti attorniarono il monastero delle Dame del Sacro Cuore in Via dell'Ospedale, ma le guardie impedirono che vi penetrassero. Durato per ben sette giorni quel minaccioso assedio, e avendo il Ministro dell'interno fatto rispondere alla supplicante superiora, - Il Re non può far nulla per voi - le Dame, costrette alla partenza,

                si ritirarono in Francia.

                I Gesuiti sbandati in quella notte dolorosa avevano cercato rifugio nelle case di varii cittadini. Il Teol. Guala ne [297] ricoverò un gran numero nel Convitto Ecclesiastico, che era poco lontano dai Santi Martiri e dal Carmine, e diede loro ad imprestito somme considerevoli perchè provvedessero ai loro più urgenti bisogni D. Bosco pure in questi frangenti si adoperò quanto potè nell'aiutarli, specialmente col provvederli di abiti secolareschi, coi quali travestiti non fossero riconosciuti nell'uscire dalla città. E pur troppo la polizia non tardò a dar compimento alle violenze della piazza con intimare il loro allontanamento dai Regii Stati. Essi partirono mentre i loro confratelli erano espulsi da tutte le altre città d'Italia, con violenze tanto indegne, quali appena succedono tra i popoli barbari.

                Nè tali disordini in Torino cessarono così presto.

                Le invettive di Gioberti nel suo Gesuita moderno e il ricovero prestato ai Gesuiti, avevano scatenato eziandio contro il Convitto le ire della plebe in guanti e senza guanti. Una sera comparve una folla di popolo sotto le finestre dell'Istituto in via Mercanti, gridando a squarcia gola: - Abbasso il Convitto, morte al Teol. Guala! - e altre villanie. Il Teol. Guala era infermo e D. Cafasso scese in istrada per veder di ammansare quei pochi furiosi, seguiti per curiosità da altri molti fannulloni. La comparsa di D. Cafasso, già conosciuto a que' schiamazzatori, quando accompagnava i condannati al patibolo, e le sue parole tutte dolcezza e mansuetudine ridussero tosto al silenzio la ciurma. In quei mentre un convittore, testa balzana ed infatuato delle idee di Gioberti, improvvisò di motu proprio alle finestre un simulacro d'illuminazione con quelle poche candele che trovò nelle camere dei compagni. Bastò questo perchè gli abbasso si cambiassero in evviva e la dimostrazione ben tosto si dileguò. Il Teologo ne provò gran pena, ed il convittore liberaleggiante fu in bel modo licenziato. [298]

                Ogni pericolo di guai sembrava rimosso, quando una notte comparvero al Convitto sei questurini, quattro in borghese e due in divisa. Avevano ordine di praticarvi una minuta perquisizione, quasi fosse quello uno dei covi che minacciassero la sicurezza dello Stato. Rovistarono minutamente ogni cosa alla presenza del Teol. Guala, il quale si era alzato dal letto e dal seggiolone osservava ogni loro movimento. Nulla però trovarono d'incriminabile: solo asportarono un fascio di carte, le quali, a quanto pare, furono ben tosto restituite.

                Vi furono anche tumulti contro la Marchesa Barolo, accusata di tener celati quindici Gesuiti nel suo palazzo e nello stesso tempo minacciata di morte come se avesse rapite le figlie ai genitori e le tenesse chiuse per forza ne' suoi istituti. Era questa la gratitudine pel gran bene che aveva fatto in Torino. Dalla casa Pinardi si udivano gli schiamazzi indecenti di uomini ubbriachi rotti al mal fare e di donnacce scapigliate che vomitavano ogni sorta d'ingiurie contro il Rifugio, minacciando di farne uscire le figlie e d'incendiarlo.

                Nello stesso tempo i settarii non avevano dimenticato Mons. Fransoni e macchinavano una nuova chiassata contro di lui. Senonchè il Marchese Roberto d'Azeglio con un drappello di guardie nazionali prese quartiere nel portico del palazzo e tenne lontani i dimostranti.

                Facendosi intanto sentire fra i seminaristi il pericolo di nuove commozioni, l'imminente guerra contro l'Austria e l'interruzione degli studii nell'Università consigliarono a Monsignor Fransoni la chiusura del Seminario. Quindi tutti i chierici che avevano pigliato parte a quelle manifestazioni politiche furono esclusi dai sacri ordini. Buon numero di essi, ricevuto avviso delle deliberazioni dell'Arcivescovo discesero nel cortile e cantarono l'inno popolare Genovese: I figli d'Italia si [299] chiaman Balilla. Tanto generale era il delirio per la guerra che motti di essi, gettata alle ortiche la sottana, presero le armi. Alcuni mantenendosi buoni cristiani, divennero valenti professori in belle lettere, e a suo tempo, affezionati a Don Bosco, prestarono segnalati servigii alle scuote ginnasiali dell'Oratorio. Pochi si aggregarono ad altre diocesi e furono ammessi al Sacerdozio.

                Non era possibile che le suddette brutte scene non cagionassero scandalo nei giovani, che frequentavano l'Oratorio festivo di S. Francesco di Sales, perchè praticando essi in città, e vivendo in seno alle famiglie e nelle officine, ne udivano a parlare in diverso senso e non sempre sfavorevolmente. Ben presto se ne avvide D. Bosco e perciò in pubblico e in privato ne li premuniva in debito modo. Sapendo poi il male che facevano i pessimi giornali scongiurò i suoi allievi a non leggerli mai. Sebbene il Gesuita Moderno non fosse ancora dalla Santa Chiesa condannato, tuttavia fin d'allora egli ne vietò la lettura a tutti i suoi catechisti, maestri e giovani studenti; e per farlo prendere in uggia notò loro come il suo autore, per ismania di maldicenza, avesse avuto persino la sfrontatezza di denigrare il Convitto Ecclesiastico di S. Francesco d'Assisi, dove i primi loro compagni avevano ricevuto tante prove di benevolenza.

                La raccomandazione di D. Bosco, corroborata dalle testuali ributtanti parole di Gioberti contro la culla dell'Oratorio, bastò ai giovani per ogni legge, e nessuno mai nè prima nè dopo che venisse posta nell'indice dei libri proibiti, osò mai far lettura di quell'opera pestifera, ed ognuno ne riguardò l'autore come un dichiarato nemico della Chiesa.

                Ma se in causa della sfrenata licenza della pubblica stampa ebbero a piangere i padri Gesuiti, le Dame del Sacro Cuore, e più altre degnissime persone di Torino, certamente non [300] toccò miglior sorte a D. Bosco. Invero egli pure venne ben presto fatto segno ad insulti, a minacce. Anzi accadde un fatto, che, fin dall'esordire delle mal concepite libertà, pose a repentaglio la vita del buon padre, e quindi la esistenza del nostro Oratorio.

                A pochi metri dalla Cappella di S. Francesco di Sales, verso mezzanotte, sorgeva in allora un muriccio, che la separava dagli orti e dai prati di Valdocco, i quali si estendono tuttavia sino alla sponda destra della Dora. Oggi si veggono seminati di fabbriche, case e palazzi, ma allora erano deserti. Or bene, nella primavera di quell'anno, una Domenica a sera, i giovani dell'Oratorio erano già tutti raccolti nelle rispettive classi di catechismo e D. Bosco istruiva i più adulti in coro. Egli spiegava loro l'immensa carità di Gesù Cristo nel farsi uomo, patire e morire per noi. Una finestrella chiusa, e a pochi metri dal muriccio, corrispondeva al luogo dove egli stava, e una porta aperta dal lato opposto illuminava la sua persona. Quand'ecco un furfante, armato di archibugio carico a palla, spinto non sappiamo da quale spirito malefico, appostatosi dietro al muriccio, sale sulle spalle di un complice, e sollevato sul ciglio del muro, appunta l'arma alla finestrella del coro e spara. Aveva mirato al cuore di D. Bosco; ma, la Dio mercè, il colpo andò fallito. Un grido universale rispose a quella detonazione, poi un profondo silenzio, e i giovani pallidi in volto tenevano tutti gli occhi fissi e sbarrati in lui. Il proiettile, veloce come il baleno, forato il vetro della finestra senza frantumarlo, gli era passato tra il braccio sinistro e le coste, e gli aveva stracciato un po' dì veste sul petto e la manica; infine, percuotendo il muro della cappella, aveva fatti cadere più decimetri quadrati di calcinaccio. D. Bosco di quel colpo non aveva sentito quasi null'altro che un urto leggero come se qualcuno [301] passando gli avesse toccata la zimarra. Egli però non si era punto scomposto ed ebbe ancora tanta tranquillità e presenza, di spirito da calmare lo spavento indescrivibile che aveva destato nei giovani quel fatto sacrilego con dir loro sorridendo: “E che! vi spaventate di uno scherzo fatto di mala, grazia? È uno scherzo e nulla più. Certa gente male educata non sa far ma i una burla senza offendere il galateo. Guardate! Mi hanno stracciata la veste e guastato il muro! Ma torniamo al nostro catechismo”. Questa giovialità di D. Bosco e il vederlo sano e salvo da quel vile attentato, rinfrancò tutti.

                Finito il catechismo, D. Bosco tutto tranquillo, cantò il Vespro, predicò, diede la benedizione, e quindi si recò in mezzo ai giovani che si erano riversati nel cortile. Qui ebbe luogo una scena commovente. Molti stringendosegli attorno singhiozzavano e piangevano di consolazione; altri gli bagnavano le mani di caldissime lagrime; tutti poi colla più grande espansione del cuore ringraziarono Iddio pietoso di averlo così mirabilmente conservato. D. Bosco frattanto diceva loro: “Se la Madonna non gli faceva sbagliare la battuta, mi avrebbe colpito davvero; ma colui è un cattivo musico”. Poi guardandosi la veste forata esclamava: “Oh! povera mia veste! Mi rincresce per te che sei l'unica mia risorsa”.

                Intanto un fanciullo aveva raccolto il proiettile nel coro e lo presentava a D. Bosco. Era una pallottola di ferro di grossezza discreta, perchè le carabine di quei tempi avevano maggior calibro che le moderne. D. Bosco la prese in mano e mostrandola soggiungeva: “Eccola! La vedete? Si tratta, di giovani inesperti che vogliono giuocare alle boccie e non fanno bene il colpo!”.

                Di colui che aveva sparato non si potè avere indizio, perchè era sparito tra il fumo della sua arma. D. Bosco, [302] però, fatte prudenti ricerche, venne a conoscere ogni cosa per filo e per segno, e seppe come l'assassino fosse uno scellerato colpevole di altri delitti, che in quel giorni era lanza spezzata d certi partiti e quasi pareva che fosse sicuro di rimanere impunito. Altri forse avevano armata la sua mano. D. Bosco, che già conoscevalo, un giorno lo incontrò, e persuaso che vedendosi scoperto non avrebbe altra volta attentato alla sua vita per timore di una denunzia, senz'altro lo interrogò da qual motivo fosse stato spinto a fargli quel brutto giuoco. Sorpreso, ma non avvilito, con brutale burbanza e alzando le spalle gli rispose: - Il motivo quasi neppur io lo so. Voleva provare se il fucile faceva buon colpo, contro il muro della sua casa.

                - Sei un disgraziato... io però ti perdono di cuore... e desidero di essere tuo amico.

                Nel corso di questa istoria verrà occasione di narrare più altri iniqui attentati contro la vita di D. Bosco, allora soprattutto quando incominciò a scrivere le Letture Cattoliche, e a confutare gli errori dei Protestanti. Noi toccheremo con mano, che, se questo amico e padre della gioventù non fu ucciso, lo dobbiamo intieramente a Dio, che ha sempre vegliato sopra di lui in modo affatto provvidenziale, e lo ha difeso e protetto più volte anche meravigliosamente.

 

 

CAPO XXIX. Lo Statuto - L'Emancipazione degli Ebrei - La seconda edizione della Storia Ecclesiastica - Prudenza nel confutare i Protestanti e gli altri nemici della Chiesa - Giudizioso ammonimento - Silvio Pellico ed il vocabolario.

 

                LE SETTE cosmopolite mantenevano i patti reciproci, e subito dopo i tumulti e le rovine di Francia e Sicilia incominciavano sommosse e mutazioni in tutti gli Stati della Germania, non senza incendii, saccheggi e scontri tra il popolo e le truppe. Da ogni parte gridavasi libertà. Ebrei, socialisti, repubblicani, razionalisti commovevano le plebi, e migliaia di studenti e di operai si gettavano allo sbaraglio. Le moltitudini non premunite, dai governi fiacchi e irreligiosi, ed ingannate dai settarii che promettevano la rivendicazione di diritti stati rapiti e speranze di beni desiderati, erano con loro. I fieri moti di Vienna strappavano la Costituzione all'Imperatore Ferdinando I, e il Re di Prussia era pur costretto a concederla a' suoi popoli.

                Intanto a Roma essendo la rivoluzione passata dalle ipocrisie, alle minaccie ed alle violenze, Pio IX non ebbe più forza a resistere, e cedette; nel giorno 14 marzo dava la Costituzione, salvi però tutti i diritti della Chiesa, le sue leggi e l'integrità del potere temporale.

                Eziandio Carlo Alberto il 4 marzo aveva posto la sua firma al nuovo Statuto fondamentale del Regno, che venne [304] solennemente promulgato da una loggia del Palazzo reale prospiciente Piazza Castello. Le luminarie, le ovazioni, i canti popolari, le allegrezze durarono più giorni in Torino e nelle provincie. Gli 84 articoli dello Statuto erano preceduti da una affettuosa dichiarazione:

                “Con lealtà di Re e con affetto di Padre Noi veniamo oggi a compiere quanto avevamo annunziato ai nostri amatissimi sudditi col nostro proclama dell'8 dell'ultimo scorso, febbraio, nella fiducia che Dio benedirà le pure Nostre intenzioni, e che la Nazione, libera, forte e felice si mostrerà sempre più degna dell'antica fama, e saprà meritarsi un glorioso avvenire”.

                Alcuni di questi articoli erano scritti per le insistenze dello stesso Sovrano, e qui conviene riportarli essendo una guarantigia per la Chiesa.

                ART. I. - La Religione Cattolica Apostolica Romana è la sola religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi.

                ART. XXVIII. - La stampa sarà libera, ma una legge reprime gli abusi. Tuttavia le Bibbie, i catechismi, i libri liturgici e di preghiera non potranno essere stampati senza il preventivo permesso del Vescovo.

                ART. XXIX. - Tutte le proprietà senza alcuna eccezione sono inviolabili.

                Al Conte Cesare Balbo fu dato l'incarico della formazione del primo Ministero Costituzionale, e con ciò era stabilito il principio che il Sovrano regna e non governa. Il 17 marzo si pubblicava la legge elettorale: il 7 aprile vennero nominati i Senatori del regno in numero di sessantasei, strano miscuglio di Vescovi, di sinceri cattolici e di settarii. Assai peggio riuscirono le elezioni dei deputati, ed ebbero il mandato di legislatori molti personaggi notissimi per [305] l'avversione al Cattolicismo e per legami stretti con settarii d'ogni paese.

                D. Bosco, che studiava attentamente gli avvenimenti dei giorno, si recò alcuna volta ad assistere alle discussioni del Parlamento nei primi mesi della sua apertura, e intese subito la piega che avrebbero prese le cose pubbliche riguardo alla Chiesa. L'ambiente era saturo di volterianismo, e la maggioranza teneva come programma: “Appartenere allo Stato il diritto senza limiti di determinare da sè solo e a proprio talento la sfera dei diritti e delle libertà di cui la Chiesa può godere”.

                Uno dei primi atti del nuovo Governo fu l'emancipazione degli Ebrei, ai quali si era già provvisto coll'ART. 24 dello Statuto che dichiarava tutti i regnicoli, qualunque fosse il loro titolo o grado, essere eguali in faccia alla legge; tuttavia il 29 marzo un decreto reale li dichiarava ammessi a godere i diritti civili e a conseguire i gradi accademici. Il 6 aprile, in una nuova legge sulla stampa, si decretava la carcere e una multa di danaro contro chi deridesse ed oltraggiasse i culti permessi nello Stato.

                D. Bosco conosceva il movente, le intenzioni, e il fine di certi legislatori; ma come aveva fatto e sempre farà, voleva procedere impavido per la sua via, schermendosi però dalle offese.

                La prudenza cristiana deve sempre tendere ad un fine, cioè a Dio solo. Essendo buoni i motivi che la muovono ad operare, sceglie i mezzi che reputa più convenienti, regola le azioni e le parole, e fa tutto con maturità, peso, numero e misura, eziandio per vincere gli ostacoli e schivare i pericoli che sa prevedere. E non consulta solamente la ragione, ma tiene fissi gli occhi nelle massime di fede e di condotta morale insegnateci da N. S. Gesù Cristo. Con questa prudenza D. Bosco, in mezzo all'imperversare delle scatenate [306] passioni politiche e religiose, lavorava alla seconda edizione della Storia Ecclesiastica. Voleva dire ai giovanetti tutta la verità anche su certi fatti contemporanei, voleva indicare loro quali fossero i nemici attuali della Chiesa; ma d'altra parte conosceva la necessità di non provocarne l'ira sopra i suoi Oratorii. Perciò, seguendo, come già si disse, un suo piano ben maturato, non specificava accuse in capitoli distinti, ma presentava le sue asserzioni, svolgeva i fatti qua e là secondo l'ordine cronologico, senza invettive, senza apparir battagliero e senza palesare il suo fine, che era di combatterli. Questa ristampa procedeva, come la prima edizione, per domande e risposte; era quasi un'intiera riproduzione di questa, ma recava alcune notevoli varianti, ispirate dai tempi, e che più non trovandosi oggigiorno nella sua Storia Ecclesiastica che abbiamo tra le mani, non conviene che vadano perdute.

                Nella prima pagina egli stampava lo stemma del Sommo Pontefice e sotto a questo una vignetta che rappresentava S. Pietro inginocchiato innanzi al Divin Salvatore che a lui porge le chiavi, coll'iscrizione: Et tibi dabo claves Regni coelorum. Matt. XVI, 19. Di fronte il suo nome e cognome era come una professione della propria fede.

                Quindi non tralasciando nessuna occasione per far risaltare le divine prerogative del Papa e della Chiesa, passa in rivista i loro nemici ossia i Protestanti, gli Ebrei, e i settarii di varie specie.

                E in primo luogo i Protestanti. Dei Valdesi narrava brevemente l'origine, l'ignoranza delle Sacre Scritture, le eresie, la fuga da Lione, la venuta nella valle di Luzerna presso Pinerolo, la condanna dei loro errori pronunciata nel Concilio Lateranense III da 302 Vescovi presieduti da Alessandro III, le ribellioni ai Sovrani represse con gravissimi castighi, e la fusione coi Protestanti ai tempi di Calvino. [307]

                Dai Valdesi giunto D. Bosco nel corso della sua storia alle luride, empie e sanguinarie figure di Lutero, di Calvino e di Arrigo VIII, loro contrapponeva la celeste visione dei figli della Chiesa Cattolica che vissero ad esse contemporanei: S. Gaetano di Thiene, S. Girolamo Emiliani, S. Giovanni di Dio, S.Tommaso da Villanova, S. Ignazio di Lojola, S. Francesco Zaverio, S. Pietro d'Alcantara, S. Filippo Neri, S. Pio V.S. Teresa, S. Carlo Borromeo, S. Francesco di Sales, S. Vincenzo de' Paoli, S. Luigi Gonzaga e cento altri. La santità è una cosa sola colla verità.

                Altro modo adottò nello svelare gli errori dei Protestanti, cioè coll'accennarli mentre esponeva le antiche eresie. Per es.: dopo aver detto che il settimo Concilio ecumenico, secondo di Nicea, aveva condannato gli Iconoclasti, ossia i distruttori delle sacre immagini, notava: I Protestanti seguono anche gli errori degli iconoclasti. Presa eziandio nota dell'orribile bestemmia di Gottescalco, insegnante che come Dio predestina alcuni alla gloria eterna, così destina altri all'inferno non volendo che tutti siano salvi, soggiungeva: Questi errori furono poi riprodotti da Lutero e da Calvino.

                Finalmente siccome i Protestanti affermano, la presente Chiesa Cattolica non essere più, quella dei primi secoli fondata da Gesù Cristo, egli senza fare allusione a questi eretici dimostra coi fatti come sia sempre la stessa.

                Nel primo secolo, scrive, fu istituita la celebrazione della Domenica, del Natale di N. S., dell'Epifania, della Pasqua, dell'Ascensione e della Pentecoste fu istituito ed osservato il digiuno della quaresima, delle quattro tempora per tradizione apostolica, l'uso dell'acqua benedetta contro le infestazioni del demonio ed altri mali spirituali e corporali, la lavanda dei piedi nel giovedì santo, il segno della santa croce; fu pure ingiunto che mentre si celebrava il santo sacrificio [308] della messa si ponessero sull'altare due candellieri accesi con un crocifisso nel mezzo. Nel secondo secolo nella notte del Santo Natale già da ogni sacerdote si celebravano tre messe. Nel terzo secolo Papa Zeffirino ordinava a tutti i cristiani sotto precetto di fare la S. Comunione al tempo Pasquale. Nel quinto secolo S. Zosimo Papa stabiliva che nella settimana santa in ogni parrocchia si benedicesse il cero pasquale, e furono istituite le pubbliche rogazioni. Nell'anno 431 il Concilio di Efeso approvato da Celestino I definiva solennemente essere la Vergine Maria, vera Madre di Dio; e l'anno 1136 cominciava la Chiesa di Lione a celebrare solennemente la festa dell'Immacolata Concezione della Madonna, argomento che dimostra come nei secoli trascorsi già esistesse tale credenza nei popoli. Nel 491 Papa Gelasio teneva in Roma un concilio di molti Vescovi e decretava quali fossero i libri autentici del nuovo e del vecchio Testamento e quali gli apocrifi; ordinava un libro disseminato Sacramentale in cui si contiene l'ordine di quasi tutte le messe che abbiamo nel Messale Romano e la formola per impartire le benedizioni; istituì la processione colla candela in mano nella festa della Purificazione di Maria SS.; stabilì le ordinazioni degli Ecclesiastici alle quattro tempora. S. Gregorio il grande, eletto Papa nel 590, nelle cui mani si cangiò in carne una particola consacrata, componeva l'antifonario ed il breviario che la Chiesa usa ancora ai giorni nostri; istituiva le litanie dei santi, la processione per la festa di S. Marco, e l'imposizione delle ceneri nel primo giorno di quaresima. Da questi libri e da queste preghiere apparisce evidente la credenza della presenza reale di Gesù Cristo nella SS. Eucaristia, l'uso d'invocare Maria SS. ed i Santi, l'esistenza del purgatorio, e la confessione auricolare e gli altri sacramenti. In fine, per tagliar corto, nel 553 Papa Vigilio e il Concilio Costantinopolitano II [309] porgeva una prova luminosa dei potere che ha la Chiesa di condannare gli scritti cattivi, di pronunciare sul senso di detti libri e di esigere che i fedeli si sottomettano al suo giudizio.

                A questi e ad altri argomenti recati da D. Bosco come potrebbero i Protestanti negare senza un'insigne malafede che la Chiesa Cattolica non faccia e non creda ciò che faceva e credeva nei primi secoli?

                Dai Protestanti D. Bosco passava agli Ebrei. Descriveva avverata da Tito e da Giuliano apostata la profezia di Gesù Cristo nella distruzione di Gerusalemme, mentre coi libri ispirati affermava che negli ultimi tempi del mondo tutto il popolo d'Israele si renderà cristiano. Accennava all'atrocissima persecuzione nella Spagna al tempo dei Mori contro i cristiani per costringerli ad abbracciare l'Ebraismo o a farsi seguaci di Maometto. Dimostrava quanto l'Ebreo odia il Cristiano coll'orribile martirio di tre giorni fatto da essi soffrire al santo giovanetto Vincenzo Verner di Treves nella Francia, l'anno 1287; e colla morte egualmente dolorosa del Padre Tommaso di Sardegna a Damasco negli ultimi anni di Gregorio XVI. “Questi fatti” non si peritava a stampare “devono rendere avvertiti i Cristiani a guardarsi bene dal trattare e dal famigliarizzare con questa razza di gente”.

                In terzo luogo, risalendo alle cause dell'aberrazione di tanti cristiani e dei fatti dolorosi che ultimamente contristavano la Chiesa, veniva a parlare de' razionalisti e sedicenti moderni filosofi, i quali avendo per corifei Voltaire e Rousseau rigettano ogni sorta di religione, ogni legge, ogni diritto e coi pretesto di seguire il puro lume della ragione, fanno quanto il capriccio suggerisce. Scrive ancora: “È difficile il definire quale fosse la loro dottrina, poichè non ne avevano alcuna; chi legge attentamente i loro scritti conchiude che [310] negare ogni verità, calunniare qualunque virtù, insegnare tutti gli errori, incoraggiare a qualsiasi delitto, cavillare onde rimuovere dal cuor dell'uomo la dolce speranza della vita futura, insomma ridurre l'uomo al grado delle bestie forma la moderna filosofia. I Franchi Muratori macchinavano in segreto, i Filosofi diedero loro mano con pubblici scritti e col porne in pratica la dottrina; e per riuscirvi, cominciarono a levarsi contro gli Ordini religiosi screditandoli colle più sozze calunnie. Egli fu in mezzo a questi trambusti che Clemente XIV, dopo lungo esitare, ad istanza delle Corti di Francia, di Napoli, di Portogallo e di altre Potenze, soppresse la Compagnia di Gesù l'anno 1774. Pio VII poi considerati i vantaggi che questa Compagnia poteva prestare alla Chiesa, la reintegrò tra gli Ordini religiosi. Ai nostri giorni quest'Ordine venne quasi disfatto, e gli individui vennero perseguitati ed espulsi dalla Svizzera e da tutta l'Italia. E per non mancare alla verità storica, conviene aggiungere che questi religiosi in più luoghi vennero cacciati in modo indegno, insultati nella loro miseria, vilipesi contro ogni legge e fin contro la naturale equità. Così Vincenzo Gioberti[22]”.

                D. Bosco mostrava un gran coraggio nel prendere le difese di un Ordine religioso, perseguitato in questo stesso anno, ma usava eziandio una ammirabile prudenza nel citare le parole stesse del più acerrimo nemico dei Gesuiti. E alcune pagine dopo scrivendo di Pio IX non esitava a dire: “Il gran Gioberti chiamava il giorno che lo vide il più bello di sua vita”. Non era adulazione poichè uno può esser detto grande per motivi diversi. D. Bosco seguiva l'esempio del Sommo Pontefice che il 30 settembre 1847 aveva [311] scritto a Torino al suo messo straordinario presso il Re, Mons. Corboli Bussi, affinchè fosse cauto e andasse a rilento nel parlare del Gioberti, idolo momentaneo della rivoluzione, levato a cielo da tutti i faziosi e novatori[23].

                In fine D. Bosco, senza entrare in considerazioni politiche di nessun genere, dichiara colla storia alcuni diritti della Chiesa che gli adoratori del Dio Stato le avrebbero negati.

                “Nel primo secolo, egli scrive, ebbero principio i libri con cui si registravano i nomi dei battezzati e dei defunti che noi appelliamo libri di nascita e di morte. - Nel terzo secolo si cominciarono a consecrare i cimiteri, che rimanevano proprietà della Chiesa. - Già nel sesto secolo niuno dei preti o chierici andava soggetto ai giudici laici, ma soltanto ai giudici ecclesiastici. - Nel Concilio Lateranense V si stabilirono regolamenti per l'uso della stampa da poco tempo inventata, proibendo di stampare qualsiasi libro il quale non si fosse esaminato e approvato dall'autorità ecclesiastica, sotto pena di scomunica da essere pronunciata senza indugio”.

                Così D. Bosco, sparsi qua e là nella sua Storia Ecclesiastica, dava a' suoi giovani i giusti criterii per giudicare i fatti che andavano svolgendosi sotto i loro occhi a danno della Chiesa, sapendo poi a voce far risaltare quelli che isolati servivano al suo scopo, ovvero assumerne molti insieme quando abbisognava d'una dimostrazione completa. È questo eziandio il motivo per cui quasi sorvola il medio evo. La circospezione però non essendo mai troppa, poichè i tempi si facevano ognor più turbolenti, D. Bosco dando uno sguardo allo stato prospero della Chiesa, nell'Europa e nelle Missioni [312] estere, benchè fra le persecuzioni e gli ostacoli; considerando il discredito ognor crescente nel quale il protestantesimo cadeva ogni giorno più nell'Inghilterra, affermava di sembrargli che Dio preparasse una reazione con vantaggio universale. E soggiungeva: “E vero che nel movimento generale, in cui tutti gli Stati si trovano per le vertenti forme di governo, la religione deve superare gravi difficoltà, specialmente da parte di quelli che rozzi affatto delle cose ecclesiastiche ne vogliono dare il loro giudizio, bestemmiando perciò quello che ignorano; ma noi italiani abbiamo a capo il gran Pio IX e il religioso e valoroso Carlo Alberto, onde non possiamo aspettarci che un felice avvenire, pieno di avvenimenti onorevoli al trono, alla religione gloriosi”.

                Era questo il voto ardentissimo del suo cuore, ma che non scevro di fondati timori, alcune pagine prima, fatto un magnifico elogio di Pio IX, dettavagli le seguenti parole: “Noi Cattolici preghiamo Iddio di agevolargli le vie opportune per impedire i danni che i malvagi tentano cagionare alla Chiesa e a dargli aiuto per governarla con nuovi trionfi”.

                Concludeva il libro con una bella perorazione:

                “Dalla Storia Ecclesiastica noi dobbiamo imparare primieramente che tutti quelli che si sono ribellati contro alla Chiesa, per lo più provarono anche nella vita presente i più tremendi castighi divini... e che tutte le altre sette religiose, non essendo nella Chiesa di Gesù Cristo Salvatore, appartengono alla Sinagoga dell'Anticristo in ogni tempo la Chiesa Cattolica fu sempre col ferro e cogli scritti combattuta; e sempre trionfò. Ella vide i regni, le repubbliche egli imperi a sè d'intorno crollare e rovinare affatto; essa sola è rimasta ferma ed immobile. Corre il secolo decimonono da che venne fondata e si mostra tutto giorno nella più florida età. Verranno altri dopo di noi e la vedranno sempre fiorente. [313] E retta dalla mano divina, supererà tutte le vicende del mondo, vincerà tutti i suoi nemici, e si avanzerà con piè fermo a traverso de' secoli e de' rivolgimenti umani sino al finire dei tempi, per fare poi di tutti i suoi figli un solo regno nella patria de' Beati”.

                D. Bosco nel consegnare questo suo libro ai giovani, spiegandolo in pubblico e nelle conversazioni private, rammentava loro di non schierarsi in alcun modo tra gli avversarii della Chiesa, perchè sarebbe stato un fabbricarsi la propria rovina: “Combattere la Chiesa, diceva, è lo stesso che dare un pugno sulla punta aguzza di un chiodo”.

                Questa seconda edizione non incontrò ostacoli; ebbe un grandissimo spaccio anche nelle scuole e così D. Bosco ottenne il suo intento. Eragli però costata molta e paziente fatica. Volendo che la semplicità dello stile la rendesse Popolare ebbe la costanza di leggerla a sua madre, la quale fraintese che l'imperator Costantino avesse perseguitati i cristiani. D. Bosco ritoccò quel racconto, e allora solo fu contento quando conobbe che sua madre avevalo perfettamente compreso.

                È anche degno di nota il riserbo nello scrivere, che diede occasione ad un suo giudizioso ammonimento. Andando un giorno a Borgo Cornalense per visitare la Duchessa di Montmorency, s'incontrò col giovanotto Tomatis Carlo. Questi vedendogli in mano le bozze di stampa della Storia Ecclesiastica, gli chiese come si regolerebbe quando si fosse imbattuto in punti difficili a trattarsi, dovendo p. es. dir male di qualche personaggio. D. Bosco rispose: “Ove posso dir bene lo dico, ed ove dovrei dir male, taccio.

                - E la verità?

                - Io scrivo non per i dotti, ma specialmente per gli ignoranti e per i giovanetti. Se narrando un fatto poco [314] onorevole e controverso io turbassi la fede di un'anima semplice, non è questo indurla in errore? Se io espongo ad una mente rozza il difetto di un membro di una Congregazione, non è vero che in quella nascono dubbii che la inducono a provar repugnanza per l'intera comunità? E questo non è errore? Solo chi ha sott'occhi l'intera storia di due mila anni può vedere che le colpe di uomini anche eminentissimi per nulla offuscano la santità della Chiesa; anzi sono una prova della sua divinità, perchè se si mantenne sempre indefettibile, vuol dire che il braccio di Dio l'ha sempre sostenuta e la sostiene. E questo pure intenderebbero i giovani quando potessero integrare i loro studii. Del resto ricordati che le sinistre impressioni, ricevute in tenera età per un parlare imprudente, portano sovente lagrimevoli conseguenze per la fede e pel buon costume”.

                Aggiungeremo in ultimo che D. Bosco scrivendo non fidavasi del proprio giudizio. Abbiamo già detto come stringesse relazioni amichevoli con Silvio Pellico, ammirando in lui un; umiltà che impedivagli di far pompa del proprio ingegno, quantunque il suo nome fosse celebrato in tutta l'Europa.

                Spesse volte recavasi a visitarlo in Torino e a Moncalieri e non di rado Silvio veniva a restituirgli la visita e a compiacersi dello spettacolo dell'Oratorio. Si scrissero a vicenda varie lettere, e finalmente D. Bosco lo pregò a voler dare il suo giudizio sul compendio di Storia Ecclesiastica che stava per pubblicare. Silvio Pellico esaminò attentamente quel manoscritto, vi fece qualche correzione e lo commendò.

                Di un suo consiglio D. Bosco tenne sempre memoria. Un giorno Silvio Pellico avevalo interrogato se, come scrittore, facesse molto uso del vocabolario. D. Bosco gli rispose, sembrargli di possedere sufficientemente la lingua italiana e in mezzo a tante faccende non aver tempo a ricercare i vocaboli. [315]  - No, mio caro D. Bosco, continuò Silvio Pellico; non si fidi troppo ed abbia pazienza. Io, veda, non posso scrivere un foglio senza adoperare il vocabolario, e se lasciassi di consultarlo, non di rado cadrei in errori. È cosa troppo necessaria per conoscere tutta la forza ed esattezza delle parole, come pure per la ortografia. Molti termini ci sembra di conoscerli, ed in realtà c'inganniamo. Non di rado si può cadere in francesismi, in locuzioni latine o anche del dialetto. Segua il mio parere; tenga sempre il vocabolario sopra il suo scrittoio. Adoperandolo, vedrà come io abbia ragione, nel permettermi di darle simile avviso.

                Da quel momento D. Bosco non solo seguì quel consiglio, ma ne' suoi viaggi continui non dimenticava mai di porre nella valigia il vocabolario. Fu questo poi l'avviso che spesse volte egli dava ai chierici e ai preti della sua Congregazione: Usi il vocabolario? - Lo tieni sul tavolino? - Più di una volta l'interrogato sorrideva come di una domanda da farsi ad uno scolaretto di grammatica e non ad un uomo che aveva compiuti i suoi studii. Ma D. Bosco insisteva nella sua interrogazione, e se la risposta era negativa, inculcava l'uso continuo di quel libro, concludendo: - Silvio Pellico me lo ha detto; io l'ho provato: per iscrivere senza errori bisogna avere alle mani sempre un vocabolario di pregio. Questa sua amicizia preziosa, anche pel vantaggio letterario, ebbe solo termine, quando Silvio Pellico fu chiamato da Dio all'eternità nel 1854.

 

 

CAPO XXX. Principio della guerra per l'indipendenza italiana - Insulti all'Arcivescovo di l'orino e sua partenza per la Svizzera - Effervescenze pericolose - Mezzi di preservazione e Via Crucis - Musica e passeggiate - Funzione al santuario della Consolata - Visita ai santi sepolcri - La lavanda dei piedi - Il dialogo.

 

                SOMMOSSE a Vienna, tumulti a Pest, avevano messa l'autorità nelle mani dei nemici dell'Austria. Questi fatti aggiungevano coraggio ai liberali della Lombardia e del Veneto. Padova e Pavia incominciarono ad agitarsi. Il 18 marzo si manifesta una gran commozione a Modena; gli Austriaci ausiliari partono dal Ducato e il Duca Francesco V esce da' suoi dominii. Il 20 a Parma la gioventù prende le armi e costringe i tedeschi a sgomberare mentre il Duca Carlo Il concede la Costituzione e poi si ritira a Marsiglia. Il 22, dopo cinque giorni di ostinati combattimenti, i Milanesi scacciano dalla città e dal Castello il presidio austriaco costringendolo a ritirarsi, con gravissime perdite, nel quadrilatero; lo stesso giorno Como, Bergamo, Brescia, Venezia insorte si liberano dallo straniero. Il governo provvisorio di Milano invocava l'aiuto dell'esercito Piemontese e il 23 Carlo Alberto bandiva la guerra all'Austria con un baldo e generoso proclama ai popoli della Lombardia [317] e della Venezia. Il 24 l'Arcivescovo, presente il Re e tutti i pubblici ufficiali, mentre la guardia nazionale era schierata in piazza Castello, cantò il Te Deum nella metropolitana per la scacciata dei tedeschi da Milano. Ma nell'uscire dal Duomo una turba di popolaccio, alla quale si erano unite persone che in società si chiamano degne di riguardo, presero ad indirizzare contro di lui parole ingiuriose e a minacciarlo colle pugna, seguendone per un tratto di via la carrozza. Nessuno cercò di far cessare quegli insulti, benchè fossero presenti molti carabinieri. Alla sera si rinnovarono gli insulti sotto le finestre del palazzo arcivescovile con urla e fischi indiavolati. Si voleva costringere l'Arcivescovo ad abbandonare Torino ed il regno.

                Il 25 marzo Carlo Alberto partiva per la guerra con 60.000 valorosi soldati, i quali il 26 passavano il Ticino, e una brigata di essi entrava in Milano. Le autorità Ecclesiastiche intanto indicevano preghiere pubbliche ed esortavano le popolazioni a soccorrere le famiglie povere dei soldati, e il Governo stesso chiedeva appoggio e preghiere ai Vescovi. Il 29 il Re poneva piede in Pavia, che gli Austriaci avevano abbandonata, arrivava a Milano e intorno a lui si stringevano le genti lombarde e poi quelle di Parma e di Modena.

                Il 29 marzo il santo ed imperterrito Arcivescovo di Torino alle 6 della sera partiva per la Svizzera. Il Ministro degli Interni gli aveva fatto per mezzo di Ecclesiastici di gran merito vive sollecitazioni, acciocchè si allontanasse dallo Stato per qualche tempo finchè gli animi de' suoi avversarii si fossero calmati. Anche altre persone benevole andate a visitarlo, fra le quali D. Bosco, avevano giudicata necessaria la sua partenza; e gli facevano osservare essere impossibile resistere a quel tranello delle sette, poichè chi aveagli fatto [318] dare quel consiglio, aveva forse permessi segretamente i gravissimi insulti da lui sofferti. Prima però di salire in carrozza l'Arcivescovo raccomandò a D. Bosco quei chierici, specialmente i poveri, che s'erano mantenuti obbedienti a' suoi ordini, e che in quel momento erano dispersi. Don Bosco promise che avrebbe corrisposto a quella fiducia e vedremo come non mancasse di parola.

                Il 6 aprile anche a Vienna turbe di studenti e di popolani urlavano contro l'Arcivescovo, minacciavano estreme violenze ai conventi, gridando essere Pio IX nemico dell'impero; e il Governo ordinò la soppressione dei Liguorini, delle Liguorine e dei Gesuiti. Senz'altro, religiosi innocenti e povere donne furono buttati sulle vie, senza tetto e senza pane, costretti a chiedere l'elemosina. E dopo pochi giorni i tumulti che si facevano sempre più minacciosi a Vienna, a Pest e a Praga poco mancò non finissero in lotta micidiale colle truppe. Intanto il 7 aprile, i Piemontesi con splendida vittoria cacciavano da Goito gli Austriaci e passavano il Mincio.

                Il 21 aprile il generale piemontese Giacomo Durando mandato dal Papa a guardare i confini, non curando gli ordini ricevuti passava il Po con 17.000 pontificii. Il Re di Napoli aveva spediti in Lombardia altri 16.000 uomini in soccorso di Re Carlo Alberto comandati dal vecchio Carbonaro Guglielmo Pepe; e il Governo del Granduca di Toscana Leopoldo II altri 6.000. Truppe piemontesi, chiamate da Governi provvisorii per tener in freno i Repubblicani, occupavano i ducati di Modena e di Parma.

                Intanto il 25 aprile, con dolore di tutti i veri cattolici, dal quartiere generale di Volta Carlo Alberto decretava il regio exequatur sulle provvisioni di Roma, richiamando in vigore editti dimenticati, e riprovati da Clemente XI e da Benedetto XIV. [319]

                Il 30 aprile i regii dopo fiero combattimento restavano padroni di Pastrengo e stringevano l'assedio Peschiera, una delle quattro città fortificate, che se arava, o le provincie Lombarde dalle Venete. Il Re si era posto a Sommacampagna. Gli Austriaci eransi ritirati sulla sinistra dell'Adige.

                In Torino giungevano, aspettate con viva ansietà, le notizie di questi fatti, e il popolo tripudiava quasi delirando per le vittorie dell'esercito. Persino nei giovanetti si eccitò tale un'effervescenza ed esaltamento, che senza un qualche ritegno per molti di loro poteva farsi pericoloso. Ad altro più allora non si pensava che alla guerra, di guerra si parlava, di guerra si scriveva, di guerra si cantava nelle case, nei teatri e nelle piazze, e sarei per dire che ancor dormendo di guerra si sognava. I fanciulli medesimi tant'alti parevano divenuti così prodi soldati da trapassare colla punta della spada due Austriaci ad un colpo. Voi li avreste veduti, finita la scuola, o liberi appena dalla bottega o dalla fabbrica, armati di un bastone, unirsi a frotte in questo o in quell'altro luogo, eleggersi un capo, costituirsi in drappelli, esercitarsi alle manovre, armeggiare tra loro, e talvolta venire a battaglia una schiera contro dell'altra, ed ora per imperizia ed ora per troppo ardor bellicoso, si davano e si ricevevano delle bastonate solenni degne di miglior causa. Sovratutto poi nelle Domeniche e nelle altre solennità della Chiesa, i viali e le adiacenze della città parevano tramutarsi in piccole piazze d'armi Aggiungevano ebbrezza alle giovanili fantasie, il suono dei tamburi delle trombe colle manovre e sfilate delle guardie nazionali, l'arrivo dei prigionieri di guerra, le feste pubbliche rinnovate ad ogni vittoria.

                Il catechismo della quaresima era incominciato il 13 marzo, ma per le cause sovraccennate, in quasi tutte le parrocchie [320] le classi si diradavano e talune restavano come deserte. Non era moralmente possibile che in mezzo a tanta dissipazione anche i giovani dell'Oratorio non venissero a soffrire detrimento nella loro condotta. Per verità parecchi nella festa mancavano alle sacre funzioni, e nei giorni feriali non si vedevano ai catechismi; altri v'intervenivano a malincuore; molti vi si mostravano annoiati e disattenti; la frequenza poi alla confessione e alla comunione veniva ridotta ai minimi termini.

                Ad impedire questo malessere religioso e morale, che minacciava i giovani dell'Oratorio, era d'uopo che l'industriosa carità e lo zelo di D. Bosco trovassero dei mezzi efficaci. Nè questi si fecero molto aspettare. Egli incominciò colla preghiera.

                In quest'anno introdusse la santa pratica dell'esercizio della Via Crucis, la quale s'incominciò coi giorno lo del mese di marzo e si ripetè negli altri venerdì fino al termine della quaresima. Volle che vi assistessero tutti i giovani della Comunità colla maggior divozione possibile; a questi si univano molti giovani esterni ed altre persone dei vicinato che per comodità nei giorni feriali venivano ad ascoltare la santa Messa e a confessarsi. D. Bosco stesso vi prendeva parte principale, compreso da tali sensi di compassione al pensiero dei patimenti sofferti dal Divin Salvatore per la nostra salute, che il suo contegno valeva come predica efficacissima.

                Intanto acconciandosi alle esigenze dei tempi, in tutto ciò che non era disdicevole alla religione e al buon costume, egli non esitò di permettere ai giovani che facessero ancor essi nel cortile dell'Oratorio le loro manovre, anzi trovò modo di avere una buona quantità di fucili senza canne con appositi bastoni. Appose per altro la condizione che non si dispensassero delle busse in copia come facevasi tra [321] Piemontesi ed Austriaci, e che al suono del campanello pel catechismo ognuno deponesse le armi e si portasse in chiesa. Diede ancor principio a parecchi altri nuovi giuochi di ginnastica meno pericolosi; provvide boccie, piastrelle, e via dicendo. Faceva ripetere più volte il divertimento della pignatta, e la corsa nel sacco, e rappresentare eziandio oneste commediole e piacevoli farse. Insomma nulla risparmiò, affinchè tutti, chi in un modo e chi in un altro, avessero agio di trastullarsi nell'Oratorio, assistiti sempre e paternamente sorvegliati.

                Potente mezzo di preservazione riuscì anche la scuola di canto. Alle lezioni di musica vocale D. Bosco vi aggiunse quelle di pianoforte e di organo, nonchè per molti la musica istrumentale, che suscitò un grande entusiasmo. Mentre si attendeva ad organizzare la banda e addestrare alcuni giovani a strimpellare sul piano per far guaire l'organo a suo tempo, la musica vocale si perfezionava. Quindi preparati per benino i cori ed esercitate molte graziose vocine Don Bosco li condusse a cantare nelle pubbliche chiese di Torino in occasione del mese di Maria e di altre funzioni, a cui tutti i giovani prendevano parte. Questo li attirava e legava sempre più all'Oratorio e faceva del bene altresi tra il divoto popolo. Imperocchè l'essersi fino allora udito sempre sulle orchestre voci robuste e d'uomini adulti; faceva sì, che i canti a solo, i duetti e i cori di voci fanciullesche risvegliassero tra i fedeli l'idea del canto degli angioletti, e toccassero più sensibilmente le fibre del cuor umano; e perciò non era raro il caso di vedere in quelle funzioni uomini e donne a versare lagrime di consolazione. Per la qual cosa da tutte parti si parlava della musica di D. Bosco, la si ambiva, la si cercava per le feste e solennità; e quindi con grande giubilo dei giovani si cantò più volte non solamente [322] a Torino, come alla chiesa del Corpus Domini e della Consolata, ma in appresso si andò eziandio a Moncalieri, Rivoli, Chieri, Carignano e in più altri paesi circonvicini. L'esimio canonico Luigi Nasi di Torino e il Sac. Don Michelangelo Chiatellino di Carignano continuavano per lo più ad essere i due fidi accompagnatori della società filarmonica. Colla loro perizia musicale essi la toglievano dal rischio di far dei fiaschi, le facevano fare la più bella figura del mondo, e le procacciavano sperticate lodi. L'amor proprio dei giovani soddisfatto, le passeggiate che essi sospiravano per giungere alla meta prefissa, le merende ed anche i pranzi che erano apparecchiati nelle parrocchie pel loro arrivo, facevano dimenticare ogni fantasia politica.

                Tra le altre una bella festicciuola venne fatta in quell'anno al vicino Santuario della Consolata. I giovani vi si recarono dall'Oratorio processionalmente. Il canto per via e la musica in chiesa trassero gran folla di gente appiè di Maria Consolatrice. Si celebrò la Messa e si fece da molti la santa Comunione. In fine D. Bosco tenne un breve discorso, in cui parlò delle amabilità di Maria, infervorando tutti ad amarla. - “Maria, diceva egli tra molte altre cose, Maria è la creatura più amata e la più amante. L'ama Iddio Padre, l'ama Gesù suo divin Figliuolo, l'ama lo Spirito Santo, l'amano gli Angeli, l'amano i Santi, I' amano tutti i cuori ben fatti.

                Questo medesimo Santuario è una prova lampante del come in questa città sia sempre stata amata Maria. Ella poi ama noi coll'amore di una madre; e se ama tutti i cristiani in genere, porta un amore più tenero alla gioventù. Maria fa come il divin suo Figlio Gesù, il quale voleva tanto bene ai fanciulli, che li avrebbe sempre voluti presso di sè a fargli corona. Se Gesù diceva agli Apostoli. Lasciate che i fanciulli mi vengano a trovare, Maria va pure ripetendo a sua [323] volta: Chi è piccolo venga da me: Si quis est parvulus, veniat ad me. È soprattutto col suo amore dolcissimo, che Ella si mostra la Consolatrice degli afflitti: Consolatrix afflictorum. Rendiamole adunque il contraccambio, amiamola ancor noi, miei cari figliuoli; e per amor suo fuggiamo il peccato. A ricordo poi di questa divota visita lasciamo qui appiè di Maria il nostro povero cuore, e preghiamola che lo accetti e ce lo conservi sempre puro ed immacolato; facciamo sì, che all'ombra dei suo manto noi possiamo vivere contenti e morire consolati”.

                Questa processione venne poi fatta ordinatamente a quel caro Santuario una o due volte all'anno, fino al 1854, e i giovani scendevano sempre nella cappella sotterranea per recitar ancora una preghiera.

                La Settimana Santa, porse anche occasione ad infervorare i giovani nella pietà. Il Giovedì si fece in processione la visita ai Santi Sepolcri. Andando da una chiesa all'altra della città cantavano salmi o lodi in musica, e giovanetti di ogni età e condizione, tratti dal canto e dall'esempio, vincendo ogni rispetto umano, si univano alle loro file con trasporto di gioia. Giunti sul luogo, dopo alcuni minuti d'adorazione, le voci più belle, con una espressione la più commovente, cantavano la Passione o qualche mottetto, fattovi da D. Bosco appositamente imparare. A quelle dolenti armonie molte persone non potevano trattenere le lagrime, e da una chiesa li seguivano in un'altra per piangere di nuovo sulla tomba di Gesù. Questo pietoso spettacolo riuscì d'incoraggiamento a certi adulti i quali in seguito ad alcune burle, o se vogliamo dir meglio, insulti e disprezzi non osavano più prendere parte a quella pratica di religione.

                In sul cader di quel giorno si fece per la prima volta nella cappella dell'Oratorio la funzione del Lavabo, ossia della [324] lavanda dei piedi alla presenza di moltissimi giovani. A tal uopo ne furono scelti dodici, rappresentanti i dodici Apostoli. Disposti in giro nel presbitero, si cantò il tratto di Vangelo prescritto dalla Chiesa; poscia D. Bosco, cinto di un pannolino, s'inginocchiò dinanzi ad ognuno, e lavò loro i piedi, come fece il divin Salvatore ai discepoli suoi nell'ultima cena, li asciugò e baciò con umiltà profonda. Mentre ciò si compieva i cantori tra le altre facevano risuonare queste parole del rito: Ubi caritas et amor, Deus ibi est: Ov'è carità ed amore, vi è Dio. E quest'altre: Cessent iurgia maligna, cessent lites; et in medio nostri sit Christus Deus; vale a dire: Cessino le maligne contese, cessino le liti; e in mezzo di noi regni Gesù Cristo Dio.

                Un morale discorso, che tenne dietro, spiegò il significato e segnalò gli ammaestramenti della sacra cerimonia, una delle più atte ad educare ed informare i giovani cuori alle due principali virtù del Cristianesimo, l'umiltà e la carità.

                Dopo la funzione i giovani Apostoli si assisero a frugal cena con D. Bosco, che li volle servire di propria mano per meglio rappresentare l'ultima cena del Divin Salvatore. In ultimo, fatto loro un grazioso regaluccio, li mandò a casa ricolmi di gioia. Questa sacra cerimonia prosegui a praticarsi tutti gli anni nell'Oratorio con molta edificazione, e fu una delle predilette da D. Bosco, il quale continuò a celebrarla finchè gli bastarono le forze. Egli stesso sceglieva gli Apostoli fra gli alunni più buoni, e ne aggiunse un decimoterzo. Invitava un sacerdote a dire alcune parole a' suoi giovani prima di incominciar la funzione, e nel 1850 fu scelto D. Giacomelli. Nell'atto di quella lavanda il suo spirito di fede, umiltà e semplicità inteneriva i cuori di tutti gli astanti. Dopo la cena il regalo a' suoi piccoli apostoli era generalmente un fazzoletto bianco ed un crocifisso. [325] Si continuò eziandio la Visita ai Santi Sepolcri, ma processionalmente e in corpo solo fino al 1866. D. Bosco accompagnava sempre i suoi giovani, dopo aver chiesto il consenso dei Rettori delle singole chiese fissate da lui per stazioni di quel pio pellegrinaggio. Grande era l'accrescimento di cristiana pietà nella popolazione edificata dal contegno devoto di quella balda gioventù. Quando poi le circostanze più non permisero queste visite, si supplì collo stabilire nella cappella dell'Oratorio altre pratiche di pietà adattate a quei memorabili giorni: per es. la visita al SS. Sacramento colla corona del Sacro Cuore di Gesù, la Via Crucis ed il canto in musica dello Stabat Mater.

                Coi mezzi suesposti adunque D. Bosco riuscì a richiamare e trattenere i suoi giovani, di maniera che bene istruiti nel catechismo, il 23 aprile celebrarono numerosissimi la loro Pasqua.

                Ma si voleva che tale affluenza non cessasse, e per impedire le assenze domenicali un altro mezzo posero in opera D. Bosco e il Teol. Borel. Oltre al distribuire sovente dei piccoli doni ai giovani più frequenti al Catechismo e ai meno indevoti, come sarebbero immagini, medaglie, e talora frutta e dolci, eglino presero a fare l'istruzione o la predica della sera quasi sempre, sotto forma di dialogo. Il buon Teologo, mescolato tra i fanciulli, faceva da penitente o da scolaro, ed usciva di tratto in tratto in domande e risposte così lepide, che li tenevano attenti e li facevano ridere, nel mentre che D. Bosco dalla cattedra istruiva e moralizzava secondo il bisogno. Questa maniera d'istruzione fu sempre pei giovani cosa desideratissima, e bastava che si dicesse che la Domenica vegnente vi sarebbe stato il dialogo, perchè la cappella si riempisse dei piccoli uditori.

 

 

CAPO XXXI. L'età favolosa dell'Oratorio - Le Cocche - Insulti alla gendarmeria - Le battaglie a sassate - Misure preventive - D. Bosco in mezzo a turbe di ragazzi inferociti - Un giovane ucciso - L'offesa di Dio impedita a qualunque, costo - L'evidente protezione del Signore - Energia, amorevolezza e imponenza misteriosa - Il Catechismo tranquillo dopo una lotta brutale - Alcuni Capi delle Cocche ricoverati nell'Oratorio - La guerra dell'indipendenza nel maggio.

 

                LA STORIA dell'Oratorio, diceva un giorno D. Bosco, potrebbe con giustezza essere divisa in tre periodi: età favolosa, età eroica, età storica. La prima età scorse nei primi dieci anni, ed ebbe principio quando io era ancora solo e non aveva si può dire abitazione fissa;

                continuò in Valdocco allorchè incominciai ad accogliere in casa alcuni giovani, ed ebbe termine verso il 1855. Il racconto delle cose di allora potrà sembrare a taluno un intreccio di favole (e perciò la dico età favolosa), tanto gli avvenimenti sono straordinarii; eppure chi li narrasse, non direbbe altro che la schietta verità. Fu un decennio sempre di lotte. -

                Se quanto abbiamo già esposto è prova delle sue asserzioni, non lo sarà meno il proseguimento di queste memorie. Egli [327] adunque allontanando i suoi giovani da una pericolosa dissipatezza, riusciva a mantenere fiorenti i due Oratorii di Valdocco e di Portanuova; ma la sua carità non era ancor soddisfatta. Per smania di guerra si erano formate fra il basso popolo e in ogni borgo della città le Associazioni della Gioventù, chiamate in dialetto cocche; e vi era la Cocca di Vanchiglia, quella di Portanuova, di Borgo Dora e via dicendo. Queste erano suddivise in frazioni più o meno numerose, e ora comparivano quale piccola squadra ed ora come un intero battaglione. Tenevano i loro assembramenti ed avevano i loro capi.

                Ognuna di queste cocche era in guerra dichiarata contro le altre; e continue erano le risse e le battaglie a sassate o per ispirito di malvagia brutalità, o per offese che avesse ricevute dagli avversarii un loro compagno, o anche per una sfida colla quale un partito voleva accrescere i vanti delle sue prodezze. Erano lotte spaventose di cui ora nessuno può farsi un'idea, alle quali con una moltitudine di giovanetti prendevano parte i giovanastri più adulti. Non c'era poi forza umana che valesse a tenerli in freno. Nè i carabinieri, nè le guardie di pubblica sicurezza potevano più nulla contro di loro e non osavano porsi in mezzo per separare i combattenti. Al primo loro comparire, se erano pochi, ecco un fischio convenzionale, e tutti i proiettili in un istante erano slanciati contro i custodi dell'ordine; se altri gendarmi sopraggiungevano più numerosi, ecco un secondo fischio, e quelle turbe feroci si disperdevano e si nascondevano; se le guardie si ritiravano, ad un terzo fischio i giovani ricomparivano e ricominciava la sassaiuola.

                D. Bosco, fin dal bel principio di queste scene selvagge, cercò di impedirle e di fare un po' di bene a que' sciagurati. Incominciò a stringere agli Oratorii, con legami di speciali [328] larghezze, certi giovani più alteri e proclivi a menar le mani, che li frequentavano. Incontrando per la città e alla spicciolata alcuni cattivi soggetti già colpiti di condanna dai tribunali, e sue antiche conoscenze, li intratteneva cercando di rinnovarne l'amicizia. Andando alle prigioni ove di quando in quando era rinchiuso per qualche giorno un capo banda acciuffato dai gendarmi, di notte, solo e fuori del suo borgo, adoperava tutte le arti della più fina carità per acquetarli, soccorrerli e distaccarli da quelle maledette associazioni. Con questi modi non fa meraviglia vedere che tra quelle orde incontrasse dei benevoli. Tuttavia non era facile la sua impresa e dovette tollerare gravi insulti.

                Accadde che, passando in una spianata rimota della città, scorse un crocchio animato che ventilava una spedizione contro le cocche di altro borgo. Senz'altro si avvicinò e salutandoli chiese loro: - Come state? Che cosa si fa di bello?

                - Che cosa vuole lei da noi? Continui la sua strada! gli rispose bruscamente uno di quelli.

                - E perchè mi rispondi con villania? Credeva di aver da fare con amici.

                - Io amico dei preti? - e sghignazzava.

                - Non sai chi è questo prete? - dicevagli in quel momento sottovoce un compagno: È D. Bosco!

                - E che m'importa? - esclamò quel gradasso, eruttando un insulto dei più grossolani.

                - Olà! - replicò ad alta voce l'altro compagno. - Guai a te se manchi di rispetto a D. Bosco. Se dici ancora una parola, ti sfondo lo stomaco! - E alzando il pugno accingevasi a tradurre la minaccia in fatti. Tacque l'insolente, tanto più che vedeva una parte dei compagni, i quali già erano qualche volta andati all'Oratorio, tener le parti del suo contradditore. D. Bosco allora li interrogò sulla causa che aveva [329] eccitato in loro sì vivo risentimento, calmò gli animi dimostrando come l'offesa che dicevano di aver ricevuta fosse cosa da nulla; e ricordò come il Divin Salvatore perseguitato e straziato, potendo vendicarsi con una sola parola, pure non l'aveva detta. Quella turba persuasa, metteva in mezzo D. Bosco, lo accompagnava per un lungo tratto, finchè non era da lui congedata dopo aver tutti promesso di cessare da quegli odii.

                Altra volta fu sorpreso in mezzo ad un lungo viale mentre ad un'estremità avanzavasi urlando una torma di quei feroci, e dalla parte opposta con alte grida altra turba veniva incontro alla prima. Già erano a portata di slanciare i sassi, ma D. Bosco non deviava. A quella vista le due schiere si arrestarono per un istante e gli intimarono: - D. Bosco, si ritiri! Stia indietro, stia indietro

                - E perchè ho da ritirarmi? No! Voglio andare per la mia strada!

                - Ebbene replicarono, i giovani non vuol ritirarsi? Peggio per lei! - E di qua e di là incominciò a volare una grandine di sassi, alcuni dei quali gli rasentavano e il capo e le spalle. Finalmente più di uno fra gli adulti, commossi dal suo pericolo, gridarono ai compagni

                - Finitela e basta! - I più accaniti però continuarono a trarre sassi; ed allora furono minacce, pugni, calci, schiaffi; e nell'eccitamento di quella improvvisa repressione e resistenza si estrassero i coltelli che sempre portavano seco. D. Bosco fu obbligato ad interporsi, perchè non si sbudellassero per sua cagione.

                Sovente i pressi dell'Oratorio divenivano il campo di queste lotte, quasi mai incruente. Un giorno vi era accanita battaglia tra i giovani del Pallone e quelli di Porta Susa. Erano quasi tutti armati con bastoni, coltelli ed alcuni [330] eziandio con pistole. Le pietre della pubblica via servivano per dar principio allo scontro. Invano i carabinieri, accorsi al primo nunzio, avevano cercato colle buone maniere e anche con severe intimazioni di far retrocedere le avanguardie di quei demoni grandi e piccoli. D. Bosco vedendo dalle finestre della sua casuccia che la vita di molti versava in pericolo, ed essendo già conosciuto da varii dei combattenti, uscì dal cortile e corse in mezzo alla tempesta delle pietre che già fischiavano da tutte parti. Poco dopo, quelli delle prime file si erano avvicinati, e si udirono alcuni colpi di pistola. D. Bosco si slanciò allora per separare due disgraziati che si avventavano uno contro l'altro col coltello in mano; ma giunse mentre uno gridava: - Prendi, tu ne hai abbastanza! - e l'altro cadeva a' suoi piedi spruzzandolo del sangue che usciva da una larga ferita nel ventre. L'omicida scomparve, e il ferito sulle braccia di due compagni fu trasportato all'ospedale, mentre rabbiosamente mormorava contro il suo feritore: - Me la pagherai: appena guarito ti farò la pelle. - D. Bosco gli tenne dietro esortandolo a perdonare, e quando gli parve che fosse cessato quel parossismo di vendetta, potè confessarlo alla bella meglio; e all'indomani l'infelice moriva. Non finivano mai queste sfide senza che restassero sul terreno varii giovani con gravi ferite e talora mortali.

                D. Bosco si era assunta questa missione per impedire l'offesa di Dio e la perdita delle anime. Quando ebbe con sè preti e chierici raccontando ad essi le vicende dei primi anni dell'Oratorio, una volta diceva: “Un giorno un gran numero di giovani esterni si presero il barbaro piacere di venire a battaglia qui vicino al nostro Oratorio. Scagliavansi sassi tali da rimanersene morto chiunque ne venisse ben colpito. Io accorsi subito e con segni e con grida cercava di trattenere [331] quei forsennati; ma nulla valeva. Allora dissi fra me Ma questi giovani corrono grave pericolo; qui c'è l'offesa di Dio; che io debba lasciar proseguire impunemente questa lotta micidiale? No! La voglio impedire a qualunque costo. A mali estremi, estremi rimedii. - Che cosa ho pensato? Ciò che prima d'allora non aveva mai fatto. Vedendo questa volta inutili le mie parole, mi sono gettato in mezzo a quel turbinare di proiettili e scagliatomi addosso ad una parte belligerante, a scapaccioni e a pugni ne atterrai un gran numero e gli altri misi in fuga; corsi poscia su quelli della parte opposta….. e feci lo stesso. In tal modo ottenni che cessasse quel disordine,

                causa di tante funeste conseguenze. Io rimasi padrone di quei prati e per quel giorno nessuno osò ritornarvi, e quando volli ritirarmi, fui salutato da qualche urlo lontano. Dopo che rientrai in casa, pensava: Ma che cosa ho fatto? Io poteva essere colpito da uno di quei sassi, ed essere stramazzato a terra!.... Ma nè in questo, nè in simili altri casi mai, mi accadeva alcun male, eccetto una volta che ricevetti un colpo di zoccolo sulla faccia e ne portai il segno per alcuni mesi. E proprio com'io dico: quando uno confida nella bontà di sua causa non teme più nulla. - E dopo una breve pausa, riprendeva: - Io sono così fatto: quando vedo l'offesa di Dio, se avessi contro ben anco un esercito, io, per impedirla, non mi ritiro e non cedo”.

                E Dio premiava il suo zelo, tenevalo incolume sotto la sua santa custodia e davagli autorità sopra quegli scapestrati. Allorchè alla Domenica invadevano la regione di Valdocco, andava subito in mezzo a loro, proibendo prima ai giovani interni ed a quelli dell'Oratorio festivo di venirgli dietro. I giovani con trepidazione stavano osservandolo, dietro alle siepi ed agli alberi o sporgendo sul ciglio dei muricci. Lo vedevano impavido in mezzo a quel tumulto [332] senza che gliene venisse mai alcun male grave e neppure contusioni, benchè i sassi lo colpissero talora nelle spalle o nelle gambe. Ma per lo più al suo comparire si spargeva la voce tra quei mascalzoni: - C'è D. Bosco, c'è D. Bosco! - E ciò bastava perchè la maggior parte si dileguasse. Gli altri si avvicinavano a D. Bosco, il quale con raccomandazioni affettuose, con facezie argute, e talora con rimproveri, cercava di persuaderli del gran male che facevano. Mentre parlava, le lame dei coltelli già aperti erano ripiegate nel manico e messe in saccoccia con precauzione, perchè D. Bosco non le vedesse; chi stringeva il sasso, apriva la mano facendolo sdrucciolare lungo la gamba perchè non facesse rumore cadendo. E D. Bosco riusciva a ricondurli a sensi più miti se non altro per alcuni giorni.

                Le guardie spettatrici lontane di quei fatti affermavano, che il solo D. Bosco aveva animo di gettarsi in mezzo a quei terribili tafferugli, e che era il solo capace di ammansare quelle indomabili masnade.

                D. Giacomelli per ben tre volte vide D. Bosco avanzarsi risoluto in mezzo a due schiere, una delle quali dal circolo Valdocco bersagliava l'altra ben più numerosa che difendevasi presso lo spazio ove ora in Via Cigna si vede la trattoria di Viù. Ma ciò che maggiormente lo fece stupire si fu che rivoltosi D. Bosco agli uni e agli altri con aria d'imperio intimò: - Giù quelle pietre! - I giovani, sospesa la lotta, col sasso stretto in mano, lo guardavano indecisi, ma alla sua reiterata intimazione deposero i sassi per terra e si sbandarono.

                Molte volte però, fatto cessare nella Domenica quel tristo giuoco, li raccoglieva intorno a sè per istruirli. Siccome nemmanco coi più amabili inviti, poteva in nessun modo indurli ad entrare in chiesa, dicendo essi scherzando che [333] soffrivano l'odor della cera, così egli sedeva per terra in mezzo ai prati.

                Allora tutta quella marmaglia seduta o sdraiata sull'erba gli faceva corona, silenziosa e attenta. Ed egli colle sue buone maniere per circa un'ora insegnava il catechismo, e guadagnava sempre qualche anima a Dio.

                Siccome durarono molto tempo i fatti deplorevoli sopradescritti, così D. Bosco negli anni seguenti finiva quasi sempre le sue pacificazioni conducendo alcuni dei perturbatori della pubblica quiete a prendere stanza nell'Oratorio. Molti di quelli erano affatto poveri ed abbandonati dai parenti. Suo scopo precipuo era il tentativo di trarre a sè i capi delle cocche, e vide più volte che, accolto in sua casa uno di quei capi, la cocca si scioglieva. Era certamente necessaria molta pazienza e destrezza per tenere nell'ospizio senza pericolo simile razza di giovanetti, ma si potè fare una consolante constatazione. Costoro benchè si fermassero poco tempo nell'Oratorio e volessero ben presto uscirne, tuttavia neppur uno vi fu che tornasse ad immischiarsi in quegli assembramenti micidiali.

                Così D. Bosco otteneva in parte il suo scopo, ma non poteva in sul principio colla sua azione benefica sradicare quel male. L'eccitazione degli animi per la guerra cresceva e i più adulti e maneschi delle bande scapigliate erano assoldati dai mestatori per le dimostrazioni di vario genere che quasi ogni giorno mettevano a rumore la città. Secondo gli avvenimenti, era un alternarsi delle grida di gioia, di minaccia, di rabbia e di trionfo.

                Il 30 aprile Vincenzo Gioberti giovandosi dell'amnistia concessa ai proscritti politici, lasciava Parigi, ritornava in patria e smontava all’Hotel Feder. Saputosi il suo arrivo in Torino la stessa sera gli si fece una splendida ovazione [334] innanzi all'albergo e la città fu illuminata come nelle grandi feste. L'Abate però non era venuto solamente per ricevere omaggi. Siccome le sette repubblicane minacciavano di togliere alla monarchia Sabauda la direzione e i vantaggi dei movimento nazionale, i liberali monarchici ed il ministero speravano che egli in tale frangente avrebbe dato aiuto al loro partito. Gioberti accettava l'incarico. E infatti si era inteso a Parigi con Mazzini ed erasi convenuto che questi pel momento lascierebbe fare e non guasterebbe il procedimento legale degli avvenimenti. Nello stesso tempo aveva ricevuta la missione segreta di persuadere in tutta l'alta Italia l'unione degli Stati Italiani col Piemonte sotto lo scettro di casa Savoia, e l'occupazione degli Stati Pontificii, lasciando a Pio IX la solo Roma, sua vita naturale durante. Gioberti il 7 maggio si presentava a Carlo Alberto in Somma Campagna, e il 24 giungeva a Roma dopo aver percorso la Lombardia, la Liguria, la Toscana, accolto nelle città con tale frenesia di applausi e sfoggio d'onori che superano l'immaginazione. Salito in Campidoglio come un trionfatore, dichiarato cittadino Romano, acclamato professore alla Sapienza, visitava il Papa per ingannarlo sulle intenzioni dei liberali, lo confortava alla confederazione Italiana e gli proponeva di coronare Carlo Alberto colla corona ferrea in Milano. E Pio IX, che pur conosceva chi fosse Gioberti, gli aveva risposto che, ove questo giovasse a consolidare la pace e a rendere felice l'Italia, egli il farebbe. Gioberti erasi abboccato ovunque con tutti i capi partito e la sua opera non parve caduta a vuoto. La parte repubblicana per qualche tempo stette quieta, e buon numero di provincie deliberarono l'unione col Piemonte. Piacenza il 10 maggio, Parma il 25, Reggio il 26, Modena il 29, Milano l'8 giugno e il 4 luglio Venezia accettarono a sovrano Carlo Alberto. Torino aveva [335] ragione di tripudiare essendo riconosciuta per capitale di tanta e così nobile parte d'Italia.

                Intanto continuava la guerra. Il generale austriaco Nugent con 22.000 uomini il 16 aprile entrava nel Friuli dal lato dell'Isonzo, e dopo facile vittoria presso Palmanuova, il 23 occupava Udine e poi Conegliano, e il 5 maggio Belluno e quindi Feltre. Il 6 Carlo Alberto assaliva gli Austriaci a Santa Lucia sperando una sommossa in Verona, ma dopo un lungo combattimento i Piemontesi dovettero ritirarsi. Il 9 i soldati di Nugent respingono un assalto accanito, e i legionarii Pontificii che sostenevano questi scontri, sobillati da emissarii repubblicani, incominciano a rifiutare obbedienza ai loro capi ed a sbandarsi. A Napoli il 15, per opera dei ministri settarii che lavoravano per la repubblica, insorgono le plebi appoggiate dalla guardia nazionale e alzano le barricate. Ma le truppe regolari dopo un feroce combattimento per le vie e per le case spengono la sedizione. Siccome questa si riaccendeva nelle provincie e nella Sicilia ribellata, un partito volendo la repubblica e un altro offrendo la corona reale al Duca di Genova, Re Ferdinando, che aveva bisogno di tutti i suoi battaglioni, ordina che retrocedano quelli che erano partiti per la Lombardia. E fu obbedito con gran danno della causa nazionale. A Vienna i disordini continuati giungono al punto che l'Imperatore temendo per la sua vita il 17 corre a rifugiarsi ad Innsbruk. Il 20, il 22 e il 24 gli Austriaci tentano di entrare in Vicenza, ma il valore degli italiani rende vani i loro sforzi e poco dopo per due volte li rintuzzano anche a Bardolino.

        Il 29 maggio gli imperiali con più di cinquanta cannoni sloggiavano da Curtatone presso Mantova 4.000 volontarii la maggior parte toscani, i quali però resistettero con tale valore ed ostinazione, quale non si era ancor veduto in [336] quella guerra. Il 30 Radetzki, per soccorrere Peschiera assediata, assaliva i 20.000 Piemontesi che erano a Goito con quaranta cannoni e ributtato, si ritirava a Mantova. Allora Peschiera apriva le porte a Carlo Alberto. Per così fausto avvenimento in Torino e in tutte le città del Piemonte si pose mano a solenni funzioni in rendimento di grazie al Signore.

 

 

CAPO XXXII. Nuovi giovani ricoverati - L'albero della vita rifugio di un secondo fanciullo - Il piccolo barbiere - L'espulso dalla casa paterna - I primi Santi protettori delle camerate.

 

                STANCHI ed assordati dal fragore delle battaglie e dalle urla della piazza, cerchiamo qualche istante di riposo nella pace che rallegra la casa Pinardi. Quantunque un mille e cinquecento giovani della città si raccogliessero in giorno di festa nell'Oratorio di S. Francesco di Sales e in quello di S. Luigi Gonzaga, tuttavia troppi altri, come abbiam visto, per incuria dei parenti e dei padroni, ancor ne rimanevano erranti per le piazze e per le contrade, lontani dalle sacre funzioni. Tra questi ve n'era un drappelletto, avente a capo un garzoncello sui 16 anni, snello della vita, di carattere ardente, capace a guidare di per sè un reggimento di soldati. Costui aveva udito più volte da qualche suo amico parlare con entusiasmo di D. Bosco, come di un padre amoroso della gioventù, senza però rimaner impressionato da quelle lodi. Ora una Domenica del 1847, essendosi riuniti que' tristanzuoli nel consueto ridotto dei loro divertimenti, egli trova che manca un compagno e ne domanda agli altri la ragione.

                - Si è recato, risponde uno di essi, si è recato all'Oratorio di D. Bosco, un prete molto bravo che tratta la gente con buone maniere. [338]

                - Oratorio di D. Bosco? ripetè il giovanotto; ma che cosa è questo Oratorio? Che cosa vi si fa?

                - Dicesi che è un luogo, dove si raccolgono molti giovani; là corrono, giuocano, saltano, cantano e poi si ritirano in una chiesetta vicina a pregare.

                - Corrono, giuocano, saltano, cantano! Tutte cose che fanno per me; ma dov'è questo luogo?

                - È in Valdocco.

                - Andiamo a vedere, - conchiuse il capitanello; e gli altri lo seguirono. Giunto sul luogo, trovò chiusa la porta, perchè i giovani dell'Oratorio erano già ritirati in cappella. Ma il nostro bravaccione non si lascia vincere dai piccoli ostacoli e aggrappatosi su per il muriccio, vedendo nessuno nel cortile, saltò al di là come un gatto.

                Stava poi girovagando; e mentre osservava quel meschino Oratorio, che sembravagli non poter essere altro fuorchè una rimessa o una tettoia, essendo egli stato visto da taluno, venne interrogato e poi condotto in chiesa. Fin dal primo istante ci fu maravigliosamente sorpreso nello scorgere tanti giovani della sua età, condizione ed indole, modesti, divoti pendere dal labbro di un piccolo e venerando sacerdote, il quale li istruiva con semplicità, dolcezza, e affabilità. Chi predicava era il Teol. Borel, il quale proprio opportunamente parlava degli agnelli e dei lupi, facendo rilevare che i primi sono i giovani innocenti, e i secondi sono i compagni maliziosi e perversi. - Se non volete, egli diceva, se non volete essere sbranati dai lupi rapaci, fuggite, o miei cari giovani, dalle compagnie cattive, da quelli che bestemmiano, da quelli che parlano sconcio, da quelli che rubano, da quelli che stanno lontani dalla Chiesa. Alla festa poi venite all'Oratorio. Qui vi trovate come riparati nell'ovile; qui i lupi non entrano, e qualora entrassero, vi sono [339] anche i cani fedeli, vi sono dei buoni Sacerdoti, dei buoni assistenti, che vi difendono e vi custodiscono. - Queste ed altre consimili parole fecero una profonda impressione sul cuore dei giovanetto, che non mai in vita sua aveva udito una predica più adatta e più affettuosa di quella. Finito il breve sermone, s'intonarono le litanie, ed egli che aveva una bellissima voce e sentiva passione per la musica, prese parte a quel canto con un trasporto di gioia. Questa ineffabile allegrezza da lui provata per la prima volta era una chiamata di Dio che lo traeva a sè. Smanioso intanto di conoscere D. Bosco, e uscito di cappella, domandò ad uno dell'Oratorio: - Qual è D. Bosco? È forse quel piccolo prete che ha fatta la predica?

                - No, gli rispose l'interrogato; vieni con me e te lo farò conoscere. - E lo condusse dinanzi a lui, attorniato già da una turba di giovani l'accoglienza fattagli da D. Bosco fu tanto amorevole, che il giovanetto ne rimase profondamente commosso. Dopo alcune interrogazioni sopra il suo stato e sovra la sua condizione, lo invitò a prendere parte ai trastulli, lo fece cantare da solo, ne lodò la bella voce, gli promise di fargli imparare la musica, e cento altre cose. Una parolina dettagli in fine nell'orecchio, una di quelle potenti parole, delle quali egli solo aveva il segreto, finì per guadagnarlo appieno e legarlo a D. Bosco con un vincolo di sincerissimo affetto. Da quel momento il giovane sentissi interamente mutato. In quel mentre entrati nell'Oratorio e avvicinatisi a lui alcuni compagni del suo drappello, avendo saputo D. Bosco che amavano il canto, li invitò a dar prova della loro valentia. Accondiscesero volontieri; il capitanello si mise in mezzo a loro, che erano circondati da tutti i giovani accorsi per godere di quella novità, e furono cantati alcuni pezzi d'opera da teatro. Il capo orchestra aveva scelto quelli, che meglio [340] esprimevano le condizioni dell'anima sua. Tali armonie furono molto gradite e impegnarono sempre più D. Bosco a prendersi cura di quel giovanetto. D'allora in poi questi frequentò l'Oratorio festivo con una assiduità esemplare, conducendovi ancora parecchi suoi compagni.

                Ma era nella più profonda ignoranza della dottrina cristiana, che aveva interamente dimenticata; e persino della stessa orazione domenicale, causa per cui alcuni anni prima, essendo già stato ammesso alla Comunione, il parroco di S. Agostino gliela aveva proibita. D. Bosco, intenerito dal miserando suo stato, nel secondo suo abboccamento con lui lo invitò dolcemente a portarsi nel coro della cappella, dicendogli che sarebbe tosto venuto ad ascoltare la sua confessione. Era sua industria girare attorno nel cortile, mentre i giovani si ricreavano, per raccogliere quelli che il suo occhio penetrante, e diremo, ispirato, conosceva aver più bisogno della sua carità. In fatti avendo questo suo nuovo amico di primo slancio aderito alla sua proposta, trovò già riuniti allo stesso scopo più altri giovani. Venuto il suo turno, versò il suo cuore in quello di D. Bosco e udì un'altra parola che infuse nell'anima sua una pace ineffabile. Dopo la confessione Don Bosco si offerse d'istruirlo meglio nei rudimenti della fede: ma siccome aveva bisogno di un'istruzione particolare, così lo affidò alle cure dei buon sacerdote D. Pietro Ponte, in allora suo commensale. Questi lo riceveva tutti i giorni e gli insegnava il catechismo. Non fu difficile il suo cómpito per l'attenzione e l'ingegno dell'allievo, e per il richiamo alla mente di quelle lezioni già apprese alla parrocchia, sicchè dopo quindici giorni ei, per le mani dello stesso D. Bosco, faceva la sua prima Comunione.

                In seguito l'Oratorio divenne il suo luogo prediletto, lo frequentava almeno tutti i giorni e non di rado più volte al [341] giorno. In quelle ore imparava la musica, che ben presto potè eseguire tanto nell'Oratorio come altrove. La sua bella voce dominava armoniosamente quella dei compagni allorchè alla sera dopo la scuola faceva risuonare i viali di varie lodi alla Madonna, mentre tutti ritornavano alla propria casa accompagnati per un piccolo tratto da D. Bosco.

                Ma questa non è che una parte del racconto. Qui è da sapersi che il povero ragazzo aveva due genitori, che potevano chiamarsi meritatamente due persecutori. I maltrattamenti erano quotidiani: e ben sovente, dopo avergli logorata tutto il giorno la vita, gli facevano soffrire la fame. Dell'anima non si curavano nè punto nè poco; anzi quando seppero che egli frequentava l'Oratorio, presero a dargliene la baia per allontanarmelo.

                D. Bosco sapendolo in siffatta tribolazione e pericolo lo veniva incoraggiando, ed una volta tra le altre vistolo a piangere gli disse con grande effusione di cuore:

                - Ricordati che in ogni evento io ti farò sempre da padre, e tu trovandoti a mal partito fuggi a casa mia. - Questo fatto non tardò ad accadere. Fioriva la primavera del 1848. Il padre suo esercitava l'arte del compositore tipografo, e una sera in tipografia, essendo caduto il discorso su Don Bosco e il suo Oratorio, egli, disse al figlio: Voglio che tu la finisca, e fin di Domenica ti guarderai bene dal recarti da quel…. - e qui eruttava una villania ed una bestemmia. Il figlio, quantunque rispettoso, stanco dal lavoro, affranto dalla privazione di cibo, e offeso dalle continue ingiurie e minacce, aveva nondimeno la lingua molto sciolta, e gli rispose pertanto: - Se all'Oratorio io imparassi a rubare, a rissare, o a fare lo scellerato, avreste ragione di proibirmi che io vi andassi; ma colà io imparo nulla di male, anzi m'insegnano persino a leggere, a scrivere e a far conti; [342] perciò io ci voglio andare e ci andrò sempre. - Ci andrai sempre? - rispose il padre, e in così dire gli dà tale uno schiaffo da fargli girare il capo. Il povero figlio, temendo di peggio, prende la porta e fugge verso l'Oratorio. Quivi giunto chiede di D. Bosco e avendo appreso che non aveva fatto ancora ritorno a casa, temendo di essere raggiunto da sua madre, si arrampicò sopra il gelso innanzi al portone che colle ricche sue foglie lo nascose agli sguardi della gente. Erano le 8 di sera.

                Egli attendeva con grande trepidazione l'arrivo di Don Bosco. Intanto incominciarono a sfilare i giovani che si portavano alla scuola serale, finchè venne D. Bosco e nello stesso tempo in fondo alla via compariva sua madre. Persuasa che si fosse colà fuggito, voleva ricondurlo a casa. D. Bosco si fermò alla voce della donna, che, affrettando il passo lo aveva chiamato. Entrati ambedue in cortile, tra Don Bosco e quella brava madre s'ingaggiò un dialogo, anzi un diverbio che durò lungamente, poichè essa insisteva ingiuriando e protestando essere suo figlio nascosto nell'Oratorio. Molti giovani erano accorsi alle sue grida li figlio inosservato ascoltava quel poco dilettevole dialogo e non temeva altro, se non che qualche occhio si portasse all'albero e lo scoprisse. Intanto D. Bosco, e i giovani che ignoravano la vicinanza dei loro compagno, asserivano, secondo verità, alla madre, che si mostrava incredula, di non averlo veduto. Partita la madre il figlio incominciò a respirare e attese, per discendere dall'albero, che le scuole finissero e i giovani si fossero allontanati. Allora scivolò a terra e, attraversato il cortile deserto, andò a picchiare alla camera di D. Bosco. Il buon sacerdote sommamente sorpreso di vederlo, e udito il racconto dell'avvenuto lo accolse e accettò in casa, gli fece somministrare pane e minestra dalla veneranda sua madre e [343] gli assegnò un letticciuolo per riposare nella notte. La dimane il giovanetto, incontrata sua madre che ritornava a ricercarlo, ottenne il suo pieno consenso per rimanere all'Oratorio. Questo giovane chiamavasi Reviglio Felice che fu Teologo Curato della stessa sua parrocchia di S. Agostino, esaminatore prosinodale e da lui stesso abbiamo raccolta la descrizione di questo fatto.

                Da prima, e per tutto l'anno 1848, egli fu applicato ad imparare l'arte di legatore da libri. Le delicatezze, per l'addietro a lui sconosciute, della carità lo avevano completamente cambiato. Essendo di gran cuore ed ingegno, di una pietà viva ed ardente, talora faceva mirabili discorsetti ai suoi compagni. Avendo naturale inclinazione per la musica, la imparò a meraviglia. Ricevette lezioni di pianoforte da D. Bosco, e riuscì buon suonatore di organo e il braccio destro di lui nelle partite e feste musicali.

                Un'altro dei fanciulli raccolti nel 1848 merita pur qui una particolare memoria. D. Bosco entrò un giorno in una barberia di Torino per farsi radere la barba. Colà egli trovò un ragazzetto che vi faceva l'apprendista, e secondo il suo solito gli volse tosto la parola per guadagnarlo al suo Oratorio festivo.

                - Come ti chiami, caro mio?

                - Mi chiamo Carlino Gastini.

                - Hai ancora i tuoi genitori?

                - Ho solamente più la madre.

                - Quanti anni hai?

                - Undici.

                - Hai già fatta la tua prima Comunione?

                - Non ancora.

                - Vai al Catechismo?

                - Quando posso ci vado sempre. [344]

                - Oh! bravo, bravino! Ora in paga voglio che tu mi faccia la barba.

                - Per carità, disse allora il padrone, non si arrischi, signor Teologo, perchè questo ragazzo è da poco tempo che impara, ed è appena capace a radere la barba ai cani.

                - Non importa, signor mio, rispose D. Bosco: se il garzoncello non fa la prova, non imparerà mai.

                - La mi scusi, mio reverendo; la prova, se occorre, gliela farò fare sulla barba di un altro, ma non su quella di un Prete.

                - Oh! bella! la barba mia è forse più preziosa che quella di un'altro? Non si affanni dunque, signor barbiere; e qui svelato il suo nome, la mia barba, soggiunse, è barba di Bosco:[24] purchè il suo apprendista non mi tagli il naso, il resto non cale.

                Fu quindi giuocoforza che il piccolo barbiere si accingesse all'operazione. Non occorre il dire che sotto quelle mani inesperte e tremanti il povero D. Bosco dovette ridere e piangere ad un tempo; ma lasciò fare intrepidamente. Finito il cómpito - Non c'è malaccio, disse al fanciullo il paziente Sacerdote, non c'è malaccio; poco per volta, e tu diventerai un famoso Barbiere. - Egli s'intrattenne ancora alquanto con lui, lo invitò all'Oratorio per la Domenica veniente, e il fanciulletto glielo promise di cuore. Pagato poscia lo scotto al padrone, D. Bosco se ne partì, palpandosi per istrada di quando in quando la faccia, che assai gli bruciava, contento nondimeno di essersi guadagnato l'affetto di un nuovo ragazzo.

                Il Carluccio tenne la data parola, e la Domenica dopo fu all'Oratorio. D. Bosco ne lo encomiò altamente, lo fece [345] trastullare coi compagni e prendere parte alle sacre funzioni. Terminate le quali, il buon Prete avutolo a sè gli disse all'orecchio una di quelle parole che guadagnano i cuori, e menatolo in sacrestia lo preparò convenientemente e ne udì la confessione. Fu tanta la contentezza che il fanciullo provò in quell'atto, che ad un punto si pose a piangere dirottamente, e trasse le lagrime anche a D. Bosco. Da quel giorno l'Oratorio divenne il luogo di sua predilezione, e nel giorno festivo appena era in libertà vi correva tantosto. Egli profittava sì bene degli insegnamenti che gli si davano, che nella sua bottega quando udiva qualcuno ad uscire in cattivi discorsi lo rimbrottava dicendo: Non avete vergogna di parlare in tal modo alla presenza di un fanciullo? e lo faceva tacere.

                Erano passati pochi mesi da questo felice incontro, quando il giovinetto già orfano di padre perdeva la madre. Un suo fratello maggiore si trovava sotto le armi; ed egli rimasto solo con una sorellina fu di soprassello cacciato in mezzo ad una via dal padrone di casa, perchè la madre durante la malattia non aveva potuto pagare la pigione. Una sera pertanto D. Bosco veniva verso Valdocco, quando arrivato presso al così detto Rondò, ode i singhiozzi di un fanciullo. Gli si accosta e vede il suo piccolo barbiere immerso nel dolore e nel pianto. - Che cosa hai, gli domanda, Carlino mio? Ed il poveretto con un parlare interrotto dai singulti gli racconta la dolorosa storia. D. Bosco ne fu intenerito, e come se Dio gli avesse fatto trovar un tesoro, prende per mano, il desolato orfanello e se lo conduce all'Ospizio. La sorellina fu alla sua volta alloggiata in casa di povera, ma cristiana donna, e poscia collocata all'Ospizio di Casale Monferrato, dove terminava i suoi verdi anni nella pace dì Dio. Il nostro giovinetto poi fu istruito, e crebbe morigerato e pio, a D. Bosco affezionatissimo. [346]

                Un mattino D. Bosco incontrò un giovanetto coi panni che gli cadevano a brandelli, bagnato dalla rugiada della notte, seduto presso il fosso di un viale, tremante dal freddo e coi segni di molti patimenti sul viso.

                - Che cosa fai qui solo?

                - Mio padre ieri mi ha cacciato di casa...

                - Ne avrai fatto qualcheduna delle tue

                - Oh no! Il mio padrone mi congedò dalla fabbrica perchè non ero capace di certi lavori. E lui tornato a casa, furioso afferrò un bastone ed io dovetti fuggire.

                - Come ti chiami?

                - Andrea S...

                - E hai mangiato?

                Ed il giovane abbassando la voce: - Ho rubato una pagnotta al panettiere.

                - E se ti mettevano in prigione, poveretto! - E il giovine incominciò a piangere. D. Bosco lo consolò con affettuose parole, lo condusse all'Oratorio, e siccome era suo continuo impegno di rendere i giovani sottomessi ai padri, placare questi se erano offesi e far loro chiedere le debite scuse dai figli, mandò D. Giacomelli ad intercedere grazia a nome suo per quel poveretto. Ma il genitore si mostrò duro, irragionevole; e allora D. Bosco pieno di compassione, accrebbe di uno i suoi ricoverati.

                Dopo questi, D. Bosco nel 1848 ritirava in casa altri cinque giovani dei più bisognosi, prendendo a pigione altra stanza, sebbene a prezzo esorbitante non essendo ancor libera la casa da tutti gli antichi inquilini. Cosi il numero totale dei ricoverati ascese a 15. Intanto incominciò a dare il nome di un Santo protettore ad ognuno di quei poveri dormitorii, o famiglie come esso allora chiamavale, perchè i giovani fossero animati sempre più alle pratiche di pietà e di religione, e i primi [347] furono: S. Giovanni, S. Giuseppe, S. Maria, il Santo Angelo Custode.

                Sua madre, nel veder crescere il numero dei ricoverati, e se un posto rimaneva vacante, venir subito occupato da un nuovo giovine, spesso interrogava D. Bosco: - E che cosa vuoi dar loro da mangiare, che non abbiamo nulla? - E D. Bosco scherzando: - Loro daremo dei fagiuoli: non prendetevi di ciò fastidio. - Altra volta gli aveva detto: - Ma se tu fai sempre così e tutti i giorni mi conduci in casa dei giovani nuovi, non ti resterà nulla per te, quando sarai vecchio. Mi resterà sempre, rispondeva D. Bosco, un posto all'Ospedale dei Cottolengo. Ma se questa mia impresa è opera di Dio, andrà avanti. - E Margherita riposava tranquilla sulla parola del figlio, essendo testimone dei miracoli continui della Divina Provvidenza.

 

 

CAPO XXXIII. Maniera di vita dei primi ricoverati - Refettorio romantico - Il cucchiaio in tasca Il pane e i soldi per comprarlo - Il discorsetto alla sera - L'esercizio di buona morte - Visita ai laboratorii - Premiazione per voto comune - Le scuole e i mestieri - Il lepido cuoco - Il Padre adottivo - I giovani dopo il pranzo e la cena di D. Bosco - La prima parola sulla Patagonia.

 

                NON SARA' discaro al lettori sentire la maniera i vita dei primi giovani ospitati da D, Bosco. Nei primi giorni dal loro ingresso egli trattenevali in casa, insegnava loro le orazioni, li istruiva nelle verità della religione, li preparava ad accostarsi ben presto ai Sacramenti. Assicuratosi della loro buona volontà e condotta, pensava a qual mestiere potessero applicarsi. Quindi li collocava in città presso capi di laboratorio, che erano da lui conosciuti come oneste persone e buoni cristiani. Egli stesso con grande bontà li accompagnava per la prima volta, presentandoli ai padroni ed assicurandosi che loro non sarebbe mancata una coscienziosa vigilanza. Nell'interesse dei giovani patteggiava che fossero ben trattati ed istruiti nell'arte. Non cercava tanto la retribuzione, quanto la sicurezza che non sarebbero stati da nessuno indotti al male e che gli altri operai non avrebbero mai proferite bestemmie, o discorsi osceni. Voleva [349] soprattutto che fosse impedita l'offesa di Dio. Così continuò eziandio quando il numero dei giovani era cresciuto d'assai.

                L'orario della giornata ripartivasi con questa norma:

                Al mattino alzati di letto, più o meno di buon'ora, secondo la stagione, e fatta pulizia, discendevano in cappella, ascoltavano la Messa di D. Bosco, il quale pur con suo gran disagio, sempre scendeva in chiesa anche nel più freddo inverno. Recitavansi durante la medesima le orazioni e la terza parte del Rosario, e si finiva con una breve lettura spirituale. Alcuni di maggior pietà facevano anche la santa Comunione. Affinchè tutti avessero comodità di compiere questo atto solenne, D. Bosco o alla sera o al mattino per tempo prestavasi di buon grado ad ascoltare le confessioni di coloro che desiderassero di riconciliarsi. Questo ad esempio di lui si pratica tuttora in tutte le Case Salesiane, con immenso vantaggio spirituale e conforto dei giovanetti.

                Terminata la Messa, ognuno si recava in città presso il rispettivo padrone, lavorando chi da sarto, chi da calzolaio, chi da falegname, legatore, muratore, e via via, perchè non si ebbero i laboratorii interni se non nel 1856. A mezzodì tornavano a casa pel pranzo. Allora ciascuno, dato di piglio ad una scodella o ad un pentolino di terra cotta, si accostava al paiuolo, che fumava sul focolare o era stato posto sopra uno sgabello presso la porta d'entrata; e la buona mamma Margherita, e sovente Buzzetti Giuseppe, e talora lo stesso D. Bosco colla mestola alla mano distribuiva la minestra. Questa consisteva per lo più in riso e patate, talora paste e fagiuoli e più sovente castagne bianche cotte insieme con farina di meliga, che formava un intriso, manicaretto per i giovani ghiottissimo. Anche la polenta la si metteva nella scodella, ma in quel caso o la si spruzzava di cacio grattugiato, o la si aspergeva con qualche intingolo, lasciandovi [350] scorrere talvolta un pezzettino di salsiccia o di merluzzo cotto, soprattutto nelle principali solennità, talora mentre si scodellava, ad una finestra a pian terreno compariva D. Bosco, tenendo in mano un pomo e additandolo ad un giovanetto il quale contento si arrampicava al davanzale per riceverlo. Tutto spirava la più schietta allegria in quella poverissima casa, e quando D. Bosco, data la benedizione al cibo, augurava ai suoi figli il buon appetito, scoppiava una delle più gioviali risate, perchè vedevano da sè di non aver bisogno di simile augurio.

                Romantico poi il refettorio. Nelle belle giornate, dispersi qua e colà nel cortile, a gruppi di tre o quattro, alcuni soli, seduti quale sopra una trave, quale sopra un sasso o un ceppo d'albero, questi su di una panca, quelli sulla nuda terra, davano fondo a quel ben di Dio, che loro sommistrava la industriosa carità di D. Bosco. Nei casi d'intemperie mangiavano presso la stessa cucina e seduti sul pavimento di una stanza, e alcuni sui gradini della scala e altri nel dormitorio. E per bere?... scaturiva là presso una sorgente di acqua freschissima, e quella, senza costo di spesa, era la loro botte e la loro cantina.

                Pranzato che si aveva, ciascuno lavava la sua scodella e la riponeva in luogo sicuro. Ma d'inverno, quando faceva molto freddo e si provava ripugnanza a mettere le mani nell'acqua, i giovani, con una partita di giuoco, facevano decidere dalla sorte chi dovesse lavare la propria scodella, e il perdente talora ne risciacquava due, tre ed anco di più.

                Ognuno era poi il custode dei suo cucchiaio. Perdutolo, se lo doveva provvedere a sue spese; quindi lo si guardava gelosamente. A questo fine, non avendosi in refettorio cassetto a parte, ciascuno per lo più se lo metteva in tasca. Al qual proposito accadde una volta un episodio, che riscosse le risa [351] più saporite. Un certo Conti Paolo, andando a scuola in città, lasciossi tra i suoi condiscepoli cadere di tasca il celebre arnese. A quella vista fu unanime l'esclamazione: Oh! un cucchiaio! e tutti si diedero a ridere e a celiare a spese di lui. Il giovane Conti, come se il portare il cucchiaio fosse la cosa più naturale ed ovvia del mondo, senza scomporsi rispose: Oh! Volete che io venga a scuola senza cucchiaio? Ciò detto, con tutta gravità lo raccoglie e lo rimette in tasca meglio assicurato.

                Ad un'ora e mezza si ritornava al lavoro. La sera, rientrati in casa, si cenava da tutti, mangiando di bel nuovo una scodella od un pentolino di minestra. Talvolta alcuni erano trattenuti dai padroni nella bottega, e le galline salivano sulla tavola per beccare nelle scodelle. I giovani che stavano osservando, avvisavano mamma Margherita, che per un istante aveva rivolti gli occhi altrove, e facevano le risa più cordiali, dicendo che quelle galline erano inviolabili come i deputati al Parlamento.

                Fin qui non ho parlato dei pane. Si ha da sapere che in quel principio D. Bosco, invece di somministrarlo a tavola, ogni sera, radunati in refettorio i suoi artigiani, distribuiva a ciascheduno 25 centesimi affinchè se lo provvedesse giorno per giorno. “Ne' suoi occhi, diceva D. Reviglio, brillava allora un raggio così caro ed amorevole con un sorriso così soave, che dopo cinquant'anni io l'ho sempre presente, non posso dimenticarlo, e mi riempie ancora oggigiorno di consolazione. Egli in quel mentre soleva dirci La Divina Provvidenza li dà a me, ed io li dò a voi.

                Con tale somma quotidiana, ognuno al mattino uscendo in città si comperava quel tanto di pane che gli occorreva. Quei di buona bocca provvedevansi pane inferigno, o biscotto da soldato; i più delicati tendevano al pan buffetto. [352] Chiunque per altro sapeva regolarsi, ne aveva non solamente a sufficienza, ma in quei tempi di cuccagna essendo le derrate a buonissimo prezzo, poteva ancora risparmiare un soldo per comperarsi un po' di pietanza. Talora qualcuno si comprava una bottiglietta d'olio e d'aceto e D. Bosco gli permetteva di raccogliere erbe nell'orto per farsi una insalata. Per la Domenica però si aggiungevano sempre altri cinque centesimi per il companatico. Ai migliori, e che non sprecavano, D. Bosco dava al sabato tutta la somma fissata per l'intiera settimana. Tale usanza durò fino al 1852. In questa guisa i giovani imparavano a divenire buoni massai e savii economi, avvezzandosi fin d'allora a sapersi regolare, quando si fossero trovati liberi di sè in mezzo al mondo. E ne avevano bisogno. Basti dire che uno di quei primi ricoverati vendette il materasso per otto soldi. Fortuna volle che D. Bosco venisse a saperlo. Egli fece ben tosto rescindere il contratto, dando al venditore una buona lezione di economia e al compratore una di giustizia.

                Durante la cena si raccoglievano presso l'Ospizio i molti giovanetti che frequentavano l'Oratorio festivo, e ad una certa ora, dopo che gli alunni interni eransi alquanto ricreati con alcuni giuochi, incominciava la scuola serale. Il campanello aveva già fatto il giro dei prati suonando a raccolta per gli esterni. Con una breve preghiera si dava principio e termine ad ogni occupazione di studio e di lavoro. D. Bosco, come altrove abbiamo notato, vigilava sulle varie classi e nel tempo stesso faceva scuola. Talora, non avendo potuto cenare prima, assisteva ed insegnava mangiando e specialmente ai ricoverati. Quindi l'avreste veduto col boccone tra i denti correggere questo che leggeva male, addestrare a far conti quell'altro che ignorava la tavola pitagorica, accomodare la penna tra le dita a chi incominciava esercizii di scrittura. La scuola [353] si faceva tutte le sere, e durava circa un'ora. Si eccettuava il sabbato, affinchè ognuno avesse comodità di andarsi a confessare. D. Bosco diceva non aver trovato nessun altro mezzo, migliore per allontanare i giovani dal vizio ed avviarli alla virtù, che la confessione settimanale.

                Finita la scuola, i giovani esterni recavansi alle rispettive case e gli interni, raccolti, recitavano insieme con D. Bosco le orazioni. Augurata poscia la buona notte a colui che loro faceva da padre, e ricevutone un grazioso contraccambio, andavano in cerca del loro letto, che il sonno, la stanchezza e soprattutto la gioia del cuore rendevano soffice e come sprimacciato, quantunque non fosse per i più che un saccone pieno di foglie o di paglia, disteso su due assi, sostenuti da pochi mattoni. L'Oratorio era allora una vera famiglia. Al sabato ritardavasi l'ora di andare al riposo. Quando alla Domenica non vi erano speciali solennità, egli tornava a casa tardi dopo aver sbrigati molti affari che aveva in Torino, e si metteva a confessare verso le nove dopo che i giovani avevano cenato; questi lo aspettavano pazientemente poichè le loro confessioni non finivano prima delle 11 o 11 e mezzo. E così continuossi fino al 1856. Il mattino della Domenica era intieramente consacrato a confessare gli esterni.

                Con varie industrie egli cercava di addestrarli ad essere perseveranti nel ben operare. E in primo luogo col far loro di quando in quando un breve sermoncino famigliare alla sera subito dopo terminate le orazioni. Egli dava gli avvisi occorrenti pel buon andamento della casa, raccontava qualche fatto edificante, oppure li intratteneva con una piccola istruzione per inculcare i buoni principii di pietà e di moralità. Sempre in guardia perchè i suoi giovani non avessero a prendere nessun cattivo esempio, loro raccomandava di stare ben guardinghi nell'uscire fuori dall'Oratorio o nel ritornarvi [354] e di fuggire le cattive compagnie: Valdocco era un luogo dei più deserti e più pericolosi della città. Dava loro eziandio savii consigli sul modo di comportarsi presso i padroni. Insisteva perchè attendessero bene al mestiere da cui dovevano poi ricavare il necessario sostentamento. E aggiungeva: - La preghiera, ecco la prima cosa; e colla preghiera il lavoro: chi non lavora non ha diritto di mangiare. Ma insisteva molto che si praticassero con fedeltà gli esercizii di divozione, senza badare ai bisogni del lavoro. Inculcava ed otteneva che si distinguessero per la divozione in chiesa, per la diligenza e docilità nelle officine e per moralità in tutta la loro condotta. Dissipava eziandio qualche cattiva impressione che erasi accorto aver essi ricevuta lungo la giornata. Perciò s'informava delle cose che avevano udite e se avessero corso pericoli, e sapeva in bel modo correggere le storte massime udite e dare opportuni consigli per preservarli da ogni scandalo, e li premuniva contro gli errori del giorno, sicchè potessero rispondere a quelli che spropositavano in materia di religione. Nell'intento eziandio di sempre meglio educarli, li ammaestrava intorno a tutte la sacre solennità, ed alla vigilia di queste dava un cenno della festa che sarebbesi celebrata, cosicchè quasi senza avvedersene l'animo loro rimaneva imbevuto dello spirito della Chiesa. Non lasciava mai passare alcuna festa del Signore o di Maria SS. senza preparare i giovani a celebrarla divotamente coll'accostarsi ai santi Sacramenti.

                E siccome la frequenza a questi era il fine di tutte le sue sante industrie, perciò prima della Messa non permetteva mai alcun giuoco; dava tutta la comodità di confessarsi, ogni giorno vi erano alcune comunioni e alla Domenica pressochè tutti si accostavano alla sacra mensa. D. Bosco aveva stabilito il principio: La frequente Comunione e la [355] Messa quotidiana sono le colonne che devono reggere un edificio educativo.

                Metteva eziandio una cura speciale affinchè i giovani si facessero una esatta idea delle indulgenze e delle condizioni necessarie per acquistarle, e qualche giorno prima delle solennità dava l'annunzio di quelle che potevansi lucrare, specificando ogni qual volta erano applicabili alle anime del purgatorio.

                Un altro mezzo efficacissimo fu l'esercizio di buona morte.

                Appena ebbe giovani interni, fece loro prendere parte cogli esterni a tale esercizio, e poi li divise assegnando sul principio l'ultima Domenica del mese per questi, e la prima a quelli dell'Oratorio festivo. Loro insegnava a farlo in modo proficuo. Esortavali a disporre tutti gli affari spirituali e temporali come se in quel giorno dovessero presentarsi al tribunale di Dio e coi pensiero di una chiamata improvvisa all'eternità. Alla sera della vigilia inculcava che riflettessero come avevano passato il mese antecedente, e che il domani mattino si confessassero e comunicassero come se realmente fossero in punto di morte.

                Agli amatori del mondo parrà che il ricordo della morte dovesse riempire di funesti pensieri la fantasia dei giovanetti; eppure questo era la cagione della loro pace e della loro allegrezza. Ciò che turba le anime è l'essere in disgrazia di Dio: togliete il peccato e la morte non fa più paura; perciò diceva loro D. Bosco: “Quando il giusto muore, quel Dio che egli ha servito ed amato, corre in suo soccorso, colla Vergine SS. e lo conforta nell'agonia, lo riempie di coraggio, di confidenza, di rassegnazione e lo conduce trionfante in paradiso”.

                E l'effetto delle sue parole era quale esso desiderava, tanto più che i giovani erano eccitati dal suo esempio. Talvolta, per [356] allettarli colla varietà, sceglieva in giorno feriale luoghi fuori dell'Oratorio per fare la comunione e recitare le preghiere prescritte, conducendoli a qualche chiesa in campagna e quando erano ancor pochi, eziandio nell'oratorio privato di famiglie divote e benefattrici.

                E a proposito della morte di quando in quando parlando alla sera ripeteva al giovani un avviso importantissimo, che era argomento eziandio delle sue prediche: “Siccome, o cari figli, potrebbe succedere che doveste passare da questa all'altra vita con una morte subitanea, o per una qualche disgrazia, o per una malattia che non vi lasciasse tempo a chiamare un prete e ricevere i santi sacramenti, così vi esorto a fare sovente durante la vita, anche fuori della confessione, anzi tutti i giorni, atti di dolore perfetto dei peccati commessi e atti di perfetto amor di Dio, perchè anche un solo di tali atti, congiunto col desiderio di confessarsi, basta in ogni tempo e specialmente negli estremi momenti a cancellare qualsiasi peccato e introdurvi in paradiso”. E colle statistiche alla mano loro faceva apprendere quanto grande fosse il numero dei cristiani che in punto di morte non potevano ricevere i sacramenti: loro spiegava la natura del dolore perfetto, e dimostrava la facilità di ottenerlo, essendosi dalla creazione di Adamo alla venuta del Salvatore, tutti i peccatori, a milioni e milioni, salvati coll'atto di contrizione perfetta.

                Con queste sante industrie adoperavasi nel sorvegliarli continuamente anche fuori di casa.

                Era suo costume di portarsi tutte le settimane ora dall'uno ora dall'altro dei padroni di officina o di bottega, per vedere co' proprii occhi e per informarsi minutamente della condotta e del profitto nel mestiere de' suoi giovani. Quando aveva buone notizie, per incoraggiarli, regalava loro qualche [357] coserella perchè avessero un po' di peculio da spendere in certe occasioni, p. es. di passeggiata. Li raccomandava intanto con insistenza alla vigilanza dei capi. Faceva loro capire che se egli procurava che i giovani apprendisti fossero docili e laboriosi, i padroni dovevano altresì dal canto loro, aver cura di ben istruirli nel loro mestiere e di tener lontano da essi ogni scandalo. Così egli riusciva a far del bene agli uni ed agli altri. Se qualcuno maltrattava i suoi figli, ne prendeva con fermezza la difesa, volendo che fossero trattati bene e che eziandio verso di loro, benchè piccoli, fosse rispettata la virtù della giustizia. Se in un laboratorio scorgeva pericoli per l'anima o per il corpo, risolutamente li cambiava di padrone. E del nuovo padrone cercava sempre informazioni, incaricandone più volte alcuni suoi amici, volendo notizie certe della loro condotta morale, dell'abilità nell'arte e se santificassero le feste. Quando non poteva egli stesso far nuove ispezioni, mandava altri di sua confidenza; e appena ebbe dei chierici, eziandio questi incaricò di tale vigilanza. Collo stesso zelo continuava ad assistere nelle officine i giovani esterni dell'Oratorio festivo, i quali conservandosi buoni e laboriosi formarono la propria felicità.

                Sapeva eziandio destare l'emulazione ne' suoi ricoverati. A stimolo ed anche a guiderdone di buona condotta Don Bosco stabiliva e introdusse poi una lodevole pratica, che rimase in vigore per molti anni, e fu la premiazione ai reputati migliori per voto comune. La distribuzione dei premii facevasi per ordinario alla sera della festa di S. Francesco di Sales a studenti ed artigiani. Nella settimana innanzi ognuno dei ricoverati scriveva sopra un foglio di carta il nome di un dato numero di compagni, che a suo giudizio parevangli di più specchiata condotta religiosa e morale, e lo consegnava a D. Bosco. Questi ne faceva [358] lo spoglio, e i sei, otto, dieci od anche più giovani, che ricevevano più voti, ossia che si trovavano più degli altri scritti nelle singole liste, venivano letti in quella sera e premiati alla presenza di tutti. È degno di considerazione che il giudizio dato dal compagni riusciva ogni volta così giusto ed assennato, che migliore non sarebbe riuscito quello dei superiori stessi. Nessuno infatti è più atto a conoscerci di chi ci frequenta, ci usa insieme alla famigliare, e senza che ce ne accorgiamo, ne spia le azioni e le parole.

                Non dobbiamo passare oltre nel nostro racconto senza far cenno dei varii mestieri che D. Bosco stesso esercitava in questi tempi. Anzitutto mentre gli artigiani stavano occupati in città, egli in casa in date ore del giorno continuava a far da maestro ad alcuni giovani di Torino, che mostravano maggior attitudine allo studio e lo venivano aiutando nell'Oratorio festivo e nella scuola serale. Con un metodo tutto suo e con una pazienza più unica che rara, egli in poco tempo li rese capaci ad intraprendere onorate carriere, o a condurre egregiamente i negozii di loro famiglia. In altro tempo, come asseriva D. Reviglio, dava lezioni di teologia ad alcuni chierici, mantenendo così la promessa fatta all'Arcivescovo.

                Nelle sere d'inverno e d'autunno alcuni dei suoi allievi tornando a casa al tramonto del sole, e altri non comparendo se non due o tre ore dopo, secondo portavano le esigenze dei rispettivi mestieri, D. Bosco cercava di dare ai primi venuti una proficua occupazione, perchè non oziassero. Buzzetti Giuseppe ci dipingeva una scena degna di un quadro fiammingo. Si radunavano tutti in cucina... Dalla soffitta pende un lume. In un angolo siede mamma Margherita, intenta a cucire una giubba. A cavalcioni di una panchetta un giovane appoggiato al tavolino scarabocchia il suo quaderno. Vicino [359] a lui un suo compagno studia la lezione col libro in mano e un altro recita ad alta voce alcune risposte del catechismo. In disparte quasi all'oscuro appoggiato alla parete un garzone fa stridere un suo vecchio violino. Presso alla porta nella stanza vicina si ode chi pesta i tasti della spinetta e più innanzi alcuni fanciulli eseguiscono colle carte in mano un pezzo di musica, rivolti a D. Bosco, il quale nello sfondo della scena, tolta dal fuoco la pignatta, segna la battuta col matterello fumante per la rimestata polenta.

                Ma ciò non basta: egli si dava in casa a più altre occupazioni. Non potendosi fidare di prendere gente di servizio, con sua madre faceva ogni lavoro domestico. Mentre Margherita si occupava della cucina, presiedeva al bucato, adattava e cuciva la biancheria e accomodava gli abiti logori, egli attendeva a tutte le più minute faccenduole. D. Bosco in questi primi anni, facendo vita comune coi giovani, allorchè non si muoveva di casa era pronto ad ogni servigio. Al mattino insisteva perchè i giovani si lavassero le mani e la faccia; ed egli a' pettinare i più piccoli, a tagliare loro i capelli, a pulirne i vestiti, assettarne i letti scomposti, scopare le stanze e la chiesuola. Sua madre accendeva il fuoco ed egli andava ad attingere l'acqua, stacciava la farina di meliga o sceverava la mondiglia dal riso. Talora sgranava i fagiuoli e sbucciava pomi di terra. Egli ancora preparava sovente la mensa per i suoi pensionarii e rigovernava le stoviglie ed anche le pentole di rame che in certi giorni facevasi imprestare da qualche benevolo vicino. Secondo il bisogno fabbricava o riattava qualche panca perchè i giovani potessero sedersi; e spaccava legna.

                Per risparmiare spese di sartoria tagliava e cuciva i calzoni, le mutande, i giubbetti e coll'aiuto della madre in due ore un vestito era fatto. Nella notte poi, allorchè i [360] giovani dormivano, andava per le camere raccogliendo quegli abiti che aveva visti sdrusciti, e ne faceva le richieste riparazioni.

                Se qualcuno cadeva ammalato, egli subito ordinava che fosse chiamato il medico e provvedeva quanto era necessario; e prestavagli ogni assistenza, servendolo come infermiere. Se era impedito destinavagli un compagno che esercitasse tale pietoso ufficio e fu il primo Felice Reviglio; e semprechè poteva si recava soventissimo a visitarlo di giorno e di notte.

                Il genovese Cigliutti narrava alcuni anni dopo a Villa Giovanni: “Il cuore paterno di D. Bosco, amante delle umiliazioni, a tutto si acconciava per amore dei giovani e non vi fu lavoro al quale siasi sottratto per farci del bene. D. Bosco ciò eseguiva collo stesso gusto e prontezza con cui faceva scuola o compiva i suoi ufficii sacerdotali, persuaso di fare la cosa più naturale del mondo, anzi un suo obbligo”. D. Bosco ricordava poi sempre con piacere questi primi tempi, che formavano uno dei più vaghi oggetti della sua fantasia. Narrava come più volte facesse cuocere la minestra, e contentasse i giovani con una spesa due volte più modica di quella solita a farsi giornalmente. I giovani erano rapiti all'ammirazione nel vederlo cinto di un grembiale e fare da cuoco. Allora mangiavano con maggior appetito. Loro pareva che la minestra e la polenta fatta da D. Bosco avesse un sapore squisito, e ne domandavano più volte. Servivano di gradita pietanza le amorevoli facezie che loro rivolgeva.

                - To', mio caro, diceva all'uno mangia con appetito, perchè l'ho fatta io - Fa onore al cuoco, e mangiane molta, ripeteva all'altro - Ti vorrei dare anche un pezzo di carne, soggiungeva ad un terzo, se lo avessi; ma lascia fare da me..  appena troveremo un bue senza padrone, voglio che stiamo allegri. - Con queste ed altre tali lepidezze, di [361] cui egli era fecondo, condiva così bene il pranzo e la cena, da far dimenticare ogni companatico. Questo però non mancava nei giorni solenni ed il buon Padre era lieto oltremodo quando con una sorpresa poteva fare qualche aggiunta straordinaria all'ordinario vitto quotidiano.

                Le sollecitudini di ogni sorta, e a costo di gravi sacrificii, che egli impegnava in favore de' suoi figli non si ponno descrivere in poche parole.

                Il Teol. Ignazio Vola ne era ammirato, ed essendo testimonio di quanto D. Bosco faceva non solo per gli alunni, ma eziandio per gli esterni, esclamò: - D. Bosco si sviscera per i suoi figliuoli! - E D. Giacomelli, che udì queste parole e a noi le riferiva, aggiungeva: - Io credo e son persuaso che questa espressione avesse nulla d'esagerato. Quanti giovani conobbero che cosa fosse amor di padre solo da quando s'incontrarono con D. Bosco!

                D. Bosco s'intratteneva sempre volentieri co' suoi ricoverati per cogliere il destro di indirizzar loro un consiglio, una parola amica, un avviso, un incoraggiamento. In questa guisa, mentre loro educava il cuore, e miglioravane la condotta, faceva loro passare allegramente la vita. Quindi, sebbene gran parte di essi fossero poveri orfanelli nondimeno pareva a tutti di trovarsi tra le gioie della famiglia. Tanta era la bontà del padre adottivo!

                Egli trattava tutti i suoi giovani senza parzialità, colle medesime dimostrazioni di benevolenza. Li amava tutti egualmente, e, per evitare fra di loro ogni gara, li assicurava di tratto in tratto di questa sua eguaglianza d'affetto. E ben la dimostrava coll'interessarsi pel bene spirituale e temporale di ognuno di essi, coll'ascoltarli pazientemente non solo in confessione, ma anche in ogni circostanza che ne lo richiedessero. E tutti erano persuasi di essere amati indistintamente, e nessuno [362] aveva motivo di concepire gelosia ed invidia. Ei desiderava che nei loro cuori regnasse la carità verso il prossimo e pressochè ogni giorno ripeteva quella sentenza dì S. Giovanni: Qui non diligit manet in morte. Li esortava ad essere caritatevoli non solo tra essi medesimi, trattandosi a vicenda con bontà e dolcezza, e perdonando pienamente le offese che uno poteva ricevere dall'altro, ma altresì ad essere generosi verso i poverelli che stentavano in Torino. Di questa carità esso ne dava continuamente l'esempio; perciò regnava tra i giovani la più gioviale concordia e taluni di essi si privavano talvolta di un soldo o di un pezzo di pane, per darlo ad un meschino che per via loro stendeva la mano.

                Su questa corrispondenza dei giovani alle insinuazioni di D. Bosco, così si esprimeva ancora D. Reviglio:

                “D. Bosco, per poter maggiormente conoscere l'indole dei giovani ed altresì per ispirare loro un grande desiderio di santificazione, permetteva loro di stargli continuamente ai fianchi, cosicchè non aveva ancor terminato il suo frugale pranzo e cena che già essi penetravano nel suo piccolo refettorio e lo circondavano; ed oh con quale compiacenza rammento l'accoglienza che ci faceva il nostro caro padre! Giunti a lui, noi lo stringevamo, e a cento a cento imprimevamo i baci su quella mano che ci beneficava. Malgrado la molestia che gli dovevamo procurare, egli tollerava con bontà gli sfoghi della nostra riconoscenza. Io poi, forse perchè più bisognoso del suo zelo, potei più volte rannicchiandomi sotto la tavola posare la mia testa sulle sue ginocchia. D. Bosco approfittava dì tal tempo o per raccontare qualche esempio edificante o per dir nell'orecchio ora all'uno ora all'altro e quasi a tutti una parola così dolce, che ci infondeva un vero entusiasmo per la virtù e orrore al peccato. Non è esagerazione l'asserire che dopo tale trattenimento, noi [363] uscivamo dalla camera con sempre maggior desiderio di essere buoni”

                Eziandio per questo motivo D. Bosco tutte le Domeniche faceva sedere alla sua mensa i due giovani che per turno gli avevano servita la santa Messa nell'intera settimana, i quali alla fine del pranzo avvicinandosi a lui per ringraziarlo, riportavano sempre l'incancellabile impressione di un santo consiglio.

                E giacchè abbiamo fatto cenno dei refettorio, diremo come egli spiegasse quivi un suo pensiero in quest'anno 1848, e lo manifestasse anche negli anni seguenti sedendo a mensa coi suoi primi convittori. Il giovane Bellia Giacomo, che abitava colla sua famiglia in una casa vicino all'Oratorio, dopo aver pranzato si affrettava a portare a D. Bosco i fogli cattolici, gli Annali della propagazione della fede e quelli della santa Infanzia. Sedutosi presso alla mensa, faceva ad alta voce lettura di quei fascicoli che tanto interessavano D. Bosco, il quale dopo aver udito la narrazione delle gesta dei missionarii, molte volte esclamava: - Oh! se avessi molti preti e molti chierici, vorrei mandarli ad evangelizzare la Patagonia e la Terra del Fuoco. E sai tu il perchè, o caro Bellia? Indovina!

                - Perchè forse è il luogo dove c'è più bisogno di missionarii, osservò Bellia.

                - Hai indovinato; perchè questi popoli finora furono i più abbandonati.

                D. Bosco adunque si sentiva già attirare dalla Provvidenza Divina verso quelle lontanissime regioni. - Era il tipo del santo prete, - esclamava D. Savio Ascanio. Se tutto il clero avesse fatto come lui, si sarebbe convertito il mondo universo. Si struggeva dal desiderio di convertire tutti i popoli e di salvare tutte le anime ed in lui era personificato il detto dello Spirito Santo: Zelus domus tuae comedit me.

 

 

CAPO XXXIV. Margherita Bosco e i giovani interni dell'Oratorio - Spirito di sacrificio, di carità e di prudenza - Vigilanza e rimproveri - Lodi cordiali - Misericordia verso i colpevoli - I proverbii - Amore materno e cristiano - L'ordine nell'Oratorio assente D. Bosco - Spirito di preghiera.

 

                LA NOSTRA descrizione della vita intima di casa Pinardi non è perfetta: oltre il padre i giovani ricoverati avevano la madre loro, Margherita Bosco.

                In lei splendevano le virtù di una vera madre cristiana, un buono spirito, molta semplicità, pazienza e carità. Era ammirabile la sua vita, tutta sacrificata in beneficio dell'opera santa di suo figlio. Si contentava del cibo frugale preparato per D. Bosco, cibo che se veniva suggerito dallo spirito di mortificazione, sovente era imposto dalla povertà. Non dava nell'occhio, vivendo ella ritirata; faticava continuamente e pregava sempre; e, col crescere dei giovani cresceva il suo lavoro. Tutti la chiamavano Mamma.

                Fra sola in questo tempo, eppure pensava e provvedeva a tutto. Oltre attendere alla cucina, rammendava i panni; le camicie, le mutande, le calze erano opera delle sue mani. Spettava a lei presiedere alle lavandaie. Facevasi una gloria che i giovanetti andassero convenientemente vestiti nei giorni feriali e che comparissero lindi e puliti alla Domenica, mentre insinuava loro i portamenti convenevoli e la bontà domestica. [365]

                I giovani, quando loro occorresse qualche cosa, solevano rivolgersi a lei, ed ella potendolo, subito li aiutava, somministrando loro il bisognevole. Per gli stessi suoi due figli Giovanni e Giuseppe non avrebbe potuto fare di più; anzi avrebbe fatto meno, perchè il resistere ad una vita così pesante, era grazia datale da Dio per la sua nuova missione.

                Margherita poneva ogni studio nell'indovinare le intenzioni di D. Bosco. Nell'ordinamento della casa e nell'economia ne interpretava così fedelmente la volontà, ne preveniva in modo così felice i pensieri, che D. Bosco con sua meraviglia sovente trovava fatta una cosa, prima di aver parlato. A tutti la sua presenza nell'Oratorio sembrava ed era, diremo, indispensabile. Ogni volta che trovavasi obbligata ad allontanarsene per qualche giorno, la sua assenza pareva lasciasse un vuoto rincrescevole nella casa, e quando ritornava, era sempre accolta con acclamazioni festive.

                Sempre allegra, sempre amorevole e generosa si faceva amare da tutti. Bello era il vedere la parte che prendeva nella direzione dell'Oratorio. Sorvegliava continuamente che ogni cosa riuscisse bene: la sua voce era sempre in aria quando si trattava di riprendere, avvertire, comandare, impedire qualche guasto. Soleva però sempre mischiare il rimprovero colla lode. La sua eloquenza naturale, energica, ricca di figure, di parabole, spesse volte attirava l'attenzione dello stesso D. Bosco, il quale, dietro ad una imposta, osservava, ed udiva con piacere e talora con meraviglia la vigoria di quelle uscite. I giovani poi stavano innanzi a lei con un rispetto e cori un silenzio ammirabile, sicchè la buona donna tanto più sfogavasi quanto meno trovava opposizione. E chi avrebbe osato fare opposizione alla mamma di D. Bosco? Ella però non abusavasi di tale [366] prerogativa, anzi mai che se ne valesse per dominare nell'Oratorio. Aveva sempre di mira che il figlio in nessun modo potesse venir costretto a sostenerla, con iscapito di quella confidenza assoluta che erasi acquistata fra i giovani Seppe eziandio sempre schivare quelle piccole gelosie, quell'apparenza di dualismo, di comando, quelle suscettibilità che si trovano necessariamente in una accolta di persone diverse per indole, per inclinazione, per educazione e per ufficio. Perciò quando fu imposta la veste clericale al primo giovanetto che aspirava alla carriera Ecclesiastica, e costui incominciò ad avere autorità, ella prese a trattarlo subito come suo superiore e si ritirò completamente da tutto ciò che riguardava l'avvisare, il correggere o il dare disposizioni. Da quel momento si mostrò umile e sottomessa innanzi ad un giovane chierico, il quale però, come prima per più anni, così dopo, continuava a chiamarla rispettosamente col nome di Madre.

                Quando ancora era sola con D. Bosco, invigilava sull'andamento di tutta la casa, e specialmente i giovani più bizzarri e più caparbii erano l'oggetto delle sue cure più tenere e insistenti. Suoi moventi la giustizia e la carità. Talora s'imbatteva in qualcuno di quelli indisciplinati, che nessuno poteva tenere a freno, ed ella: - Già! dicevagli; e quando ti metterai ad essere buono? Non vedi che sei come il cavallo di Gonella che sovra la sola coda aveva cento guidaleschi? Tutti al mondo studiano di rendersi capaci a qualche cosa, e tu invece studii ogni mezzo per diventar cattivo e farti rimproverare. Oh prova un giorno solo quanto sia bello essere stimato dai compagni, veder sereno il volto dei superiori, aver nulla da rimproverarsi, pensare che Dio è contento di te!

                Altra volta ad un altro che a malincuore imparava il suo mestiere: - D. Bosco da mane a sera suda sangue per [367] cercare un pezzo di pane per te, e tu non vuoi lavorare? Non hai rimorso di mangiarlo a tradimento? Vergogna! Possibile che non abbi cuore? e che non ti metta una volta a consolare chi ti vuol bene? Se non impari l'arte, come farai ad avere un pane quando sarai grande? Bisognerà pure che mangi! E allora? Vuoi guadagnarti la prigione? L'infamia di qui e l'infamia di là, l'inferno di qui e l'inferno di là.

                Talora a chi, essendo rissoso, era facile ad accapigliarsi coi compagni, andava dicendo: - Sai che cosa ti so dire? Che tu sei peggiore di una bestia. Infatti non so che differenza ci sia fra te ed un animale irragionevole. I cavalli, le pecore, non si battono tra di loro e quasi quasi si direbbe che al confronto son migliori di te. Battere i compagni! Dio non è padre di tutti? I compagni non sono adunque tuoi fratelli? Chi si vendica, non sarà un giorno castigato dal Signore?

                A chi sorprendesse nell'atto di mangiare cori troppa avidità e soverchiamente, ovvero era abbattuto per qualche indigestione: - Ma guarda! ripeteva. Le bestie, che sono bestie, mangiano quanto basta alla loro necessità e non di più; e tu vuoi rovinarti la sanità a questo modo! Chi non sa frenar la gola non è uomo, e la golosità è madre di mille vizii. Vuoi morir giovane? Vuoi andare a finire i tuoi giorni in un ospedale?

                Accadde che un giovanetto, raccolto di mezzo ad una strada, nelle prime settimane non voleva assolutamente andare all'officina. Passando vicino a lei cercava di schivarla, ma ella lo chiamò, e fermatolo gli diceva: - Tu non vuoi lavorare; vuoi mangiare il pane del sudore altrui. Or bene: quando sarai grande, fuori di qua non ti resterà altro mezzo per vivere che rubare e fare l'assassino: ecco il tuo avvenire. [368] Il giovane a quell'apostrofe cercava di ritirarsi, ma la buona madre proseguì arrestandolo: - Non andartene, non impazientirti, ascoltami: Vedi tu là il Rondò? e gli accennava il luogo vicino ove in quei tempi si eseguivano le sentenze capitali. E il patibolo che forse ti aspetta, povero disgraziato! Credi a me! Provvedi a te stesso.

                Il fanciullo piangeva, e Margherita con voce blanda gli soggiunse: - Ma a tutto c'è rimedio, sai. Se vuoi farti buono è cosa facile. Mettiti fin d'oggi ad essere obbediente, a rispettare i tuoi superiori, e va a lavorare. Incomincia a pregar bene, incomincia a pregar bene In cento altre circostanze trovava parole adattate, ora in pubblico ed ora in privato, secondo i caratteri. Ma bisogna averla veduta, averla udita per farsi un'idea dell'efficacia delle sue sentenze. A' suoi affettuosi rimproveri furono visti piangere non solo i ragazzi, ma i giovani, adulti e talora eziandio i chierici. Ciò che in lei era però ancora più sorprendente si è che, col suo naturale sempre calmo, passava in un istante dal rimprovero alla lode. Mentre terminava di dare un avviso, ecco comparire poco lontano da lei un giovanetto di buona condotta: - Bravo! dicevagli, vieni qua! Continua così come hai incominciato! D. Bosco è contento di te, ed eziandio il Signore ne è contento! Non dimenticarti del premio che sta preparato per i buoni in paradiso e procura di ottenerlo.

                Con ciò non vogliamo dire che l'eloquenza di Margherita producesse sempre effetti infallibili. Talvolta vi erano dei biricchini i quali, mentre la mamma gridava, stavano in contegno, e quando ella allontanavasi si permettevano di fare qualche smorfia. Allora accadeva una scena graziosa: si aprivano le imposte di una finestra e compariva D. Bosco. A quella vista, e preso sul fatto, il bricconcello si copriva

                [369] il volto colle mani. Intanto Margherita persuasa d'averlo convinto saliva nella camera del figlio, e: - Poveri figliuoli! esclamava: se loro non si parla chiaro, non capiscono! Ma ho schiuse ad essi le orecchie e vedrai che cambieranno, condotta! Sono di buon cuore! Ma son tanto giovani! Riflettono così poco! Usiam loro carità. La carità trionfa sempre!

                Tuttavia non era così facile ingannare la buona madre, poichè, siccome affermava D. Bosco, ella conosceva non solo la condotta e l'indole di ciascun ricoverato, ma ne indovinava con facilità e sicurezza la stessa intenzione.

                Al sabato sera i giovani artigiani che lavoravano in città portavano a casa il salario settimanale, e lo consegnavano a D. Bosco come era prescritto. Un cattivello volle ritenerlo per sè e un giorno, graffiatosi il viso e piagnucolando, venne raccontando a D. Bosco, alla presenza di tutti i compagni, come i ladri lo avessero derubato di quei pochi soldi e lo avessero per sopramercato battuto aspramente, perchè aveva tentato difendersi. D. Bosco lo compativa; senonchè mamma Margherita, avvicinatasi a suo figlio, gli disse sottovoce:

                - E tu gli credi?

                - Lo so che vuole ingannarmi, le rispose D. Bosco a bassa voce per non essere udito; ma se io in questo momento non faccio le finte di credergli, esso mi perderebbe la confidenza. - D. Bosco così regolavasi, sperando col non svergognarlo in pubblico, di riuscir poi a farlo ravvedere del suo, errore e della sua brutta menzogna. Questo giovane però non corrispose alla carità del suo educatore e fece una cattiva riuscita.

                Mamma Margherita anche per altro motivo si meritava ogni più grande elogio. Ella non lasciava mai di tener d'occhio, coloro che avevano ricevuta una seria riprensione dai capi [370] d'arte, ovvero si trovavano in castigo. Teneva per massima che non bisogna lasciarli soli a ruminare quel po' di fiele che in taluni fa nascere il vedersi contrariati; ma ritrarli dal meditare l'umiliazione che si sono meritata. - Dopo la ferita, ci vuole sempre l'impiastro, soleva dire, e conviene far loro conoscere che è per loro bene che si sono usate misure alquanto severe.

                I modi che usava D. Bosco nell'educare e correggere i giovanetti tendevano a farli migliori per coscienza, e non per timore di un rimprovero o di un castigo. D. Bosco allora era solo, ma il suo ausiliare, il prefetto, l'assistente, il censore era la coscienza stessa dei giovani, che per amor di Dio e del loro buon Direttore si astenevano dal male, ovvero si riconoscevano colpevoli. Il detto di S. Paolo: Chi non lavora non mangi, era invalso nell'Oratorio come assioma impreteribile, e la frase burlesca: Qui non laborat, non mangiorat era continuamente sulle labbra degli artigianelli. Se talora qualcuno per poltroneria o per altro motivo aveva commessa qualche mancanza, D. Bosco, saputa la cosa, andavagli incontro: - Ebbene, come va? Come ti regoli? È vero quello che ho udito di te? Possibile che tu non voglia una buona volta metterti a far bene? Se tu fossi superiore ed io al tuo posto e mi regolassi come ti regoli tu, che cosa faresti? Giudicati da te stesso. Che cosa ti meriti?

                D. Bosco si ritirava nella sua stanza, lasciando il giovane alle sue riflessioni; ed il colpevole, venuta l'ora del pranzo, invece di andare cogli altri a mensa, ritiravasi solitario in un angolo del cortile e stava pensieroso, mortificato, colla testa bassa. Mamma Margherita però non tardava ad andargli vicino: - Che cosa hai fatto, dicevagli amorevolmente; sono queste le consolazioni che ci dái? Noi desideriamo il tuo bene, e perchè tu non ti avvezzi ad essere buono e [371] laborioso? Se tu fai così essendo ancor giovanetto, avendo tanti buoni esempii dinanzi e con tanti buoni consigli, quando sarai grande, lontano da questi luoghi che cosa farai? Sarai un disgraziato! Povero figlio! - E intanto traeva fuori di saccoccia un bel pezzo di pane, nel quale aveva nascosto un po' di pietanza. Quell'atto di madre pietosa commoveva fino alle lagrime il piccolo colpevole, il quale alcune fiate esitava perfino ad accettare quel dono, se non fosse poi stato costretto ad un comando di Margherita.

                Altre volte, dopo che i giovani avevano fatto il loro pasto, ella andava a prendere chi si era nascosto in una stanza, sapendo di meritare una punizione e temendo di essere svergognato dai compagni. - Che cosa hai tu fatto, gli diceva; le belle cose, non è vero? Sempre dispiaceri!... Ma non sono venuta per rimproverarti! Sarai buono? Sì? Ed io ti levo di castigo! - Così dicendo, lo conduceva in cucina e qui ripigliava la sua predica mostrandogli i danni spirituali e materiali che in avvenire si sarebbe tirati sopra colla sua sregolata condotta. Quindi proseguiva: - Quanti dispiaceri hai già dati a D. Bosco! Egli si logora per provvederti di tutto, e tu come lo ricompensi? Va dunque a domandargli perdono e promettigli che non farai più quello che hai fatto.

                - Sì, sì; farò quanto mi dite; rispondeva il fanciullo.

                - Ma chiedere perdono a D. Bosco non è tutto, continuava Margherita. E Dio! Sai tu chi è Dio? - E qui prendeva un fare e un tono maestoso tale da disgradarne Demostene e Cicerone. - Dio! A Lui prima di tutto devi chiedere perdono. Egli vide non solo le opere tue, ma eziandio i tuoi pensieri più nascosti, forse la stizza interna che ti agitava mentre D. Bosco ti ammoniva, e forse eziandio la poca voglia che tu avevi di cambiar costume. Domandagli adunque perdono di tutto, ma di vero cuore. [372] Intanto gli preparava da pranzo, lo faceva sedere, gli metteva innanzi la minestra, mentre il giovane, convinto e consolato, proponeva di farsi migliore. - Ma non dirlo a nessuno che io ti ho dato il pranzo, continuava quella buona donna. Io farei una brutta figura: sembrerebbe che io tenessi mano alle tue biricchinate. Si direbbe forse che la mia dabbenaggine è causa della tua insolenza. E poi non voglio che D. Bosco resti compromesso. Altrimenti guarda che è peggio per te. Non desidero aver fama di proteggere chi non lo merita, ma sibbene voglio che si creda, che tu hai riconosciuto il tuo torto e che ti sei pentito del fallo.

                Queste sue maniere la rendevano padrona dei cuori. Tutti coloro che ebbero la fortuna di godere l'amabile compagnia di Margherita e gustare i tratti del suo materno amore, ora divenuti uomini, ricordano con gran piacere quegli anni felici della loro fanciullezza; e non dimenticano il sorriso inalterabile che rifluiva sulle labbra di quella buona donna, e il suo repertorio di proverbii popolari, coi quali infiorava il suo discorso e scolpiva nelle menti massime morali e di prudenza.

                E qui contenteremo anche varii antichi allievi, che insistono di vedere in queste carte ricordate certe piccole graziose scenette delle quali or l'uno or l'altro furono testimonii e anche parte.

                Margherita è seduta nella sua stanza, e a destra e a sinistra sono alcune sedie sulle quali stanno ammonticchiate le robe da cucire. Cucisce indefessamente senza alzare gli occhi. Un giovinetto le sta innanzi colla testa bassa. Prima era docile e devoto, ed ora incomincia a divenir capriccioso e dissipato. Margherita gli sta dicendo: - E perchè sei così cambiato da quello di una volta? Perchè sei diventato cattivo? Perchè non preghi! Se Dio non ti aiuta, che cosa vuoi [373] fare di bene? Se non ti emendi dove andrai a finire? Guarda che il Signore non ti abbandoni. - E concludeva: Scende chi vuole, monta chi può. Quando aveva da fare con un imprudente dicevagli: Il mondo è rotondo e chi non sa navigare va al fondo.

                Un altro che ha commesso qualche fallo non tanto leggiero, viene a chiederle un favore. Colla destra tesa, colla mano aperta attende di essere contentato, ma colla sinistra un po' vergognosetto si copre una parte della faccia. Margherita gli dice: - Sì: farò quel che tu domandi; ma dimmi: sei andato a confessarti?

                - Ieri mattina non ebbi tempo.

                - E sabato?

                - Ce ne erano troppi intorno al confessionale.

                - E Domenica?

                - Non ero preparato.

                - Già! Una cattiva lavandaia non trova mai una buona pietra.

                Uno è in atto di presentarle una giubba, facendole vedere che manca un bottone e pregandola a volerglielo cucire. Essa gli porge bottone e ago, e gli dice: - E perchè non puoi cucirlo tu stesso? Prendi il filo, prendi l'ago. Bisogna avvezzarsi a fare un po' di tutto: Non sai che colui il quale non è capace a tagliarsi le unghie con tutte due le mani, non riuscirà a guadagnarsi il pane?

                Un piccolino è venuto piangendo a lamentarsi con lei dei torti che gli sembra di aver ricevuti, ovvero degli sgarbi che gli hanno fatto i compagni. Si è seduto sovra uno sgabelletto ai piedi della buona mamma; e in atto di sorridere, mentre coi dosso della mano si asciuga le ultime lagrime. Margherita gli ha detto una facezia e gli porge un grappoletto d'uva. Essa in questi casi era mirabile nel consolare [374] gli afflitti; diceva: - Piangi solamente per questo? Oh minchione! Non lo sai che bisogna avere un po' di pazienza? Solo in paradiso starai tranquillo. Già si sa: In nessun paese si sta più male che nel paese di questo mondo: Ovvero: Non vi è alcun paese in cui vi siano tante miserie come al di qua e al di là di Po.

                Uno spensierato è intento a stracciare un fazzoletto lacero per fare una palla o un libro già usato per i suoi divertimenti. Margherita lo sorprende in quell'atto e gli toglie di mano quell'oggetto, dicendogli: - E perchè sciupi a questo modo la roba? Mi dici che non serve più: Fino le unghie vengono a proposito per togliere la pelle all'aglio. - E questo proverbio lo ripeteva parlando della preziosità del tempo, del tener conto delle minime cose, del disimpegnare contemporaneamente varii ufficii quando si poteva.

                Alcune volte un bricconcello riusciva a sottrarle dalla cucina una cipolla, o altra cosa di simil genere e sorridendo la faceva vedere di nascosto ad un compagno, che stava in agguato osservandolo. Margherita colla coda dell'occhio lo sorprendeva in quell'atto: - Ma bravo, dicevagli: La coscienza è come il solletico: chi lo sente, e chi non lo sente.  - Frase che ripeteva eziandio tutte le volte che uno si scusasse quando era avvertito, o diceva: Che male ho fatto io! Quando un allievo non si correggeva di qualche suo difetto, se qualcuno scusavalo col dire che era giovane e che farebbe giudizio poi, ella rispondeva: - Chi a venti (anni) non sa, a trenta non fa e sciocco morrà!

                Le erano pure comuni certi frizzi per insegnare ai giovani quei principii di buona educazione che si confanno ad ogni classe di gente. Per dire di alcuno, se un fanciullo entrava in sua camera lasciando la porta spalancata: Pst, pst, te, te!  - essa diceva, come chiamando un cagnolino. [375] Con ciò indicava che i cagnolini entrano per una porta senza chiuderla. Lo spensieratello intendeva benissimo quel gergo e arrossendo chiudeva adagio adagio la porta mentre Margherita sorrideva. Di tutte queste piccole scene famigliari se si volessero ritrarre le varie circostanze, se ne potrebbe comporre una piccola galleria di quadretti da sbizzarrire il pittore più fantastico, ornate di un'ingenuità e placidezza da rapire i cuori.

                Che se tanta diligenza usava Margherita pel bene dei ricoverati, non prendevasi minor cura di quello del suo amatissimo D. Giovanni, specialmente per conservarlo in sanità. Ma nulla procuravagli di costoso o di superfluo. Le sue premure erano improntate a profonda saviezza mirando, nel mantenimento della salute corporale, a far sì che potesse meglio provvedere al vantaggio spirituale del prossimo. Ella che nei giorni di festa solenne portava tutto il peso dell'apparecchio del pranzo, e questo preparava nel modo che si conveniva alle persone invitate, negli altri giorni si accomodava ad allestire un cibo frugalissimo, e nulla trovava a modificare. Conosceva l'importanza della mortificazione cristiana, senza che però ignorasse la prudenza che ne deve accompagnare la pratica. Quindi se il figlio in giorno di digiuno giungeva a casa stanco e affranto dalla fatica per la predicazione o pe' viaggi e voleva stare alle prescrizioni della legge ecclesiastica, essa glielo proibiva dicendo: - Non sei tu che predichi che il digiuno non obbliga, quando da questo ne viene danno alla sanità? - E bisognava che D. Bosco si piegasse al suo volere.

                Da quanto si è detto, si argomenterà qual fosse la grandezza e sensibilità di cuore di Margherita. Tuttavia in lei non prevaleva il cuore, ma sibbene la mente che regolava ogni più piccolo moto del cuore. Intorno a lei ogni cosa era [376] ordine ed in lei poteva dirsi personificato l'Oratorio. Infatti in que' primi anni D. Bosco era quasi sempre fuori di casa per visitare carceri, ospedali, ospizii e dettare missioni, tridui, novene in moltissimi luoghi; e più volte alla settimana recavasi a confessare in varii Istituti di Torino. Alcuni non sapevano capacitarsi come quelle assenze così protratte non recassero danno veruno al buon andamento dell'Oratorio, anzi meravigliavano nel vedere le cose procedere sempre con perfetta tranquillità. Agente di ciò era il fine buon senso di Margherita, buon senso che valeva un tesoro. Ella scioglieva ogni difficoltà, preveniva ogni inconveniente, ovviava ad ogni sconcio. Non rimaneva mai imbarazzata in nessuna circostanza. Riceveva le visite, trattava eziandio colle autorità di qualunque genere fossero, sbrigava qualunque affare, comprava, vendeva. Per lei tutto era piano e facile; di nulla si sgomentava; vedeva tutto e conosceva tutto.

                Quando il figlio tornava a casa, gli andava incontro. Se lo vedeva preoccupato da qualche serio pensiero, nulla dicevagli di quanto era occorso lungo la settimana, rimettendo ciò ad altro tempo. Se invece lo vedeva allegro e gioviale allora riferivagli per filo e per segno ogni cosa con precisione, in modo conciso, senza commenti, e quindi ritiravasi tosto per le faccende domestiche.

                Donna ammirabile, perchè informata dallo spirito di preghiera che è maestro di sapienza agli umili ed anche agli ignoranti delle scienze umane, Margherita pregava sempre. Oltre alla Messa ascoltata tutti i giorni, la Comunione frequente, la visita al SS. Sacramento, la recita del Rosario, con una compostezza e devozione al tutto edificante, da mane a sera era in un continuo intrattenersi con Dio. Quante volte interrompeva un Pater od una Salve, per dare un consiglio a questo, un ordine a quello, un avvertimento a quell'altro. [377] Ad un giovane che entrava in cucina mentre ella aveva qualche faccenda per le mani:

                - Fammi il piacere: togli dal fuoco quel pezzo di legno: è di troppo; così brucia il rame: Dimitte nobis debita nostra!

                - Eja ergo advocata nostra: Tu - ad uno che incontrava per le scale - prendi la scopa, pulisci qui.

                Ora si affacciava alla finestra e chiamando un allievo: - Vedi quel lenzuolo che il vento ha gettato per terra? Rimettilo sulla corda: Angele Dei, qui custos es mei.

                Talora mentre così pregava le si avvicinava un fanciullo: - Mamma, vorrei dirvi una parola! - Ed ella subito sospendeva la sua orazione, ascoltava, dava la soddisfazione chiesta e quindi ripigliava la sua preghiera.

                Se trovavasi in mezzo alla gente, proferiva le parole labbreggiando; ma quando era sola, allora ad alta voce per ore continue sfogava i suoi affetti con Dio. D. Bosco nella camera vicina ascoltava tutto, e qualche volta, per isvagarla alquanto, chiamandola le diceva: Mamma, con chi avete diverbio?

                E Margherita tranquilla: - Oh! no; io non risso con nessuno. Recito una preghiera per i nostri giovanetti e per benefattori. - Quante volte, restandole un momento di respiro, andava ai piedi di Gesù Cristo in Sacramento nella cappella!

                Queste sue costumanze potranno a taluno sembrare alquanto improprie. In altre persone ciò potrebbe forse essere; ma non in Margherita. In essa scorgevasi tanta naturalezza, tanto candore splendeva ne' suoi occhi, tanta espressione e compostezza era scolpita sul suo volto, che si vedeva avere ella fisso il pensiero nella presenza di Dio.

                - La sua fiducia nella preghiera era senza limiti; ci affermava lo stesso D. Bosco.

 

 

CAPO XXXV. IL CRISTIANO GUIDATO SECONDO LO SPIRITO DI S. VINCENZO DE' PAOLI - L'infallibilità del Papa - D. Bosco imitatore di S. Vincenzo - La virtù della dolcezza - Confronto della vita di D. Bosco con quella di S. Vincenzo - Un dono alla Piccola Casa della Divina Provvidenza - Mezzi per la stampa di questo libro.

 

                IN MEZZO al tumulto delle agitazioni politiche non distratto dall'attendere alle sue provvidenziali intraprese, tutto dato al ministero della parola, in guisa da essere circa 3000 tra discorsi, prediche, conferenze, sermoncini, catechismi, che faceva ogni anno in casa e fuori di casa, D. Bosco anelava sempre a nuovi lavori. Egli non era come quei molti che sembrano virtuosi, e lo sono infatti, ma però inclinati ad una vita dolce e dilettevole; la sua era una virtù gagliarda e laboriosa fino all'eroismo. Andati i giovani al riposo, recitato il breviario, sedeva a tavolino e alla pallida fiammella di una povera lucerna, passava gran parte delle notti scrivendo. Egli professava una speciale divozione a S. Vincenzo de' Paoli, il quale, come lui, da fanciullo, aveva per molti anni guardati gli armenti; e poi studente, chierico, e sacerdote, era stato istitutore di giovanetti. Così in questo anno componeva un nuovo libro, nel quale compendiava la vita del grande [379] apostolo della carità. Gli dava per titolo: Il Cristiano guidato alla virtù e alla civiltà secondo lo spirito di S. Vincenzo de' Paoli. Opera che può servire a consacrare il mese di luglio in onore del medesimo Santo.

                Ecco come egli dava ragione del suo lavoro.

                “Al lettore - Lo scopo di quest'operetta è di proporre a tutti i fedeli un modello di vita cristiana nelle azioni, nelle virtù e nelle parole di S. Vincenzo de' Paoli.

                Esso porta per titolo: Il Cristiano guidato alla virtù e alla civiltà secondo lo spirito di S. Vincenzo de' Paoli, perchè questo Santo avendo quasi percorso tutte le condizioni basse ed elevate della umana società, non fu virtù che in questi diversi stati non abbia fatto risplendere. Si aggiungono quelle parole alla civiltà, perchè egli trattò colla più elevata e più ingentilita classe d'uomini, e con tutti seppe praticare quelle massime e quei tratti che a cittadino cristiano, secondo la civiltà e prudenza del Vangelo, si addicono.

                Secondo lo spirito di S. Vincenzo de' Paoli, perchè quanto si esporrà nel decorso di queste considerazioni è letteralmente ricavato dalla vita di lui e dall'opera intitolata: Lo spirito di S. Vincenzo de' Paoli, inserendovi solo alcuni detti della sacra Scrittura sopra cui si fondano tali massime.

                Si comincia col dare un cenno sulla vita del Santo, e questo formerà come l'indice di quei concetti che verranno con maggior corredo di circostanze sviluppati.

                Intanto quel Dio che suscitò un Vincenzo qual fiaccola luminosa a portare la luce della verità fra popoli barbari ed ingentiliti, quel Dio che volle togliere dalla plebe un uomo abbietto per collocarlo sopra il trono de' suoi principi, affinchè colle sue eroiche virtù facesse cangiare di aspetto la Francia e l'Europa insieme; quel Dio faccia che la stessa carità, lo stesso zelo si riaccenda negli ecclesiastici, affinchè [380] indefessi adoperinsi per la salute delle anime; si riaccenda eziandio nei popoli a segno, che illuminati dalle virtù del Santo, eccitati e mossi dal buon esempio de' sacri ministri corrano a gran passi per quella strada, che alla vera felicità l'uomo conduce: al Paradiso”.

                Non ci intratterremo a provare come D. Bosco con questo libro abbia raggiunto il suo scopo; ci limiteremo piuttosto ad alcune poche ed importanti riflessioni. Anzi tutto, come fin d'allora professasse ed insegnasse la sua ferma credenza nel l'infallibilità del Romano Pontefice, e ciò ventidue anni prima che nel Concilio Ecumenico Vaticano si definisse dogma di fede questa solenne verità; come dimostrasse il suo perfetto accordo con S. Vincenzo de' Paoli, il quale per frenare l'agitazione giansenistica e le sue arti diaboliche, induceva i Vescovi di Francia a ricorrere, non ad un Concilio generale, essendo il male troppo pressante, ma sibbene direttamente al Papa: e Innocenzo X nel 1653 come Dottore universale condannava senza ammettere appello gli errori e le perfidie di tali eretici[25]. E più di tutto come D. Bosco nel 1848 sostenesse le divine prerogative del Pontefice, insultate orribilmente dai settarii, dicendo egli ai fedeli: “Approvate quanto il Papa approva; e condannate quelle cose che il Papa condanna. Ogni fedele cristiano si adoperi per amare, rispettare le disposizioni dei superiori Ecclesiastici, e guardiamoci dall'essere di quelli che, avendo spesa la loro vita in tutt'altro studio che in materia ecclesiastica, si fanno lecito di censurare detti o fatti dell'autorità della Chiesa, bestemmiando così quelle cose che la loro ignoranza non capisce. Guardatevi, dice il Signore, guardatevi dall'intaccar i sacri ministri con [381] fatti o con parole: Nolite tangere Christos meos: perchè quanto sì fa o si dice contro di loro, lo è parimenti contro di me stesso: Qui vos spernit, me spernit”.

                Da una seconda osservazione emerge che non solo Don Bosco volle tratteggiare la vita di S. Vincenzo, ma ne studiò ad una ad una le virtù teologiche e cardinali e per regola di sua condotta ne scrisse quasi un memoriale. Ed infatti, con quelle differenze che esigevano il suo secolo, i nuovi e diversi bisogni e la sua special vocazione, egli talmente ricopiò in sè questo Santo, che, percorrendo molte pagine del libro, un lettore che abbia conosciuto D. Bosco sentesi inclinato a sostituire col suo nome quello di S. Vincenzo; tanto la somiglianza è perfetta. Identici gli oggetti della più tenera divozione, eguale lo zelo per la gloria di Dio e il pieno abbandono nella divina Provvidenza; lo stesso amore per gli Ordini e le Congregazioni religiose, la stessa carità verso i miserelli e nell'istruire i prigionieri, nel servire gli affetti da' malattia contagiosa, nell'adoperarsi alla conversione degli eretici.

                Ma quivi a recare qualche prova dei nostro asserto, notiamo come avendo D. Bosco sortito da natura, al pari di S. Vincenzo, un'indole biliosa, di spiriti vivaci e inclinati alla collera, lo imitasse nella dolcezza per cattivarsi i cuori degli uomini; e da lui come per riflesso ritraesse la soave affabilità di S. Francesco di Sales, sicchè lo spirito di Don Bosco si possa definire essere quello di S. Francesco, ma trasfuso dal cuore di S. Vincenzo. D. Bosco infatti scriveva le norme date dal suo caro modello per l'acquisto di tale virtù: “Congregazioni pauperum affabilem te facito...[26]. Il Santo [382] fondava la sua dolcezza sopra due principii: l'uno era la parola e l'esempio del Salvatore, e l'altro la conoscenza dell'umana debolezza. In quanto al primo principio, diceva, la dolcezza e l'umiltà essere due sorelle, che si uniscono molto bene insieme; Gesù Cristo aveva insegnato ad unirle quando ha detto: Imparate da me che sono dolce ed umile di cuore; e queste parole sono state sostenute dai suoi esempii. Perciò il Salvatore ha voluto avere per discepoli uomini grossolani e soggetti a varii difetti, per insegnare a coloro che sono in dignità la maniera con cui devono trattare quelli di cui hanno la direzione... Quanto al secondo principio, S. Vincenzo, diceva che è proprio dell'uomo il fallire, come è proprio dei rovi avere spine pungenti; che il giusto stesso cade sette volte, cioè molte volte; che lo spirito al pari dei corpo ha le sue malattie; che essendo sovente un uomo da se stesso un grande esercizio di pazienza, non è cosa strana che egli eserciti quella degli altri; la vera giustizia conosce la compassione e non conosce la collera le parole che ci feriscono sono sovente piuttosto impeti della natura che indisposizioni del cuore; i più saggi non sono esenti dalle passioni; e queste passioni strappano loro qualche volta certe espressioni, delle quali si pentono un momento dopo; in qualunque luogo uno sia, deve sempre soffrire; ma che potendosi nello stesso tempo meritare, è molto utile fare provvigione di dolcezza, poichè senza questa virtù si soffre, però senza merito e anche con pericolo della eterna salvezza.

                “La dolcezza, aggiungeva il Santo, ha tre principali atti. Il primo di questi atti reprime i movimenti della collera e gli impeti di quel fuoco che turba l'anima, sale al volto e ne cangia il colore. Un uomo dolce non lascia di sentire la prima emozione, perchè i movimenti della natura prevengono quei della grazia; ma sta fermo perchè la passione non trionfi, e [383] se suo malgrado comparisce in lui qualche alterazione nel suo esteriore, si rimette ben presto e rientra nel suo stato naturale. Se è costretto a riprendere e a castigare, segue la via del dovere e non mai quella dell'impeto: in ciò imita il figlio di Dio, che chiamò S. Pietro Satana, rimproverò i giudei d'essere ipocriti, rovesciò le tavole dei negoziatori nel tempio; ma tutto ciò fece con una perfetta tranquillità, mentre un uomo senza dolcezza in simili circostanze avrebbe fatto per collera.

                Il secondo atto della dolcezza consiste in una grande affabilità, in quella serenità di volto che rassicura chiunque si avvicina. Certe persone con aria ridente ed amabile contentano tutti, e dal primo istante sembrano offrirvi il loro cuore e chiedere il vostro; altre all'opposto si presentano con aspetto riservato, e il loro viso arido e accigliato spaventa e sconcerta. Un sacerdote, un missionario che non ha maniere insinuanti le quali cattivino i cuori, non farà mai frutto e sarà come una terra secca, altro non producendo se non cardi selvatici.

                Finalmente il terzo atto della dolcezza consiste nello sbandire dal proprio spirito le riflessioni che seguono pur troppo le pene che ci vennero cagionate o i cattivi servigii che ci furono resi. Bisogna allora assuefarsi a distogliere il proprio pensiero dall'offesa, a scusare quegli da cui proviene, a dire a se stesso che egli ha operato con precipitazione, e che un primo movimento l'ha trasportato, soprattutto non bisogna aprir bocca per rispondere a coloro che altro non cercano se non d'inasprirci. Devonsi egualmente trattare con dolcezza coloro che hanno meno riguardi per noi, e se giungessero ad oltraggiarci sino a darci uno schiaffo, bisogna offerire a Dio e soffrire per amor suo questo ingiurioso trattamento; devonsi ancora trattenere gl'impeti della collera e [384] preferire ad ogni altro linguaggio quello della dolcezza, perchè una parola di dolcezza può convertire un ostinato, quando all'opposto una parola aspra è capace di desolare un'anima....

                “La dolcezza, la quale alletta sempre, aveva presso il sant'uomo un non so che di schietto, di spiritoso e di saggio ch'era difficile a resistervi”. Fin qui D. Bosco.

                E noi diciamo: Lette queste regole, esaminata tutta intera la vita del nostro buon padre, non appare egli un vivo e parlante ritratto di S. Vincenzo de' Paoli?

                Ma vi ha ancora di più. Tracciando come un indice dei nostri futuri racconti si vedrà che il raffronto fra questi due uomini del Signore diventa sempre più sorprendente quanto più si esaminano le loro geste.

                D. Bosco, come S. Vincenzo de' Paoli, si reca a Roma per ossequiare il Pontefice, per venerare la tomba del Principe degli Apostoli, per visitare i celebri santuarii della capitale dell'orbe cattolico. Come S. Vincenzo, predica non solo nelle città, ma in un grandissimo numero di villaggi. Come lui, è sollecito per la formazione di un clero zelante, supplisce alla mancanza di Seminarii, e sviluppa in modo meraviglioso le vocazioni allo stato ecclesiastico e religioso; come Vincenzo, concede udienza a persone senza numero di ogni specie e di ogni condizione che a lui ricorrono per avere consigli; e scrive tante lettere che sole richiederebbero la vita intera di un uomo. Come lui, tratta con diversi sovrani e coi grandi del secolo e si fa ammirare pel suo contegno e per la sua franchezza colla quale non tace la verità.

                Se Vincenzo de' Paoli fa rifiorire in molti monasteri la primitiva osservanza, D. Bosco cerca con un coraggio ispirato dalla fede di salvarne centinaia dalla legge della soppressione, alcuni riesce a preservare. Se Vincenzo istituì la Congregazione [385] dei Lazzaristi e quella delle Figlie della carità, Don Bosco fondò la Pia Società di S. Francesco di Sales e l'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Se Vincenzo profuse tesori grandissimi per soccorrere i poverelli e di intiere provincie alleviare le estreme miserie, il povero D. Bosco trovò milioni per i tanti orfanelli raccolti ne' suoi Ospizii e ne' suoi Oratorii. Vincenzo stabilì confraternite ed assemblee di nobili dame perchè lo aiutassero nelle sue opere di carità, e D. Bosco per lo stesso fine organizzò i Cooperatori e le Cooperatrici salesiane. Vincenzo influì coi saggi consigli alla nomina di santi Vescovi da preporsi alle Chiese di Francia; per opera di D. Bosco più di cinquanta diocesi in Italia ebbero il loro Pastore di cui da lungo tempo erano destituite. Se Luigi XIII volle essere confortato nell'ora della sua morte da S. Vincenzo, il Granduca di Toscana Leopoldo Il fu assistito da D. Bosco nella sua agonia. Se Vincenzo fa l'Apostolo in Francia dell'Infallibilità del Pontefice, D. Bosco si recò espressamente a Roma per vincere i pregiudizii di certi prelati i quali sostenevano l'inopportunità della definizione dogmatica. Se Vincenzo anelando alla propagazione del Vangelo manda i suoi figli in Barberia, Scozia, Irlanda, Inghilterra, nel Madagascar e nelle Indie, D. Bosco spedisce i suoi Salesiani in Inghilterra, fra i selvaggi della Patagonia e di altre regioni dell'America. Ed ambedue per quarant'anni ebbero a sopportar le medesime dolorose malattie, cioè le febbri e la gonfiezza delle gambe,

                È per questi rapporti così evidenti, che nei Congressi Cattolici, la Francia riconobbe D. Bosco e lo salutò pel nuovo Vincenzo de' Paoli del secolo XIX e che le Conferenze sotto il patrocinio di questo Santo lo chiamarono ed aiutarono ad aprire gli Ospizii di Sampierdarena, di Nizza Marittima, dì Buenos - Aires di Montevideo e di altre città. [386] D. Bosco finiva il suo volume con un quadro conciso, ma fedele di tutte le stupende e innumerevoli opere di santità compiute da S. Vincenzo, e con tali espressioni che manifestano la sua tenerissima devozione per lui; e in calce scriveva:

 

AL GLORIOSO S. VINCENZO DE' PAOLI

L'AUTORE A NOME DE' SUOI DEVOTI

QUESTO LIBRO DEDICA E CONSACRA.

 

                Nello scrivere quelle pagine l'intenzione secondaria, ma affettuosa di D. Bosco, era di prestare ossequio e servizio alla Piccola Casa della Divina Provvidenza, siccome colla sua Divozione alla Misericordia di Dio, aveva cercato di procurare un gran bene al pio Istituto del Rifugio. Infatti all'Opera del Venerabile Cottolengo due volte accenna scrivendo della carità di S. Vincenzo verso il prossimo; e asserisce quella Casa, posta sotto gli auspicii di questo Santo e meravigliosa per le migliaia di poverelli e infermi di ogni specie che ricovera, esser nata sotto l'influsso del suo spirito. Quindi raccomanda al fedeli, nel frutto che propone da raccogliersi sul fine di ogni considerazione, di staccare il cuore dai beni della terra e farne buon uso; di soccorrere il prossimo travagliato dalla necessità; di obbedire a Gesù Cristo col dare al poveri quanto sopravanza al necessario sostentamento; di ridurre a meno qualche spesa domestica per poter maggiormente largheggiare in opere di carità.

                Terminata l'opera bisognava stamparla; ma come gli era possibile mancando di mezzi? D. Bosco andò pertanto a visitare il Canonico Anglesio, successore del Venerabile Cottolengo, e presentandogli il suo manoscritto gli disse: - Ho bisogno che mi aiuti in questa stampa, prendendone un buon numero di copie. [387] Ben volentieri; ne prenderò 300 Copie.

                - Troppo poche; avrei bisogno che ne prendesse 3.000.

                - Oh, questo poi è troppo! E chi le paga? io non posso.

                - Le pago io!

                - A questa condizione ben volentieri accetto.

                D. Bosco andò subito dalla contessa Del - Piazzo e propostole di comperare 3.000 copie di quel libro per l'Opera pia del Cottolengo, la buona signora gli diede subito il danaro.

                Il libro fu stampato in Torino coi tipi di Paravia, e distribuito in tutte le famiglie religiose della piccola casa della Divina Provvidenza, e ancora oggigiorno è un libro ben accetto per la lettura spirituale. La prima edizione fu anonima. Il nome di D. Bosco fu stampato sulla seconda e sulla terza nell'anno 1876 e 1887. Nel noviziato dei Lazzaristi a Chieri questo libro era letto nel mese di Luglio per onorare il santo Fondatore.

 

 

CAPO XXXVI. La guerra dell'indipendenza - Malvagi scrittori - Il buon senso di un contadino - Insulti ai preti - D. Bosco in mezzo ai Barabba - Sua prudenza e carità nel sopportare le ingiurie e far del bene agli offensori - Giovinastri indotti a confessarsi - Un difensore inaspettato.

 

                IL MESE di giugno incominciava con un grave insulto alla Chiesa. Mons. Galvano Vescovo di Nizza aveva negata la sepoltura ecclesiastica ad un emigrato morto impenitente, e un popolaccio di circa seicento persone, coi soliti schiamazzi strappava lo stemma dal suo palazzo e lo trascinava nel fango. Perciò Angelo Brofferio nella camera dei deputati urlava una diatriba violentissima contro i Vescovi.

                Ma la guerra dell'indipendenza intanto volgeva a male. L'11 di giugno Vicenza, difesa da solo 10.000 italiani, assalita da Radetzki con 30.000 uomini, fulminata da 110 cannoni, dopo due giorni di resistenza disperata si arrendeva al nemico. Parve che in buon punto fosse tentata una ribellione in Boemia, e se fosse riuscita, avrebbe dato un tracollo all'impero Austriaco; ma Praga insorta il 12, dopo quattro giorni di fieri combattimenti dovette assoggettarsi. E l'esercito Austriaco in Italia, non ostante una tenace difesa, il 13 era padrone di Treviso, il 25 di Palmanuova; i Pontificii [389] che avevano presa gran parte a tutti quegli scontri, abbandonata anche Padova, si ritirarono oltre Po, e si ridussero a Roma. Così tutta la terra ferma Veneta ritornava sotto il giogo straniero.

                Questi avvenimenti però non attiravano tutti i pensieri del Governo di Torino. Il 16 giugno il ministro Pareto scriveva al Pontefice come i tempi volessero assolutamente la cessazione di tutti i privilegii ancora esistenti del fóro ecclesiastico e di quei favori che furono nei tempi passati accordati al clero. Il 17 giugno il Ministro Sclopis scriveva ai Vescovi accusando una parte degli ecclesiastici di cagionare scontentezza e diffidenza nel popolo, col manifestarsi avversi al presente ordine di cose, e minacciando i rigori della legge. Ma ben diversa era la causa di tale rimpianto. Le vittorie degli Austriaci avevano fatto succedere lo scoramento all'entusiasmo dei primi giorni; si aggiungevano i danni delle famiglie, il timore di mali più gravi, i sospetti, le gelosie, le ambizioni non soddisfatte, le agitazioni settarie e repubblicane. Mazzini, venuto a Milano, infiammava i suoi seguaci, sicchè suscitarono tumulti. Non avendo però forze bastanti per dominare, aspettavano con viva ansietà soccorsi dalla Francia rivoluzionaria. Infatti dopo lunghi torbidi il 23 giugno i socialisti in Parigi presero le armi per impadronirsi del Governo. Le guardie nazionali e le truppe si schierarono in difesa. Per quattro giorni in tutta la città durò una battaglia crudele e sanguinosa. Mons. Affre, vittima della sua carità, cadeva mortalmente ferito in mezzo alle barricate; i socialisti vennero sconfitti: e così furono interrotti i disegni delle sette in Italia.

                A tutti questi malanni il 16 giugno se ne era aggiunto in Torino un altro gravissimo. Veniva fuori la Gazzetta del Popolo, opera di Bottero, Borello e Govean. Questo giornale, piccolo di mole, ebbe parte grandissima nell'eccitare e promuovere [390] l'odio alla Chiesa, sicchè forse più di ogni altro recò danno alla Religione ed al Sacerdozio. Al che, oltre al saper solleticare tutte le passioni popolari, conferì assai lo stile semplice ed elementare con cui fu scritto, e il dare gran copia di notizie commerciali: questo gli apriva facile l'entrata nei pubblici uffizii, quello lo faceva andare tra le mani di moltissimi del popolo; e non solo della capitale, ma delle altre città, fino ai più piccoli villaggi del Piemonte.

                Quando ne furono stampati i primi numeri, accadde un fatto che dimostrava il buon senso di un popolano, e col racconto del quale D. Bosco talora rendeva più amena la sua conversazione cogli amici.

                Entrato egli una volta nel caffè del signor Fiorio ed essendo a conversare con un garzoncello che aveva intenzione di ricevere nell'Oratorio, apparve nella sala una bella figura di montanaro. Per cappello teneva in capo un pelliccione e aveva un paio di calzoni che gli arrivavano fino al ginocchio, con due tasche che parevano due sacchi. Costui sedette e domandò una scodella di caffè. Come fu servito, colle dita nere pel tabacco, che ad ogni istante annasava, prese lo zucchero mettendolo nella tazza. Lo colse in quell'atto una dozzina di buontemponi studenti e damerini, e dopo averlo contemplato un istante, si guardarono l'un l'altro ghignando. Quindi gli si avvicinarono: - Galantuomo, gli dissero, avete letta oggi la Gazzetta del Popolo?

                - Oh! io, vedano, non so leggere; però se essa contiene qualche cosa di bello, me la diano pure; lo la porterò a mio figlio che è una vera arca di scienza: egli a quest'ora è già capace a fare i salami, e contemporaneamente a leggere e scrivere.

                - Ha egli le patenti da avvocato questo vostro gioiello di figlio? - Esclamò ridendo uno della brigata. Queste parole [391] furono seguite da una salva di evviva e da sonori scroscii di risa. Allora quel galantuomo puntò i pugni serrati sulle anche: - E perchè, disse, ridete così? Il mio parroco quando predica suole esclamare sovente: orum, orum, orum.

                Le risa questa volta furono assai più prolungate. - E cosa vuol dire questo vostro parroco con delle parole così sublimi? - saltò su a dire uno.

                - Io, vedete, so nulla di latino, e perciò il parroco me le ha spiegate; e mi ha detto che significano come il riso abbondi nella bocca degli stolti.

                I damerini intesero allora che quel contadino non era tanto tanghero come essi credevano, e proseguirono facendo l'elogio della Gazzetta, narrando gli ultimi aneddoti da essa riferiti e specialmente ciò che riguardava i preti; mentre sottecchi guardando D. Bosco, gli facevano intendere che quel frizzo era per lui.

                - Possibile! esclamava quel buon uomo. Sì che me la contate bella!

                - Ma come, non sapete queste cose?

                - No, proprio in mia coscienza: e non m'interessano.

                - La Gazzetta dice che il regno dei preti è finito.

                - E ora comandavano noi, non è vero?

                - Certo. E dei preti se ne dicono delle belle da questo giornale. Sembra impossibile che i preti siano capaci di certe nefandità.

                - Ed essi ci credono a queste cose?

                - Certo! Dal punto che le narra la Gazzetta e tutti lo dicono… e voi?

                - Io?... E quel brav'uomo dopo aver pensato alquanto, senza scomporsi, con la sua ruvida semplicità: - Miei cari, disse in buon dialetto piemontese; bisogna che essi sappiano come i asu a pettu pi fort dii mûi; il raglio dell'asino è più [392] fragoroso di quello dei muli, e gli ignoranti dánno ragione a chi grida più forte.

                Più oltre D. Bosco non udì, poichè a questo aforismo non potè comprimere le risa, e seguito dal suo nuovo alunno uscì dal caffè, lasciando che quell'uomo senza istruzione continuasse a dare lezioni agli scaldapanche delle scuole.

                Ma l'opera ferocemente demolitrice della Gazzetta del Popolo e di un altro empio giornale, l'Opinione, in un colle bestemmie e menzogne di un certo apostata e ciurmadore che si faceva chiamare Bianchi - Giovini, e di cento e cento altri, incominciavano a produrre i più funesti effetti. Insinuavasi nella gente l'errore che non vi fosse alcuna distinzione tra cattolici ed eretici, che tutte le religioni fossero egualmente buone e gradite a Dio, come se bianco e nero, dolce ed amaro, luce e tenebre, verità ed errore, lode e vitupero fosse una medesima cosa. Confondendo la libertà colla licenza, fomentavano le malnate passioni e dicevano lecito quel che non era. Avevano preso a spacciare favole contro la Chiesa Cattolica, inventare e pubblicare storielle infamanti, contro i Vescovi, i Sacerdoti e i Religiosi, nulla risparmiando per metterli in discredito e in uggia presso il popolo. Per queste ed altre cause, che troppo lungo sarebbe l'enumerare, successe che in capo a poco tempo una buona parte della plebe fosse così pervertita nelle idee e sì male impressionata, che un Ministro di Dio non era più sicuro per le vie della stessa civilissima Torino.

                In questi tempi D. Bosco corse eziandio varii pericoli, ma coll'aiuto della Madonna riuscì a liberarsene, e con vantaggio di coloro che lo avevano insultato. Per più anni fu un continuo svolgersi di fatti analoghi a quelli che siamo per narrare.

                Un giorno egli passava vicino a Porta Nuova, e in fondo, alla via che metteva nei campi vide un crocchio di venti [393] giovanastri che avevano faccie tutt'altro che da chiesa. Costoro, scoperto il prete che si avanzava, incominciarono a pronunciare sotto voce motti di scherno, ed alcuni ad urlare:

                - Dágli al prete, dágli al prete!

                D. Bosco avrebbe voluto ritornare indietro; ma non essendo più in tempo e d'altra parte non credendo conveniente mostrarsi timoroso, continuò ad avanzarsi a lento passo. Quando fu vicino, il crocchio si aperse; egli dovette passare nel bel mezzo, mentre tutti gli occhi dei farabutti erano fissi su di lui con espressione beffarda. Non erasi ancor discostato di due passi, quando uno gridò: - Perchè lasciar passare questo prete?

                - Non è padrone di andare per la sua strada? Rispose una voce ironica. Sapete forse chi possa essere costui? Potrebbe farci imprigionare lutti quanti!

                - Un prete far imprigionar noi! replicò il primo. Che cosa è mai un prete? Nient'altro che un corvo, una cornacchia e tanto basta; e a squarciagola gridava qua, qua, qua!

                - Ma perchè, continuò il secondo interlocutore, volete far del male a chi in nessun modo vi ha offeso?

                - Hai ragione! saltò su a dire un terzo; dunque voglio che ripariamo l'insulto che abbiamo fatto a questo prete: voglio che tutti insieme andiamo all'osteria e che gli paghiamo una pinta di Barolo.

                - Non tocca a te gridava un quarto; voglio avere io questo onore e darò una bella merenda a tutti.

                - Ma che merenda! saltava a dire un ultimo. Zitti tutti voi; vi farò contenti io: ha da essere una partita di prima classe

                E urlavano in pieno coro: - Tocca a me, tocca a me! quasi contendendosi ciascuno l'onore di pagare la cena al prete; e sembrava che volessero addirittura venire a risse per [394] questo. D. Bosco andando lentamente udiva tutto il dialogo, che evidentemente era uno scherno continuato; ma ad un tratto si arrestò e voltosi, ritornò sopra i suoi passi.

                I giovanotti fecero silenzio e D. Bosco: - Ascoltatemi, disse loro: vedo che siete negli imbarazzi per decidere chi pagherà; scioglierò io la questione. Venite con me: pagherò io da bere a tutti.

                Lunghi, fragorosi scoppiarono gli evviva al prete. Don Bosco rispose: - Evviva a voi! Ma prima vorrei un piacere da voi, continuò D. Bosco.

                - Sì, sì, siamo pronti!

                - Vorrei che qualche Domenica andaste là in fondo al corso Valdocco, dove si è aperto un Oratorio.

                - Là dove mi han detto che alla Domenica si radunano tanti giovani per giuocare e per divertirsi?

                - Precisamente.

                - Da D. Bosco? - Esclamarono alquanti.

                - Proprio da D. Bosco.

                - Chi è D. Bosco? - si chiedeva a vicenda la maggior parte. - Ma! rispondevano alcuni; non lo so! Altri soggiungevano. - Non ci sono mai stato.

                - Dunque andrete? - rispose D. Bosco.

                - Sì, sì: ma ora ci paghi da bere. - E tutti si avviavano alla bettola più vicina. Questa era in mezzo ai prati, lontana dalle abitazioni, e in quell'ora, deserta di avventori. D. Bosco fece portare tante bottiglie quante erano necessarie perchè tutti potessero rimaner soddisfatti: si toccarono i bicchieri, egli stesso bevette qualche sorso. Dopo un'allegria rumorosa, incomposta, come suole simile gente, D. Bosco voleva congedarsi.

                Ma no: gridavano tutti ad una voce. Noi vogliamo accompagnarla al sicuro fino a casa sua. - E si avviavano. [395] Giunti in Valdocco, vicino all'Oratorio. - Ecco, diceva uno, questa è la casa di un certo prete che è molto buono, e che vuol bene ai Barabba, e li protegge. È un vero galantuomo!

                - Sì. sì, replicava un altro, è la casa di D. Bosco.

                - Oh! io, diceva un terzo, son già venuto qui e mi sono confessato; una volta sono stato al Catechismo e mi sono divertito. Non vidi però D. Bosco perchè in quel giorno era a predicare fuori di Torino. - I giovani vedendo che D. Bosco si avvicinava sempre più a quella casa, oggetto dei loro discorsi: - Ma ella, lo interrogarono, sta dunque nella medesima casa di D. Bosco?

                - Proprio questa è la mia casa! E indovinate chi sono io! - Al sorriso di D. Bosco essi incominciavano ad intendere.

                - Lei è forse D. Bosco?

                - D. Bosco, D. Bosco? - replicavano tutti gli altri.

                Sì, continuava allora il buon prete. Non facciamo più enigmi. Vedete, miei cari; D. Bosco sono io. Sono il vero vostro amico!

                Allora quei giovanotti si effondevano in iscuse pregandolo a voler perdonare le ingiurie e gli scherni.

                D. Bosco rispose di non sapere in qual modo potessero averlo offeso, e continuava: - Giacchè vedo che siete così buoni, vorrei che mi faceste una promessa. - Tutti protestarono di essere pronti a fare quanto egli avesse voluto. Ebbene, Domenica ventura, di quanti ora siete qui, nessuno manchi di venirsi a confessare da D. Bosco, e sarete contenti.

                - Uhm, a confessarci! diceva uno. - Son sei anni che non mi sono più confessato, replicava l'altro. E quindi in vario coro proseguivano: - Dalla prima comunione non ho più visto chiesa. - Io non so che cosa dire al Confessore. - Io non mi sono mai confessato. [396]

                - Ebbene, venite, concludeva D. Bosco. Vi aspetto immancabilmente, e tutti, non è vero?

                - Va bene: va bene! e datasi la buona notte si dividevano.

                D. Bosco aveva fatto un simile invito, persuaso che sarebbe stato accettato, ma che nessuno avrebbe mantenuta la parola. Eppure, la Domenica seguente si presentarono sedici di quei giovanotti, si confessarono, mutarono anche vita, e mantennero lunga amicizia con D. Bosco. Soli quattro erano mancati.

                Altra volta accadde che D. Bosco s'inoltrasse soletto in una piazza attigua ad una via delle più popolate di Torino e s'imbattesse in una ciurma di trenta o quaranta mascalzoni che bestemmiavano e tenevano turpi discorsi. Alcuni di questi, visto il prete, cominciarono a dire: - Ecco là un prete, ecco là un prete! - e poi scambiatesi alcune parole fra di loro, gli vengono incontro cercando di attorniarlo. D. Bosco disse fra sè: - Volete farmela, ma io sono più furbo di voi! - Infatti se li lasciò avvicinare e subito li salutò; chiamò loro come stavano di salute, e dove erano incamminati: ciò disse come se fossero suoi amici già conosciuti da lungo tempo. Quegli screanzati diedero risposte insulse, derisorie, mentre il disprezzo trapelava dalle loro fattezze e dalle occhiate insolenti. D. Bosco dissimulando l'ingiuria, continuò narrando ad essi donde venisse e dove andasse; se non che uno di quei tristi gli gettò in faccia un: - Birbante di prete! - Qui uno sghignazzamento universale.

                - Adagio, riprese egli: forse nessuno di voi sa che cosa voglia significare la parola birbante, perchè altrimenti non la direste; di' un po' tu, ed accennava ad uno; sai che cosa vuol dire birbante? La conosci l'etimologia, la derivazione di questa parola?

                Quei giovanastri si guardano l'un l'altro in viso. [397] D. Bosco proseguì: - Vedete: per conoscere che cosa vuol dire birbante bisognerebbe sapere il greco e il latino, perchè è parola greca...

                Que' sfacciati incominciarono allora a toccarsi dei gomito l'un l'altro e si dicevano a vicenda stringendo i pugni: - Comincia tu: comincia tu!

                D. Bosco vedendo che le cose si facevano gravi, e che non compariva alcuna guardia, pensò ad uno stratagemma: - Su, miei cari, volete che facciamo una cosa? Io sto volentieri coi giovani. C'è qui questa bottega da caffè... entriamo... Metto solo due condizioni. Io sono prete e non va bene che un prete in un caffè comandi da bere, perciò comanderete voi; s'intende, del vino migliore; barbera d'Asti: questa è la prima condizione. La seconda è che voglio pagare io.

                Si guardarono in faccia. - Questo prete non è come gli altri! si dissero a vicenda ridendo; e poi: - Sì, sì, andiamo, andiamo, gridarono tutti ad una voce.

                Entrati nel caffè bevettero, ma molto più chiaccherarono. Nessuno di quei giovanotti conosceva D. Bosco; tuttavia uno di loro venuto in sospetto, incominciò a dire ai più vicini: È forse D. Bosco? - Sì! - No! - E in ultimo ad alta voce: - Lei è D. Bosco?

                - Precisamente. D. Bosco sono io. Ma D. Bosco vi ha pagato da bere e ora vuole un favore da voi.

                - D. Bosco!... Domandi: lo faremo.

                - Che sabato sera veniate a confessarvi all'Oratorio.

                Tutti si guardarono in faccia e scoppiarono in risa: Noi a confessarci? Se sapesse che poste siamo, che buone lane... se ce le dovessimo contar tutte...

                - Siamo sì o no amici?

                - Sì, sì, amici.

                - Dunque... [398]

                - Ebbene, sabato verremo, gridarono tutti.

                - Non basta, soggiunse D. Bosco, bisogna che ci sia qualcuno garante. Mettiamo responsale quel giovanotto!

                - Sì, sì, accetto, rispose il capo banda, e le assicuro che verranno; se non vengono, li trascino tutti pel collo.

                - Per carità non far questo... ma io sto sulla vostra parola! A buon rivederci, adunque.

                Al sabato e alla Domenica vennero tutti e si confessarono molto meglio, di quello che D. Bosco avesse sperato da loro. Varii continuarono poi a frequentare l'Oratorio, ed otto furono accettati in casa. È vero che non poterono far vita lunga in un luogo dove la regola vincolava la loro libertà: qualcuno si fermò circa un anno; ma riuscirono tutti bene, e rientrati nel mondo, ora sono agiati negozianti; e, quel che più monta, si mantennero veri cristiani e buoni padri di famiglia.

                Altra sera, al sabato, D. Bosco rientrava nell'Oratorio, conducendo un bel numero di siffatta brava gioventù, per confessarla. Erano già tutti inginocchiati in sagrestia, quand'ecco uno incominciò a sghignazzare, gli altri a ridere e poi tutti a fuggire, lasciandolo solo con quegli che già aveva incominciata la sua accusa. D. Bosco credeva che non ritornassero più: sembrava quello un tentativo mai riuscito: quand'ecco la Domenica seguente se li vide innanzi pronti a far bene. Bisognava istruirli, aiutarli a far l'esame, eccitarli al dolore, far loro eseguire la penitenza; ma la fatica era compensata largamente dal frutto.

                In varii di questi casi D. Bosco arrecò anche un gran vantaggio alla civile società, collo scioglimento di parecchie cricche che avrebbero finito col divenire bande di malfattori.

                Ma non sempre D. Bosco in questi incontri l' avrebbe passata così liscia senza un qualche inaspettato soccorso. Fra [399] le altre volte un giorno si trovò coinvolto in una banda di scapestrati coi quali a nulla approdavano le parole affettuose o scherzevoli. Insulti, urli, tentativi di fargli cadere il cappello, facevano temere di peggio. D. Bosco, senza nulla rimettere della sua tranquillità, tentava invano di sbrogliarsi da quella stretta. Quand'ecco avanzarsi un giovane che apparteneva allo stesso borgo di quei rodomonti e del quale poco tempo prima D. Bosco si era accaparrata l'amicizia. Questi, messa la mano in saccoccia in atto di estrarre il coltello, gridò loro: - Scialop del Boia! E non sapete voi che questo prete è D. Bosco? Se pronunciate ancora una sola parola contro di lui, io vi scanno! - E la minaccia proferita con espressioni così risolute fece abbassare le arie a quei maleducati, tanto più che restarono sorpresi nello scorgere che D. Bosco era protetto da uno dei loro. E D. Bosco mentre ringraziava l'uno, diceva sorridendo anche una graziosa parola agli altri.

                Tali erano, e altre peggiori, le molestie cagionate ai Sacerdoti dagli articoli dei malvagi giornali, mentre chi avrebbe dovuto, non davasi pensiero d'interdirle.

                                              

 

 

CAPO XXXVII. I Valdesi - Amari frutti - I sedici soldi ed il libro del De Sanctis - Il segnale della guerra - Diverbio - Le sassate - Due colpi di pistola - Il padrone del campo - La festa di S. Litigi - I due fratelli Cavour in processione - Il giornale l'ARMONIA - Palmate misteriose.

 

                I GIORNALISTI, altri nemici stavano preparando aspre e pericolose battaglie contro il Cattolicismo. Coll'editto del 19 giugno 1848, firmato dal Principe Eugenio di Carignano, toglievasi ogni disparità di trattamento verso i Valdesi e gli Ebrei, proclamandosi “la differenza di culto non formare eccezione al godimento dei diritti civili e politici e all'ammissibilità alle cariche civili e militari”. Con ciò, in omaggio al falso principio della libertà di coscienza, s'intendeva eziandio concessa la facoltà di esercitare pubblicamente il loro culto e propagare liberamente i loro errori. Pei decreti in data del 17 febbraio e 9 successivo marzo gli Israeliti erano già sbucati dal ghetto per divenire in breve tempo i primi possidenti in Piemonte. I Pastori Valdesi erano usciti ancor essi dalle valli di Pinerolo, dove li aveva confinati la saviezza dei principi di Savoia; e si sparsero nel resto del Piemonte, e più tardi in tutta la penisola. Intanto, benchè fosse limitato in Torino il loro numero, sapendosi appoggiati dalle autorità settarie, sciolsero il freno alla loro audacia. [401] Essi vagheggiavano un'Italia eretica, perchè così sarebbero mancati al Papa i sudditi ed Egli avrebbe dovuto abbandonare la sua Sede. Perciò ora da soli, ora congiurati coi protestanti della Svizzera, della Germania e dell’Inghilterra, spediti a fare propaganda tra noi, s'arrabattarono per ogni verso a fine di seminare dappertutto la zizzania dei loro esiziali errori. A meglio riuscire nel loro intento sparsero libri, fondarono scuole tennero conferenze, eressero cappelle, innalzarono tempii; e come se i Cattolici fossero altrettanti pagani e adoratori delle cipolle d'Egitto, nulla risparmiarono per convertirli alla setta di quelle tre gioie di apostati, che furono Pietro Valdo, Lutero e Calvino.

                Tra i primi ad assaggiare gli amari frutti della emancipazione furono D. Bosco e l'Oratorio di S. Luigi Gonzaga; imperocchè i Valdesi, versatisi in Torino, andarono tosto a piantar cattedra presso il Viale dei platani, non lungi dal detto Oratorio. Colà in una casa provvedutasi a quest'uopo, essi cominciarono a tenere conferenze, nelle quali un ministro e poi un altro, sotto colore di spiegare la Bibbia, declamava contro il Papa, i Vescovi, i Sacerdoti, il Celibato, la Confessione, la santa Messa, il Purgatorio, l'invocazione dei Santi, soprattutto contro Maria Santissima, trattandola come una donna comune, e attentando sacrilegamente alle due gemme più fulgide, che abbelliscano la sua corona, cioè la Verginità e Maternità divina.

                I settarii con queste empie novità si credevano di eccitare un grande entusiasmo, e attirare gente assennata ad udirli; ma invece si ebbero ben presto a disingannare; giacchè pochissimi Torinesi si ardimentarono di far getto di lor fede, frequentando le congreghe di Satanasso. I sedotti non furono che alcune decine di fannulloni e giovinastri ignoranti e scostumati, i quali di cattolico altro ormai non avevano fuorchè [402] il carattere battesimale, che non potevano raschiarsi dall'anima. Tra gli altri vi fu un cotal Pugno, calzolaio spiantato, il quale, stanco di maneggiare la pece e lo spago, divenne uno dei predicanti più arrabbiati. Egli fu più volte a trovare D. Bosco per disputare con lui; e se non fosse stata la compassione che muoveva la perdita di quell'anima, sarebbe stato il caso di scoppiare dalle risa all'udire le fanfaronate di un ciabattino, fattosi improvvisamente teologo ed apostolo!

                I protestanti, vedendo che tra gli adulti potevano fare pochi proseliti, si appigliarono allora ad un mezzo che disgraziatamente riuscì e riesce tuttora a pervertire molte anime, e trarle nella via della perdizione. Essi fecero suonare il borsellino, e gettarono le reti tra mezzo all'incauta gioventù. Scelti pertanto alcuni dei loro adepti più audaci, li mandarono come lupi in cerca di agnelli; e siccome l'Oratorio era frequentato in quel tempo da circa 500 giovani, più o meno grandicelli, così come un ovile senza steccato venne preso da coloro particolarmente di mira. Adunque una Domenica alcuni di quei disgraziati si mettono sulla via che conduce all'Oratorio; altri si portano sin presso il luogo della ricreazione, ed ora con parole lusinghiere, ed ora con frizzi piccanti, cercano di trarre seco i ragazzi. - Che cosa andate a fare colà? Venite con noi, e vi condurremo a divertirvi come vi pare e piace; udirete delle belle cose, e dopo avrete in regalo due mutte[27] e un bel libro.

                Chi conosce la leggerezza della gioventù, e il proverbio, l'argent fait tout, non si maraviglierà che parecchi giovinetti siansi lasciati adescare da quelle promesse. - Andiamo, cominciò a dire uno; andiamo, ripetè un secondo; sedici soldi [403] son belli e buoni, soggiunse un terzo; - e così per la prima volta una cinquantina di giovani si lasciò condurre nella casa ereticale. Finito il predicozzo, ciascuno dei giovanetti s'ebbe gli ottanta centesimi promessi, e in dono il libro del famoso apostata De Sanctis contro la Confessione.

                Ricevuta questa paga e l'invito di ritornarvi, varii giovani, non punto accortisi delle insidie loro tramate, si portarono ancora ingenuamente della sera stessa all'Oratorio, quantunque più tardi, e vi raccontarono l'avvenuto. Fu allora che il savio Direttore, il Teol. Carpano, si accorse che i lupi attentavano alla vita degli agnelli affidatigli da D. Bosco, e si accese di santo zelo per impedirne la strage. Egli ritirò ben tosto tutti i libri che potè avere, e poi sovvenutosi della parabola evangelica del buon pastore, del mercenario e del lupo, svelò così bene ai giovani le trame degli eretici, mise in tanto orrore le loro congreghe, che tutti gli promisero di non recarvisi più mai per tutto l'oro del mondo.

                Ma intanto il Regnale della guerra era dato; le battaglie saranno quindi innanzi ingaggiate e ferveranno così, da far passare a D. Bosco, al Teol. Borel, al Teol. Carpano, ai giovani tutti, dei giorni e delle ore tremende.

                La Domenica appresso i gregarii Valdesi ritornarono infatti ad appostare i giovanetti per levarli dall'Oratorio; ma questa volta la cosa non riuscì loro così facilmente; imperciocchè i giovani adulti, indettati dai loro superiori, li tenevano d'occhio, ne spiavano i passi, e quando li vedevano ad avvicinarsi ai fanciulli dell'Oratorio dicevano a questi: Non lasciatevi ingannare: costoro vi menano dai barbetti[28], nemici della nostra Religione; andate, andate all'Oratorio. [404]

                - Coloro, vedendosi scoperti, ricorrevano agli scherni e alle villanie: - Sciocchi che siete, dicevano; che cosa vi dánno i Preti? Non è forse meglio venire con noi, e ricevere i sedici soldi? Che genere di predicatori siete voi! rispondevano i nostri non avendo uditori, li andate a comperare. Sarebbe meglio che vi comperaste delle patate. - I discepoli di Pietro Valdo, sentendosi in tal modo rimbeccati, avrebbero voluto rispondere colle mani; ma vedendosi in pochi, e invece di suonare temendo di essere suonati, si ritirarono per allora dicendo: “Ci rivedremo altra volta”.

                Da questo contegno minaccioso si scorgeva che nella festa consecutiva la cosa avrebbe assunto un aspetto più grave. Quindi, ad evitare pericoli e malanni, fu raccomandato ai giovani che in avvenire, vedendo quegli sciagurati ad approssimarsi, voltassero loro le spalle senza dir nulla, e, si portassero nel cortile dell'Oratorio.

                Venne pertanto la Domenica dopo: ed ecco pur troppo avverate le fatte previsioni. Ad una certa ora dopo mezzogiorno si presentano nel campo vicino da un trenta a quaranta giovinastri dai sedici soldi. A quella vista i giovani, ubbidienti agli ordini ricevuti, si ritirarono come agnelli nel proprio ovile; ma quei forsennati cominciarono a lanciare sassi con tanto furore, che l'Oratorio parve un castello preso a bombarde. Grandinavano sassi nelle porte, sassi nelle finestre, sassi sui tetti, sassi in mezzo ai giovani impauriti, alcuni dei quali portarono rotta la testa. Fra una cosa di vero terrore. Questo scellerato provocamento irritò talmente i giovani più adulti, che perduta la pazienza e sprezzato ogni pericolo, uscirono fuori, diedero ancor essi di piglio alle pietre, di cui era seminato il terreno, e si scagliarono con tanto impeto contro ribaldi, che dopo alcuni istanti li ebbero cacciati al di là dei viale. [405]

                Nè questa fu la sola volta che succedesse una scena così dolorosa; poichè per più mesi essa si rinnovò quasi ad ogni festa, con quell'affanno di D. Bosco e de' suoi aiutanti, che ognuno può immaginare. Gli eretici e loro iniziati, non potendo riuscire a tirare i giovani nelle loro reti, si argomentarono di allontanarli almeno dall'Oratorio coll'atterrirli. Quindi li prendevano a sassate mentre vi si portavano alla spicciolata; e il più delle volte aspettavano che tutti fossero raccolti in chiesa, e poi ad un tratto mandavano una grandine di pietre nella porta e nelle finestre, da spaventare e far piangere i piccoli ed obbligare il Direttore a sospendere le sacre funzioni.

                Una volta mentre il Teol. Borel e il Teol. Carpano stavano in sacrestia vestendosi per dare la benedizione, un sicario si presentò alla finestra, che prospettava la pubblica via, e sparò due colpi di pistola contro di loro. Iddio, che proteggeva i suoi servi, non permise che si effettuasse l'assassinio, e le due palle, rasentata la faccia dei Sacerdoti, andarono a colpire nel muro opposto. Ognun si figuri il terrore sparsosi per tutta la chiesa: e la gioia che tosto ne seguì pel colpo fallito. A tutti questi fatti erano fra gli altri presenti i nostri antichi compagni Cigliuti, Gravano e Buzzetti.

                Come chiaro, si appalesa, gli avversarii non facevano per burla: essi volevano ad ogni costo far chiudere l'Oratorio. Ma viva Dio e Maria Immacolata! D. Bosco co' suoi coadiutori ebbe tanta costanza e fortezza, da resistere a tutte le inique battaglie, e finì col rendersi padrone del campo.

                E i giovani dell'Oratorio di S. Luigi continuarono e continuano tutte le Domeniche, ascoltando la santa Messa a professare la loro fede col ripetere le preghiere del Giovane Provveduto: “Io credo fermamente tutte le verità che voi, mio Dio, rivelaste alla vostra Chiesa, perchè siete verità [406] infallibile. Concedetemi, Signore, la grazia di vivere e morire da buon Cristiano, nel grembo di Santa Madre Chiesa”.

                Mentre l'Oratorio di Portanuova era a questo modo messo alla prova, quello di S. Francesco di Sales dopo aver inneggiato con tranquillità a S. Giovanni Battista, celebrava la festa di S. Luigi con una pompa singolare. Pareva che i tempi così reclamassero.

                I giovani erano assai di spesso attirati ad assistere a feste, o per meglio dire, a dimostrazioni civili; e mentre il mondo sfoggiava in magnificenze, sembrava utile, se non necessario, il contrapporre la grandezza delle feste religiose, per meglio guadagnare alla Chiesa le menti ed i cuori dei fedeli, soprattutto della inesperta gioventù.

                La solennità venne annunziata molto tempo innanzi: le si fecero precedere le solite sei Domeniche con apposite pratiche di pietà; sì prepararono musiche, per quanto si potè, squisite, si mandarono inviti ai benefattori dell'Oratorio e ai loro conoscenti ed amici. La sera della vigilia e al mattino della festa collo sparo dei mortaretti se ne risvegliò la memoria nel vicini e nei lontani. D. Bosco, il Teol. Borel e parecchi Sacerdoti loro aiutanti ebbero molto lavoro, e gustarono dolci consolazioni pel gran numero di giovani, che si accostarono ai santi Sacramenti. Nelle ore pomeridiane nell'Oratorio si riversò una sì gran calca di gioventù, che la Cappella non ne capì che una parte.

                La processione soprattutto fu una cosa degna di particolare menzione. Era commovente, lo spettacolo di due giovani di nobilissima famiglia reggere i fiocchi dello stendardo, portato da un povero artigianello.

                La via Cottolengo, che si percorreva, è lunga; eppure i primi giovani delle due file n'erano ormai alla metà, e gli ultimi colla statua del Santo uscivano appena dalla cinta [407] dell'Oratorio. Malgrado tanta gente, ogni cosa si compiè con ordine e tranquillità. Le guardie civiche assistevano più per decoro che per imporre, e la banda musicale alternava i suoi concerti al canto dei giovanetti.

                Una cosa molto edificante fu notata in quella circostanza. A fianco della statua si vedevano due ragguardevoli personaggi, i quali levarono poscia alto grido di sè per tutta Italia, ed uno per tutta Europa. Tenevano essi da una mano il cerco acceso, e dall'altra il Giovane Provveduto, cantando coi sacri ministri l'inno Infensus hostis gloriae, in onore di S. Luigi. E chi erano questi due personaggi? Erano nientemeno che il Marchese Gustavo, e il Conte Camillo Cavour. Il Marchese aveva voluto essere inscritto alla Compagnia di S. Luigi ed in mezzo ai giovanetti era andato ad inginocchiarsi ai piedi dell'altare e leggere ad alta voce la sua formola dì aggregazione.

                Questi due fratelli vedendo che D. Bosco aveva avuta l'abilità e la costanza di superare tutte le mossegli opposizioni e tirare innanzi l'opera sua raccogliendo da tutte le parti di Torino giovani vagabondi e pericolanti, erano divenuti suoi ammiratori. Eglino venivano sovente a fargli visita per incoraggiarlo all'ardua impresa. Nell'Oratorio poi non facevasi una festa di qualche importanza a cui non prendessero parte. Tanto l'uno quanto l'altro si dilettavano di stare contemplando tanti giovanetti insieme raccolti, concordi nei loro trastulli, istruiti, assistiti, bene trattati, tolti per siffatta guisa dalla via del disonore e allontanati dalla porta della prigione. A quella vista il Conte Camillo fu più volte udito pronunziare queste parole: “Che bella ed utile opera è mai questa! Sarebbe davvero desiderabile che ve ne fosse almeno una per ogni città. Così molti giovani eviterebbero la prigione, ed il Governo non ispenderebbe tanti denari per mantenere [408] fannulloni nelle carceri, ed avrebbe in quella vece motti sudditi morigerati, che con un'arte o mestiere camperebbero onoratamente la vita, e gioverebbero a se stessi e alla società”.

                Forse qualcuno farà le meraviglie che i due Cavour praticassero così nel nostro Oratorio e manifestassero di cotali sentimenti. Si ha da osservare che in quel tempo essi, educati da genitori cristiani, avevano fede e mostravansi altamente Cattolici. Soprattutto Gustavo lo si vedeva sovente nelle chiese di Torino ad accostarsi alla santa Comunione con un contegno molto edificante. Il medesimo Camillo, che non era troppo conosciuto in Piemonte per aver vissuti parecchi anni in Inghilterra, anche nel 1850 fu visto nella Chiesa della SS. Annunziata a ricevere la Comunione dalla mano dei Teol. Fantini, eletto poscia Vescovo di Fossano.

                Egli sul principio del Rivolgimento Italiano pareva conservatore, benchè imbevuto degli errori dei regalisti, ma nessuno avrebbe sospettato in lui un nemico del Papa e della Chiesa.

                Intanto nel 1848 erasi provveduto in Torino alla stampa cattolica. L'improvviso apparire e il rapido svolgersi del giornalismo settario e liberale aveva fatto sentire ben tosto ai buoni la necessità di pubblicare un periodico che assumesse la difesa della religione e de' suoi diritti. Ed ecco mentre in Piemonte Mons. Luigi Moreno Vescovo d'Ivrea ne studiava il modo e i mezzi, chiamando a sè e consultando anche Don Bosco, alcuni genovesi ecclesiastici e laici mettevano fuori un programma di giornale da intitolarsi l'Armonia. Ma gravi difficoltà ne facevano differire la stampa. Venuti però essi in cognizione dei progetti di Mons. Moreno, gli proponevano il giornale col titolo ideato, offrendogli i fondi che avevano raccolto. Quegli acconsentiva e ottenuta la benedizione [409] Pontificia, il 4 luglio 1848 si pubblicava in Torino il primo numero dell'Armonia sotto la direzione del Teol. Guglielmo Audisio, Preside dell'Accademia di Soperga, e dei Marchesi Birago di Vische, e Gustavo di Cavour, il quale per varii anni ne fu uno dei più valorosi scrittori. Questo giornale ebbe il vanto di essere in Piemonte il primo, il più ardito e dotto difensore della Chiesa, del Papa, del Clero Cattolico, del potere temporale, del matrimonio cristiano; e l'avversario più costante dei settarii e dei liberali.

                D. Bosco, allora che aveva caldeggiato con tanto impegno questa pubblicazione da meritarsi la diffidenza e i rimproveri di qualche potente liberale, come a noi consta di certa scienza, ritiravasi con D. Cafasso agli esercizi di Sant'Ignazio, preparandosi in quel luogo tranquillo a nuove lotte. Mentre era su quei monti accadde un fatto, ripetuto poi altre volte, e che a noi fu narrato dal Teol. Borel. D. Bosco aveva scritto al caro Teologo come alla Domenica precedente i giovani Costa e Baretta fossero entrati nella cappella per la porta maggiore e poi usciti per quella della sacrestia: quindi, invece di assistere alle sacre funzioni, fossero andati a bagnarsi nella Dora, e mentre erano nell'acqua avessero ricevute da mano invisibile alcune palmate tutt'altro che leggiere. Il Teologo, appena ricevuto questo biglietto, interrogò i due giovani e le loro risposte quadrarono a cappello colla rivelazione di Don Bosco.

 

 

CAPO XXXVIII. I giovani alle dimostrazioni politiche - Semi di disunione - Disgustoso incidente - Invito respinto - Nuovo abbandono - Seconda muta di spirituali esercizii - Ho perduto i peccati - Rovescio delle armi piemontesi

 

                I GIORNI del 1848 e del 1849 furono terribili per Don Bosco. I preti erano fra di loro in discordia, e direi quasi in lotta, per le opinioni politiche dei liberali e dei così detti retrivi. Il popolo subornato dai settarii astiava il clero, accusandolo di retrogrado e di nemico dell'indipendenza nazionale. Certi distinti personaggi, anche buoni, si dimostravano sempre contrarii a D. Bosco per la novità delle sue opere, per il decoro compromesso, dicevano essi, del sacerdotal ministero, causa il famigliarizzare del prete di Valdocco coi giovani più scapestrati della città. Monsignor Fransoni, il suo più valido appoggio, era in Isvizzera. In mezzo ad una vita di tante angustie, ad un'altra prova ancor più pericolosa di quelle che prima aveva attraversate, veniva esposto il nostro Oratorio.

                Sallo il demonio che un regno, una società, una famiglia in discordia non può a lungo durare e si scioglie; e perciò dopo di aver fin da principio attentato indarno di distruggere l'opera di D. Bosco colla malevolenza degli illusi, colle calunnie e pur colle minacce, egli si appigliò in ultimo al mezzo della disunione. Semi di divisione erano stati, con poco buon esito, [411] gettati fin dagli anni addietro; ma in appresso questi si svilupparono disgustosamente tra parecchi degli aiutanti di Don Bosco, che dalla città venivano a fare il catechismo e la scuola e ad intrattenersi in ricreazione coi giovani. Parecchi, fissi nelle loro idee di liberalismo e di Costituzione, si lasciavano andare a seconda della corrente. Parteggiavano costoro per certi messeri, che struggevansi di voglia di deporre le divise clericali; ne avevano scritto sui giornali, e sollecitando i confratelli con lettere, proponevano l'abbandono del cappello triangolare e dei calzoni corti. La proposta incominciava ad attecchire: per la città vedevansi parecchi del clero senza collare con cappello rotondo o a cilindro e panni lunghi in gamba; e i liberali promovevano questa trasformazione, con eccitare i monelli a motteggiare e insultare i preti che portavano l'antico costume. Un giorno un di que' sacerdoti, conoscendo l'impulso che avrebbe dato alle nuove idee l'esempio di D. Bosco, adducendo il parere degli altri gli fu dattorno a fine di convertirlo a' suoi progetti di riforma nel vestiario. D. Bosco si pose a ridere e poi domandò:

                - Avete già parlato in proposito con D. Cafasso?

                - Non ancora.

                Ebbene cominciate indurre a portare i calzoni lunghi e il cilindro il Canonico Anglesio, D. Cafasso e il Teol. Borel. Quando si vedranno questi tre modelli di sacerdoti, che io venero e rispetto, andar vestiti a questa foggia, chi sa che non ne venga la voglia anche a me.

                I Vescovi non tardarono a condannare tali sciocche pretensioni; ma coloro che trovavano pesante un punto così importante di ecclesiastica disciplina non potevano essere elementi di ordine negli Oratorii. Infatti questi, ai quali si erano uniti alcuni laici, incominciavano a pretendere che tutti i giovani prendessero parte in corpo ai pubblici spettacoli e feste, ed [412] in luoghi dove certi evviva non dovevano tardare a mutarsi in grida di morte; altri scaldavano loro la testa esternando e propugnando alla loro presenza opinioni bizzarre in materia di religione e di politica. D. Bosco non lasciava di far notare che la politica da insegnarsi ai giovani dell'Oratorio, doveva consistere nell'allontanarli dal mal fare, renderli buoni cristiani, docili figliuoli di famiglia, affinchè divenissero un giorno utili ed onorati cittadini. Quindi raccomandava a' suoi colleghi di ben guardarsi dall'insinuare negli animi giovanili fantasie ed idee per lo meno inopportune, le quali altro non avrebbero fatto che distrarli dai proprii doveri.

                Ma i saggi suoi ammonimenti non erano presi in buona parte, e si continuarono a sostenere le nuove teorie. D. Bosco allora fu costretto a disapprovarle e a correggerle dal pulpito. Benchè egli ciò facesse con molta prudenza, si accentuò sempre più viva l'avversione di alcuni de' suoi coadiutori verso di lui e commentavano le sue parole con scherzi e derisioni. Il fermento si diffondeva anche fra i giovani, eccitato dalla curiosità; gruppi di questi non intervenivano talora alle sacre funzioni per correre a godere degli spettacoli di tanta gente, grida, canti e suoni. Colpivano la loro fantasia i cori dei fanciulli vestiti all'italiana, cioè con tonichette e calzoni di velluto nero, con feltro ornato di pennoncello in capo sotto il quale scendevano inanellati sulle spalle i capelli; un pugnale alla cintura e sul petto un piccolo scudo rappresentante l'Italia, appeso ad una catenella indorata. Ritornati all'Oratorio nella Domenica seguente, coi loro racconti invogliavano i compagni più spensierati, di fare una corsa in città. La dissipazione faceva diminuire la frequenza dei sacramenti, e molte cose D. Bosco doveva tollerare per non compromettersi; tuttavia la sua presenza era stata fino allora un gran ritegno alla maggior parte dei giovani. [413]

                Intanto imprudenti bollettini della guerra, inventati dai giornalisti, avevano celebrate immaginarie vittorie degli Italiani e promettevano imminenti altre buone notizie, sicchè Torino di bel nuovo agitavasi in dimostrazioni di trionfo. Il fatto però stava che per un mese i due eserciti non si erano più mossi, causa un accomodamento proposto dall'Inghilterra. Solo il 13 luglio Carlo Alberto aveva finalmente ordinato che si circondasse Mantova, e il 18 i Piemontesi assalivano a Governolo un grosso corpo di Austriaci e lo sconfiggevano. Con ciò crebbero all'infinito le acclamazioni, alle quali si mescolavano grida e applausi anticristiani. In questo stesso giorno il Parlamento subalpino approvava la legge sopprimente la Compagnia di Gesù e la Congregazione delle Dame del Sacro Cuore, dichiarando i loro beni mobili ed immobili devoluti irrevocabilmente allo Stato. Tutti i deputati, membri del clero, votarono in favore della soppressione.

                Ed ecco presentarsi a D. Bosco due Teologi, incaricati dell'Oratorio di S. Luigi, e chiedergli risolutamente licenza di poter condurre i giovani colla bandiera e colla coccarda tricolore sul petto per le strade di Torino a prender parte alle gioie politiche. D. Bosco allora uscì dal suo riserbo, e non solo negò di permettere, ma proibì con severità simili piazzate. Allora i due Teologi e varii altri chierici infatuati dalla Gazzetta del popolo si dichiararono apertamente contro D. Bosco, e protestarono che le dimostrazioni si sarebbero fatte a dispetto di chiunque. Bisognava compatirli. Era un vero delirio generale per l'indipendenza d'Italia, era in tutti una febbre per la guerra. Chi non si trovò a quel tempi non può farsene un'idea.

                La protesta dei due Teologi fu mantenuta, e nel mattino della seguente Domenica condussero per Torino alle feste nazionali i giovani di Portanuova. D. Bosco non esitò, e, [414] raccomandato l'Oratorio di Valdocco al Teol. Borel, che era accorso dal Refugio al suo invito, andò nel dopopranzo a Portanuova. Abboccatosi col Direttore, gli disse, come, abbastanza chiaramente, egli avesse dimostrato di non volere che alcuno degli addetti agli Oratorii s'immischiasse in partiti o crocchi politici; egli intendere che ogni cosa procedesse da un solo principio d'autorità e che si ottemperasse fedelmente a' suoi ordini; e siccome questi erano stati in tal modo trasgrediti, più non aver egli bisogno di un aiuto che riusciva di danno al Regolamento ed alla concordia. Quell'ecclesiastico, che doveva fare l'istruzione ai giovani, sorpreso da queste risolute parole, sul momento non seppe che cosa rispondere; e D. Bosco replicò:

                - Stasera la predica la faccio io! - E salito il pulpito, predicò sulle verità eterne, senza dir motto nè pro nè contro a ciò che era accaduto al mattino! Data la benedizione, il Teologo gli chiese ancora chi farebbe la predica la Domenica seguente, ed egli rispose: - La farò io!

                Irritati da quella comparsa di D. Bosco e delle sue giuste rimostranze, gli sconsigliati stabilirono di prendersi una rivincita.

                La Domenica seguente verso le due pomeridiane uno dei giovani più fidi ed assennati stavasi in un angolo del nostro cortile in Valdocco leggendo l'Armonia. In quel punto ecco entrare nell'Oratorio alcuni di quei cotali col petto fregiato della coccarda, ed uno di essi colla bandiera tricolore in mano. Quest'ultimo, persona per altro di dottrina e di zelo, si accosta a chi leggeva l'Armonia, e “Vitupero, prese a gridare, è tempo di finirla con questi rugiadosi!”. Così dicendo strappa di mano a colui il foglio cattolico, lo fa in pezzi, lo getta per terra, e sputandogli sopra, lo pesta e calpesta furiosamente. Dato questo primo sfogo, si avvicina a D. Bosco, che era vicino alla [415] pompa, circondato da varii fanciulli, invitandolo a mettersi anche lui una coccarda sul petto, e tratta fuori di tasca un'altra gazzetta chiamata l'Opinione, - Questo sì che è un buon giornale, disse; questo e non altro si dovrebbe leggere da tutti gli onesti cittadini. Non è più tempo di dar ascolto alle chiacchiere dei retrogradi e degli intransigenti; bisogna operare. - A quell'atto e a queste parole D. Bosco rimase sbalordito e non volendo che si facessero ulteriori scandali in mezzo al giovani, lo pregò a riserbare quelle dispute in privato. “No, signore, ripigliò colui, oramai non vi deve più essere nè privato nè segreto, ma tutto va posto in chiara luce”.

                In quel momento il campanello chiamò i giovani in chiesa, e D. Bosco sperò che appiè dell'altare gli spiriti si sarebbero calmati; ma per mala sorte non fu così. Quel sacerdote che tempo prima era stato incaricato di fare la predica in quella sera, salito sulla piccola bigoncia tirò fuori una diceria deplorabile. Per circa mezz'ora altre parole non rimbombarono, alle orecchie della giovanile udienza, che emancipazione, indipendenza, libertà. Molti giovani fremevano, altri ridevano, e taluni alla parola libertà, libertà facevano la rima, ripetendo sottovoce in dialetto piemontese: torototèla torototà. Chi di più ne ebbe a soffrire fu il povero D. Bosco, che in cuor suo amaramente ne pianse. “Questa non me l'aspettava, andava dicendo in sagrestia; il diavolo me l'ha fatta troppo grossa. Dio mio, disperdete gl'insani consigli, e fate che i miei cari giovani non ne ricevano scandalo”. Terminate le sacre funzioni, egli intendeva di chiamare a sè il povero traviato, e in bel modo fargli conoscere il suo fallo: ma non ebbe tempo, chè l'altro, appena uscito di cappella, invitò colleghi e giovani ad associarsi con lui, intonò a squarciagola un inno popolare, e con un centinaio di persone uscì dall'Oratorio facendo [416] sventolare farneticamente la sua bandiera. La squadra ribellatasi andò a far sosta presso al monte dei Cappuccini. Colà fu fatta ed accettata la proposta di non più intervenire all'Oratorio, se non invitati e ricevuti in forma solenne, vale a dire colle bandiere in mano e colle medaglie e coccarde in petto. D. Bosco, quantunque afflitto da questo disordine, non si smarrì d'animo e non cedette di un punto alle pretese di coloro: sicuro di sostenere un principio buono, sapeva che bisognava venire a risoluzioni gravi quando si tratta di combattere principii falsi e funesti nelle loro conseguenze. D'altra parte vedeva non essere possibile mettersi d'accordo almeno per allora colle opinioni di tali suoi coadiutori. Perciò lungo la settimana scrisse un biglietto a tutti quelli che, andando per fare il catechismo, solevano invece esporre le loro idee politiche. Si esprimeva con frasi molto cortesi; li ringraziava di quanto avevano fatto per l'Oratorio nel tempo passato; e intanto li assicurava che più non occorreva l'opera loro, pregandoli, anzi proibendoli di porre d'allora in poi ancor piede nell'Oratorio.

                Per questo inaspettato licenziamento, inaspriti quei signori, si posero tutti d'accordo nel fare il possibile per allontanar da D. Bosco i giovani, e visitandoli alle loro case e alle loro botteghe, o aspettandoli nelle vie che mettevano ai due Oratorii, riuscirono a tirar via da D. Bosco tutti i più grandi. I chierici e i preti che prima prestavano l'opera loro, per motivi anche giustificati, avevano quasi tutti abbandonato D. Bosco Non piccol numero di catechisti e maestri adulti erano stati chiamati a prendere le armi e si trovavano al campo. Eziandio quei catechisti, che ancora gli rimanevano, furono spinti ad andarsene da' più inviperiti. Alcuni pochi i quali continuavano a venire per fare il catechismo, erano trattenuti dal rispetto umano o dal bisogno che avevano di [417] qualche favore od aiuto. Il Seminario e il Convitto Ecclesiastico, occupati dalle truppe, non potevano mandargli quegli aiuti straordinarii che talora gli avevano dato. L'Oratorio di Valdocco rimase quasi deserto, e mentre prima nei giorni festivi era animato da cinquecento e più giovani, per qualche Domenica non se ne videro più di trenta o quaranta. Non tardava però questo numero a crescere a vista d'occhio e riempire, forse più di prima, i cortili; senonchè erano tutti piccoli.

                Per questo scisma ed abbandono D. Bosco ebbe a trovarsi di nuovo per qualche tempo pressochè solo sotto il peso dell'Oratorio. Il mattino dei giorni festivi sino a mezzogiorno in chiesa, in iscuola, in ricreazione, altro sacerdote non si vedeva coi giovani, fuorchè il povero D. Bosco, ed uno o due altri, i quali, perchè altrove nel sacro ministero già occupatissimi, non facevano nell'Oratorio che una breve apparizione.

                Nel rimanente del giorno restava egli solo ad assistere, raccogliere i giovani, condurli in chiesa, e far loro il catechismo. Intonava e cantava il vespro senza mettersi la cotta, perchè mentre cantava doveva uscire dal coro e sorvegliare acciocchè i giovani stessero buoni. Poi montava in pulpito a fare la predica, ed anche in quest'atto senza cotta, perchè talora gli toccava discendere per mettere in ordine qualche classe, o per far stare zitto qualcuno mutandolo di posto, o per condurre fuori di chiesa un disturbatore incorreggibile. Quindi ascendeva di bel nuovo sul pulpito per continuare il suo argomento e dava poi la benedizione. Finite le funzioni, s'intratteneva coi giovani fino a notte oscura e infine andava ad accompagnarli fino alle prime case della città, perchè non avessero cattivi incontri nei campi solitarii di Valdocco.

                Ma quantunque D. Bosco si trovasse così abbandonato, e ormai sfinito per le fatiche, non mancavagli un grande [418] conforto: e questi era sempre il Teol. Borel. Occupato nell'Istituto dei Refugio, nelle prigioni dello Stato, e in cento altri luoghi della città, quell'uomo, piccolo di statura, ma grande di animo trovava ancor tempo per venire a lavorare nell'Oratorio. Non di rado egli rubava le ore al sonno per recarvisi a confessare; sovente negava al corpo stanco il necessario riposo e vi si portava a predicare nella sera delle teste, per sollevare l'amico almeno da questa fatica. Sia eterna lode a quel sacerdote incomparabile!

                Una cosa intanto stava molto a cuore a D. Bosco: di avere un discreto numero di giovani ben fondati nella virtù, i quali fossero come sale e luce in mezzo agli altri; e cercò modo di formarseli. A questo fine egli stabilì di tenere anche in quest'anno un corso di esercizii spirituali, memore dei frutti ricavati da quelli dell'anno antecedente. Ne fece parola con alcuni che gli parvero meglio disposti; co' suoi consigli li aiutò ad ottenere dai parenti o dai padroni una settimana di libertà per quest'uopo, e così ne raccolse una piccola schiera. Preparate le cose, che occorrevano, e previe le dovute intelligenze coi predicatori, che furono il Rev.mo Sig. Giuseppe Gliemone Canonico di Rivoli per le meditazioni, e il Teol. Borel per le istruzioni, la sera di una Domenica di luglio si diede principio ai santi Esercizii, che terminarono al mattino della Domenica consecutiva colla Comunione e coi ricordi di perseveranza. I giovani esercitandi si fermavano tutto il giorno all'Oratorio, vi udivano mattino e sera le meditazioni e le istruzioni, mangiavano con D. Bosco, ma non essendovi letti per tutti, nella sera una parte si recava alla propria casa pel riposo. I predicatori scelti da D. Bosco parevano fatti appositamente all'uopo; quindi le verità, gli insegnamenti, le massime, gli esempi e i fatti edificanti, che vennero esposti, non potevano essere [419] meglio adattati alla condizione dell'udienza, e meglio attirare la giovanile attenzione. Col divino aiuto varii giovani riformarono affatto la loro vita, e cominciarono a tenere una condotta così esemplare, che fu gran bene per loro e per tutto l'Oratorio. In appresso alcuni si fecero religiosi, gli altri rimasero nel secolo, ma vivendo sempre da buoni cristiani.

                Un lepido episodio ci occorre qui alla mente, che ci venne raccontato siccome avvenuto in questa occasione. Un buon giovanetto, desideroso di fare la sua confessione generale, colla maggior precisione che fosse possibile, si aveva scritti i suoi peccati. Fosse scrupolo o fosse realtà, fatto sta ed è che ne aveva riempiuto un piccolo quaderno, coll'intenzione di mandarli poscia a memoria o leggerli appiè del confessore. Ma, non si sa come, un giorno egli perdette il volumetto delle ingloriose sue gesta. Tocca e ritocca in tasca, cerca e ricerca per ogni parte, ma il manoscritto non si trova. Allora il povero ragazzo cade nella desolazione; si sente a gonfiare il cuore, e giù un pianto dirotto. Per buona ventura, ma all'insaputa di tutti, il quadernetto era stato trovato da D. Bosco.

                Intanto vedendolo singhiozzare a quel modo, alcuni compagni, dopo averlo inutilmente tempestato che loro ne dicesse il perchè, lo condussero a D. Bosco.

                - Che cosa hai, mio caro Giacomino? - gli domandò questi - hai male? hai dispiaceri? ti hanno dato? - e intanto paternamente lo accarezzava per fargli rallentare il pianto.

                Il buon ragazzo asciugatesi un tantino le lagrime, preso un po' di lena, rispose:

                - Ho perduto i peccati!

                A queste parole i compagni diedero in uno scroscio di risa, e D. Bosco, che aveva tosto capito, facetamente soggiunse: [420]

                - Te felice, se hai perduto i peccati, e te felicissimo se non li trovi più; perchè senza peccati andrai di certo in Paradiso.

                Ma quel buon figliuolo credendo di non essere stato inteso riprese:

                - Ho smarrito il quaderno dove li aveva scritti.

                Allora D. Bosco, tratto di tasca il gran segreto: - Sta tranquillo, disse, mio caro, che i tuoi peccati sono caduti in buone mani; eccoli qua.

                A quella vista il poveretto rasserenò la fronte, e sorridendo conchiuse:

                - Se avessi saputo che li aveva trovati lei, invece di piangere mi sarei messo a ridere: stasera poi andandomi a confessare le avrei detto: Padre, io mi accuso di tutti i peccati che lei ha trovati e che tiene in tasca.

                Le radunanze belle, per raccoglimento e fervore, si erano tenute nel piccolo coro. I giovani erano tredici, fra i quali Reviglio Felice, Buzzetti Giuseppe e Gastini Carlo. Vi si trovarono presenti Arnaud Giacinto, Sansoldo, Galesio Nicola, Costantino Giovanni, Cerruti Giacomo, Gravano Giovanni, Borgialli Domenico. D. Bosco li assisteva e non mancò una sola volta alle prediche. La calma di quegli esercizii faceva contrasto coll'agitazione grandissima che regnava in città in questi stessi giorni. Il Can. Glielmone, che si recava mattino e sera da casa sua all'Oratorio, scriveva poi a D. Bonetti, come allora nel traversare le piazze e le vie gli sembrasse venuta l'ora del finimondo, tanto rabbiose erano le tumultuanti dimostrazioni.

                La sconfitta delle armi Italiane accendeva tutte quelle passioni. Radetzki aveva presa l'offensiva con più di 60.000 uomini. Il 22 luglio, dopo un giorno intiero di eroica resistenza, i Piemontesi sgombravano Rivoli, e il 23 gli Austriaci avevano assalite ed occupate le alture di Somma [421] campagna e di Custoza, dalle quali però avevali ricacciati Carlo Alberto il 24 con isforzi di supremo valore. Ma il giorno dopo il Re sopraffatto dal numero dei nemici e costretto ad abbandonarle, minacciato di essere preso anche di fianco, perduta Volta, che il generale di Sonnaz aveva tentato invano di ricuperare, svanita ogni speranza, si ritirava. Il 31 ripassava l'Adda, col suo esercito mancante di vettovaglie, estenuato dalle fatiche e dagli stenti, avvilito, disordinato, e scemato continuamente per la fuga dei soldati.

                E il 25 luglio il Governo decretava una chiamata sotto le bandiere, di tutti i capaci alle armi, e poi si rivolgeva ai parroci acciocchè persuadessero il popolo della necessità e santità di quella guerra, trattandosi di difendere le istituzioni, la monarchia, e l'indipendenza politica della Santa Sede; poichè l'Austria vittoriosa la distruggerebbe e torrebbe al Papa le Legazioni. Ricorreva anche ai Vescovi, perchè il clero implorasse aiuti dal Signore per la patria pericolante, mentre parecchi padri cappuccini, colla necessaria licenza, percorrevano le città e le campagne, predicando nelle chiese è nelle piazze la crociata per la causa nazionale.

 

 

CAPO XXXIX. D. Bosco e Vincenzo Gioberti - Pericolo corso da Carlo Alberto in Milano - Preghiere pel Re - L'esercito piemontese rientra in Piemonte - Gli emigrati - Insulti all'Arcivescovo di Vercelli - Dicerie pericolose contro D. Bosco - Accademia e distribuzione dei premii - Lettera di Carlo Alberto a Pio IX - Il Re giunge a Torino.

 

                GIOBERTI in questi giorni di lutto era in viaggio alla volta di Torino e il 18 luglio l'Armonia stampava un'articoletto, che ora si dovrebbe giudicare almeno come strano, se non fosse una nuova prova delle difficoltà di quel tempo e della prudenza estrema che era necessaria nello scrivere di certi idoli della rivoluzione.

                “Corre voce che tra pochi giorni avremo tra noi il sommo filosofo, l'ottimo cittadino, Vincenzo Gioberti.

                Deh! Venga e la sua eloquente parola porga un argine all'impeto con cui alcuni malconsigliati, irrompono contro la religione Cattolica, la Chiesa ed i suoi ministri.

                Cessino una volta costoro di abusare un nome così caro alla patria per scusare la loro licenza, difendere le loro ree dottrine. Sappiano da esso stesso che egli non riconosce i loro principii, che nulla ha comune con essi, fuorchè il desiderio di vederli felici, perchè ravveduti”.

                Gioberti entrava a Torino il 1° d'agosto ed era subito chiamato, come Ministro senza portafoglio, a far parte del nuovo [423] Ministero Fabrio - Casati, costituitosi in tutta fretta il 29 luglio. Egli accettò a suo segretario particolare l'Avvocato Giambattista Gal nato in Torgnon il 1809 nella valle d'Aosta, impiegato da varii anni presso il Ministero degli affari esteri, uomo dotto e cattolicissimo, amico intimo dei Conti Cesare Balbo, Avogadro della Motta, Cesare Saluzzo, del Marchese Gustavo di Cavour, di Silvio Pellico e di Cesare Cantù. Fin dal principio di sua carriera, le poche ore di libertà che lasciavagli il suo penoso ufficio, le aveva sempre passate col venerabile Cottolengo e con D. Cafasso. Nel 1841, andando egli con tanta frequenza al Convitto Ecclesiastico, erasi affezionato grandemente a D. Bosco e con un'amicizia che durò costante sino alla morte.

                Le attinenze coi Gal forse agevolarono a D. Bosco un colloquio con Gioberti. Andò pertanto ad ossequiarlo col Teologo Borel, il quale era stato amico e compagno del Ministro nella sua giovanezza. È molto probabile che D. Bosco conoscesse i segreti maneggi di quel sacerdote traviato contro la Chiesa; tuttavia voleva scandagliare l'intimo dell'anima sua per vedere sino a qual punto i cattolici avessero a temere di lui e se qualche cosa si avesse a sperare. Egli infatti erasi vantato ne' suoi scritti di essere ammiratore entusiasta delle gesta dei Papi, e ciò forse poteva essere indizio, che, non ostante i suoi errori, il suo cuore non fosse interamente guasto. Nello stesso tempo essendo Gioberti ormai influentissimo negli affari dello Stato, e potendosi facilmente prevedere che sarebbero rimesse in sua mano le sorti del Governo, D. Bosco giudicava necessario prevenire le cattive impressioni che quegli avrebbe potuto ricevere dai rapporti maligni dei nemici degli Oratorii e guadagnarne per sè la benevolenza.

                Gioberti fece cordiale accoglienza al suo antico compagno e al Direttore degli Oratorii, dei quali s'intrattenne assai [424] volentieri; e quindi il discorso cadde sul recente suo viaggio a Roma, e il Sommo Pontefice, e la questione vitale per l'Italia della sua indipendenza dallo straniero. Gioberti si permise parole poco riverenti verso Pio IX e la sincerità del suo affetto alla patria italiana: parlò di nubi e di oscurità nelle quali diceva aveva osservato in Roma essere involte le intenzioni pontificie; lamentò che il rifiuto del Papa di dichiarare la guerra all'Austria, fosse stato causa di scoraggiamento a molti Italiani nella lotta che si era ingaggiata.

                Queste accuse erano senza fondamento e palesavano il malanimo del nuovo Ministro. Il Papa essendo padre di tutti i popoli e di tutte le nazioni, era naturale che non volesse senza motivo gravissimo scendere in campo e inimicarsi una di queste. Dei resto chi più amante di Pio IX della sua patria e di un amore veramente cristiano? Aveva proposto a tutti gli Stati italiani una confederazione doganale, quasi seme di una lega politica, colla quale sarebbonsi sostenuti a vicenda nel sedare le rivoluzioni interne, senza ricorrere ad armi straniere: quindi aveva proposto a Re Carlo Alberto una lega anche militarmente difensiva, alla quale eziandio tutti i principi italiani avevano aderito. Ma in Torino non si era acconsentito, perchè si voleva l'unità e non l'unione, della quale, secondo il progetto del Papa, Roma sarebbe stata il centro. Rotta la guerra, aveva supplicato affettuosamente l'Imperatore Ferdinando I a rinunciare al dominio della Lombardia e del Veneto, e dietro sua raccomandazione il Re di Piemonte aggregava al proprio esercito le truppe e volontarii Romani acciocchè non fossero dagli Austriaci trattati come banditi. Finalmente aveva francamente respinto i progetti seduttori di coloro che volevano fare dell'Italia una repubblica col Papa alla testa, spodestando tutti i principi italiani ed eziandio Carlo Alberto. [425] D. Bosco, che già conosceva questi ed altri atti nobilissimi del Papa, non potè sopportare che Gioberti si erigesse quasi a maestro e censore della Suprema Gerarchia. Allorchè trattavasi di sostenere e difendere l'onore e i diritti del Vicario di Gesù Cristo egli mai non tacque, qualunque fosse il personaggio alla cui presenza parlasse, senza paventare le conseguenze della sua franchezza. Sostenne quindi senza esitazione la causa del Papato, con que' modi però così cortesi che gli erano abituali, da non offendere l'avversario.

                Dopo essersi così intertenuti per tempo non breve si congedarono in buon'armonia; ma D. Bosco usciva dolente da quell'alloggio, e venne all'Oratorio ove lo aspettavano alcuni suoi amici sacerdoti, ansiosi di udire da lui il racconto di quel colloquio. D. Bosco li contentò, e concluse con queste testuali parole: - Gioberti finirà male perchè osò censurare l'operato della Santa Sede! - Il giovane Felice Reviglio e i suoi compagni ricoverati udirono questo racconto e questa conclusione dallo stesso D. Bosco.

                Il fatto però rimarchevole, frutto di questo colloquio, si fu che nel 1848 e 1849 l'Oratorio non soffrì alcuna molestia, non ostante che ai nemici del prete non mancassero pretesti a mal fare, causa l'irritazione cagionata dalle pubbliche sventure.

                Carlo Alberto ritiratosi in Milano col nerbo delle sue truppe aveva tentato ancora di tener fronte al nemico; ma essendo la città sguarnita e colta come all'improvviso, egli il 4 di agosto fu costretto a capitolare col generale Radetzki, a fine di evitare una inutile effusione dì sangue. Questo atto di prudenza e di buona politica, questo sentimento di umanità non tornò gradito ad una torbida fazione, che, messa a tumulto una parte del popolo milanese, si recò furibonda sotto il palazzo del Re gridando: Morte al traditore! Il coraggioso Principe non esitò punto a mettersi al balcone per [426] rivolgere una parola amica ai tumultuanti; ma poco mancò che quella vita, la quale sui campi di battaglia era stata risparmiata dalle palle nemiche, non rimanesse spenta dalle palle cittadine. La notte del 5 al 6 di agosto fu per Carlo Alberto una notte infernale. Il povero Principe scampò all'assassinio come per miracolo e involandosi di notte tempo a piedi e travestito da quella turba di forsennati, riparava a Vigevano. L'esercito ritornò in Piemonte, gli Austriaci si fermarono alla sponda sinistra dei Ticino, e il 9 agosto si conchiudeva l'armistizio.

                Queste infauste notizie giunte a Torino destarono in tutti un sentimento di desolazione e un alto raccapriccio. Non potendo altro, si fecero in Valdocco particolari preghiere nella Cappella per l'incolumità dell'augusto Sovrano e così i giovani diedero a dividere che erano buoni cittadini e ad un tempo fervorosi cattolici.

                Ed eravi in questa Capitale grande bisogno di preghiere, poichè il fermento rivoluzionario cresceva paurosamente. Dietro a Carlo Alberto era venuto un lungo seguito di volontarii e di fuorusciti settarii che fuggivano dal Lombardo - Veneto per godere i comodi della generosa ospitalità offerta dal Governo Piemontese. Costoro, invece di adoperarsi coi subalpini a ristorare i danni della guerra, si erano qui insediati ad accendere lotte contro la Chiesa, a calunniare, a bestemmiare, imprecare, cospirare, vendere e comprar voti nelle elezioni, e prendere parte alle piazzate più ributtanti e feroci.

                Ai Vescovi non si risparmiaron gli insulti. L'Arcivescovo di Vercelli aveva permesso che i soldati occupassero il Seminario e quattordici chiese; e il Municipio pretendeva di occupare ancora quattro chiese e due monasteri, mentre lasciava libero il teatro e altri pubblici edificii. Monsignore il [427] 6 settembre si presentava al Consiglia Civico e vi trattò nobilmente dei diritti della religione, del rispetto dovuto alle chiese e delle strettezze a cui era ridotto l'esercizio del culto. Alle sue parole si diede l'aspetto d'offesa alla pubblica podestà; una turba prezzolata circondò il suo palazzo gridandogli villani e minacciosi motti, e il ministro Cav. Pinelli gli scrisse una insolente lettera di rimprovero.

                Intanto i giovani disertori dell'Oratorio si radunavano all'aria aperta nei luoghi che erano indicati dai loro bollenti caporioni. Alla festa udivano la Messa in questa o quell'altra chiesa; e poi si recavano a Soperga, e or qua or colà per i prati nelle vicinanze di Torino: ma non si parlava di prediche e di catechismi. Buone colazioni, deliziose merenducce, allegre passeggiate, assistenze a spettacoli o a manovre militari erano per lo più gli allettamenti coi quali venivano tenuti lontani da D. Bosco. Con questi e con le affocate parole riuscivano quei signori a tirarsi dietro quella gioventù avida di divertimenti e di novità. Nello stesso tempo si permettevano calunnie e ogni sorta di villanie, criticando la condotta di D. Bosco di cui la più mite fu che egli era un retrogrado mezzo pazzo. Questi vituperii correvano eziandio per la città. Quindi gli strilloni dei giornali quasi ogni giorno gridavano qualche titolo contro D. Bosco: - La rivoluzione scoperta in Valdocco! - Il prete di Valdocco e i nemici della patria!  - e via via. In quei giorni simili grida erano molto pericolose per l'Oratorio perchè lo indicavano all'odio popolare. Ma D. Bosco si manteneva sempre tranquillo. I sogni fatti al Convitto e quello del pergolato di rose avevangli annunziato tali avvenimenti. - Tutti mi abbandonarono, udillo esclamare Carlo Gastini; ma ho Dio con me, e di chi debbo temere? L'opera è sua e non mia, ed Egli penserà a condurla innanzi.  E i fatti gli davano ragione. [428] Tuttavia non trascurò quei mezzi umani che la prudenza suggerivagli. Il giorno dell'Assunzione di Maria in Cielo era stabilito per la distribuzione dei premii ai giovanetti dell'Oratorio festivo; ed egli preparò un'accademia di tal natura, che testimoniasse eziandio i suoi sentimenti patriottici. Un certo numero di giovani tra i più disinvolti, d'ingegno e già assuefatti a questa palestra si erano allontanati da lui; e Dio sa quanto D. Bosco faticasse nel preparare musiche, canti, declamazioni in prosa ed in poesia, e nel farle apprendere dai nuovi allievi, ancora rozzi ed inesperti. Al suo invito accorsero con una gran folla molti personaggi distinti del Governo, della nobiltà, ed anche del partito liberale, tra i quali, se non erriamo, figurava eziandio l'Aporti. La festa riuscì a meraviglia. Eccone il programma, allora stampato e che conserviamo tuttavia.

 

Saggio dei figliuoli dell'Oratorio di S. Francesco di Sales

sopra la storia dell'Antico Testamento. 15 agosto 1848, ore 4 pom.

 

Apertura. - Notizie preliminari.

Epoca I. Dalla creazione del mondo fino al diluvio. (In fine) Inno alla Vergine.

Epoca 2. Dal diluvio fino alla vocazione di Abramo. Inno. La notte.

Epoca 3. Dalla vocazione di Abramo fino all'uscita degli Ebrei dall'Egitto. Inno a S. Luigi (cantato).

Epoca 4. Dall'uscita degli Ebrei dall'Egitto fino alla fondazione del tempio di Salomone. Inno. Il vino. - Interrogatorio sul modo d'imparare la Storia Sacra.

Epoca 5. Da detta fondazione fino al passaggio degli Ebrei in Babilonia. Inno. L'Assunzione.

Epoca 6. Da detto passaggio fino alla nascita di Cristo. Inno. Lode a Dio.

Inno a CARLO ALBERTO (cantato).

Dialogo sulla Storia dell'Oratorio.

Inno a Pio IX (cantato).

Distribuzione dei premii. [429]

 

INNO AL RE.

 

Viva ALBERTO! Alle sfere più pure

Il bel nome d'ALBERTO innalziam:

Sono giorni d'amare sventure;

Ma speriamo, compagni, speriam.

Ei fra i regi che reggon le genti

È dotato d'eroico valor,

Come sole fra gli astri lucenti

Brilla ALBERTO d'immenso splendor.

Tanti pregi egli accoglie nell'alma

Che uman labbro non puote ridir,

Gloria spira dal volto e la calma,

Egli appaga di tutti i desir.

Noi beati! cui diede la sorte

Un Monarca sì saggio e guerrier!

Mai ti giunga ferale la morte,

O dei popoli amico sincer.

Siamo ancor nell'aurora degli anni,

Pur vogliamo alla patria giovar;

Noi vogliam per ALBERTO gli affanni,

I perigli, la morte sfidar.

CARLO ALBERTO! frammezzo a tue schiere

Voce ascolta d'un giovane stuol:

Tu sei grande sovr'ogni pensiere,

Sei la gloria dell'Italo suol.

VIVA IL RE.

 

 

INNO A PIO IX.

 

Su, compagni, letizia cantiamo

Al magnanimo core di Pio

Che alla santa favilla di Dio

S'infiammò del più dolce pensier.

Pace, pace risuoni ogni lido!

Gioia, gioia risponda ogni core;

Benedetto il sorriso d'amore

Che dischiude a salute il sentier.

Gloria al santo Gerarca divino,

Gloria, gloria, esultiamo, esultiamo;

Dei fratelli al soave richiamo

Si riscuote ogni petto di gel. [430]

Di virtudi sul colle fiorito

Procediamo con spirto sincero;

Una voce risuoni dei vero:

Pace, amore, giustizia e dover.

Il meschino anzi tempo orfanello

Nella faccia paterna s'affisa,

E le care sembianze ravvisa

Alla luce diletta del dì.

Lieti, o figli, stendete le braccia,

Accorrete all'amplesso negato:

Ecco il giorno, ecco il giorno aspettato,

Che vi rende la vita del cor.

Le preghiere di tanti infelici

Trovâr grazia al cospetto di Dio,

Che mandò la clemenza di Pio

A portar vera pace ed amor.

O compagni, esultiamo, esultiamo,

Grazie, grazie risponda ogni cor:

Ecco il giorno, ecco il giorno aspettato,

Ecco il giorno di pace e di amor.

Viva gridiamo unanimi

Figli d'un padre stesso:

Viva il gran Pio concesso

Dal Cielo al nostro amor.

Tutti gridiam con giubilo:

Evviva Pio NONO;

Viva; e dei viva al suono

Risponda amore e fè.

VIVA PIO IX.

 

                Qualche settimana dopo quest'accademia, Carlo Alberto dava una non dubbia prova dell'amor suo alla Religione cattolica in una lettera che egli, non degenere degli avi suoi, scriveva a Pio IX dalla città di Alessandria in data 10 settembre 1848[29]. Eccone alcuni tratti che svelano appieno l'animo di quel Re: [431]

 

                               “SANTISSIMO PADRE,

 

                ……I tempi sono divenuti malvagi assai, o Padre Santo. Noi siamo veramente provati dai castighi e dalla collera di Dio. Oh! quante volte in avrei desiderato di aprire a Vostra Santità il mio cuore, di confidarle le mie crudeli afflizioni! Ma avrei accresciute le pene sue proprie. Ora però siamo giunti ad un punto così desolante per la Religione, che non posso tralasciare di parlarne a Vostra Santità...

                Nemmeno la guerra ha potuto salvare il nostro paese, dando agli spiriti direzione più saggia. Vostra Santità avrà saputo quanto si è fatto presso noi contro la Religione e contro gli Ordini religiosi mentre io ero lontano da Torino. Il mio cuore ne è straziato! Padre Santo, il male è si grande che a ripararlo i mezzi umani non bastano: ci occorrerebbe qualche grande grazia del Signore, giacchè questo male è generale, e senza un miracolo di Dio non vi è nulla a sperare quaggiù.

                Sono convinto di aver fatto tutto quanto ho potuto per il bene della Religione e de' miei popoli; ma ora non mi sento più assolutamente disposto a fare il re, e non aspetto che la fine della guerra ed - il momento nel quale sia sottoscritta la pace per abdicare e ritirarmi in un lontano paese a terminarvi i miei dì nell'oscurità e nella pietà.

                Rinnovando a Vostra Santità le espressioni della vivissima mia riconoscenza supplico di accordarmi la sua santa benedizione; Le bacio i piedi, e col sentimento della massima venerazione sono, o Beatissimo Padre,

                Di vostra Santità

 

Umil.mo   obbl.mo   Servo e Figlio

CARLO ALBERTO”. [432]

 

                Un Sovrano adunque che si mostrava animato da cotali sentimenti di religione e di bontà, non poteva non essere venerato da' suoi sudditi fedeli e da' suoi beneficati, tra i quali andavano alteri di annoverarsi gli alunni di D. Bosco.

                Il 14 settembre alle ore 3½ del mattino Carlo Alberto venendo da Alessandria rientrava in Torino. Ci raccontava il Conte Edoardo Mella che quattro dei Gesuiti espulsi erano, alloggiati da un distinto ingegnere, stato loro allievo. Una sera si presenta alla sua porta un brigadiere dei carabinieri savoiardo, e gli chiede Siete voi l'ingegnere Sp...?

                - Per servirla.

                - Posso esserne sicuro?

                - Non mentisco: dei resto entri in casa e domandi pure alla famiglia.

                Allora il brigadiere fece entrare alcuni uomini che aveva condotti seco; e tratta fuori una borsa, rivolto all'ingegnere gli dice:

                - Sua Maestà vi ringrazia dell'ospitalità che avete dato ai Padri Gesuiti e vi manda queste quattro mila lire per le spese occorrenti.

 

 

CAPO XL. Ritorno all'Oratorio male abbandonato - Pacificazione ed esaltazione - Nuova scelta di giovani coadiutori - Studenti generosi - Il primo chierico nell’Oratorio - Manovre militari - L'orto della mamma - Col cibo materiale il pane spirituale - Meraviglie di una comunione generale.

 

                COLORO che erano stati cagione di tanti dispiaceri a D. Bosco, avevano continuato per qualche tempo, colle loro arti seduttrici, a trattenere lontani dalle chiesuole di Valdocco e di Porta Nuova quegli incauti che li avevano seguiti.

                Ma un bel giuoco non vuol durar molto. Quasi tutti i giovani a poco a poco ritornavano a frequentare l'Oratorio, sia per l'affetto che portavano a D. Bosco, sia perchè, dato giù quel primo bollore, si accorgevano di aver da fare con dei parabolani, i quali così operavano per rappresaglia e non per affetto che ad essi portassero; sia perchè quei bravi signori si stancarono di faticarsi nelle passeggiate e di spendere il fatto loro per amor dell'Italia.

                Alcune decine continuarono ancora per qualche mese a tener dietro ai capobanda, i quali finirono poi con abbandonare eglino stessi gli ultimi loro seguaci.

                Ma D. Bosco, benchè vedesse volentieri il ritorno di quelli che così sconsigliatamente lo avevano abbandonato, impose [434] loro che volendo rientrare nell'Oratorio si presentassero prima uno per uno a lui medesimo per udirne una parola. La cosa riuscì meglio di quello che si sarebbe aspettato; poichè i sobillatori per alcun tempo non si lasciarono più vedere e così cessarono i motivi di dissensione, e la maggior parte dei giovani sedotti ritornarono, domandando scusa e promettendo ubbidienza e disciplina. Alcuni però dei più grandi non vollero assoggettarsi, e i loro traviamenti li condussero pur troppo ad una mala fine.

                Ma che scopo avevano quei signori nell'eccitare la ribellione? Pare che fosse di tirare a sè tutti od in parte i giovani degli Oratorii, prenderne essi la direzione e guidarli secondo le loto viste. Si ha pure motivo a credere, che in questo disgustoso affare operasse di sottomano qualche furbo demagogo. Comunque sia, stante il nome e l'abilità dei caporioni, quelle mene avrebbero potuto tornare fatali all'Oratorio. Se ciò non fu, lo si deve a Dio ed alla Vergine Immacolata, che per mezzo di D. Bosco sempre lo protesse e difese contro le nemiche insidie.

                E D. Bosco non conservò nessun rancore contro questi perturbatori. Alcuni più non comparvero; altri, venuti a lui, furono accolti con tutto l'affetto di un'antica amicizia e rimessi negli uffizii che prima occupavano nell'Oratorio di San Luigi. Fatta eccezione delle pazze idee politiche, nelle quali più non si mostravano fanatici, erano sacerdoti di ottimi costumi.

                Iddio però, che permette l'umiliazione de' suoi servi, non manca di esaltarli in tempo opportuno, confondendo i loro oppositori. Il principale fattore dei perdonati disordini si trovò in tali circostanze, da essere costretto ad implorare l'appoggio di D. Bosco. Essendo andato per qualche tempo a Vercelli, ebbe divieto da quell'Arcivescovo di celebrar messa e di predicare, se prima non presentava un attestato [435] di buona condotta, rilasciato da D. Bosco. A quel sacerdote pesava grandemente di dover ricorrere a colui che egli aveva tanto angustiato e combattuto. Per questo motivo prima supplicò che fossero accettate le carte della Curia di Torino; e le presentò, ma furono respinte. Domandò di poter chiedere per lettera quella testimonianza, ma Mons. Alessandro d'Angennes gli impose di andare in persona a supplicare D. Bosco di questo favore. Vedendo inflessibile quell'autorità ecclesiastica, andò. D. Bosco lo accolse con grande amorevolezza, volentieri scrisse la richiesta dichiarazione, notando come quel Teologo avesse faticato molto con lui per la religione e per le anime.

                Intanto D. Bosco erasi occupato a rimediare alle pesanti conseguenze delle sopraddette diserzioni, tanto più il che suo miglior personale che restavagli avevalo impiegato nel sorreggere l'Oratorio di S. Luigi molto malmenato. Però quello di S. Francesco ne rimaneva sprovveduto. D. Bosco ci narrava: “Già prima, ma specialmente in questa necessità, dovetti imparare il modo di trovare aiutanti. Fra gli stessi giovanetti scelsi alcuni e ne collocai uno qua, l'altro là in mezzo alla turba, e si andava avanti alla meglio. Appena potei avere un chierichetto, questi mi sembrò un'individualità di grande importanza e quanto ebbi subito a dargli da fare! Mi ricordo di Savio Ascanio che appena fu chierico gli affidai subito il canto del vespro, una parte dell'assistenza e dei catechismi, e la direzione di varie altre cose. Io così incominciava ad essere un pochino sollevato: con qualche tranquillità mi disponeva alla predica, e mentre un altro intonava le litanie, mi vestiva degli abiti sacri per la benedizione senza preoccuparmi dei giovani. È vero che eziandio con questi piccoli aiuti al cader della sera io era più morto che vivo, ma intanto senza tali cooperatori mi sarebbe stato [436] impossibile continuare. Mio grande studio si fu lo sceglierli poco alla volta, di mano in mano che ne trovava di quelli che avevano l'attitudine necessaria. Nello stesso tempo adoperava tutti i mezzi per conseguire eziandio un mio scopo particolare, cioè di riconoscere se alcuni avessero propensione alla vita comune per riceverli meco in casa. E poi questi miei giovani coadiutori non li abbandonava a se stessi, ma li dirigeva, dando loro nello stesso tempo tutta quella confidenza che era possibile. Incominciai a condurne alcuni a passare la giornata in campagna presso qualche mio amico, altri a villeggiare a Castelnuovo: or l'uno or l'altro invitava a pranzo con me, o loro permetteva che venissero alla sera in Valdocco, a leggere, a scrivere, a chiacchierare, a far ricreazione. Mi ingegnava a questo modo anche per porgere loro l'antidoto alle velenose opinioni dei giorno, acciocchè non prestassero orecchio, come altri avevano fatto prima, alle dicerie dei sobillatori. Non posso negare che da principio abbia stentato molto a formarli quali io li voleva, ma poi i migliori vennero a porgermi veri aiuti, anche nelle occasioni più gravi”.

                Sul principio però che D. Bosco aveva fatto questa scelta, era andato a visitare nei loro paesi certi studenti, catechisti da più anni, che passavano in pace le loro vacanze. Aveva bisogno di qualcheduno che desse esempio di attività alle sue nuove reclute. Infatti in sul finir del settembre recavasi a predicare a Corio, ospitato dalla famiglia Cresto sua benefattrice; e di qui proseguiva a Rocca di Corio, dove invitato il giovane Picca Francesco, lo conduceva a Torino. Questi suoi amici avevano aderito al suo desiderio, specialmente pel tempo della sua gita a Castelnuovo.

                Ma chi più di ogni altro lo coadiuvò e consolò fu il primo suo chierico e compatriota, Savio Ascanio, allora in età di anni 17. [437] Questi, ancor fanciullo, aveva udito dal Vicario D. Cinzano parlar di D. Bosco come di un sacerdote intraprendente e zelante. A lui era stato presentato dal padre mentre dimorava al Rifugio perchè lo esaminasse sugli studii di lingua latina. Da quel punto sentissi così preso verso quel santo prete, che, indossata la veste chiericale nella Pia Casa del Veri. Cottolengo, essendo chiuso il Seminario di Torino, domandò ed ottenne dalla Curia Arcivescovile di non andare al Seminario di Chieri, pel fine di aiutare D. Bosco nel suo Oratorio. Fu questi il suo primo chierico. “Dal punto che vi entrai nel 1848, ci narrava, mi sentii preso da tanta affezione per D. Bosco, che in lui riposi tutta la mia confidenza e lo amava come se fosse mio padre. Stetti con lui quattro anni come chierico, ed anche quando uscii dall'Oratorio nulla perdetti dell'antica affezione e sentiva un'attrattiva potente che qual forte calamita, a lui mi attraeva. Ebbi con lui fino alla sua morte una certa quale intimità, e mi incaricava di predicare anche alle suore, confessare i giovani, fare scuola di morale ai preti e ai chierici del suo Oratorio”. Egli, dottissimo nella Teologia morale nella quale era molto abile per la pratica nel confessare, fu Direttore del Rifugio, Vicerettore dei Seminario in Torino, Rettore del Seminario Arcivescovile del Regio Parco di Torino e professore per molti anni di Teologia, morale nel Convitto Ecclesiastico. Ciò dimostra che, stando egli in Valdocco, sin dal principio non aveva trascurati gli studii sacri, poichè D. Bosco sapeva inculcarne l'importanza a coloro che abitavano con lui.

                Il chierico Savio Ascanio prese subito parte a quanto si faceva da D. Bosco per attirare i giovani all'Oratorio e incominciò ad aiutarlo in tutto quel che poteva. Don Bosco lo incaricava più volte di perlustrare i viali e i prati di Valdocco, perchè facesse ricerca di quei giovani che [438] gli stavano tanto a cuore e glieli conducesse. Era eziandio mandato per fare il catechismo all'Oratorio di S. Luigi e sorvegliarne l'andamento. Arduo era il cómpito affidato a questo buon chierico; ma affinchè non si lasciasse sopraffare dalle difficoltà che incontrava, D. Bosco ripetevagli quelle parole, solito a dire a' suoi coadiutori, per infonder loro la propria fortezza: Esto vir: niente ti turbi!

                Al chierico Savio si aggiunse Brosio Giuseppe, che recò a D. Bosco un altro soccorso di non lieve utilità. Questi, di ritorno a casa sua dalla guerra, coi battaglioni dei così detti bersaglieri nei quali aveva militato, continuò a frequentare le adunanze festive con fedeltà edificante, portando sempre a D. Bosco un grandissimo affetto. Venendo all'Oratorio vestiva sempre la divisa militare, e perciò i giovani lo chiamavano il Bersagliere. Pratico adunque di manovre e di battaglie, parecchi compagni lo pregarono che volesse esercitarveli; ed egli, col consenso di D. Bosco, accondiscese di buon grado e formò un piccolo reggimento dei giovani più vivaci e destri.

                Si domandarono eziandio e si ottennero dal Governo circa duecento fucili senza canna, si provvidero bastoni da esercizio; il Bersagliere portò la sua trombetta, e dopo alcun tempo l'Oratorio disponeva di una brigata sì bene istruita da saper rivaleggiare almeno colla Guardia Nazionale. I giovani ne andavano come perduti, e chi dava il proprio nome per esservi inscritto, e chi si deliziava nel vedere le manovre, le mosse e le battaglie. In tutte le grandi solennità la oratoriana milizia prestava servizio pel buon ordine nelle funzioni di Chiesa e nell'interno della Casa, e talora eseguiva delle evoluzioni così maestrevolmente, che servivano di lieto spettacolo, riscuotendone altissimi applausi. Or questi esercizii e quelli di ginnastica, insegnati col metodo adottato nel regio [439] esercito, servivano non poco a far ritornare all'Oratorio parecchi di quei' giovani che, amanti di novità, eransene allontanati, e ne fermarono altri che, avidi di giuochi e di trastulli consentanei all'indole dei tempi, volevano andarne in cerca disertando dalle sacre funzioni. Il giornale l'Armonia parlò talora di questa milizia.

                Ma una volta il piccolo esercito recò involontariamente un vivo dispiacere ad una persona, che dopo D. Bosco era a tutti carissima, voglio dire alla mamma Margherita. Da buona massaia, erasi ella formato in fondo al cortile un orticello, il quale, da lei industriosamente seminato e coltivato colla più grande sollecitudine, le somministrava insalata, aglio, cipolle, piselli, fagiuoli, carote, rape e millanta specie di verdura, non escluse la menta e la salvia; anche in un piccolo prato cresceva l'erba pe' suoi conigli. Orbene, era un giorno di gran festa, e il Bersagliere cogli squilli della tromba raccolse la sua schiera e divisala in due parti, volle divertire i numerosi spettatori con una finta battaglia. Impertanto distribuì gli ordini opportuni, fissò quale delle due schiere dovesse alla fine retrocedere fingendosi vinta. Soprattutto poi, a difesa del caro orticello, raccomandava ai vincitori che arrivatine alla siepe, vi si fermassero. Impartito il comando, si dà il segnale della mischia. Le due squadre alzano un forte grido di urrà, e l'una da una parte del cortile, e l'altra dall'opposto lato cominciano le loro mosse, puntandosi contro il fucile di legno. Al grido solenne, alle ben ordinate cariche e scariche dell'arme, al lento avanzarsi e retrocedere, alle esatte evoluzioni ora a destra ora a sinistra per sorprendersi a vicenda, ei ti pareva di trovarti ad una vera battaglia. Mancava solo il tuonare dei cannoni, lo scoppiettío dei fucili e il cadere dei morti e dei feriti. Gli astanti si divoravano lo spettacolo con tanto d'occhi, battevano le mani, [440] gridavano bene, bravi. Questi applausi accesero siffattamente gli spiriti bellicosi dei combattenti, che ad un certo punto la parte vincitrice, incalzando la vinta, non osservò più la consegna, e si spinse tant'oltre, che la pugna fu portata nell'orto della mamma. La siepe è rovesciata e divelta; chi cade, chi sorge: in breve ogni cosa fu calpestata e guasta. Il Bersagliere gridava, suonava la tromba; ma le risa e i battimani della gente non lasciavano udire più nulla. Quando i due drappelli si riordinarono non rimanevano dell'orto che poche vestigia. A tale vista la buona Margherita, credendo forse che quell'assalto fosse stato a bella posta combinato per rendere più bello lo spettacolo, si volse al figlio e con parole di giusto risentimento disse: - Varda, varda, Gioanin, lo ca l'a fait 'l Bêrsagliè: a la guastame tut l'ort; vale a dire: Guarda, guarda, Giovanni, quello che ha fatto il Bersagliere: mi ha guastato tutto l'orto. E D. Bosco coi sorriso sulle labbra la rassicurò dicendo: Mare, cosa vueli feie? A son giouvô: Madre, che cosa volete farci? Sono giovani. - Al generale poi, che si ritirava taciturno e tutto mortificato per quella disavventura e più per il dispiacere recato a mamma Margherita, egli fece animo con graziose parole, e, tratto fuori un cartoccio di caramelle, glielo diede, affinchè lo distribuisse a' suoi soldati o vincitori o vinti.

                Quell'orto per allora venne rimesso in ordine, ma non molto tempo dopo scomparve per lasciare più largo spazio ai divertimenti dei giovani. Brosio Giuseppe frequentava l'Oratorio del quale era l'anima fino oltre al 1860.

                La sua tromba fu poi messa nella lotteria che si fece a Porta Nuova nel 1856 in favore degli Oratorii, e nel Catalogo dei doni sta scritto: Tromba, dono di un bersagliere.

                A questi allettamenti D. Bosco aggiunse quello di fornire eziandio il vitto ad un certo numero dei giovani della città. [441] Venivano costoro nell'ora fissata per il pranzo degli interni a mangiare tutti insieme quello che aveva fatto preparare il buon prete, il quale si compiaceva di aver trovato una buona occasione di più per confortarli a far bene. Perchè poi tutti quelli che frequentavano l'Oratorio, nessuno escluso, potessero godere qualche volta di tal vantaggio, combinò le cose in modo che quelli ammessi al pranzo, cedessero la Domenica seguente il posto ad altri, e così di seguito finchè il giro fosse compito e tutti i suoi protetti avessero passato la loro settimana di convitto presso di lui. Ciò portò un aumento considerevole di spesa per D. Bosco e di fatica per la sua buona genitrice, per lo spazio di circa un anno, cioè quanto ancora durarono le pubbliche agitazioni. Con questi ed altri mezzi, riconquistati i cuori, fu tolta la smania che da varii mesi conduceva molti ad allontanarsi dall'Oratorio e quindi dalle pratiche di pietà.

                Un fatto meraviglioso sopraggiunse a confermare nei buoni propositi i giovanetti.

                Si celebrava nell'Oratorio una delle feste più solenni, forse quella della Natività di Maria SS. Circa seicento cinquanta giovani erano stati confessati ed erano pronti a fare la santa Comunione. D. Bosco incominciò la santa Messa credendo che nel tabernacolo fosse piena di ostie consacrate la solita pisside. Questa invece era quasi vuota, e Buzzetti Giuseppe erasi dimenticato di porre sull'altare un'altra pisside colle particole da consacrarsi, e si accorse della sua dimenticanza dopo l'elevazione. D. Bosco incominciando a distribuire la santa comunione provò angustia vedendo così poche ostie, e così numerosa la folla che circondava l'altare. Desolato di dover rimandare moltissimi senza il divin sacramento, alzò gli occhi al cielo e continuò senz'altro le comunioni. Ed ecco con sua grande meraviglia, e del povero [442] Buzzetti che inginocchiato e confuso pensava al dispiacere che avrebbe cagionato a D. Bosco la sua dimenticanza, egli si vedeva crescere le ostie tra le mani, e così potè comunicare tutti i giovani colle particole intiere. Le poche primitive anche spezzate avrebbero appena bastato per un piccolissimo numero di comunicandi. Buzzetti, finita la funzione, fuori di sè raccontò ai compagni, de' quali alcuni si erano accorti del fatto, ciò che era accaduto, e in prova mostrava la pisside preparata in sagrestia. Molte volte poi nel corso della sua vita narrava a' suoi amici questo portento, pronto ad affermarlo con giuramento, e fra questi ci siamo trovati anche noi.

                D. Bosco stesso confermò la verità di questo fatto il 18 ottobre 1863. Intrattenendosi privatamente con parecchi dei suoi chierici, fu interrogato intorno a ciò che narrava Buzzetti. D. Bosco si fece alquanto serio in volto e poi dopo un po' di tempo rispose: - Sì, vi erano poche particole nella pisside e ciò non ostante potei comunicare tutti coloro che si accostarono alla sacra mensa; e non furono pochi. Con tal miracolo nostro Signor Gesù Cristo volle dimostrare quanto gradisse le comunioni ben fatte e frequenti.

                Richiesto di quali sentimenti fosse allora compreso il suo cuore, continuò: - Era commosso ma tranquillo. Pensava: È un miracolo più grande quello della consacrazione che quello della moltiplicazione. Ma di tutto sia benedetto il Signore. - E cambiò ragionamento.

 

 

CAPO XLI. La Cappella del Rosario ai Becchi - Tenerezza di Mamma Margherita pel nipote - Nuove leggi scolastiche e sagge previsioni di D. Bosco - Scuola nell'Oratorio per i giovani adulti - Progetti di alleanza fra i varii Oratorii della città D. Cocchis e l'Oratorio di Vanchiglia - D. Bosco vuol essere indipendente - Sicurezza di un prospero avvenire.

 

                UN AVVENIMENTO, lieve in sè, ma caro e memorabile per la famiglia di D. Bosco e fecondo di bei risultati si svolse in quest' anno così tempestoso. Allorchè D. Bosco ritiravasi a passare qualche giorno ai Becchi, era costretto, per celebrare la santa Messa, a recarsi alla Chiesa di Capriglio, ovvero alla Cappella di Morialdo, che distavano qualche chilometro, e vi si accedeva per strade quasi impraticabili in certe stagioni. Perciò dava ordine che si eseguisse un lavoro che stavagli sommamente a cuore, cioè che si adattasse ad uso Cappella una stanza a pianterreno della sua paterna abitazione e se ne aprisse la porta sull'aia. Mentre il fratello Giuseppe affrettavasi a compiere i desiderii di D. Giovanni, questi faceva recapitare in Curia la seguente supplica: [444]

 

                               Eccellenza Reverendissima,

 

                Il Sac. Bosco Giovanni di Castelnuovo d'Asti, in parte dell'anno dimorante in Morialdo, borgata del medesimo territorio, attesa la distanza di due miglia circa dalla Parrocchia per istrade malagevoli, osservato il vantaggio spirituale che da una cappella potrebbe ridondare agli abitanti di detto luogo:

                Supplica umilmente S. E. Rev.ma a voler delegare l'illustrissimo signor Vicario di Castelnuovo, e in difetto di esso delegare lo stesso supplicante, per la benedizione di una cappella ivi eretta per celebrare il Santo Sacrificio della Messa. Sperando la grazia si dichiara:

 

Supplicante D. Bosco GIOVANNI.

 

                Intanto, coll'aiuto probabilmente del Teol. Cinzano e di D. Cafasso, la Cappelletta che doveva essere pubblica, era stata disposta secondo le regole dei Sacri Canoni e provvista delle suppellettili necessarie, sia all'ornamento dell'altare, sia alla celebrazione della santa Messa. Con decreto del 27 settembre 1848 il Vicario generale Filippo Ravina a nome dell'Arcivescovo assente, delegava il Teol. Antonio Cinzano, Prevosto di Castelnuovo e Vicario Foraneo, a constatare se fossero state osservate fedelmente le leggi ecclesiastiche nella costruzione di detta Cappella, e quindi a benedirla: dichiarava però, come di forma, sempre salvi tutti i diritti arcivescovili e parrocchiali, e inoltre potere il Parroco compiere in detta Cappella le funzioni ecclesiastiche in qualunque tempo ed in perpetuo.

                Don Bosco ai primi di ottobre si condusse ai Becchi con circa sedici giovanetti, parte allievi interni, parte esterni [445] dell'Oratorio festivo. Fra questi vi era un certo Castagno, ancor vivente nel 1902. Il giorno 8 di ottobre il Teol. Cinzano benedisse la Cappella, che fu dedicata in onore della Madonna Santissima del Rosario.

                Era il primo stabile edifizio sacro che D. Bosco dedicava al Signore e a Maria SS. per i beneficii dei quali egli era stato favorito così splendidamente in quello stesso luogo. Si sarebbe potuto scolpire su quel frontone il detto di Giacobbe, quasi riepilogo della sua fanciullezza: Locus iste sanctus est et ego nesciebam. La prima festa vi si celebrò con una solennità, quale poteasi maggiore, e con grandissimo concorso di gente. I giovani dell'Oratorio vi si fermarono circa otto giorni, cioè tutta la novena e festa della Madonna del Rosario, rallegrando coi loro cantici sacri gli abitanti della borgata. Da che fu benedetta la Cappella non mancò mai D. Bosco tutti gli anni di andarvi in questa ricorrenza fino al 1869, accompagnato sempre da quei giovani cantori che avevano tenuto miglior condotta lungo l'anno. Ei vi predicava tutte le sere della novena, il mattino amministrava i sacramenti della Confessione e Comunione per darne comodità ai suoi borghigiani, che ne erano tutti sommamente contenti. I Salesiani continuarono senza mai interromperla questa pia pratica. Grandissimo era il numero di coloro che si accostavano ai Sacramenti. Molti giovani andavano da Chieri da Buttigliera, da Castelnuovo e da altri paesi circonvicini e anche lontani per confidare a D. Bosco i segreti della propria coscienza.

                Il giorno della festa un tino rovesciato posto sull'aia e coperto di drappi, che prima aveva servito di tagliere per le vivande destinate ai giovani, teneva luogo di pulpito, dal quale D. Bosco, o altro sacerdote invitato predicava le glorie del SS. Rosario. È su questo ambone che un giorno D. Cagliero nel fare il panegirico della Madonna al cospetto di [446] una fitta e attenta moltitudine, a un tratto mancandogli sotto i piedi l'asse del fondo, sprofondò e scomparve con viva ilarità degli uditori. Essendo troppo ristretta la Cappella, la musica e i cantori stavano fuori col popolo all'aria aperta. Talora i fuochi artificiali, talora un teatrino poneva fine alla lieta giornata.

                - Andando D. Bosco alla parrocchiale di Castelnuovo moltissimi si avvicinavano a lui per consiglio ed ammaestramenti Tutti poi si recavano con grande desiderio ad ascoltare la sua Messa e ad udirlo predicare, tanto lo stimavano come virtuoso ed esemplare.

                Tali attestazioni cento volte ripeteva il Vicario D. Cinzano, dei quale, tra le molte carità da lui usate verso D. Bosco e i suoi giovanetti noi dobbiamo annoverare quella di invitarli graziosamente a pranzo in un giorno di quella novena in casa sua, eziandio quando passavano il centinaio. Essi vi si recavano con musica, attrezzi teatrali, razzi, palloni volanti. Colà schierati attorno ad una grossa polenta al suono di musicali strumenti e tra mille applausi se la mangiavano saporitamente. Non occorre il dire che pane, vino, pietanza, frutta erano in vera abbondanza a piacimento di ciascuno. E il buon Prevosto dicevasi felice e riconoscente per una visita a lui così cara. Questa mensa fu imbandita tutti gli anni fino al 1870, ultimo della sua vita.

                D. Bosco, pochi giorni dopo la festa del Santo Rosario, si affrettava a ritornare in Torino. Accondiscendendo alle domande di sua madre e di suo fratello Giuseppe, condusse cori sè il nipotino Francesco di circa otto anni per dargli un'educazione ed istruzione secondo lo stato di sua famiglia. Benchè Giuseppe, per molti servigi che prestò sempre all'Oratorio, compensasse gran parte della spesa, pure D. Bosco desiderava che il nipote avesse il trattamento degli alunni [447] ricoverati e facesse vita comune con essi. Aborriva dalle preferenze, che destano gelosie. Dovette però rinunziare a questa idea per non contristare troppo il cuore sensibilissimo di sua madre verso il nipote, la quale volle che sedesse alla stessa mensa dello zio. Tuttavia attestava D. Giacomelli, essersi accorto sovente che D. Bosco vedeva malvolentieri tale preferenza. Mentre provava per i suoi parenti i più vivi sensi di affetto, pure ei voleva operare secondo i movimenti della grazia e non secondo quelli della natura.

                Intanto il 4 ottobre era stata promulgata una nuova legge sulla pubblica istruzione, cessando il regolamento scolastico del 1822. Procedendo a passo misurato, si conservava negli Istituti di educazione qualche pratica di pietà, la Messa festiva e un triduo di prediche in preparazione alla Pasqua; ma si toglieva all'Autorità Ecclesiastica il diritto di nominare i Direttori di spirito e di vegliare sull'istruzione religiosa nelle Università e nelle scuole pubbliche e private. L'insegnamento fu sostanzialmente secolarizzato. I Seminarii si lasciarono, per grazia, pienamente soggetti ai Vescovi; ma gli studii ivi compiuti, erano dichiarati senza valore, per gli esami e i gradi nelle scuole dei Governo, quando non si eseguissero i nuovi regolamenti.

                D. Bosco comprese subito il bisogno di numerosi Istituti cattolici da erigersi a qualunque costo, perchè come avrebbero potuto i Vescovi riposare tranquilli sull'ortodossia dell'insegnamento religioso impartito dai maestri indipendenti dalla loro autorità? Egli già da tempo escogitava vasti progetti per venire in aiuto della cristiana educazione della gioventù, e le sue previsioni lo avevano indotto a continuare nel prestarsi a far scuola di catechismo in varie scuole della città. Ed ora i suoi timori si avveravano.

                Egli di quando in quando aveva trovato tempo per andare all'Università; ed assistere a qualche lezione di letteratura del [448] celebre Pier Alessandro Paravia; e mentre ne approfittava, perfezionando i suoi scritti, coll'aggiungere sempre maggior accuratezza di lingua al suo modo così naturale di concepire le idee e di esprimerle con semplicità, osservava quale fosse lo spirito che aleggiava in quelle aule. E dovette pure constatare il crescente malanimo di molti studenti ed insegnanti contro la Chiesa. Un giorno sentì dire dal professore di pedagogia e filosofia. Berti Domenico, alla sua numerosa scolaresca: “Una volta l'istruzione era tutta in mano ai preti, ed ora bisogna che passi in mano ai laici. Verrà tempo in cui il clero se vorrà imparare qualche cosa bisognerà che venga a scuola da noi”. Era questo il deliberato proposito dei settarii, che intanto si affrettavano a scuotere da sè ogni soggezione al sacerdozio. Infatti Cristoforo Negri, presidente del Consiglio Universitario, con lettera dell'8 dicembre dichiarava cessata ogni ingerenza dell'Autorità Vescovile nell'Università, agli esami non dover più assistere verun rappresentante del Pro - Cancelliere, ed essere proibito al candidati di sottomettere all'approvazione dei Vescovi le tesi da difendersi nei pubblici esami. Nell'Università eravi anche la Facoltà teologica: così in ogni insegnamento restava aperta la strada all'incredulità e ad ogni eresia; e non vi fu poi stranezza nè errore che non si sostenesse e non si difendesse, singolarmente in quanto all'autorità e ai diritti del Romano Pontefice e della Chiesa Cattolica. Invano i Vescovi reclamarono. Alcuni di essi vietarono ai loro chierici di frequentare i corsi universitarii e pigliarvi i gradi: altri dissimularono, lasciando che i loro diocesani proseguissero a studiarvi la teologia e ad ornarsi di laurea.

                D. Bosco propendeva per questi ultimi, e ciò manifestava al Vescovo di Ivrea. Fermo sempre nella certezza che anche questa legge avrebbe durato per anni motti, era d'avviso che [449] si mandassero a conseguire le lauree, specialmente quelle che erano necessarie per i varii rami d'insegnamento nei ginnasii, nei licei, ed anche nelle Università, chierici o sacerdoti di provata virtù e d'ingegno. Bastava premunirli ed assisterli, perchè potessero schivare i pericoli temuti di pervertimento.

                Egli osservava essere questo l'unico mezzo pel quale la Chiesa avrebbe potuto indirettamente influire nell'istruzione pubblica: che diradandosi le file dei molti ottimi insegnanti attuali, altri avrebbero preso il loro posto, ma guasti da falsi principii; che insomma operare diversamente era un abbandonare col tempo tutta la gioventù agli avversarii.

                Mentre così saggiamente pensava al futuro, accendeva sempre più il suo zelo per l'Oratorio. Quindi per impedire che anche nei giorni feriali i giovani, e specialmente i meno assidui e meno docili, si dissipassero in mezzo ai frastuoni delle piazze trovò che niun mezzo sarebbe stato più adatto per attirarli a sè che prendersi una cura ancor più diligente della loro istruzione Ingrandì pertanto considerevolmente le scuole serali; sicchè giunsero a contenere Più di trecento giovani. Egli poi raddoppiando i suoi sforzi con insuperabile abnegazione, passava successivamente da una scuola all'altra per farli lavorare tutti e con frutto, mentre sceglieva ed addestrava i nuovi e desiderati giovani maestri. Più non restava traccia dei passati sconvolgimenti.

                Ma non erano tutti fanciulli coloro che accorrevano a tali scuole. Quasi un centinaio erano adulti invitati da D. Bosco, illetterati, la maggior parte coi baffi e colla barba. Accolti in una stanza a parte, D. Bosco stesso prese ad istruirli, ed essi lo ascoltavano docili come bambini. Egli aveva un suo metodo particolare e curioso per insegnare l'alfabeto, accompagnandolo con motti arguti, paragoni ameni che rallegravano gli scolari, e fissavano loro in mente le lettere da [450] lui scritte sulla lavagna. Disegnava p. es. un O poi lo tagliava in mezzo con una linea perpendicolare al suolo: la parte, a sinistra era un C, quella a destra un D. E così procedeva segnando linee rette e curve, cancellando, aggiungendo, ma tenendo un ordine logico d'idee, per non generar confusione nelle loro menti. Compiuto l'intiero alfabeto con simili industrie, raggruppava le lettere in sillabe e formava le parole. Talvolta qualcuno de' suoi maestrini, e fra gli altri Bellia Giacomo, lasciavano per brevi istanti la loro scuola per spiarlo e ricrearsi colle sue invenzioni.

                I suoi scolari benchè non avvezzi ai lavori di mente, imparavano a meraviglia, e dopo breve tempo sapevano leggere abbastanza correntemente e poi scrivere. Non faceva mai scuola senza un po' di catechismo. Ad intervalli interrompendo la lezione, ovvero in sul terminarla, raccontava fatterelli edificanti che instillavano nei cuori la pietà o l'amore a qualche virtù in particolare. Finiva sempre la scuola con il canto di una laude sacra.

                Come li ebbe sufficientemente dirozzati, cedette la sua cattedra a Bellia Giacomo che non contava più di 16 anni, al quale eziandio quei buoni giovanotti si prestavano attentissimi. D. Bosco però di quando in quando, andava a visitarli e talvolta dava lezione di calligrafia e di aritmetica. E specialmente li istruiva su questa, allorchè il 15 dicembre il Ministro di agricoltura e commercio invitò i Vescovi a cooperare all'introduzione del sistema metrico decimale e a farlo insegnare ne' Seminarii. Tale scuola teneva un gran posto ne' suoi disegni di prudente difesa.

                I suoi alunni adulti, che andarono crescendo in numero negli anni seguenti, lo contentavano eziandio in tutto ciò che gli stava più a cuore, cioè nell'aiutarlo a salvare le loro anime; e anzi, preso amore alle sacre funzioni, si videro dopo non [451] molto tempo e nel coro, e schierati nel presbitero cogli alunni interni, cantare i salmi e le antifone dei vespri. E D. Bosco procacciava intanto un padrone a quelli che mancavano di lavoro, soccorrendo eziandio con danaro chi fra essi trovavasi nella necessità.

                Regnando così una pace perfetta nell'Oratorio di San Francesco di Sales, negli ultimi mesi dell'anno alcuni fra gli antichi cooperatori di D. Bosco ecclesiastici e secolari, temettero che rinnovandosi i dissidii, questi finissero per rovinare completamente l'opera così bene incominciata degli Oratorii festivi. Perciò formarono il progetto di stringere quelli già esistenti e quelli che si sarebbero fondati, quasi in confederazione, dipendenti da una specie di assemblea direttiva, la quale ne avrebbe tutelati gli interessi materiali e morali, e sarebbe stata giudice delle questioni che fossero sorte fra di loro. Questi, in Torino, computando Valdocco, erano tre e destinati per i figli del popolo. Quel di S. Luigi a Porta Nuova, benchè fondato da D. Bosco, si cercava di costituirlo autonomo, avendo qualcuno dei Teologi che lo dirigevano manifestato qualche velleità di rendersi indipendente. Il terzo Oratorio era quello di Vanchiglia, sobborgo non lungi dal Po abitato nella maggior parte da povera gente, e che allora apparteneva alla parrocchia della SS. Annunziata. Lo divideva dalla città il viale di S. Maurizio; e oggigiorno il corso Regina Margherita colle sue belle case ne attraversa il territorio. Quivi gli inquilini, di un gruppo di case detto il Moschino, davano molto da fare alla Polizia e di giorno e di notte. Colà presso il Sac. D. Giovanni Cocchis, allora vice - curato nella parrocchia, con uno scopo alquanto analogo a quello di Don Bosco aveva incominciato nel 1840 a radunare un certo numero di giovani in alcune stanze del Moschino. Nel 1847 poi il 23 febbraio stringeva un contratto di fitto di un cortile, con due [452] tettoie, posto sulla via S. Luca per lire 800 annue. Ne erano proprietarii l'Avv. Cav. Ludovico Daziani governatore di Sassari, deputato e poi Senatore; e l'Avv. Alessandro Bronzini Zapelloni. Quivi radunavansi numerosi giovani piuttosto adulti a fine di esercitarsi nella ginnastica, in manovre militari e in altri simili giuochi. Vi era soprattutto celebre il giuoco del salto, e i ragazzi per indicare che andavano a quell'Oratorio, o ricreatorio che dir si voglia, solevano dire: - Andouma ai saüt d' Don Cocchis: Andiamo ai salti di Don Cocchis. - Intanto, con siffatto mezzo, quell'operoso sacerdote li teneva lontani dai divertimenti pericolosi od immorali, ed era un non lieve guadagno. Questa sua impresa gli procurò le simpatie e gli aiuti della Marchesa Barolo, del Marchese Roberto d'Azeglio, e di Gabriele Cappello, detto Moncalvo.

                Si pretendeva adunque, e a tutti i costi, che D. Bosco formasse una sola società anche con D. Cocchis, il quale, di condotta inappuntabile, pure, come tanti altri buoni preti, era infiammato da idee politiche: di queste D. Bosco non voleva e non volle mai assolutamente saperne. Ogni giorno però udivansi notizie che aggiungevano esca a queste passioni, divenute più aspre dopo la sconfitta di Carlo Alberto, e nello stesso tempo irrequiete per la speranza di una riscossa. I Siciliani avevano scacciate da tutta l'isola le truppe Napoletane, eccettuata la cittadella di Messina. A Roma pretendevasi dal Papa una dichiarazione di guerra all'Austria, e gli Austriaci che avevano tentato di occupare Bologna erano stati assaliti fieramente dai cittadini e costretti a ritirarsi. In Toscana il Gran Duca ormai non poteva più governare, ed essendo le plebi accese d'odio dal Gavazzi contro il clero e le milizie, avvenivano tumulti sanguinosi. Venezia in mezzo alla sua laguna teneva ancora alta la bandiera dell'indipendenza, bloccata dal nemici, trincerati in terraferma. In Italia [453] risuonavano sempre le grida - Fuora lo straniero! Viva Pio IX! - ma le sette dominanti lavoravano infaticabilmente per la Repubblica italiana. L'Austria poi, coperta di rovine e di cadaveri, sembrava dover presto essere ridotta all'impotenza. L'Ungheria aveva mossa guerra atroce alla Croazia volendola a s soggetta. Vienna erasi ribellata e invano soccorsa da un esercito Ungherese, dopo sofferti sanguinosi assalti e bombardamenti dal 6 al 31 ottobre era costretta ad aprire le porte agli imperiali. Il 2 dicembre avendo l'Imperatore Ferdinando rinunziato al trono a lui succedeva il suo nipote Francesco Giuseppe; e da quel punto l'Ungheria proclamava la repubblica e sosteneva una lotta spaventosa cogli eserciti Austriaci, che doveva durare fino al settembre dell'anno seguente.

                In Torino adunque come era possibile che le teste riscaldate mutassero opinioni, o almeno le tenessero per se, mentre era un continuo leggere di giornali, che secondavano in mille modi e focosamente aspirazioni credute legittime e sante? E D. Bosco che non amava le commozioni, le quali distoglievano ali animi da una missione veramente apostolica, non voleva ritentare una prova che per lui aveva già prodotte amare conseguenze.

                Si formò intanto una commissione di suoi amici, fra i quali il sig. Durando prete della Missione, il Teol. Ortalda e l'Abate Peyron: di questa era membro fra i primarii il Canonico Lorenzo Gastaldi. Il Canonico brigava per indurre D. Bosco ad abbracciare quel progetto, ad assoggettarsi a quella Commissione, e ad accettare quelle regole o statuti che gli verrebbero proposti. Nel medesimo tempo lo assicurava che la Commissione stessa verrebbe in suo aiuto pecuniariamente e in altri modi con grande vantaggio dell'Opera sua. Si tendeva insomma a ridurre D. Bosco nella condizione di semplice Direttore in Valdocco. [454]

                In una conferenza preliminare e plenaria, che fu la prima e l'ultima, D. Bosco, udite le ragioni del Canonico Gastaldi, osservò in primo luogo non essere conveniente simile alleanza, e rispose: - Incominciamo dall'Oratorio di Vanchiglia: Don Cocchis tutto entusiasmato della ginnastica, e per attirare a s i giovani fa maneggiare bastoni e fucili: ma le funzioni di Chiesa nel suo Oratorio sono quasi nulle. Io intendo invece che per noi il bastone sia la parola di Dio e le altre armi siano la confessione e la comunione frequente. I divertimenti li stimo solamente quali mezzi, per condurre i giovani al catechismo. Gli altri varii capi d'Oratorio poi sono tutti, qual più, qual meno, intriganti in passioni politiche e le loro prediche sovente non sono istruzioni religiose, ma piuttosto esortazioni patriottiche. Io invece in politica non voglio immischiarmi nè punto nè poco. Come adunque è possibile mettere insieme d'accordo uomini che tengono opinioni contrarie è adoperano mezzi non conformi? Tuttavia io non condanno alcuno... e desidero di essere ancor io trattato egualmente... Facciamo pertanto così: Omnis spiritus laudet Dominum! Lei, Signor Canonico, ha un piano fatto: lo eseguisca e faccia del bene: le occasioni per erigere nuovi Oratorii non le mancheranno. Io pure ho il mio piano: ne vedo le convenienze e i mezzi e lo conduco avanti: ciascuno proceda liberamente per la sua strada. Quel che importa è che si faccia il bene. E poi, ho bisogno d'autonomia, e se debbo circondarmi di molti giovani, ho necessità di preti, di chierici, di uomini che dipendano intieramente da me e non da altri.

                - Allora, osservò il sig. Durando, ella vuole fondare una Congregazione?

                - Sia una Congregazione, sia quel che si vuole, io ho bisogno di erigere Oratorii, Cappelle, Chiese, catechismi, scuole, e senza un personale a me devoto non posso far nulla. [455]

                - Ma come farà a mettersi in imprese di questa fa! Ci vorrebbero locali e danari in quantità.

                - Non ci vorrebbero solamente! Ci vogliono.... E ci saranno!

                Il sig. Durando allora si alzò e disse:

                - Qui non è più il caso di ragionare.

                E così finì quel tentativo ispirato da intenzioni lodevoli, ma non illuminate. Si disse testardaggine la sua costanza, fu messo in canzone anche da' suoi più intimi amici, ma restò irremovibile nel suo programma Non molto tempo dopo raccontando questo fatto ad alcuni de' suoi primi chierici, ripeteva ciò che più volte aveva detto; e le sue parole furono conservate in uno scritto e a noi trasmesse: - Non mi sgomentavo di nulla perchè io sapevo, e ciò era il mio conforto, che il Signore avrebbe proseguita e compiuta la sua opera per mezzo dei giovani stessi, stati allevati nell'Oratorio; e sul frontone di una casa, costrutta poi sullo spazio occupato dall'edifizio Pinardi, avente la forma attuale, prima ancora che esistesse, io aveva visto scritto a caratteri cubitali: - Hic nomen meum, Hinc inde exibit gloria mea.. E sono sempre andato avanti col pensiero che ben presto avrei avuto chi mi presterebbe aiuto.

                - E di chi erano queste parole? domandarono i chierici.

                Erano del Signore, rispose; io le avrei già fatte scrivere su questa casa, se non fosse per non porgere a qualcuno occasione di darci la taccia di superbi.

 

 

CAPO XLII. Compra di casa Moretta - Fuga di Pio IX da Roma - Minacce dell' Opinione ai Vescovi - Morte del Teol. Guala - Il Ministero Gioberti - Rivendita della casa Moretta.

 

                L'’ISCRIZIONE che D. Bosco aveva letta in sogno HINC INDE indicava chiaramente al di qua e al di là della via della Giardiniera. E al di là era il campo sul quale poi fu eretta la Chiesa di Maria SS. Ausiliatrice e la casa Moretta. Questa aveva cantina e stalla, nove stanze abitabili a pianterreno, e per due scale salivasi al piano superiore, dove un lungo ballatoio dava accesso ad altre nove camere. In prossimità vi era un pozzo di acqua potabile. La casa avanti e dietro aveva un'estensione di terreno a prato, e la misura totale di quella proprietà constava di 58 tavole, 2 piedi, 10 once, pari a ettari 0, 22, 19. A levante questa proprietà confinava coi famoso prato dei fratelli Filippi, sul quale prospettava la porta d'entrata: a mezzodì col podere del sig. Rocci; a ponente colla strada di Valdocco, e a settentrione un prato parte del Seminario di Torino e parte del Sig. Rocci, quello dei sogni di D. Bosco. Il Sac. Giovanni Antonio Moretta padrone di questa casa, era morto nel 1847, e il suo esecutore testamentario avevala messa all'asta pubblica.

                Abbiamo già detto come, crescendo ogni dì più i pericoli di pervertimento tra gli incauti giovinetti, D. Bosco, il Teologo [457] Borel e i loro aiutanti fossero cresciuti altresì di ardore e di zelo per loro vantaggio. D. Bosco aveva visto allora più che mai il bisogno di ricoverarne un numero maggiore nell'incominciato Ospizio, e di vie meglio assicurare l'opera dell'Oratorio festivo. Così pure desiderava ampliare le scuole serali, specialmente per gli adulti; e vi riuscì come il lettore ha già appreso. Per tali effetti egli aveva cercato di comperare tutta la casa Pinardi, ma non gli veniva dato, perchè quel signore, benchè avesse scemate le sue pretese, domandava niente meno che sessanta mila lire, prezzo davvero ancora esorbitante.

                In buon punto adunque veniva in vendita la casa Moretta, e D. Bosco erasi risolto a comperarla a qualunque costo. Perciò il 9 marzo 1848 era andato in persona all'incanto, assegnato per una prima somma di 10, 000 lire e aumentando egli il prezzo di costo di cento in cento lire giunse alle 11, 800 le quali, non essendo state superate da altri offerenti, a lui rimase aggiudicato tutto lo stabile. Il 1° aprile egli ne era entrato in possesso coll'intenzione di trasportarvi l'Oratorio e di allargarvi l'Ospizio, e di poter disporre di un maggior numero di locali per ospitarvi con più facilità i forestieri. Per questi ebbe sempre un cuore grande, ammettendo alla sua mensa anche quegli estranei, al quali sperava tale accoglienza poter tornare vantaggiosa sia pel corpo come per l'anima.

                Il 4 dicembre, per mano del notaio Galeazzi, si rendeva pubblico l'atto di deliberamento del 9 marzo. D. Bosco pagava un primo acconto di sole 601 lire e 75 centesimi e 396, 25 per i frutti, indizio certo che si trovava in istrettezze. Tuttavia portava fino a 30 i giovanetti ricoverati, scelti tra i più derelitti e pericolanti.

                Mentre D. Bosco occupavasi in questa impresa, nella capitale del mondo cattolico si erano svolti gravissimi avvenimenti. [458] I rivoluzionarii, che volevano disfarsi del Principe di Roma per atterrare in appresso l'autorità del Papa e abbattere la Croce, dopo avergli il 15 novembre in pien meriggio pugnalato il primo Ministro Pellegrino Rossi, eccitavano il popolo ad inique pretese ed alla ribellione. Allora una turba di settarii e loro adepti circonda il palazzo del Quirinale, dimora del Papa; gli disarma le guardie, vi appunta i cannoni, minaccia orribile saccheggio. I ribelli, armati di fucile, crivellano di palle il palazzo medesimo, e Monsignor Palma Segretario di Pio IX, colpito in fronte, gli cade morto da presso. In quei frangenti supremi che farà il Papa? Prenderà la fuga o si darà prigioniero e vittima ai ribelli?

                Pio IX era tuttora incerto se dovesse rimanere in Roma a costo della propria vita, oppure salvarsi mediante la fuga, quando poche ore prima gli arriva dalla Francia un dono prezioso con una lettera affatto provvidenziale. Il dono era la piccola pisside, entro la quale Pio VI aveva portato con sè il SS. Sacramento come suo compagno e conforto, quando nel 1799 i Francesi, strappatolo da Roma, lo menarono oltre Alpi a morire in prigione nella città di Valenza. La lettera era di Monsignor Pietro Chatrousse Vescovo di detta città, il quale accompagnando il prefato dono al Pontefice, tra le altre cose gli diceva: “Erede del nome, del seggio, della virtù, del coraggio, e quasi ancora delle tribolazioni del gran Pio VI, Voi, Beatissimo Padre, riponete forse ancora qualche pregio in questa tenue sì, ma importante reliquia, la quale spero non abbia più a servire al medesimo uso. Purea chi è dato scoprire gli occulti disegni di Dio nelle prove, che la sua provvidenza prepara a Vostra Santità?”[30]. Il [459] Vicario di Gesù Cristo ricevette questo dono e questa lettera quale un avviso del Cielo, e dato bando ad ogni dubbiezza, stabilì di salvare se stesso e la dignità della Santa Sede mediante la fuga, mettendo in pratica il precetto, che Gesù Cristo medesimo ci lasciò nel Vangelo con queste parole: Allorquando vi perseguiteranno in questa città, fuggite ad un'altra: Cum persequentur vos in civitate ista, fugite in aliam[31].

                Pertanto la sera del 23 novembre, mentre il tempo nuvoloso e la notte oscura parevano rendere impossibile la partenza del Sovrano di Roma, Pio IX entra nel suo Oratorio privato e fa una calda preghiera a Gesù Crocifisso, raccomandandogli il suo Vicario. Dopo si alza, muta divise, e travestito ed accompagnato da un solo domestico, con una lanterna in mano, entra per una porta segreta, traversa lunghi corridoi, e coll'aiuto del Cielo riesce ad illudere la vigilanza de' suoi sgherri. Ad un luogo stabilito trova il conte Spaur, ambasciatore del Re di Baviera, che lo accoglie nella sua carrozza e lo conduce nel regno di Napoli. Pio IX giungeva sano e salvo in Gaeta, la sera del 25 novembre.

                Così i due Principi, che al dire degli stessi loro avversarii avevano iniziata l'era della libertà, furono i primi a subirne le amare conseguenze.

                Se lo sfortunio del legittimo ed amato Sovrano accorò profondamente i giovani dell'Oratorio, le inique scelleratezze commesse contro la persona dei Vicario di Gesù Cristo ne riempirono l'anima di dolore indicibile. Dirò a suo luogo la prova di figliale amore che gli hanno dato nel suo esilio, e come ne furono da lui ricompensati. [460]

                I Vescovi del Piemonte indissero pubbliche supplicazioni, scrivendo bellissime parole sull'autorità Pontificia e sul danno che ne veniva all'Italia dall'essere il Papa spogliato de' suoi Stati. E scrissero eziandio al Pontefice esternando il loro dolore pel suo esiglio, ammirandolo, confortandolo, assicurandolo che erano con lui clero e popolo, promettendo preghiere, chiedendo benedizione per sè, consiglio, conforto in tante lotte continue. Il partito liberale e settario aveva tentato di imporre loro silenzio, così minacciandoli sull'Opinione:

                “Ora finalmente la somma delle pubbliche cose sarà in mano di tali che risoluti di estirpare il male dalla radice, colpiranno quei pastori che vollero lasciare la mistica verga per agitarsi cogli intrighi, colle seduzioni, coi raggiri, a pro di un partito in nazionale”. Ci voleva l'improntitudine calunniatrice di un settario per scrivere queste frasi, le quali però svelavano l'imminenza di una persecuzione.

                A queste cause di vivo dolore per D. Bosco se ne aggiungeva un'altra. Il 6 dicembre moriva il Teol. Guala in età di 73 anni, rassegnato al volere di Dio e contento perchè lasciava la sua istituzione nelle mani di D. Cafasso, poco prima nominato Rettore della Chiesa di S. Francesco d'Assisi. Ebbe splendidissimi funerali, ai quali intervennero oltre a 400 sacerdoti in cotta, tra cui non mancò D. Bosco. Fra l'universale compianto fu portato al cimitero e seppellito in un terreno che egli stesso aveva comprato. Nel testamento ei lasciava a D. Cafasso le sue sostanze, che salivano a più centinaia di migliaia di lire; e questa eredità, unita a grandi somme che a lui affluivano da molte persone caritatevoli e doviziose, lo mettevano in grado di soccorrere largamente i poverelli e tutte le opere di carità e di religione.

                Intanto la politica seguita dal Governo nulla promette di buono per la Chiesa e per lo Stato. [461] Il 16 dicembre 1848 Vincenzo Gioberti era stato posto alla presidenza dei Ministero col portafoglio degli esteri. Il desiderio e la necessità di trovare appoggio per la nuova guerra che si andava disponendo contro l'Austria lo fece correre invano a Parigi per cercare aiuto dalla Repubblica Francese; e questa negativa fu una delle ragioni che consigliava il Governo Piemontese a riavvicinarsi al Papa. Si cercava d'impedire a Pio IX di fare appello ad aiuti stranieri per restaurare il suo Governo, e nello stesso tempo di non permettere che il movimento repubblicano soppiantasse la monarchia. Mandò egli pertanto ambasciatori a Gaeta invitando il Papa a ritornare in Roma, scortato e custodito dalle truppe piemontesi, e a conservare il ministero democratico che vi era formato: e qualora ciò non fosse possibile, venisse a porre stanza in una città degli Stati Sardi a sua scelta. Non avendo il Papa acconsentito, Gioberti decise di occupare Ancona: ma Carlo Alberto non volle. Allora deliberò di fare entrare nella Toscana, agitata dai repubblicani, le schiere sabaude per restituirla al Gran Duca  ma essendo contrarii al suo progetto gli altri Ministri, il 22 febbraio 1849 cadeva precipitosamente dal seggio ministeriale per non rialzarsi mai più. E probabile che egli non avesse voluto aderire pienamente agli ordini della setta.

                Gioberti propendeva a dar forza alle idee di ordine e di moderazione e ciò non veniva approvato dai suoi colleghi del ministero. Questi nelle feste Natalizie, celebrate dai giovani dell'Oratorio colla solita devozione e solennità, avevano preparata una strenna poco piacevole per il clero.

                Il 25 dicembre 1848 il ministro Urbano Ratazzi osava mandare un superbo rabbuffo a tutti i Vescovi del Regno con una circolare, ricordando loro che negli scritti, nelle circolari, nelle pastorali debbono astenersi da qualsiasi espressione [462] che possa essere interpretata contro persone rivestite di carattere politico, e che quando vogliono entrare in materie politiche si conformino alle viste, alle intenzioni e alle deliberazioni del Governo.

                Nello stesso giorno il Ministro delle Finanze Vincenzo Ricci indirizzava al direttori demaniali una lettera confidenziale in cui loro diceva: Premere al Governo avere un'esatta cognizione dei beni posseduti dalle corporazioni religiose, dall'Economato Generale, dalle mense vescovili, dai capitoli e da altri simili Istituti. Inoltre ingiungeva loro di prendere notizia sul numero e dimensione di tutte le campane delle Chiese, sul numero e qualità degli arredi sacri d'oro e d'argento o di altro metallo prezioso. Infine raccomandavasi di eseguire tali ordini con riservatezza e circospezione. Tuttavia per allora il Governo non procedette più oltre.

                Non cessavasi però di intentare a danno del clero nuove confische e nuove gravezze: e simulando ancora qualche rispetto all'immunità ecclesiastica, il Ministero trattava col Nunzio Apostolico per ottenere che la S. Sede concedesse al clero di partecipare al prestito obbligatorio ordinato a pagare i debiti della guerra, che ammontavano a settantadue milioni, cento novantatrè mila lire.

                Così finiva il 1848, e il 1849 non faceva presagire tempi migliori. D. Bosco tuttavia provava un grande conforto, nel veder ampliata l'opera sua coll'acquisto di casa Moretta. La Divina Provvidenza però gli permetteva che per allora potesse servirsene poco più di un solo anno, poichè casa Pinardi, e non altra, era destinata ad essere la sede dell'Oratorio festivo e dell'Ospizio. Egli infatti aveva dato mano a riattare i membri della nuova casa secondo il bisogno. Ma dopo alcuni esperimenti si venne a constatare che i muri pel materiale [463] cattivo e la peggiore costruzione, non reggevano ai lavori, e fu giuocoforza soprassedere. Inoltre per tale riattazione era necessaria una somma ingente, mentre non era stata ancor sborsata la maggior parte del prezzo dovuto per quella compera, cioè più di 11.000 lire, e ne correvano gli interessi. Nello stesso tempo bisognava che provvedesse quanto era necessario pel sostentamento de' suoi giovani. Le imposte accresciute, gli affari diminuiti, l'urgente bisogno di soccorrere le famiglie di tanti soldati morti in battaglia, la crescente miseria che faceasi sentire nel popolani, distraevano da lui molte elemosine. Egli, visto perciò che non poteva avere sì presto una casa sicura dove meglio rassodare e ingrandire il suo Istituto, si rassegnò aspettando tempo migliore. Decise quindi di rivendere la casa Moretta. Divisa questa in due lotti, come pure i terreni attigui, cedette ogni cosa a diversi acquirenti, e ne ritrasse un notevole vantaggio. La prima rivendita ebbe luogo l'8 marzo 1849 e la seconda il 10 aprile: le altre il primo di giugno. Così si liberò di quel debito e gli rimase ancora tanto da mantenere per qualche tempo il suo Ospizio.

 

 

CAPO XLIII. Una scuola di morale nell'Oratorio - Incoraggiamenti dell'Arcivescovo Sacerdoti illustri che vengono ad ascoltare D. Bosco - Avvisi per le confessioni dei giovani - Alcune norme per la predicazione - Chiusura del Convitto Ecclesiastico, ed esclusione da questo degli esterni - Radunanze di Teologi - Amore costante di D. Bosco agli studii ecclesiastici.

 

                NEL 1876 D. Bosco diceva a D. Michele Rua, a D. Celestino Durando e a D. Giulio Barberis: Quando fissai la mia abitazione in Valdocco, la mia mente era solamente divisa in due o tre cose: i giovani e quanto li riguardava, l'esercizio dei sacro ministero e lo studio della morale. - È rimarchevole adunque la sua perseveranza in questo studio, nella quale i suoi discepoli sacerdoti debbono ispirarsi, se vogliono raggiungere intieramente lo scopo della loro vocazione, per salvare le anime dei fedeli e la propria. Non bisogna illudersi: “Dove non è la scienza dell'anima non v'ha nissun bene: e chi cammina frettoloso inciamperà”[32].

                D. Bosco era maestro in questa scienza. [465]

Alcuni sacerdoti suoi compagni del Convitto, e altri suoi amici che aveva lasciati chierici in Seminario, quando fu ordinato prete, conoscendo per testimonianza di D. Cafasso quanto egli fosse esperto nella teologia morale, frequentando come esterni le lezioni che erano insegnate al Convitto, venivano nei primordii al Refugio e poi in certi giorni fissati alla casetta Pinardi, perchè loro facesse ripetizione degli insegnamenti ascoltati. Ciò che li attraeva maggiormente si era la rara valentia di D. Bosco nel dare la chiave dei trattati, colla quale, posto il principio dominante, con tutta facilità scendeva alle molteplici e varie conseguenze dei casi pratici. Questi uditori erano per lo più, nel maggior numero, ecclesiastici desiderosi di fare studii abbreviati e prendere presto l'esame di confessione, per andar cappellano, maestro di scuola, o vice - parroco in qualche borgata. Mons. Fransoni aveva incoraggiato molto D. Bosco a dar queste ripetizioni.

                Egli infatti oltre la scienza trasfondeva ne' suoi uditori tutto l'affetto che ardeva nel suo cuore per il sacramento della Penitenza; animavali a procurare con ogni sollecitudine la salvezza delle anime; esortavali ad esser pronti a scendere al confessionale ad ogni chiamata; e talora noi l'abbiamo udito a dire: “Essere cosa desiderabile che un sacerdote prendesse tanto di cibo da potere senza incomodo mettersi in confessionale solo mezz'ora dopo aver finito il suo pranzo”. Ed egli faceva ciò che agli altri consigliava, mettendo eziandio, in pratica e ricordando il grande avviso che D. Cafasso era solito dare ai preti: - Volete che si frequenti la confessione nelle vostre chiese? Fate due cose: 1. Parlatene con frequenza dal pulpito; 2. Date comodità ai fedeli di confessarsi. Così facendo state certi che il popolo sarà frequente a questo sacramento. [466]

                Venivano ad ascoltarlo con assiduità i Teologi Nasi, Trivero, Carpano, Giordano, i due Vola, D. Rademaker, Don Deamicis, D. Palazzolo, D. Giacomelli e motti altri. Talvolta assisteva il Teologo collegiato Eugenio Galletti che fu poi Vescovo d'Alba. Mons. Solari che studiò presso di lui la morale, ci assicurava che sotto la direzione di tale maestro la imparò molto bene. Aggiungeva che alcuni dei sopraddetti personaggi, molto dotti in Teologia, assistevano a tale scuola, perchè D. Bosco trattava sempre in modo speciale i punti che riguardavano la gioventù e in qual maniera confessarla con speditezza e con profitto. Esponendo molteplici casi di coscienza, insegnava come interrogare, giudicare della colpabilità, togliere le occasioni prossime, assicurarsi delle disposizioni, dare le istruzioni indispensabili ai più rozzi. Era una meraviglia come rendesse facili e brevi le confessioni. E nello stesso tempo in cento modi insegnava la prudenza nel parlare. Ad un giovane, p. es., che si fosse confessato di aver detto bestemmie, non voleva che il confessore domandasse se spiegazioni pronunziando l'epiteto ingiurioso unitamente al Santo Nome di Dio, ma sibbene chiedesse: - Hai detto che il Signore è falso? - E ciò perchè facevagli orrore quella frase sulle labbra di un sacerdote.

                Raccomandava eziandio caldamente di non rendere, con impazienza e con sgridate, odiosa e pesante la confessione, perchè i giovani facilmente non osano più parlare, e quindi sacrilegi su sacrilegi; ma di procurare con tutta carità di guadagnarsi la loro confidenza. Insisteva però che si usasse con essi un grande riserbo nel trattare; mai d'ordinario si confessasse in luogo appartato senza testimonii; mai avvicinar troppo la persona; mai carezze sdolcinate di nessun genere e per nessun pretesto. La parola esprimente un vero desiderio per la salute dell'anima era quella che doveva [467] aprire i cuori. E D. Bosco ne aveva un tesoro di queste parole e le suggeriva a' suoi volontarii discepoli: come pure quei sentimenti brevi e taglienti come una saetta, coi quali muoveva al dolore.

                Nel tenere queste conferenze dava talvolta norme sul modo di predicare ed insegnare il catechismo al popolo ed ai giovanetti. Qui non vogliamo ripetere ciò che egli diceva, avendone noi già fatto cenno altrove. Due cose tuttavia aggiungeremo. La prima si è che secondo usanza, invalsa in tutta la diocesi, egli preferiva allora che si predicasse in dialetto piemontese, perchè agli uditori riuscisse facile intendere la parola di Dio. Per ciò dal 1841 al 1850 egli stesso e i suoi coadiutori facevano uso solamente di questo. Di poi essendo aumentate le scuole e venendo giovanetti da ogni parte d'Italia, e anche da altre nazioni, egli adottò la lingua italiana come quella usata in tutta la penisola. Però nell'Oratorio la maggior parte delle istruzioni della sera, fino circa al 1865, continuarono ad esporsi in dialetto, tanto più che ai giovani tornavano gradite per i motti lepidi e i proverbi popolari dei quali abbondavano. D. Bosco voleva che i giovani capissero e si istruissero. Nel suo Regolamento degli Oratorii festivi coi saggi ammonimenti che dà ai sacri oratori, insiste sulla importanza di esporre con molta chiarezza le verità eterne[33]. [468]

                La seconda cosa, che non vogliam tralasciare, si è la raccomandazione che faceva di non avventurar mai, predicando o anche parlando in privato, le obbiezioni degli empii contro la fede, per combatterle, quando queste non fossero universalmente conosciute dall'uditorio, e nel solo caso nel quale si fosse a ciò costretti per sostenere l'onor di Dio. - Basta affermare e provare aver Dio insegnata o comandata una cosa, e non mai turbar in un'anima la semplicità della sua fede.

                Un giorno un sacerdote narrava a D. Bosco, presenti alcuni giovani, come l'impudenza di uno scrittore protestante fosse giunta al punto di inventare di sana pianta, e dare alle stampe, una lunga e scellerata storiella contro il Sacramento della Penitenza, che diceva istituito pei suoi fini dal Concilio Lateranense IV coi nomi e cognomi dei finti personaggi che affermava aver fatta, combattuta, approvata la proposta. Don Bosco taceva, ma quando i giovani si furono ritirati, disse a [469] quel prete: - Ha considerato bene prima di parlare l'effetto che potevano produrre le sue parole sull'animo di quei giovani? Ha visto come stavano attenti al suo racconto? - Io parlai per far loro intendere come la menzogna sia l'arma dei nemici della religione! - E lei ne ha portate le prove? E i giovani le avrebbero intese? E che bisogno vi era di narrar quella fanfaluca, troppo particolareggiata? Gli spropositi sono subito intesi, ma a dissipare le obbiezioni ci vuole ingegno, scienza e tempo notevole. Nei giovani anche un principio di dubbio fa molto male, e certe impressioni durano lungo tempo; e in qualche circostanza portano alla rovina.

                Questa scuola aveva preso un maggior incremento per il seguente fatto. Un cattivo spirito si era infiltrato eziandio nel Convitto Ecclesiastico. Quei giovani sacerdoti e que' chierici si erano entusiasmati delle novità politiche e della guerra contro l'Austria; e per la lettura di certi libri e di certi giornali nelle menti di molti di loro avevano messa radice idee non completamente ortodosse sul potere temporale e sugli ordini religiosi. Invano D. Cafasso aveva loro inculcato paternamente di tenersi alieni da quel movimento, rappresentando i mali che si andavano maturando a danno della Chiesa e della società. Ma taluni, ostinati nelle loro opinioni, si accaloravano ogni giorno in dispute e cantarellavano gli inni all'Italia. D. Cafasso avrebbe voluto adottare radicali misure, ma la prudenza richiesta dalle condizioni eccezionali di quei tempi non gliele permettevano. Quando ecco in buon punto gli era giunta la domanda dei Governo per l'occupazione provvisoria del locale per alloggio dei soldati, e i convittori, i quali appartenevano alle diocesi diverse del Piemonte erano stati rimandati alle case loro.

                Fu allora che D. Bosco ebbe da D. Cafasso calda raccomandazione di continuare le sue lezioni di orale, eziandio [470] a quei convittori che abitando in Torino avrebbero voluto approfittarne; e siccome, riapertosi il Convitto, più non si tennero conferenze pubbliche per escludere gli alunni esterni, causa in gran parte dei lamentati disordini, D. Bosco accolse alla sua scuola eziandio alcuni di questi.

                Per circa sette anni, senza retribuzione alcuna, continuò D. Bosco a dare queste lezioni e a tener circolo. Il Can. Ravina Vicario Generale stimava molto il suo sapere. Quando coloro che avevano prese lezioni da lui si presentavano in Curia per l'esame di abilitazione alle Confessioni, recando un biglietto in cui D. Bosco aveva scritto sufficienter instructus, il più delle volte rilasciavasi la patente senza esame.

                Quasi appendice di tale scuola era un'altra radunanza che D. Bosco, aveva stabilito avesse luogo ogni settimana in Valdocco, per camminare sempre con prudenza nello sviluppo de' suoi oratorii. Erano personaggi insigni per pietà e dottrina, come il Teol. Borel e il Teol. Morialdo Roberto, i due fratelli Vola ed eziandio più altri che frequentavano la Conferenza, e non mancavano mai ali' invito di D. Bosco. Il loro ultimo fine era studiare i mezzi per sempre meglio affaticarsi nella santificazione dei giovani e nell'aiutarsi a vicenda per superare le difficoltà che faceva sorgere il nemico di ogni bene. Il Teol. Reviglio Felice fu testimonio oculare di questi convegni.

                D. Bosco adunque non cessò di riandare gli studii sulla teologia morale anche quando non gli fu più possibile continuare quella scuola. Sovente, ci narrava Mons. Cagliero, proponeva soluzioni di casi e questioni di principii ai Teologi più stimati della città, e talora dopo una seria disputa, quei dotti convenivano nell'approvare le sue conclusioni. Procurava eziandio istruirsi nel Diritto canonico, e di quando in quando veniva a dispute col suo amico il Can. Gastaldi [471] Lorenzo, il quale avendo compiuto i suoi studii all'Università di Torino, sosteneva qualche opinione non intieramente conforme alle dottrine insegnate a Roma. In tutto il tempo poi della sua vita spesso era solito a tener conferenze con distinti canonisti e specialmente col P. Rostagno, conoscitore profondo di questa materia e già Professore alla Cattolica Università di Lovanio. Nei dissidii tra lo Stato e la Chiesa, tra i Vescovi e gli Ordini religiosi informavasi minutamente delle disposizioni e decreti della S. Sede e dei Concilii, e per la sua portentosa memoria era un continuo accrescimento di scienza che più non dimenticava. Era in vero meraviglioso il continuo lavorio che operavasi nella mente di D. Bosco.

 

 

CAPO XLIV.Un saluto da Lisbona e rimembranze dell'Oratorio di Torino - Morte di Antonio Bosco - Libri perversi e teatri immorali - Gravi insulti al clero e a D. Bosco - Giornali empii e proteste dei Vescovi Prevalenza dei giornali settarii sui giornali cattolici - D. Bosco stampa il periodico: L'AMICO DELLA GIOVENTU - Suo scopo e vantaggi ottenuti - Sue circolari per aver sussidii in questa impresa - Cause del suo ritiro dal campo giornalistico - Noiose conseguenza finanziarie - D. Bosco avverso a far della politica - Sito trovato per diffondere i giornali cattolici - Giudizio di D. Bosco sulla lettura dei giornali.

 

                NEL 1849 la maggior parte di quelle persone che fin allora sembravano contrarie alle opere di D. Bosco, vedendone gli ottimi risultati avevano cambiate le proprie opinioni intorno a lui; tanto più che la sua vita, eminentemente esemplare e ripiena di meriti, era una prova evidente delle sue rette intenzioni. Benchè nessun giornale e nessun libro avesse ancora parlato del meraviglioso che risplendeva in D. Bosco, già erasi molto diffusa la persuasione che egli ottenesse dalla Madonna grazie straordinarie; anzi che facesse miracoli. D. Rua Michele e D. Savio Ascanio fanno la più ampia testimonianza di quanto asseriamo. [473] E la fama dell'Oratorio di Torino aveva già valicati i confini d'Italia, perchè la nobile famiglia Rademaker, così intima con D. Bosco e che aveva provato i benefici effetti de' suoi doni soprannaturali, nell'agosto dell'anno precedente erasi imbarcata a Genova per ritornare in Portogallo. Questi signori dovevano dar principio a quelle remote attinenze che poi collo svolgersi dei tempi avrebbero condotti nella loro patria i discepoli di S. Francesco di Sales. D. Daniele Rademaker il 9 gennaio 1849 scriveva a D. Bosco da Lisbona, narrando il suo arrivo in quella capitale, le feste dei parenti e degli amici che da tanti anni la sua famiglia non aveva più visti, lo stato lagrimevole della religione in quei paesi, la partenza ci una nave da guerra messa da quel Governo a disposizione di Pio IX, la malattia della sorella, per la quale anche a nome della madre domandava calde preghiere. E concludeva: “Della S. V. giammai mi dimenticherò. Mi dia delle sue nuove, le quali Ella non può immaginarsi quanto m'interessino. Gode Ella buona salute? L'Oratorio di S. Francesco di Sales prospera sempre? È molto numeroso? La festa di S. Francesco di Sales, solita a farsi gli anni passati, si farà anche quest'anno? L'Oratorio di Porta - Nuova sotto la direzione del signor Teol. Carpano è molto frequentato? Sa darmi nuova dei signori Teologi Vola, Bosio, Carpano, Borel, Palazzolo, Borghi?.... Presenti i saluti di mia madre alla signora Baronessa Nasi e per parte mia al sig. Teol. Nasi e agli altri sopradetti Teologi.... Prima di terminare la mia lettera auguro a V. S. ogni sorta di felicità che Fila possa desiderare, specialmente per il corrente anno 1849, il quale voglia Dio che sia anno di giubilo per la S. Chiesa, e non di tristezza o di lutto come lo fu il passato 1848”.

                Questi augurii disgraziatamente non avevano da avverarsi e per lo stesso D. Bosco l'anno incominciava con [474] un grave dolore. Antonio, suo fratellastro, il quale di quando in quando veniva all'Oratorio per visitare Mamma Margherita e D. Giovanni, moriva il 18 di gennaio. Dopo alcuni giorni di un malessere che non sembrava pericoloso, era spirato quasi repentinamente. D. Bosco, che stava per muoversi alla volta dei Becchi, ricevette dal fratello Giuseppe l'infausta notizia. Egli, che non aveva lasciata sfuggir occasione per dimostrare il suo affetto sincero verso il suo contradditore Antonio, morto che fu questi, si prese cura sollecita de' suoi due figliuoli. Uno, di nome Francesco, lo accolse poi all'Oratorio, lo fece esercitare nel mestiere di falegname e di lui formò un buon cristiano. L'altro, rimasto ai Becchi, ebbe da D. Bosco aiuti nei casi di necessità. Così si vendicano i santi, i quali non conoscono rancori o antipatia. D. Rua, che per ben trentotto anni visse in tanta intimità con D. Bosco, ammirò sempre la bontà colla quale ricordavasi del fratellastro, giacchè mai lo intese dir male, o lamentarsi di lui.

                Ma il dolore provato da D. Bosco alla morte di Antonio era un nulla a petto delle strette al cuore che davagli l'empietà di una stampa, che aveva del satanico. Con questa, protestanti e settarii aveano incominciato, e continuarono per anni ed anni, a pervertire gli incauti. Quasi tutti i romanzi, i drammi, le composizioni poetiche furono qual più qual meno avversi alla religione e al buon costume. Correvano per le mani del popolo e si cantavano le immorali canzoni piemontesi di Angelo Brofferio. Si diffondevano libri senza numero, i quali con sudice incisioni portavano in trionfo i vizii più vergognosi. Erano cessate le grida di evviva Pio IX e si vendevano caricature luridissime del Papa. Un vero brulichio di storici cospirava a tradire la verità; si erano proposti di sostenere l'eguaglianza dei culti, la distruzione del Cattolicismo; travisavano tutti i fatti riguardanti la [475] religione; facevano apparire la Chiesa come perpetua avversaria della civiltà, e il Papa come nemico d'Italia.

                I teatri a lor volta blandivano le passioni più malvagie; e ciò accadeva ogni giorno. Apertamente, o sotto il velo dell'allegoria, le rappresentazioni gettavano lo sprezzo, la derisione, le calunnie più velenose contro ogni ordine della gerarchia ecclesiastica. Gli eretici e i settarii invece comparivano sul palco scenico come eroi, leali, virtuosi, difensori del popolo oppresso.

                Quindi non è a stupire se i preti e gli stessi Vescovi erano sovente insultati nelle vie della città. Lo stesso D. Bosco non era risparmiato, e ai fatti già narrati più sopra ne aggiungeremo alcuni altri, fra i molti che accaddero nel corso di varii anni.

                Talora gruppi di giovanastri osavano venire a piantare il ballo nel prato innanzi al portone dell'Oratorio, e D. Bosco tutto solo andava a mettersi in mezzo alle coppie di ballerini. Avrebbero forse desiderato che desse loro qualche appiglio per attaccar baruffa con parole vibrate ed offensive. Ma D. Bosco invitavali così amorevolmente a ritirarsi e a non disturbare le sue funzioni già incominciate, che non osavano contraddirlo. Cercavano bensì d'insistere, benchè debolmente sul loro preteso diritto, trovandosi su pubblica strada, e facevano ancora qualche giro di contraddanza, ma presto smettevano e andavano altrove. Chi dava a D Bosco tanto potere su quelle anime ineducate?

                “Talvolta, narrava D. Rua, accompagnandolo per le vie, o piazze della città, lo vidi insultato da monelli piccoli e grandi. Egli ciò sopportava con tutta pazienza; se poteva indirizzar loro qualche buona parola, lo faceva. Ma se per la distanza, per la trista genia degli insultatori e per altre circostanze non poteva, continuava con tutta calma la sua strada senza palesare alcun risentimento”. [476] Brosio Giuseppe aggiungeva: “Quando passava D. Bosco sul corso, ora detto Regina Margherita, una turba di piccoli barabba insultava sempre il prete, colmandolo d'ingiurie poco decenti o cantando canzonacce schifose. Un giorno che io lo accompagnava pel viale, ecco odo vociare i soliti insulti, tali che avrebbero irritato lo stesso pazientissimo Giobbe. Io fremeva nel vedere tanta sfacciataggine e avrei voluto fare una distribuzione di scappellotti. E D. Bosco tutto tranquillo non se ne dava per inteso. Anzi fermossi e chiamò a sè quei giovani, che, dopo breve esitanza accorsero; ed egli dopo averli ammoniti amorevolmente e con poche parole, comperò da una fruttivendola, che sedeva ad un banco là vicino, delle bellissime pesche, e di queste regalò tutti quei ...suoi amici, come li chiamava egli”.

                Con altre villanie cercavano i malevoli di recargli sfregio. Una sera sull'imbrunire D. Bosco e D. Giacomelli ritornando a casa erano giunti nel viale di Gelsi che metteva alla Giardiniera. A un tratto D. Bosco si ferma, perchè aveva posto il piede nell'immondezza che ingombrava tutta la via. Nello stesso tempo alcuni, nascosti dietro alle siepi, grugnivano, schernendolo, e con ciò chiaramente manifestavano aver essi disposto appositamente quello sconcio. D. Bosco alzò la testa e si volse da quella parte donde continuavano i grugniti. D. Giacomelli gli disse: Non curarti di chi ti sprezza.

                - No: rispose D. Bosco: sono sul mio terreno! E impose a que' mascalzoni che tacessero. - D. Giacomelli temeva che scoppiasse una tempesta di osceni improperii e invece nessuno zitti. Null'altro udissi che il calpestio sul terreno dei piedi di molti che fuggivano precipitosamente.

                Altre volte turbe di questi giovani, i quali non frequentavano l'Oratorio, venivano ad assalirlo con una tempesta di sassate, che facevano cupamente ripercuotere la porta del [477] cortile: e sorpassando il muro venivano a cadere fra quelli che si divertivano con grave loro pericolo. D. Bosco, il quale non conosceva paura o debolezza quando si trattava della difesa de' suoi allievi, volendo far cessare quel disordine, si avviava per uscire. Giuseppe Buzzetti si sforzava a trattenerlo, dicendogli che lasciasse fare a que' malviventi, poichè si sarebbero stancati, ma che non si esponesse ai loro colpi. D. Bosco però non cambiava risoluzione, e aperta la porta, dopo aver comandato che nessuno lo seguisse, tutto solo si avanzava contro il grandinare dei ciottoli e andava a rimproverare quei bricconi. Si notava con meraviglia che nessuna pietra lo colpì in queste arrischiate circostanze, e quando era giunto presso a quella turba, o tutti si davano a fuga precipitosa, ovvero aspettandolo e deponendo i proiettili si lasciavano persuadere a desistere da quell'oltraggio. Ciò fatto D. Bosco andava a sedersi sopra le zolle di un solco, nel luogo ove ora sorge la Chiesa di Maria SS. Ausiliatrice, quasi sentinella, per osservare che i nemici non ritornassero. Ed ecco a poco a poco molti di quei monelli avvicinarsi a lui e con grande attenzione e diletto ascoltare quanto egli amorevolmente incominciava a dir loro.

                Tutta questa ragazzaglia era certamente spinta alle offese da quanto udiva ripetere nelle case e nelle piazze dagli adulti; e fors'anche dalla malignità degli emissarii protestanti. Ma chi non mai cessava di rinfocolare questi odii erano i giornali anticristiani, che mettevano sotto i piedi ogni autorità divina ed umana. I loro assalti contro la Chiesa, il culto cattolico, e gli ordini religiosi erano seduttori, furiosi e quotidiani. I fogli umoristici erano pieni di sacrileghe caricature. I briganti della penna non rispettavano nè il segreto personale, nè il santuario domestico, nè le opinioni più giuste, nè l'onore più immacolato; nulla insomma vi era di santo e venerando [478] che non fosse da loro trascinato nel fango ed esposto con vile maldicenza al ludibrio della moltitudine. Per sommuovere la pubblica opinione contro Mons. Fransoni, continuavano a stampare infamie contro di lui che era lontano, e asserivano che coi tesori della sua chiesa aiutava i nemici del Re. D. Bosco stesso non era e non fu mai risparmiato dai maligni articoli della Gazzetta del Popolo e del Fischietto, i quali solevano chiamarlo in modo derisorio, il Santo, il taumaturgo di Valdocco, e con tali titoli esprimevano già il concetto in cui era tenuto dalla parte migliore del popolo.

                I Vescovi avevano presentata al Ministero un eloquente protesta contro la licenza della stampa e gli insulti che si recavano alle cose e alle persone religiose, alla fede ed alla morale. Se non chè i Ministri non se ne diedero per intesi e nel Senato e nella Camera l'annunzio e la lettura della protesta venne accolta con sbadigli, mormorii e sogghigni. Così erano state schernite altre istanze dei Vescovi, che invocavano eziandio lo Statuto e le leggi vigenti.

                Quali armi adunque restavano per combattere una colluvie di tanti mali? Opporre una stampa buona alla stampa cattiva. Ben disse più tardi Mons. Katteler Arcivescovo di Magonza che se S. Paolo vivesse ai nostri giorni, si farebbe giornalista. E così avevano incominciato a fare i generosi scrittori dell'Armonia; ma questa lotta divenne ben presto troppo ineguale. Quelli della parte avversa erano assai più numerosi, più audaci e sostenuti da persone di Governo. Sorsero in quel tempo, ma pochi, altri giornali cattolici; il

                Conciliatore, l'Istruttore del Popolo, il Giornale degli operai e lo Smascheratore; senonchè per varie ragioni quasi tutti dovettero cessare, e alcuni di questi per difetto di lettori.

                La causa principale però della poca diffusione dei giornali cattolici fu che il giornalismo liberate aveva pel primo preso [479] possesso, e da tempo, di un terreno incontrastato, e proprio nel momento nel quale il popolo attendeva ansiosamente notizie politiche che coinvolgevano tanti interessi, e i bollettini di una guerra per la quale non vi era quasi famiglia, che non avesse veduto partire come soldato qualcuno de' suoi cari. Quindi i fogli di quei giornali andavano a ruba, mentre la febbrile e organizzata attività dei loro commessi li diffondeva in ogni parte del regno sardo. Nella loro astuzia avevano preveduto tutto il vantaggio che potevano ottenere, per i loro fini. Il poco vigore intellettivo che si trova nella maggior parte degli uomini, fa che la moltitudine non pensi comunemente da sè, ma pensa e giudica coll'altrui cervello, parla coll'altrui lingua, e, naturalmente boriosa della propria indipendenza e autonomia, lasciasi abbindolare e condurre dall'articolista, i cui pensieri comprò sulla piazza per un soldo. Ed ecco perchè l'empietà di questi pensieri, frammischiata alle eccitate passioni di vario genere e ad un affetto pagano di patria, formava un'opinione pubblica favorevole ai mestatori.

                Ma D. Bosco sempre intento a procurare in ogni modo la salute delle anime e specialmente il benessere morale e religioso della gioventù, volle venire in soccorso del giornalismo cattolico. Siccome il giornale l'Armonia sembrava più adatto alle persone adulte ed intendenti dei pubblici affari, così egli ideò un periodico il quale potesse attrarre le simpatie della classe meno colta dei cittadini. Fattisi per tanto alcuni collaboratori, fra cui il Teol. Carpano e il Teol. Chiaves e formata con essi una Commissione, annunziò il programma di un giornaletto, politico - religioso intitolalo l'Amico della gioventù, e destinato ad essere giornale di famiglia. Vi aveva apposto anche il titolo di politico, poichè il titolo solamente di religioso non era tale in quel tempo da allettare coloro per i quali il giornale era scritto. Questo doveva uscire in [480] luce due volte alla settimana e D. Bosco ne sarebbe stato il Direttore gerente responsabile. I tipografi Giulio Speirani e Giacinto Ferrero l'avrebbero stampato a loro conto, nella loro tipografia sarebbe posta la sede della Direzione e i membri della Commissione riceverebbero una tangente mensile. Per sopperire alle prime spese di stampa, con una circolare agli Ecclesiastici, della quale non abbiam potuto ritrovar copia, mandò attorno nelle diocesi di Torino, Ivrea, Asti, Vercelli schede di associazione per azioni. I suoi amici parroci, e altri esimii sacerdoti le firmarono, obbligandosi a pagare una data somma da essi stessi determinata. Questa scheda doveva rimandarsi alla direzione del giornale non più tardi dei primi giorni del febbraio 1849; non furono però molte le azioni sottoscritte, e si raccolsero circa 800 lire, che pareva dovessero bastare per dar vita al foglio. Fra i principali sottoscrittori noi troviamo il Can. Chioccia Gio. Francesco di Trino Vercellese, il Can. Porliod Luigi Penitenziere nella Cattedrale d'Aosta, il Can. Calosso Francesco Maria della collegiata di Chieri ed il Teol. Bottino G. B. Priore e Vicario Foraneo a Bra. Il giornale, nel primo trimestre del 1849 contava 137 abbonati; i lettori furono però molti di più, poichè D. Bosco ne faceva una larga distribuzione fra i suoi giovani. Il Ch. Savio Ascanio ed altri ci raccontarono come trovassero utile, e leggessero volentieri quel periodico. D. Bosco scrivendone gli articoli, trattava della politica in generale, cioè della storia contemporanea, schivando dall'entrare in questioni speciali che interessassero il Governo; narrava fatti edificanti: prendeva di mira gli errori del giorno e non dubitava di nominare, con nota di biasimo, quel giornali che riuscivano più micidiali. Contro la Gazzetta del Popolo erano il più delle volte diretti i suoi scritti col titolo: Granciporri della Gazzetta del Popolo, coi quali rispondeva alle sue infamie blasfeme. [481] contro Gesù Cristo, la SS. Eucaristia, la confessione, il Rosario e l'esistenza dell'inferno; alle sue diffamazioni contro i preti, i Vescovi e i Papi, e al suo Sacco nero ove raccoglievansi le spazzature e le immondezze della maldicenza e della calunnia. L'Amico della Gioventù in quei primordii fece molto del bene, perchè, oltre a trattare argomenti istruttivi e conformi al bisogno, impediva a' suoi giovani di ricorrere, per attingere notizie, ai giornali cattivi e d'imbeversi di massime perverse. D. Bosco portava il maggior peso dello scrivere, dell'amministrazione e della corrispondenza epistolare. Quantunque avesse i collaboratori, egli pensava a tutto, ordinava, tutto, ogni cosa passava per le sue mani, correggendo egli le stesse bozze di stampa.

                Da tre mesi il giornale era regolarmente distribuito, ma nel secondo trimestre il numero degli abbonati non era più che di 116. D. Bosco cercò ad ogni costo di sorreggere questo suo Amico della Gioventù, e con una seconda circolare si rivolse ai ricchi Signori sia della città come delle provincie.

 

                               Illustrissimo Signore,

 

                La libertà di stampa, il mischiarsi che fanno alcuni giornali nelle cose di religione per disonorarla e vilipenderla, persuadono la grande necessità di periodici religiosi da contrapporsi agli insidiatori delle verità.

                Per questo scopo corre il terzo mese che L'Amico della Gioventù con nostra piena soddisfazione vede la luce. Ma il bisogno che l'antitodo contro l'irreligiosità, non solo alla gioventù, ma ad altre classi di persone venga esteso, ci ha risoluti di ridurlo in modo che possa essere l'amico di ogni famiglia cattolica. [482] A questa intrapresa sono necessarie molte spese, a cui non bastando il numero delle associazioni, invitiamo V. S. Ill.ma a volerne prendere parte colle azioni.

                Esse sono di varie qualità: di 20, di 50, e di 100 franchi, secondo il buon volere e le facoltà dei contribuenti. L'azione si pagherà in quarto coi finire del corrente mese. Il resto si pagherà a trimestre anticipato. Appena il giornale sarà propagato in modo che gli abbonamenti sopperiscano alle spese, V. S. avrà rimborso di quanto ha anticipato, con abbonamento gratis, coll'aggio corrispettivo che risulterà dal giornale.

                Il noto zelo di V. S. Ill.ma, che procura tanti vantaggi al suo popolo, l'amore che si palesa per tutto ciò che riguarda alla religione, ci fanno sperare la sua potente cooperazione in questa nostra determinazione, che tutta si rivolge al mantenimento del buon costume ed alla conservazione della religione.

                Ella potrà aiutarci non solo colle azioni, ma anche coi promuovere il Giornale, pel che Le inviamo alcuni numeri del Giornale da proporsi a quelle persone, a cui potranno tornare graditi gli sforzi di chi si propone, per unico compenso delle sue fatiche, la conservazione ed il solo progresso della Cattolica Religione.

                Pregandole intanto dal cielo ogni bene, ci reputiamo a grande onore di poterci dichiarare.

                Di V. S. Ill.ma

PER LA DIREZIONE

Umilissimo servitore

D. Bosco GIOVANNI

 

 

                P. S. Gli Azionisti della città sono pregati di rimandare la bolletta sottoscritta alla Direzione presso i Tipografi editori del giornale. In Provincia per la Posta. [483]

                Questa circolare non ottenne quello che dai membri della Direzione speravasi, perchè molti cattolici non erano ancor convinti della necessità permanente di buoni giornali. Tuttavia D. Bosco non si perdeva d'animo; i lettori non mancavano e passavano oltre il migliaio; mancavano però i fondi e scoraggiati incominciarono a negar la loro mano e a ritirarsi i suoi collaboratori. L'Amico della gioventù aveva ormai distribuito il suo 61° Numero, e questo doveva essere l'ultimo. Dopo otto e più mesi di vita propria, fruttuosa, indipendente, il buon giornaletto era stato fuso coll'Istruttore del Popolo, altro periodico che non mancava di buon volere e di lettori. Sorto nel febbraio 1849, diretto da certo De Vivaldi, avendo fra i suoi scrittori il Teol. Giuseppe Berizzi, l'Istruttore accettò fra i suoi abbonati quelli dell'Amico della gioventù. D. Bosco per altri quattro o cinque mesi assistè alla compilazione di questo secondo giornale, perchè importavagli che mantenesse il buono spirito e sostituisse presso i giovani degnamente l'Amico della gioventù. Egli ciò fece eziandio perchè erasi prefisso di sostenere l'Autorità del Papa, finchè il Pontefice fosse rimasto in Gaeta, e smise appena Pio IX fu rimesso dai Francesi sul trono apostolico. Il suo ritirarsi fu causa di sventura all'Istruttore, perchè questo, mutato poi indirizzo e direttore, cadde in mano di scrittori liberali.

                D. Bosco edotto dalle peripezie incontrate nella Direzione di questo giornale, aveva sentito ben presto non aver la Divina Provvidenza destinato a lui stabilmente l'ufficio di giornalista. Vide come questo minacciasse d'incagliare le altre sue occupazioni, poichè troppo tempo doveva dare alla lettura ed allo studio di materie disparate: come quelle di economia politica di gius pubblico, e di apologia cattolica. Intese come in quei tempi bisognasse che il giornalista cattolico, se non voleva seguire le massime dominanti del giorno, fosse pronto ad andare [484] incontro all'eventualità di essere condotto dinnanzi ai tribunali, condannato a pagare grosse multe, ed anche ad essere rinchiuso nelle carceri della cittadella. D. Bosco non voleva assolutamente partecipare all'errore, e non poteva arrischiarsi ad un pericolo che avrebbe compromessa la sua primaria missione. Infatti lo Smascheratore, succeduto al Giornale degli Operai, propugnando con molta vivacità ed arguzia la causa cattolica, ebbe nel l'aprile 1849 il Primo processo di stampa a cui siano intervenuti i Giurati. Riconobbe adunque non essere cosa prudente crearsi dei nemici spietati, poichè le polemiche coi giornalisti irreligiosi erano inevitabili e la Gazzetta del Popolo per le sue segrete e palesi aderenze aveva tale potenza da imporre la sua volontà allo stesso Parlamento ed al Senato. Purtroppo ei prevedeva che non gli sarebbero mancati avversarii da combattere con una lotta si può dire all'ultimo sangue, che avrebbe sul principio dovuto sostenere quasi da solo e questi erano i Protestanti. Lasciando però la carriera giornalistica aveva la consolazione di veder discendere da Soperga, alunno di quell'Accademia, l'impareggiabile Teol. Giacomo Margotti, capace a tener fronte vittoriosamente alla rivoluzione dominante. Egli per ben trentanove anni, prima scrittore e Direttore dell'Armonia e poi fondatore dell'Unità Cattolica, avrebbe, colla dottissima sua penna, sostenuto non solo l'onore del Papa, ma acceso vieppiù un affetto intenso verso di Lui, verso la Chiesa e i suoi sacri diritti nel cuore degli Italiani. Egli combatterà la rivoluzione co' suoi stessi precedenti, colle sue confessioni, colla vita de' suoi uomini che ben conosceva, e colle stesse sue armi, rendendo così più efficaci, attraenti, invincibili le meravigliose polemiche del proprio giornale, e questo non tarderà ad avere una diffusione di trenta e più mila esemplari al giorno. [485] Confermavano intanto D. Bosco nel suo proponimento le ristrettezze finanziarie e le noie cagionategli dalla cessazione dei suo giornale; e noi anche di queste ne faremo un cenno, perchè si conosca come D. Bosco si diportasse in questioni pecuniarie.

                Egli credeva fosse saldato ogni suo debito verso i tipografi: quand'ecco giungergli da questi Signori una lettera colla quale era, invitato a pagar loro 1039 lire per le spese di stampa e di più altre 131 alla Posta per le spese di affrancamento. D. Bosco si trovò in grave imbarazzo. La Commissione del giornale l'Amico della gioventù si era sciolta, persuasa che fosse cessata ogni sua obbligazione. L'Istruttore del Popolo, che aveva ricevuta la successione dell'Amico, mutando direzione rifiutava un debito che non credeva aver contratto. D. Bosco rimasto solo chiese spiegazioni e aperse trattative. Un migliaio e più di lire non era una somma indifferente per chi viveva in penuria di tutto, e se D. Cafasso non venne in suo aiuto è indizio certo che per lo meno non emergeva chiaro un suo dovere di giustizia. Finalmente il 20 agosto 1852 i tipografi per mezzo di usciere chiedevano a D. Bosco il pagamento intiero della somma pretesa, poichè egli era stato Direttore gerente dell'Amico della gioventù.

                D. Bosco, per accomodare le cose pacificamente prima che incominciasse la lite avanti ai Tribunali, così scriveva al Tipografo:

 

                               Pregiatissimo Signore,

 

                In seguito alle parole tenute con V. S. pregiatissima ed alle citatorie comunicatemi pel noto affare del giornale, ho parlato coi membri della Commissione, i quali sul principio fecero alta meraviglia; ma fatte loro vedere le citatorie mi fecero varii riflessi. [486]

                1° Desiderano di vedere quali siano state le condizioni del contratto, e da qual tempo sia stato convenuto che fosse a nostro e a loro conto il giornale.

                2° L'aver detto nulla nella fusione del giornale nostro coll'Istruttore, aveva fatto ad essi giudicare che l'entrata avesse pareggiato l'uscita.

                3° Reclamano la mensile tangente convenuta quando il giornale era a conto della tipografia - parecchi proclami stampati e venduti di cui non si fa cenno - l'entrata del giornale dal 20 marzo fino alla cessazione del medesimo - i vaglia postali da me segnati e a lei affidati; delle quali cose non se ne fa cerino.

                Questi sono i riflessi della Commissione. Io non saprei che dire nè che opporre.

                Lasciando poi in disparte quanto sopra e parlando pel mio particolare da amico ad amico, per togliere ogni occasione di perdere l'amicizia e la carità, stimo bene di prescindere da qualsiasi ragione pro e contra ed offerirle di mia borsa la somma di franchi 200, con cui non intendo vengano per nulla lese le pretensioni che si possano avere verso gli altri membri della Commissione. Questo faccio perchè mi rincresce assai, dopo dodici anni che trattiamo insieme con reciproca soddisfazione, perdere la buona relazione con dispiaceri d'ambe le parti. Pensi che cosa vuol dire al povero D. Bosco pagare franchi 200!

                Voglia intanto gradire i sentimenti della mia stima e considerazione con cui, in attenzione di qualche riscontro, mi dico

                D. V. S. Pregiatissima

                Da casa, 15 ottobre 1852.

Devot.mo servitore

Sac. Bosco GIOVANNI. [487]

 

                P. S. La prego altresì a volermi trasmettere nota dei libri ivi da me presi e di altre cose che mi riguardano dalla Ditta Speirani e Tortone.

 

                Il tipografo non ammise queste ragioni e non accettò l'offerta; ma infine il 2 marzo 1854 venne a composizione, e D. Bosco pagava lire 272, compresi i 132 franchi dovuti alla Direzione delle Regie Poste. Nulla avendo più di suo, era fedele amministratore di quanto il Signore facevagli pervenire per le sue opere e per i suoi giovani; ne sosteneva con fedeltà e costanza i diritti, impediva che loro ne venisse danno, senza badare al proprio incomodo; ma nello stesso tempo co' suoi modi affabili sapeva conciliare le ragioni della giustizia con quelle della carità.

                In ultimo noteremo come dai fatti suesposti D. Bosco ricavasse un grande ammonimento, che ripeteva sovente a' suoi discepoli, cioè che il giornalismo, specialmente quello che tratta in qualsivoglia modo di politica, non era il loro campo di azione. Egli su questo punto aveva scritto un articolo proibitivo nelle Regole della sua Pia Società, che venne però tolto dalla Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, non già perchè la Chiesa si opponesse a siffatta prescrizione, ma perchè essendo enunciata in un modo troppo generale, si sarebbero dovuto aggiungere spiegazioni che la prudenza in quel momento sconsigliava. Tuttavia D. Bosco ripeteva continuamente essere sua ferma intenzione che i Salesiani si tenessero sempre estranei alle lotte politiche, non avendoci il Signore chiamati per questo, ma sibbene per i giovani poveri ed abbandonati. Nella Chiesa non mancano coloro che sanno trattare valentemente queste ardue e pericolose questioni, e in un esercito vi sono quelli destinati a combattere e quelli destinati ai bagagli, alle guardie del campo, agli [488] scavi delle parallele e ad altri uffizii egualmente necessarii per cooperare alla vittoria.

                D. Bosco però benchè nel 1850 si fosse ritirato dal campo giornalistico si era assunta la missione di far propaganda per i fogli cattolici, ma senza destar rumore. Nelle botteghe da caffè non si trovavano che giornali pessimi, ed il rispetto umano impediva che i padroni provvedessero gli avventori di fogli cattolici. D. Bosco adunque, e più sovente altra persona mandata da lui, incominciava ad andare tutti i giorni in un caffè, e bevendo la sua tazza, chiamava il garzone e chiedeva gli fosse portata l'Armonia o la Campana per le notizie del giorno.

                - Non l'abbiamo, rispondeva il garzone.

                Il secondo giorno e il terzo domandava lo stesso giornale facendo le meraviglie che in un ritrovo tanto reputato non vi fosse un giornale che aveva tanti pregi; e così continuava per settimane intiere, finchè il padrone prendesse l'abbonamento a quel foglio per contentare gli avventori. Dopo un mese o due mesi prendeva a frequentare un altro caffè, facendo lo stesso giuoco finchè si fosse assicurato che anche qui l'associazione al buon giornale era stata presa per un anno. A questo modo introdusse giornali cattolici nella maggior parte dei caffè i quali trovando sempre lettori che li richiedevano, continuarono a comparire su quei tavolini. Così non andò molto, che grazie quest'arte, ebbero facile accesso nei pubblici ritrovi, nelle locande, ed anche nei negozii; e fu un benefizio incalcolabile per Torino, dove la stampa massonica e rivoluzionaria aveva innalzato le principali sue tende.

                D. Bosco però, tolti i casi nei quali era conveniente aver cognizione di qualche fatto importante, astenevasi dal leggerli e consigliava i preti e i chierici a fare altrettanto, dicendo: “Tale lettura toglie gran parte del tempo agli studii severi, [489] volge l'animo a molte cose inutili e per certuni anche dannose e accende le passioni politiche”. E ricordava eziandio l'avviso di D. Cafasso ai preti del Convitto: “Non vorrei che si leggessero giornali andando a passeggio. E ciò ancorchè si tratti di giornali buoni, perchè il mondo non distingue e dice: - Ciascuno legge i giornali del suo partito; - e se vedono in mano a voi l'Armonia e la Campana, credono a sè lecito leggere la Gazzetta del Popolo ed il Fischietto”.

 

 

CAPO XLV. Una causa del prestigio di D. Bosco sui giovani - La vista perduta e riacquistata - Benedizione che guarisce dal male di denti - Una intera famiglia sfamata con quattro soldi - D. Bosco legge nei cuori e vede le cose lontane - Una storpia guarita istantaneamente - Da morte a vita e al paradiso - Testimonianze - Umiltà di D. Bosco - Una distrazione - Giudizio del Padre Giuseppe Franco e dell'Arcivescovo di Siviglia - Parole di Mons. Cagliero.

 

                L’ORATORIO di S. Francesco di Sales e quello di S. Luigi, riordinati facilmente dopo la breve, ma pericolosa perturbazione politica, avevano ripresa l'andatura ordinaria, condotti con mano ferma e soave dallo zelo mirabile di D. Bosco.

                Il prestigio che egli aveva sui giovani, derivava dall'essere essi di continuo testimonii delle sue grandi virtù, e persuasi che fosse veramente uomo amico di Dio. Lo riguardavano come un vangelo vivente, come il tipo del vero sacerdote, come il ritratto fedele di N. S. Gesù Cristo. A lui i giovani ricoverati e quelli dell'Oratorio festivo e i piccoli e i grandi attribuivano fin da questi anni il potere di far cose meravigliose, che asserivano averle egli fatte, e col crescere degli anni [491] non perdettero mai questa intima inalterabile persuasione. Li abbiamo uditi a centinaia parlare di quanto essi stessi avevano visto, oppure era stato loro raccontato dai compagni, e lo stesso Mons. Giovanni Cagliero ci scriveva: “Sì; Don Bosco possedeva il dono dei miracoli. Ciò, per noi che siamo stati tanti anni al suo fianco, è cosa evidente. Anzi molti degli antichi allievi assicurano, che prima della mia entrata nell'Oratorio, già ne avesse operati e che per lui si moltiplicassero le sacre particole”. Noi qui riportiamo alcuni avvenimenti che ci furono trasmessi per iscritto, e i primi raccolti da D. Cesare Chiala.

                D. Bosco anche in piazza faceva talora veri catechismi, vere prediche, ma famigliari. Una volta, a Porta Palazzo, trovandosi attorniato da un certo numero di popolani, incominciò i suoi ragionamenti sulla necessità di ascoltare la parola di Dio. Erano tra gli altri presenti alcuni giovinastri dei più sfrontati, che non volendo ascoltare, disturbavano eziandio l'assemblea. Più volte D. Bosco li avvertì di star quieti, ma indarno. Un certo Botta, alzando di più la voce diceva

                - Noi non vogliamo udire prediche di sorta.

                Allora D. Bosco gli disse: - Ma... e se diventassi cieco in questo momento, vorresti allora ascoltare la parola di Dio? - Uhm! vorrei vedere chi fosse capace d'acciecarmi!

                - E intanto si volge al compagno e grida arrabbiatamente

                - Birbante! perchè fuggi? Hai paura? Vieni qua! E il compagno: - Ma se sono vicino al tuo fianco!

                - Ma se non ti vedo:.... ma.... come...., ma io non ci vedo più...

                Fu uno spavento generale: tutti si misero a supplicare D. Bosco perchè restituisse la vista a quel disgraziato. Botta stesso lo scongiurava! - D. Bosco, preghi per me. Domando perdono. - E si gettò in ginocchio piangendo. [492] D. Bosco allora disse: - Ebbene; recita l'atto di contrizione; noi pregheremo, ma intanto prometti di andarti a confessare, e allora il Signore ti concederà di nuovo la vista.

                - Sì, sì: io mi confesso subito. - E voleva confessarsi in quello stesso luogo. D. Bosco e gli altri recitarono allora qualche preghiera e il giovane sul fare della notte si fece condurre a confessarsi. - Ciò fatto, riebbe la vista.

                D. Bosco era pur celebre a dare benedizioni a coloro che erano afflitti pel male di denti. Un giorno, mentre andava verso la città attraversando la piazza Emanuele Filiberto, presso piazza Milano, alcuni giovani accompagnavano un loro amico. Costui tormentato da forte dolor di denti, gridava come in delirio, e bestemmiava orribilmente. I compagni, visto D. Bosco da lungi - Guarda, guarda, gli dissero; c'è Don Bosco che viene alla nostra volta; raccomandati a lui, digli che ti dia la sua benedizione. - Ma quegli, sempre furioso, imprecava eziandio contro D. Bosco e le sue benedizioni. Intanto D. Bosco gli giunse vicino; ma quel poveretto non voleva ascoltare le parole che il buon prete si sforzava di ripetergli. Il quale però tanto fece colle sue amorevoli esortazioni, che l'altro si calmò, s'inginocchiò, recitò l'atto di contrizione domandando perdono a Dio delle bestemmie che aveva pronunciato, e promise dì andarsi a confessare. Allora D. Bosco gli diede la benedizione e il suo male di denti cessò.

                Una tale notizia si era poi così divulgata che i tormentati da simili dolori correvano a farsi benedire da lui, e guarivano istantaneamente. Ma D. Bosco per diminuire un simile concorso, e perchè a lui non fossero attribuite tali guarigioni, prese a suggerire, o a far consigliare da altri, a tali infermi qualche speciale atto di pietà in onore del SS. Sacramento, di Maria SS., o di S. Luigi. E appena compiuta quella divozione, il male svaniva. [493] E ai giovani dell'Oratorio non mancava tale sollievo.

                Carlo Gastini ci narrava più volte che, soffrendo egli una Domenica gran male di denti, era andato in camera gettandosi sul letto. D. Bosco verso le 11 antimeridiane, finite le funzioni nella cappella, sentendolo piangere e lamentarsi, si recò subito presso di lui.

                - Che cosa hai, mio caro Gastini? - gli chiese. Il giovinetto a mala pena rispose poichè si dimenava per l'atroce dolore. D. Bosco allora prese la testa di lui, appoggiolla al suo, petto, la strinse e il dolore sparì subito come per incanto. Non una sol volta con questo mezzo operò simili guarigioni nell'Oratorio.

                Ma finora non abbiam detto che una piccola parte di ciò che sappiamo intorno a quei tempi. Brosio Giuseppe così ne scriveva a D. Giovanni Bonetti:

                “Un giorno mentre lo era nella camera di D. Bosco si presentò un uomo domandandogli l'elemosina dicendo che aveva quattro o cinque ragazzi ai quali dal giorno antecedente non aveva potuto provvedere il cibo e che i poveretti basivano di fame. D. Bosco lo guardò con aria di compassione e poi fruga di qua, fruga di là, finalmente trovò quattro soldi e glieli diede, accompagnandoli con una benedizione. Quell'uomo dopo, averlo ringraziato se ne andò pe' fatti suoi.

                Rimasti soli, D. Bosco mi disse, che gli rincresceva molto di non avere avuto denari per dargliene di più: che se avesse avuto cento lire, tutte gliele avrebbe donate, perchè quei poveretto aveagli detta la verità. Io gli risposi: - E come lei può sapere che quest'uomo abbia detto la verità, mentre lei non sa nemmeno dove abita? Costui non potrebbe essere uno di quegli scrocconi che fanno mestiere di chiedere l'elemosina, gabbando le persone caritatevoli per poi andare, all'osteria, e bere e mangiare a ufo, beffandosi di tutti e particolarmente dei preti? [494]

                - No, mi rispose D. Bosco; non parlar così, mio caro Brosio. Quest'uomo è sincero e leale: anzi aggiungerò che è laborioso e molto affezionato alla sua famiglia; fu ridotto in istato così miserabile dalla sola sventura.

                - E come fa lei a sapere tutto questo? - io gli chiesi.

                Allora D. Bosco mi prese per mano e stringendomela mi guardò fisso in faccia, e poi in atto di farmi una segreta confidenza, mi disse: - Gli ho letto in cuore.

                - Oh bella! Ma allora lei vede anche i miei peccati? - gli domandai.

                - Sì, ne sento l'odore, mi rispose, ridendo. - Difatti ne sentiva proprio l'odore, o, meglio direi, mi leggeva nel cuore perchè se mi dimenticava di dirgli qualche cosa in confessione, subito mi poneva sotto gli occhi la cosa precisa tal quale era. E come faceva a saperlo, se non mi leggeva in cuore? poichè io abitava mezzo miglio almeno lontano da lui.

                Un altro aneddoto a questo riguardo: Un giorno avevo fatto un'opera di carità, ma mi era costato un grande sacrifizio, e questo era segreto a tutti. Essendo io andato all'Oratorio, D. Bosco, appena mi vide, mi venne incontro, prendendomi per mano secondo il solito, e dicendomi: - Oh che bella cosa ti sei preparata per il paradiso, con quel sacrificio che tu hai fatto! - E qual sacrifizio ho fatto io? - gli domandai.

                E D. Bosco mi spiegò punto per punto tutto quello che io aveva fatto in segreto. Egli adunque leggeva nel cuore e vedeva le cose lontane. E ne ebbi un'altra prova.

                Una sera incontrai in Torino quell'uomo al quale D. Bosco aveva dati i quattro soldi; mi riconobbe, mi fermò e disse che con quei soldi era andato a comprarsi della farina di meliga ed aveva fatta la polenta mangiandone egli e tutta la famiglia a sazietà, sicchè per quel giorno non ebbero più [495] fame; e che dopo aver ricevuto quella benedizione di Don Bosco, gli affari di sua casa andavano migliorando tutti i giorni: aggiunse che D. Bosco era veramente un santo e che non si sarebbe mai più scordato di lui. E mi ripeteva: In famiglia noi lo chiamiamo il prete del miracolo della polenta, perchè con quattro soldi di farina, al prezzo che si paga, c'è n'era scarsamente per due persone, ed invece ne mangiarono ben sette.

                Sovente mi accadde di essere testimonio oculare di fatti consimili ai suddetti e anche più sorprendenti.

                Una mattina si presentò a D. Bosco una signora che camminava con una gruccia ed un bastone, accompagnata da un'altra donna, e camminava così stentatamente che per muovere un passo ci voleva il suo tempo; ciò forse per una indisposizione di nervi. Avendo ella detto a D. Bosco che voleva parlargli, io per prudenza mi ritrassi alquanto da parte. Ma quando questa signora uscì, la vidi camminare senza gruccia e senza bastone e mi disse: “D. Bosco mi ha fatta guarire”.

                Ma ciò che accadde di più straordinario nel 1849 è quanto siamo per raccontare.

                Un giovanetto sui quindici anni, chiamato Carlo, che era solito a frequentare l'Oratorio di S. Francesco di Sales, cadde nel 1849 gravemente ammalato, e in poco tempo trovossi agli estremi di sua vita. Abitava in una trattoria ed era figlio dell'albergatore. Vistolo in pericolo, il medico consigliò i genitori ad invitarlo a confessarsi, e questi dolentissimi chiesero al figlio quale sacerdote volesse che gli fosse chiamato. Egli mostrò gran desiderio che si andasse a chiamare il suo confessore ordinario, che era D. Bosco Si mandò subito per lui, ma con grande rincrescimento si ebbe per risposta che era fuori di Torino. Il giovane manifestava un grande [496] accoramento, e si chiese del vice parroco che tosto venne. Un giorno e mezzo dopo egli moriva domandando spesso di parlare con D. Bosco.

                Appena D. Bosco fu di ritorno, tosto gli fu detto che erano stati più volte a cercarlo per quel giovane Carlo, da lui ben conosciuto, chè trovavasi in pericolo di morte e aveva chiesto di lui con vive istanze. Egli affrettossi a far quella visita, caso mai, egli diceva, fosse ancora in tempo. Colà giunto, incontrò pel primo un cameriere a cui tosto domandò notizie dell'infermo: - Troppo tardi è venuto, gli rispose: è morto da una mezza giornata! - Allora D. Bosco esclamò sorridendo Ohibò! Esso dorme, e voi credete che sia morto!

                Il servo lo guardò stupito e con aria ironica. Ma Don Bosco quasi scherzando, replicò Volete giuocare una pinta che non è morto?

                In quel mentre gli altri di casa, che erano sopraggiunti a queste sue parole, scoppiarono in dirotto pianto, asserendo che pur troppo Carlo non era più. D. Bosco allora: - Debbo crederlo? permettete che io vada a vederlo. - E fu subito condotto nella camera mortuaria dove erano la madre e la zia che pregavano vicino all'estinto. Il cadavere, rivestito per la sepoltura, era avvolto e cucito, come allora solevasi, dentro ad un logoro lenzuolo, e coperto di un velo; vicino al letto una lucerna accesa.

                D. Bosco gli si avvicinò e pensava: “Chi sa se avrà fatta bene la sua ultima confessione! chi sa qual destino avrà incontrata l'anima sua!”. E rivoltosi a chi lo aveva introdotto, gli disse: - Ritiratevi; lasciatemi solo! - Fatta quindi una breve, ma fervorosa preghiera, benedisse, e chiamò due volte il giovane in tono imperativo: - Carlo, Carlo, alzati! - A quella voce il morto cominciò a muoversi. Don [497] Bosco nascose subito il lume e con forte strappo d'ambo le mani scucì il lenzuolo, perchè il giovane restasse libero, e gli scoperse il volto. Quegli, quasi si svegliasse da profondo sonno, apre gli occhi, li volge attorno, si alza alquanto e dice: - Oh! Come mai mi trovo così? - Quindi si volta, fissa lo sguardo su D. Bosco, e appena lo riconobbe, esclamò: - Oh! D. Bosco! Oh! se sapesse! L'ho sospirato tanto! Io cercava appunto di Lei... Ho molto bisogno di Lei. È Dio che l'ha mandato... Ha fatto tanto bene venire a svegliarmi!

                E D. Bosco gli rispondeva: - Di' pure tutto quello che vuoi; sono qui per te.

                E il giovanetto proseguì: - Oh! D. Bosco; io doveva essere in luogo di perdizione. L'ultima volta che mi son confessato, non osai palesare un peccato commesso da qualche settimana... È stato un compagno cattivo co' suoi discorsi... Ho fatto un sogno che mi ha grandemente spaventato. Sognai di essere sull'orlo di un'immensa fornace e di fuggire da molti demoni che mi perseguitavano e volevano prendermi: e già stavano per avventarmisi addosso e precipitarmi in quel fuoco, quando una signora si frappone tra me e quelle brutte bestie, dicendo: Aspettate: non è ancor giudicato! Dopo alcun tempo d'angoscia udii la sua voce che mi chiamava e mi sono svegliato; e ora desidero di confessarmi.

                La madre intanto, spaventata da quello spettacolo e fuori di sè, ad un cenno di D. Bosco, era uscita colla zia dalla stanza e andava a chiamar la famiglia. Il povero figliuolo, incoraggiato a non aver più paura di quei mostri, incominciò subito la sua confessione con segni di vero pentimento, e mentre D. Bosco lo assolveva rientrava la madre colla gente di casa, che potè così essere testimone del fatto. Il figlio, rivoltosi allora alla madre le disse D. Bosco mi salva dall'inferno. [498] Così stette circa due ore, pienamente padrone della sua mente. In tutto questo tempo, per quanto egli si muovesse, guardasse, parlasse, il suo corpo rimase sempre freddo come prima di risvegliarsi. Tra le altre cose ripetè a D. Bosco di raccomandare tanto e sempre ai giovani la sincerità in confessione.

                D. Bosco in fine gli disse: - Ora sei in grazia di Dio: il cielo è aperto per te. Vuoi andare lassù o rimanere qui con noi?

                - Desidero andare al cielo, rispose il giovane.

                - Dunque a rivederci in paradiso! - E il fanciullo lasciò cadere il capo sull'origliere, chiuse gli occhi, rimase immobile e si riaddormentò nel Signore.

                Non è però da supporre che siasi sparso in città un gran rumore di quanto si è narrato. D. Bosco aveva agito colla massima semplicità, affermando che il giovane non era morto; il continuo trambusto politico e guerresco dei primi mesi di quell'anno distraevano e occupavano troppo le menti; e poi il sentimento delicato di onore e di rispetto alla memoria del figlio, dovette impedire che si entrasse dalla famiglia in discorso di simile avvenimento con estranei, sicchè anche coi vicini si mise in tacere, se pure non si tacque fin da principio.

                Tuttavia ne corse subito voce tra i compagni del morto, e la fama durò nell'Oratorio incontrastata per lunghi anni come di cosa certissima. Conoscevasi il posto e l'insegna di quella locanda, il nome dei giovane, il cognome, la nazionalità della famiglia, e la sua amicizia da più anni con Don Bosco, il quale infatti sul principio del 1849 era andato a visitarla per invitare un fratello di Carlo a venire egli pure all'Oratorio festivo. Quegli andò una volta sola, partì per la guerra come volontario, combattè a Novara, cadde ferito e riportato a casa, quivi morì. [499] E per citare alcuni nomi fra le centinaia di coloro che conobbero questi avvenimenti, addurremo in primo luogo Giuseppe Buzzetti, il quale se non fu testimonio oculare, lo fu certamente subito dopo auricolare di chi era stato presente, poichè egli poi già avanzato negli anni, non ne ammetteva dubbio, come più volte ci affermò. Questa certezza condivisero con lui Mons. Giovanni Cagliero, Enria entrato nell'Oratorio nel 1854, e nel 1857 D. Garino e D. Bonetti furono subito edotti dai condiscepoli di questo portento. Nel 1864 lo narravano a Bisio alcuni dei primi allievi dell'Oratorio e la damigella Teresa Martano che prima ancora del 1849 conosceva D. Bosco e già abitava in Torino.

                D. Sala Antonio andando a Parma nel 1889 incontrò sulla ferrovia un vecchio Fratello delle Scuole Cristiane che era di casa religiosa a Parma. Venuto a parlare di D. Bosco, il buon Fratello gli narrò come egli si trovasse in Torino maestro di classe elementare nel 1848, 1849 e come fosse cosa certa e provata la risurrezione momentanea di un giovanetto già estinto.

                D. Rua Michele afferma Frequentando lo nel 1849 in Torino le classi elementari presso i Fratelli delle Scuole Cristiane, D. Bosco veniva sovente a confessarci: e mi ricordo di averlo allora udito a raccontare, nella predica, dei giovane Carlo, morto, ritornato in vita dalla voce del proprio confessore sopraggiunto, e quindi passato alla sua eternità dopo essere stato assolto dai peccati. Chi fosse tale confessore, D. Bosco nol disse, ma in seguito lo intesi raccontare questo fatto portentoso da varie persone, le quali lo attribuivano a D. Bosco stesso. Io qualche tempo dopo, valendomi della confidenza che aveva con lui, lo richiesi una volta, mentre io era già prete, o per lo meno prossimo al presbiterato, se fosse proprio egli l'autore di quel fatto, [500] che a lui da molti veniva attribuito. Egli mi rispose: - io non ho mai detto che fossi io l'autore di quel fatto. Non andai più oltre, bastandomi il vedere che non negava che fosse esso, ma solo negava di averlo attribuito a se stesso; e non volli, insistendo, abusare della sua confidenza.

                Oltre a ciò D. Bosco lo raccontava più di cinquanta volte ai giovani dell'Oratorio e centinaia di volte a quelli delle altre sue case, senza però far mai cenno di sè, senza far mai il nome di nessuno e senza dare indicazioni del luogo, e omettendo ogni particolarità che potesse dar sospetto trattarsi di lui, ma sempre colle stesse identiche circostanze, senza mai nulla mutare o aggiungere, sicchè si vedeva come egli fosse stato presente ad un fatto profondamente rimasto impresso nella sua memoria. Se non chè una sera del 1882 si tradì senza accorgersene, raccontando questo avvenimento ai giovani di Borgo S. Martino dopo le orazioni della sera. Avendo egli la mente stanca all'estremo, a metà della descrizione, repentinamente mutò modo di parlare, la terza persona in prima, dicendo: Io entrai nella camera, io gli dissi, egli mi rispose, e proseguì la sua narrazione per lungo tratto, e sul finire ritornò alla terza persona. Lo scrittore di queste memorie era presente. I Salesiani si guardavano alla sfuggita con occhiate significative, i giovani lo contemplavano come estatici.

                Quando ebbe finito, attraversò le loro file per recarsi in camera, e mentre tutti gli facevano ressa intorno, si vedeva dal suo sguardo e dalle sue parole la perfetta incoscienza di ciò che era avvenuto, e nessuno osò fargliene motto per non offendere la sua umiltà.

                Finalmente ciò che soprattutto mi sta a cuore è l'esporre un giudizio che ne dava persona competente. [501]

 

                Roma, via di Ripetta, 246

                24 Febbraio 1891

Rev. Sig. D. G. B. Lemoyne

 

                Veggo da un giornale che V. S. va cercando ragguagli e appunti per comporre una vita del compianto D. Giovanni Bosco, di cui sono cominciati i processi canonici per la introduzione della causa di beatificazione, quando ne sarà tempo; e veggo che note eziandio di non grande estensione sono accettate e gradite per cotesto scopo. Mi affretto adunque a contribuire la mia pietruzza all'edifizio.

                Ho trattato col venerando uomo più volte a Torino, a Genova, a Firenze, e alcune volte assai a lungo da solo a solo e con intimità. L'impressione che egli mi faceva nel primo entrare in discorso era d'un uomo di non grande levatura, ma semplice e buono. Se non che bastavano poche sue parole, perchè mi si ingrandisse il concetto primo e udendolo ragionare mi brillava come uomo di eletto e profondo giudizio, di mirabile prudenza, di rettissimi e santi intendimenti. Il suo discorso piano e senza sussiego mi pareva così aggiustato ed importante, che si sarebbe potuto con frutto stampare a verbo, come gli usciva naturalmente dal labbro. Non saprei quale persona al mondo, parlando meco mi abbia suscitato maggiore ammirazione. Sentivo dì parlare con un santo .....

                Io l'ho tenuto e lo tengo per un uomo straordinario e pieno di grazia divina. Mi nasceva tale concetto di lui dalla considerazione della sua vita, de' suoi portamenti e delle sue intraprese. Mi dava somma edificazione colla carità e collo [502] zelo che egli mostrava sincero, efficace, fecondo verso i fanciulli del volgo e i monelli d'ogni maniera, per ritrarli dal vizio, provvederli, istruirli, educarli e soprattutto guadagnarli a Gesù Cristo. Vedevo in cotesto qualche cosa di altamente conforme allo spirito di Gesù Cristo, e lontano affatto da ogni inclinazione umana: era il charitas Christi urget nos in tutto il suo splendore.

                Tanta era la persuasione che nutriva in me della sua straordinaria bontà, che mi sembrava cosa come naturale che egli operasse dei veri miracoli: essendo consueta provvidenza divina, che ai grandi servi di Dio tale dono si conceda. L'udirne raccontare qualche saggio non mi avrebbe recato pertanto veruna meraviglia, se anche la cosa fosse frequente.

                Ne intesi poi in realtà raccontare...” E dopo aver esposto un fatto sorprendente di D. Bosco del quale ben presto noi parleremo, continua: “Udii pure raccontare tra persone colte e pie, in Torino, che D. Giovanni fosse stato una volta chiamato ad assistere un ammalato giovane, e che essendo arrivato tardi, quando cioè il giovane era già passato, D. Giovanni lo risuscitò, e lo confessò nelle circostanze presso a poco che si legge avere S. Filippo Neri risuscitato il giovane de' Massimi. In quella occasione udii che alcuno ne aveva fatto ricordo per iscritto, e conservava i documenti dei fatto per valersene appunto a glorificare D. Giovanni, quando non fosse più tra i vivi.

                Ecco, Rev. Signore, quel pochino che io posso accertare. Ne faccia liberamente l'uso che crederà migliore.....

 

P. GIOVANNI GIUSEPPE FRANCO

della Comp.a di G. [503]

 

                Appoggiato su questi stessi motivi, Mons. Spinola, ora Arcivescovo di Siviglia, stampando a Milo il fascicolo Don Bosco e la sua opera, non esitava ad ammettere la circostanza della morte e risveglio del giovane Carlo.

                Ma ciò che a noi più di tutto importa sono le conversioni e le confessioni sincere senza numero che D. Bosco ottenne con questo suo racconto; e furono portenti morali, ciascun dei quali vai quello che abbiamo esposto. L'efficacia della parola che Dio gli aveva concessa si manifestò in tante guise da far apparire l'intera sua vita come un inno continuo all'onnipotenza, provvidenza e misericordia divina. Tuttavia Mons. Cagliero, testimone di tante giornaliere meraviglie, aggiungeva: - Per me il maggiore dei miracoli di D. Bosco fu l'aver lottato per quasi cinquant'anni, conducendo a felice termine una navigazione procellosa tra continui scogli e marosi, che minacciavano sommergere l'opera degli Oratorii e la Congregazione di S. Francesco di Sales.

 

 

CAPO XLVI.
Apparecchi per una nuova guerra - Opera del denaro di S. Pietro - Partenza del Re coll'esercito - L'obolo degli artigianelli - Discorso di un giovanetto - Inno a Pio IX - Parole del Marchese Cavour.

 

                NEL Governo Piemontese non era estinta la speranza della rivincita, tanto più che la terribile rivoluzione dell'Ungheria contro l'Austria, occupava il nerbo migliore delle truppe imperiali. Il 1° febbraio 1849 all'apertura delle Camere il Re annunziava essere rifatto e pieno di patrio ardore l'esercito, ed essere pronto ad allontanare gli Austriaci dall'Italia. Lo spirito pubblico era poco disposto alla guerra; ma le sette incalzavano, i volontarii e i rifugiati politici minacciavano, i giornali raccontavano cose raccapriccianti degli Austriaci nell'oppressione del Lombardo - Veneto; Radetzki era accusato di non aver osservati i patti dell'armistizio. Il Generale Chiodo, successo a Gioberti nella presidenza del Ministero, stringeva una convenzione militare coi faziosi di Roma, che il 9 febbraio avevano dichiarata la decadenza dei Papi e proclamato la repubblica. In Lombardia e nel Veneto i Capi dei liberali avevano preparato la ribellione di varie città pel 21 marzo.

                Mentre tutto si poneva in opera per una nuova riscossa nazionale, i cuori dei cattolici stavano sempre intenti a Pio IX che si trovava in gravissime angustie. [505] Al Papa infatti, come a Padre di 300 milioni di Cattolici sparsi sulla faccia della terra, anzi come a Maestro di tutti i popoli, tocca di provvedere ad innumerevoli bisogni spirituali e temporali[34]. Egli, per tacere di altro, deve provvedere alle molte sacre Congregazioni di Cardinali e di Prelati, delle quali si serve per discutere e disbrigare gli affari riguardanti a tutta la Cristianità; provvedere al mantenimento di tutti i rappresentanti presso ai Governi del mondo a protezione dei rispettivi fedeli loro sudditi; provvedere all'invio e sostentamento dei Missionarii nelle varie parti della terra, dove ancor non si conosce il vero Dio, nè si gode il benefizio della divina Redenzione e della cristiana civiltà; provvedere insomma a cento, a mille necessità, che anche fuor di luogo sarebbe qui enumerare.

                Il Papa Pio IX, essendo stato costretto ad esulare da Roma e privato di ogni suo avere, si trovò nella impossibilità di sopperire a tutti questi dispendii con grave danno delle anime. Il Re di Napoli Ferdinando II gli dava bensì in Gaeta larga e generosa ospitalità; ma quel Principe non avrebbe potuto sobbarcarsi a tutti gli aggravii richiesti pel buon governo della Chiesa universale; nè per altra parte pareva conveniente che il peso pel decoroso mantenimento dello stesso Pontefice gravitasse sopra di uno Stato solo. Il perchè, appena venne rilevata questa condizione di cose, i Vescovi di Francia e poi gli altri tutti della Chiesa cattolica fecero ricorso alla carità dei fedeli, e li esortarono che come amorose pecorelle sovvenissero. [506] con elargizioni al Supremo loro Pastore. La fede e la pietà cristiana risposero ben tosto all'appello dei Prelati, e in breve tempo eccitossi in ogni ceto di persone una nobile gara in favore del Papa. Alla Francia vennero ad unirsi la Spagna, il Belgio, la Germania e in appresso sin le Americhe, l'India, la Cina ed altre remotissime parti dell'Orbe cattolico. Anche in tutte le chiese dell'Olanda e fino ad Amsterdam, per iniziativa di un ministro protestante, si facevano colle. Per questa guisa ebbe origine l'Opera del così detto Danaro di S. Pietro in questi ultimi tempi, opera che mentre somministra al Sommo Pontefice i mezzi opportuni per tenere relazione con tutti i popoli del mondo, per far sentire l'influenza benefica dell'alto suo apostolato sino agli ultimi confini della terra, e per correre in aiuto agli immensi bisogni spirituali e temporali di tutta la famiglia cattolica, serve eziandio di splendida manifestazione di fede e di amore alla Sede di S. Pietro.

                L'Italia nostra, quantunque in quest'anno, 1849, fosse pressochè tutta sconvolta, non poteva rimanersi dal concorrere ad un'Opera cotanto egregia. Il Piemonte soprattutto gareggiò colle altre provincie sorelle, e porse una non dubbia prova del suo inalterabile attaccamento al Vicario di Gesù Cristo. In Torino poi, fin dal principio del mese di febbraio, alcuni pii e zelanti Cattolici, ecclesiastici e laici, si costituirono in Comitato allo scopo di promuovere tra i fedeli, e radunare spontanee offerte da deporsi ai piedi del Sommo Pio. Il Comitato promotore era composto di questi ragguardevoli personaggi: Marchese Gustavo Cavour; Marchese Lodovico Pallavicini Mossi, Senatore del Regno; Marchese Birago di Vische; Marchese Fabio Invrea; Teologo, Guglielmo Audisio; Teologo Avvocato Cerutti, e il Teologo Valinotti Canonico. Molti altri buoni signori promuovevano pure nelle famiglie quest'Opera medesima, e tra gli altri il Conte Camillo di [507] Cavour, fratello del Marchese Gustavo. Il 9 febbraio 1849 l'Armonia apriva la sottoscrizione di offerte al Papa.

                Conosciutasi nei nostri paesi la strettezza ed i bisogni, in cui si trovava l'esule Pio IX, i fedeli si recarono ad onore di correre in suo aiuto, e non solo i ricchi, ma i poveri eziandio vi contribuirono, offrendo il frutto delle loro fatiche e il risparmio eziandio dello scarso lor vivere. In quell'occasione anche i figli di D. Bosco, stimando alta ventura il poter dare un segno di venerazione al Capo della Chiesa, si privarono volentieri di quei pochi soldi che potevano disporre, cioè di ciò che loro era quasi necessario alla vita, e fecero una colletta da mettersi nelle auguste sue mani.

                Mentre nell'Oratorio i poveri alunni di D. Bosco erano tutti lieti di poter dare una consolazione al Vicario di Gesù Cristo, il 12 marzo il Ministero denunziava l'armistizio al generale Radetzki comandante supremo delle forze Austriache. L'esercito piemontese, composto di 120.000 uomini in sei divisioni, si mette in marcia. Settanta mila di questi si collocano sul Ticino, stendendosi, e fu gravissimo errore, sovra una linea di più che cento miglia. Poco dopo alzavano bandiera di ribellione Como e Brescia. Il 14, alla sera, Carlo Alberto partiva da Torino per Novara. Il Ministro Sineo lo stesso giorno invitò i Vescovi a persuadere il popolo della necessità della guerra, ad ordinar preghiere pel suo buon esito, e i Vescovi accondiscesero come sempre avevano fatto in tali circostanze. Anche nell'Oratorio si pregava, tanto più che il Conte di Collegno, venendo dalla Corte il 5 febbraio, aveva consegnato 200 lire a D. Bosco, come consta dalle memorie del Teol. Borel, e tutto fa supporre che fosse una beneficenza del Re.

                Intanto nell'Oratorio veniva organizzata una festa indimenticabile. Il Comitato promotore dell'Opera del Danaro di [508] S. Pietro invitato da D. Bosco fu compiacente, il 25 marzo, di mandare all'Oratorio due de' suoi illustri membri per riceverla in persona. I due delegati erano il Canonico Valinotti e il Marchese di Cavour. Essendo Domenica di passione e festeggiandosi dai giovani l'Annunciazione di Maria SS. questi eransi radunati in numero stragrande. Tra i documenti abbiamo trovato copia del discorso; letto in quella circostanza da un giovinetto a nome de' suoi compagni, ed era concepito in questi termini:

 

                               Illustrissimi Signori,

 

                “Appena giunse tra noi la nuova dolorosa, che il Santo Padre trovavasi nelle strettezze, ne fummo profondamente commossi. Cresceva vie più il nostro dolore al riflettere che la nostra posizione ci impedisce di corrispondere all'inaspettato bisogno. Ciò non di meno desiderosi di dare un segno di stima e di figliale venerazione verso il Capo della Cattolica Religione, verso il comune nostro Padre, il Successore di S. Pietro, il Vicario di Gesù Cristo, abbiamo fatto i nostri sforzi, abbiamo unito l'obolo del povero. Sono trentatrè lire che noi abbiamo raccolto; somma di poco momento per la sublimissima sua destinazione, ma che ci farà degni di benigno compatimento, qualora si consideri l'età nostra e la nostra condizione di artigianelli e di poveri figli di famiglia.

                Signori, noi sappiamo che il vostro cuore è buono, e che perciò vorrete gradire la tenue nostra offerta, accertandovi che la nostra volontà farebbe di più se la impossibilità non glielo impedisse.

                Che se mai, continuava egli, che se mai le nostre parole potessero in questo momento essere intese dal Santo Padre, [509] tutti prostrati ai piedi suoi vorremmo ad una voce esclamare così: - Beatissimo Padre, è questo il più fortunato momento di nostra vita: noi siamo un ceto di giovanetti, i quali riputiamo a nostra grande ventura il poter dare un segno di venerazione a Vostra Santità. Ci protestiamo vostri affezionatissimi figli; e malgrado gli sforzi dei malevoli per allontanarci dall'unità cattolica, noi riconoscendo nella Santità Vostra il Successore di S. Pietro, il Vicario di Gesù Cristo, a cui chi non è unito va eternamente perduto, e nell'intima persuasione che niuno da Voi disgiunto può appartenere alla vera Chiesa, dichiariamo di voler vivere e morire sempre uniti a questa Chiesa, di cui Voi siete Capo visibile, offrendoci pronti a spendere ogni nostro avere, ogni sostanza e la vita medesima, per mostrarci degni figli di un sì tenero Padre”.

                Il piccolo oratore conchiudeva il suo dire così: “Voi intanto, o Signori, gradite queste semplici sì, ma sincere espressioni del nostro cuore, e la grande vostra bontà supplisca alla insufficenza nostra”.

                Dopo questo indirizzo, un drappello di giovani con voce argentina cantava a Pio IX l'inno seguente, che loro aveva fatto imparare l'operoso Teol. Giacinto Carpano.

               

Siccome in Gerosolima

I perfidi Giudei

Il Signor nostro accolsero

Fra canti e fra trofei,

Poi crudelmente in croce

Dannatolo a morir

Godeano fargli atroce

Lenta agonia soffrir:

Ah! così pur di perfidi

Un stuol scelesto e rio

L'anima santa e angelica

Amareggiò di Pio; [510]

Ier d'armonie leggiadre

Tutto echeggiava il ciel,

Oggi quel caro Padre

Abbeveran di fiel.

Pur non temiamo - Sbattere

La nave tua celeste,

O Santo Padre, possono

Del mondo le tempeste;

Ma disse a Te l'Eterno:

Per affondarla in van

Con gli empi e con l'inferno

Congiurerà Satan.

Superbo è chi ti giudica,

Chi ti condanna insano,

Niun sulla terra uguagliasi

Al tuo poter sovrano,

Dio sol, Dio sol t'impera;

Quai figli innanzi a Te

Piegan la fronte altera

Imperatori e Re.

 

                La detta offerta accompagnata dal riferito discorso e dal canto toccarono sì al vivo il cuore dei membri del Comitato, che ne rimasero altamente commossi. Essi volsero loro alcune fervide parole di lode e di eccitamento, e fattisi rimettere copia di tutto, nel licenziarsi dissero: “Questi generosi sentimenti meritano di venire a notizia del Santo Padre, e verranno”.

                Intanto il Marchese di Cavour, essendo in quel tempo collaboratore del giornale cattolico L'Armonia, dava contezza del fatto, pubblicando in lode dell'Oratorio un importante articolo, che mette conto presentarlo ai lettori.

                “Nel più povero, così il Cavour, nel più povero dei sobborghi di questa metropoli, abitato quasi esclusivamente da operai, che campano col prodotto delle loro giornaliere fatiche, e che trovansi spesso ridotti a vera miseria in seguito ad una infermità od a mancanza di lavoro, sorge da qualche [511] anno una di quelle opere di beneficenza, di cui lo spirito cattolico è sorgente inesausta. Un zelante Sacerdote ansioso del bene delle anime si è consacrato intieramente al pietoso uffizio di strappare al vizio, all'ozio e all'ignoranza quel gran numero di fanciulli, i quali abitanti in quei contorni, per le strettezze o l'incuria dei genitori, crescevano pur troppo sprovvisti di religiosa e civile coltura. Questo ecclesiastico, che ha nome D. Bosco, prese a pigione alcune casuccie ed un piccolo recinto, si è recato ad abitare in quel sito, e vi ha aperto un piccolo Oratorio, sotto l'invocazione del gran Vescovo di Ginevra, S. Francesco di Sales. Egli ha cercato di attirarvi quei poveri giovani, che dapprima trovavansi negletti e derelitti; nel semplice e modesto Oratorio egli distribuisce loro quella istruzione, che sopra tutte le altre discipline è sola necessaria, l'istruzione religiosa; egli li accostuma a praticare i loro doveri, ad esercitare il vero culto di Dio, a convivere amichevolmente e socievolmente l'uno coll'altro. Accanto all'Oratorio si trovano scuole, in cui s'insegnano a quella gioventù i primi elementi delle lettere e del calcolo; vi è pure l'accennato recinto, in cui i giovanetti nei giorni festivi e nelle ore di ricreazione si sollevano con giuochi innocui e con innocenti trastulli, passando quel tempo nell'onesta allegria, che tanto giova alla sanità dei corpo e della mente, e specialmente in quella tenera età. In mezzo ad essi trovasi ognor D. Bosco, il quale è costantemente ad essi maestro, compagno, esemplare ed amico.

                Si vedono solitamente nei giorni festivi da quattrocento giovanetti riuniti in quel sito, che non presentando all'esteriore veruna apparenza, rimane da molti inosservato, mentre il bene che vi si fa è immenso. Tutti quei ragazzi, i più dei quali sarebbero cresciuti nell'ignavia e nel vizio, s'incamminano alla virtù ed al lavoro. Infatti il loro zelante precettore [512] ed amico cerca per essi con tutto impegno qualche onesto artiere, che consenta di accettarli presso di sè a tirocinio dell'arte sua; e l'essere un ragazzo proposto da D. Bosco, come un suo alunno, presenta ai padroni di bottega una guarentigia di moralità, che li rende facili ad accoglierlo presso di toro, onde avviarlo nell'esercizio della propria professione. Così da quel semenzaio di onesti operai escono ogni anno in buon numero adolescenti, che sono in caso di provvedere ai proprii bisogni, e che conserveranno, giova sperarlo, nel lungo decorso della loro vita l'abito di quella moralità, a cui i loro teneri anni furono informati.

                “Aggiungiamo ancora che, trovandosi spesso fra quei poveri giovani chi per la morte o la rovina dei proprii genitori cade in assoluto abbandono, parecchi di questi vengono anche ricoverati in alcune camere esistenti in quelle povere casuccie sovraccennate, e vi ricevono pure il loro sostentamento pel tempo del loro tirocinio, finchè col frutto del loro sudore possano essi medesimi mantenersi.

                In questo albergo di beneficenza recavansi il giorno dell'Annunziata due membri dei Comitato dell'Opera dei Danaro di S. Pietro, colà chiamati dal benemerito fondatore di quell'Oratorio. Trattavasi di ricevere un'oblazione, che quei buoni ed esemplari giovanetti avevano disegnato di fare per l'Opera medesima. Edotti essi dei luttuosi eventi di Roma, e dell'essere il Padre comune dei fedeli ridotto alla condizione di esule, vollero spontaneamente concorrere col loro obolo ad ingrossare quel tributo di figliale venerazione, che a Torino si vuoi raccogliere per deporlo ai piedi del Vicario di Cristo.

                Entrati i delegati del Comitato nel modesto recinto, ove tanto bene si va compiendo, essi vennero dal Direttore accolti colla più squisita cortesia; quindi non senza viva commozione dei loro cuore essi si videro accerchiati da [513] quei ragazzi, che in aria festiva loro fecero bella e lieta corona.

                Due di questi tosto si avanzarono, e mentre l'uno sopra di un desco presentava i trentatrè franchi raccolti in mezzo a loro, l'altro pronunziava un semplice ma ben sentito discorso di cui presenteremo uno squarcio ai nostri lettori”.

                Qui l'illustre scrittore riporta una parte del discorso sopra riferito, e poi prosegue:

                “Una soave e dolce commozione si faceva sentire nell'animo dei delegati nell'udire queste parole pronunziate con aria intelligente e con voce esprimente l'affetto da un ragazzino, il quale porta le secchie di calcina e i mattoni pel servizio dei muratori, ma nondimeno mostra di provare veramente sensi così nobili e generosi. Essi risposero alcune brevi parole dichiarando a quei giovanetti che si gloriavano di averli soci in un atto, che è una professione di quella fede cattolica che tanto sublima l'uomo in qualunque stato e condizione egli si trovi. Richiesero quindi il giovane oratore di una copia del di lui discorso, e quella copia fu in seguito consegnata al Nunzio Apostolico che ne mostrò singolare gradimento e si protestò di volerla inviare al Cardinale Pro - segretario di Stato del Sommo Pontefice, come testimonianza di sensi, che riescono altamente commendabili se si riflette alla posizione e agli antecedenti di coloro che li manifestarono.

                “Noi poi dal canto nostro abbiamo creduto dover alquanto dilungarci nel recare alla cognizione del pubblico un fatto, che ci sembra degno di essere altamente commendato”[35].

                La mentovata offerta con l'ultima parte del recitato discorso venne eziandio registrata nella Storia Ecclesiastica [514] dell'abate Rohrbacher, dove l'autore, dopo aver raccontato alcuni slanci commoventi di povera gente verso il bisognoso Pontefice, fa precedere queste parole al fatto che ci riguarda: “.... Più grande ancora, egli scrive, è il fatto di certi giovani poverissimi e artigiani di professione che, economizzando ogni giorno qualche soldo, pervennero a mettere insieme la piccola somma di trentatrè franchi e la mandarono ai capi dei l'associazione con una lettera da intenerire”.[36]

 

 

CAPO XLVII. La battaglia di Novara - Abdicazione di Carlo Alberto - La rivoluzione a Genova - Parma, Modena, Toscana e Sicilia sottomesse agli antichi principi - Causa della tranquillità che regna nell'Oratorio nel 1849 - Affittamento della casa di Valdocco rinnovato col Pinardi - La Divina Provvidenza aiuta a pagare i fitti - Anarchia negli Stati Papali; alcune Potenze si muovono per far cessare i disordini; i Francesi sotto le mura di Roma - Sentimenti del Papa nel ricevere l'offerta dei giovani di Valdocco - Lettera del Nunzio Apostolico - Offerta dei giovani dell'Oratorio di S. Luigi - Libri di Gioberti e di Rosmini messi all'Indice - D. Bosco tenta piegare Gioberti alle decisioni della Chiesa - Sottomissione di osmini e lettera di D. Bosco a D. Fradelizio.

 

                IL 26 MARZO il domani del giorno nel quale i giovani dell'Oratorio davano un sincero attestato della devozione loro all'augusto Esule di Gaeta, pubblicavasi in Torino un ferale annunzio, che arrecava un cordoglio indicibile e a molti traeva le lagrime. Carlo Alberto era stato sconfitto. Dopo alcuni fatti d'arme sul Ticino, 75.000 Austriaci, per incuria, o per tradimento del generale Girolamo Ramorino, che doveva stare a difesa di un passo di questo fiume, riuscivano a tragittarlo. Tramezzato così l'esercito piemontese, capitanati dal maresciallo Radetzki, avevan [516] marciato contro il suo maggior nerbo, posto tra Mortara e Vigevano. Il 21 marzo dopo uno scontro nel luogo detto Sforzesca, colla vittoria degli Austriaci e colla presa per assalto di Mortara, il 23 i due eserciti erano venuti a pugna campale presso le mura di Novara. Si fecero da ambe le parti prodigi di valore, ma in sulla sera i Piemontesi erano stati costretti a ritirarsi.

                Durante il fiero combattimento il valoroso Principe stava impavidamente esposto al pericolo per animare i suoi. Vedute poi fallite tutte le sue speranze e conosciuta la necessità di una sospensione d'armi, egli, per facilitare al suo popolo una più onorevole pace, volle consumare la sua carriera con un nuovo sacrifizio. Pertanto in quella sera stessa, circondato da' suoi due figliuoli Vittorio Emanuele e Ferdinando, non che da' suoi aiutanti di campo, abdicava alla corona in favore del suo primogenito, che prendeva il nome di Vittorio Emanuele II. Dopo questo atto egli abbracciò e baciò ad uno ad uno gli astanti, li ringraziò dei servigi resi a lui ed allo Stato, e dopo la mezzanotte partì da Novara accompagnato da due soli domestici. In capo a pochi giorni si seppe che era giunto in Oporto, città marittima del Portogallo, da lui scelta pel luogo del suo volontario esilio. Bergamo e Como, che si erano armate e incominciavano a muoversi, alla nuova del disastro di Novara, si accordarono coi capitani tedeschi; ma Brescia, ingannata da false notizie di vittorie Piemontesi, insorse contro la guarnigione Austriaca; ma dopo otto giorni di eroica resistenza dovette arrendersi.

                Intanto lo stesso giorno 26 marzo il nuovo re conchiudeva la tregua con Radetzki, e fra le altre condizioni obbligavasi a stipulare la pace, ritirare le sue truppe che ancora occupavano il Modenese, il Piacentino e alcune terre della Toscana, e a richiamare la flotta dall'Adriatico. Gli articoli di fuoco [517] sui giornali che pretendevano si continuasse la guerra, le diatribe violente e dissennate nel Parlamento contro l'armistizio, le urla del popolaccio che percorreva le vie imprecando ai traditori, la paura ed il dolore che invadeva le case dei pacifici cittadini, non potevano essere più desolanti se i Tedeschi fossero stati alle porte della Capitale. Nella notte Vittorio Emanuele giungeva in Torino e nel 20 pubblicava il suo primo proclama al popolo, annunziando la sua assunzione al trono, senza però tenere l'antico costume, di incominciare il nuovo regno coll'invocare l'aiuto Divino. Il 29 giurò lo Statuto e quindi scioglieva il Parlamento e si veniva poi a nuove elezioni.

                Nuova cagione di sgomento recava in Torino il 1° aprile la rivolta di Genova, mossa dal partito repubblicano colla menzogna che il Piemonte l'avesse ceduta all'Austria; ma in breve veniva domata da Alfonso Lamarmora accorso dalla Lunigiana con otto mila uomini. Non meno dolorose per i liberali erano le notizie che giungevano da altre parti d'Italia. Le milizie Austriache sempre più baldanzose, per i 140.000 russi alleati che invadevano l'Ungheria, rendendole inutile ogni difesa, entravano nei ducati di Parma e di Modena e rimettevano a loro posto i Duchi. Avanzatisi quindi in Toscana, ove il popolo stanco di prepotenze aveva scacciati i repubblicani e richiamato sul trono da Mola di Gaeta Leopoldo II, ai primi di maggio assalivano Livorno, disperdendo i ribelli che vi si erano trincerati come in ultimo riparo. Contemporaneamente le schiere del re di Napoli il 20 aprile colla presa di Palermo avevano sottomessa l'intera Sicilia. Per questi fatti erano in continuo fremito gli emigranti politici, che continuavano ad affluire in Piemonte.

                Gli Oratorii però di S. Francesco di Sales e di S. Luigi non ebbero più a soffrire in quest'anno per causa delle [518] continue dimostrazioni della piazza; e l'8 aprile tutti i loro giovani celebravano la Pasqua dopo aver assistito al catechismi della quaresima in mezzo ad una pace inalterata. Di essa erano causa non solo le prudenti e moltiplicate industrie di D. Bosco, ma eziandio certi fatti meravigliosi che di quando in quando si dicevano avvenuti, e che facevano riguardare D. Bosco come un uomo singolare.

                Giuseppe Buzzetti infatti ci narrava che una domenica del 1849, o sul principio del 1850, mentre ascoltava la predica di D. Bosco, a un tratto un suo compagno, che gli sedeva vicino, di nome Bosio Vincenzo, giovanetto semplice ed innocente, restò come incantato, ed esprimendo coi gesti una grande meraviglia, si volgeva poi a lui: - Guarda, guarda D. Bosco! - esclamava,

                - Che cosa c'è di nuovo? Vedo che racconta dalla cattedra un tratto di storia ecclesiastica.

                - Ma non vedi? Guardalo! Ecco, la sua faccia tutta splendente manda raggi da ogni parte!

                Buzzetti nulla vide, ma attestava come il piccolo Bosio fosse fuori di sè, e che si durò fatica a farlo star quieto fino alla fine della predica; e dopo le funzioni egli narrava tutto commosso al compagni quello che aveva veduto.

                Tuttavia della benedizione del Signore era la prova più sicura il continuo ampliarsi, benchè lento, dell'Oratorio di Valdocco. Spirato il contratto coi Pancrazio Soave, D. Bosco contraeva direttamente una nuova locazione col proprietario Signor Francesco Pinardi. L'atto notarile fa la descrizione di quella casa, e noi la ricopiamo perchè si vegga qualche leggiera trasformazione subita dal 1846 in poi. “1° Casa composta di quattordici membri, dei quali nove al piano terreno in cui è compreso un oblungo, serviente di cappella, e n.° cinque al piano superiore in uno con tutti i sottotetti dall'alto in [519] basso. 2° Tettoia ossia rimessa che unisce detta casa colla cinta a notte. 3° Cortili tanto a levante che a ponente e notte, come anche il cortile e pezza prato a giorno, nei quali siti trovansi una fontana coperta per lavanderia e parecchie piante”. Il contratto era per tre anni, dal 1° di aprile 1849 fino al 31 marzo 1852, mediante l’annua somma di 1150 lire. Erano firmatarii il Teol. G. Borelli e Francesco Pinardi, il quale dichiarava per mano di notaio fare quell'affittamento per sole lire 1150, sul riflesso che intendeva favorire l'opera pia intrapresa dal locatario e in detto locale stabilita. La scrittura o capitolazione legale porta la data del 22 giugno 1849. D. Bosco s'affrettò allora a riattare il miserabile edifizio, appoggiato al fianco orientale della casa formando della legnaia, stalla e rimessa una sala abbastanza vasta che poteva servire per le accademie e per le recite teatrali, specialmente nella brutta stagione. E in queste non trascurava di esercitare i suoi giovani, poichè nelle note che il tipografo Speirani presentava a D. Bosco per il pagamento di varie ordinazioni, noi leggiamo che in data del maggio 1840, per un saggio che diedero i giovani sopra la Storia Ecclesiastica, egli aveva stampati 500 inviti; e un numero eguale di simili inviti nel dicembre di questo stesso anno in occasione di un secondo saggio intorno al suaccennato argomento. D. Bosco allestendo questa sala, come abbiamo in altro luogo accennato, abbatteva un muro di tramezzo e ampliava eziandio quasi della metà lo spazio della cappella tettoia.

                Per tutti questi lavori, per l'affitto e per provvedere l'occorrente alla chiesa, alle scuole, ai divertimenti, si trovava in angustie, perchè la guerra aveva cagionate grandi miserie. Egli però, senza menomamente diffidare della Divina Provvidenza, dalla medesima attendeva sempre i mezzi necessarii, ed Ella non gli venne mai meno. [520] Una volta, incalzato dal signor Pinardi a pagare le trecento lire che gli doveva pel fitto arretrato del locale, Don Bosco, senza sapere a chi rivolgersi per ottenere tale somma, si prese tempo quindici giorni per l'intero pagamento. Nello spazio di questi il Cavaliere Renato d'Agliano si presentò al Teol. Borel domandandogli se conoscesse un certo Don Bosco, il quale attendeva all'educazione dei poveri giovani, perchè egli bramava fargli un'offerta, ma non erasi mai imbattuto in lui. Avendogli risposto il Teol. Borel che realmente D. Bosco era tutto consecrato ad infondere lo spirito del Signore nel cuore dei poveri giovani, il Cavaliere gli consegnò un rotolo contenente trecento lire in tanti scudi d'argento, che era precisamente la somma di cui D. Bosco abbisognava, con preghiera di consegnarlo al buon servo di Dio.

                Da quel giorno il detto benefattore si accese di grande affetto verso D. Bosco e poi prese a mandargli per più anni in ogni settimana una cesta di pane in assai quantità per i suoi giovani. Questi fatti ce li raccontò lo stesso Teol. Borel; e Reviglio che mangiò di questo pane.

                Un'altra ragione, quella dell'esempio, rendeva i giovani docili a D. Bosco. Chi vuol essere amato sinceramente ed obbedito da' suoi inferiori, egli pel primo obbedisca a quelli che gli sovrastanno. D. Bosco era tutto per il Papa; sovente parlava di lui e per lui faceva pregare, che a Gaeta sentiva gravissimo dolore per gli eccessi della rivoluzione nei suoi Stati. Roma era in piena anarchia. Qui la fazione più esaltata dell'Italia intiera, e i peggiori settarii stranieri, eretici, apostati, socialisti animati dal più inferocito odio contro il cattolicismo, erano accorsi da ogni parte aggredendo preti e cittadini onesti e rubando a conto proprio e del loro Governo. Così assassinavasi nelle altre provincie pontificie, e non pochi Vescovi erano gittati in prigione. Pio IX il 20 [521] aprile 1849 aveva rinnovato l'appello alle Potenze d'Europa, del 4 dicembre 1848. La Spagna erasi già volta alla Francia, all'Austria, al Portogallo, alla Baviera, agli Stati Italiani per accordarsi nei modi di rimettere il Papa sopra il suo trono. Il Piemonte coll'Inghilterra respinsero l'invito; lo accettarono gli altri. Luigi Napoleone Buonaparte, Presidente della Repubblica Francese, non avrebbe voluto, ma lo spingevano quanti erangli attorno, e non riuscendo egli con tutte le sue arti ad impedire che l'Austria si movesse in aiuto del Papa, cercò di furarle le mosse. Quindi fece partire un corpo di truppe, non per rovesciare la Repubblica Romana, ma per accordarsi col governo repubblicano, per interrogare le popolazioni con un plebiscito, per mettersi a capo del movimento italiano, per imporre condizioni e leggi al Pontefice, salvando almeno in parte la causa settaria e piantare saldamente in Roma un governo costituzionale liberale, cioè la rivoluzione moderata. Ma per loro danno i mazziniani non intesero le intenzioni di Napoleone, benchè spiegate con chiarezza, e i generali francesi erano troppo leali per secondare ciecamente quelle insidie. Il 25 aprile quindici mila francesi sbarcavano a Civitavecchia, e il generale Oudinot il 30 giungeva sotto Roma con seimila soldati e dato un primo assalto veniva respinto. Il 28 la flotta spagnuola, rialzava la bandiera pontificia sul forte di Torre Gregoriana, e messe a terra alcune schiere, queste colle truppe napoletane occupavano Terracina. Re Ferdinando allora alla testa di ottomila uomini si spingeva sino a Palestrina, dove ebbe uno scontro coi garibaldini. Ma, non compreso per ordine di Napoleone in un armistizio, fu costretto a ritirarsi, respingendo per due volte le schiere repubblicane. Sul fin di maggio novemila spagnuoli sbarcavano in Gaeta, occupavano Piperno, Frosinone e Velletri, e si stendevano in una linea che da Palestrina per Rieti [522] e Terni spingevasi fino a Spoleto. Prima di loro erasi mosso l'esercito Austriaco da Castelfranco, e assalita Bologna con sedici mila uomini l'avea costretta alla resa il 16 maggio. Continuando poi la sua via direttamente fino a Rimini, e rialzando, ovunque passava, lo stemma pontificio, il 24 maggio assediava Ancona, la quale veniva a patti e si arrendeva il 19 giugno. Altri cinque mila imperiali venuti dalla Toscana, per Perugia e Foligno erano giunti fino a Macerata per aiutare a stringere Ancona.

                Il Santo Padre, fra tante preoccupazioni per sostenere i diritti della Chiesa e liberare i suoi popoli oppressi, aveva in questo mentre ricevuta la povera, ma affettuosa e giovanile offerta dell'Oratorio di Valdocco, che non solo eragli tornata di sommo gradimento, ma ne conservò memoria finchè visse. Persone che raccolsero le sue espressioni riferirono la cosa con queste parole: - “L'offerta di trentatrè lire fatta da giovanetti e le espressioni semplici e sincere che l'accompagnavano commossero il tenero cuore di Pio IX. Prese egli la somma e lo scritto che le andava unito, ne fece egli stesso un pacco, vi scrisse sopra la provenienza e disse che voleva farne un uso particolare. Quindi dava ordine a S. E. il Cardinale Antonelli di scrivere una lettera al Nunzio in Torino, onde venisse partecipata agli offerenti la pontificia soddisfazione”. Difatto poco dopo Mons. Antonucci indirizzava a D. Bosco una lettera di questo tenore:

 

                               Molto Reverendo Signore,

 

                Rassegnando a Sua Santità per mezzo dell'Eminentissimo Cardinale Antonelli, pro - segretario di Stato, un'altra somma del Danaro di S. Pietro, rimessami dagli ill.mi signori D'Invrea e Cavour in nome del Comitato, stabilitosi a tale [523] oggetto in questa città di Torino, mi permisi di far rilevare tra le altre, l'oblazione de' suoi giovinetti in lire trentatrè, non che il sentimento che espressero nel consegnarli al Comitato anzidetto.

                La prelodata Eminenza Sua, riscontrandomi in proposito in data del 18 del mese scorso, si compiace apprendermi che una dolce emozione si è destata nell'animo del Santo Padre all'affettuosa e candida offerta di poveri artigianelli ed alle parole di tenera divozione onde vollero accompagnarla.

                La prego perciò di far loro conoscere quanto mai sia stata accetta al Santo Padre tale oblazione, ritenendola preziosissima perchè offerta dal povero, e quanto sia lieto di vederli così per tempo nudrire sentimenti di ossequio sincero verso il Vicario di Gesù Cristo, presagio non dubbio delle massime di religione impresse nella loro mente.

                A pegno pertanto di paterna benevolenza Sua Santità comparte di tutto cuore a Lei e a ciascuno dei giovanetti suoi alunni l'apostolica benedizione, nel mentre che io coi sensi di distinta stima e sincero attaccamento ho il bene di rassegnarmi.

 

                Torino, il 2 Maggio 1849.

 

A. B., Arcivescovo di Tarso

Nunzio Apostolico.

 

                Ognuno può di leggieri immaginarsi la contentezza, da cui fu compreso il cuore di D. Bosco e dei giovanetti suoi alla lettura di questo scritto, che loro dava a vedere come il Papa tra le immense sollecitudini pel governo di tutta la Chiesa e in mezzo alle pene e ai travagli del suo esilio aveva avuta l'alta degnazione di volgere un pensiero alla loro pochezza. Quindi un raggio della più viva gioia brillò [524] in quel momento sulla loro fronte, e un grido fragoroso di Viva il Papa, Viva Pio IX echeggiò ripetutamente in tutto l'Oratorio.

                Somma uguale e accompagnata quasi dalle stesse circostanze veniva pur raccolta nell'Oratorio di S. Luigi Gonzaga, dai cooperatori di D. Bosco. A questo proposito a noi piace riprodurre parte di un articolo, che in quell'anno stesso vedeva la luce nel N. 53 del citato periodico l'Armonia.

                “Un dotto e pio collaboratore nel N. 40 di questo giornale ha già richiamata l'attenzione del pubblico sull'Oratorio di S. Francesco di Sales, fondato in Torino dall'egregio sacerdote D. Bosco, che, animato dalla più perfetta carità, dedicò tutto se stesso all'istruzione ed educazione dei poverelli. L'utilità di quest'ottimo istituto non tardò a farsi conoscere, ed umili, savii, santi sacerdoti non mancarono di unirsi al fondatore per propagarne l'idea: fondarono nuove Case, raccolsero intorno a sè i poveri fanciulli e adulti, e prepararono così alla società migliori uomini, sollevandola di molti altri che, incamminati per una via sinistra, dánno poca speranza dei loro avvenire.

                Santa missione! nell'esercizio della quale il sacerdote è coronato di tutto lo splendore del suo carattere ed imita più dappresso il nostro Redentore, il quale davagli questo esempio, compiacendosi di stare in mezzo ai fanciulli, e si lagnava se alcuno avesse cercato di allontanarli da Lui.

                Sono cari a tutti i buoni per questo motivo i nomi del T. Vola, T. Borel, T. Carpano e di D. Ponte, i quali, circondati nei giorni festivi da più centinaia di questi ragazzi, li educano religiosamente e civilmente in una piccola casa dell'Istituto presso la villa reale, il Valentino.

                Invitati a raccogliere dalle mani di quei buoni giovanetti le offerte, che vollero spontanei tributare all'esule [525] Pontefice, abbiamo provata la più soave delle commozioni ed ammirato l'ordine e la docilità che osservano quei ragazzi nelle loro ricreazioni coi superiori. Gradita una tale offerta sarà per certo al Beatissimo Padre, e la benedizione di Lui scendendo su di essi farà si che crescano in virtù e sapienza.

                Visitino i democratici questi luoghi, dove la pietà cristiana opera incessantemente la RIFORMA della società; veggano questi Sacerdoti che rinunziarono ad ogni lusinghiera speranza della vita, che tutto sacrificano per dare alla società migliori cittadini, ed imparino che non le ciance ma le opere giovano, e vedendo quanto paziente e difficile sia la missione dell'Educatore del popolo sappiano profittarne”. Fin qui l'Armonia di quei giorni.

                Ma se D. Bosco, colla venerazione dei suoi Oratorii verso la Santa Sede, aveva cagionata una viva consolazione a Pio IX, un'altra anche più grande desiderò di procurargliene un mese dopo. Il Santo Padre aveva conosciuta la necessità di vietare ai fedeli la lettura di certi libri, scritti da sacerdoti allora in grande fama, i quali avrebbero potuto trarre in inganno gli incauti lettori. Perciò la Sacra Congregazione dell'Indice nel giorno 30 di maggio 1849 aveva proibito il Gesuita moderno di Vincenzo Gioberti, il libro delle Cinque piaghe della Chiesa e l'altro della Costituzione secondo la giustizia sociale, di Antonio Rosmini[37]. Il decreto fu pubblicato [526] a Gaeta il di 6 di luglio. A questo annunzio Vincenzo Gioberti insolenti e scrisse impudentemente: “La censura di Gaeta fece stomaco e riso; io mi farei coscienza di occuparmene. L'interdetto di Gaeta mi fa ingrassare”.

                Ma se Gioberti non si faceva coscienza di sottomettersi alle decisioni della Santa Sede, eravi un sacerdote in Torino che pregava per lui. Riteniamo che D. Bosco nel cercare di avvicinarsi a molti di coloro che militavano nel campo avverso alla Religione, aveva di mira principalmente al bene delle loro anime e della Chiesa. Fino all'eroismo egli ricordò sempre il precetto del Signore, scritto nell’Ecclesiastico: “E comandò a ciascuno di essi di aver pensiero del suo prossimo”[38]. Egli sperò adunque per un istante di poter indurre Gioberti all'obbedienza, poichè qualunque fossero i suoi[39] [527] fini politici, era stato visto prendere in questi ultimi tempi le parti del Papa e cercare la restaurazione del suo regno. D'altra parte vedendolo ripudiato da' suoi, escluso per sempre da ogni ingerenza dalle cose di Stato e da quegli onori al quali anelava la sua ambizione, credette che una buona parola nella sua presente amara solitudine avrebbe forse prodotto nel suo cuore di sacerdote un effetto salutare. Ci voleva una grande fortezza d'animo ad affrontare la tenacia dell'orgoglio con un uomo che aveva fatto tanto per la causa della rivoluzione; ma D. Bosco non esitò. Recitata come era solito in simili circostanze un'Ave Maria e accompagnato dal Teol. Borel, si recava a visitare Gioberti. Dopo aver discorso delle speranze che i buoni avevano riposte in lui per la difesa che aveva voluto assumersi del Papato, lo pregò e lo scongiurò a consolare il Pontefice e ad acquistarsi merito e gloria presso Dio e presso i Cattolici coll'accettare il decreto della Sacra Congregazione dell'Indice e col ritrattarsi. Gioberti, che era di modi squisitamente gentili, non si offese, ma con tono di voce che non ammetteva replica, dichiarò: - La mia ritrattazione consiste nel non rispondere! Basta il mio silenzio! - E così terminò quel colloquio. Di questo tentativo caritatevole di D. Bosco e delle parole di Gioberti rende testimonianza D. Michele Rua.

                Mentre D. Bosco lamentava l'ostinazione di quell'infelice, ebbe la sgradevole sorpresa di scoprire come tutte le sue opere fossero entrate nella casa di Valdocco. L'ex chierico C…, da lui ricevuto nell'Oratorio e abbastanza provvisto di beni di fortuna, essendo ammiratore di Gioberti ne aveva comperati tutti i libri per 120 lire. Fedele osservatore delle leggi della Chiesa, D. Bosco non volle che il giovane ritenesse presso di sè quel libri proibiti, ed avendo egli per motivi gravissimi citato nella Storia Ecclesiastica il nome e qualche [528] periodo di tale scrittore, lo tolse dalle susseguenti edizioni. Così pure, anni dopo, facendosi nell'Oratorio la prolusione ad un'accademia in onore di S. Tomaso, l'oratore prese per testo alcune sentenze di Gioberti. D. Bosco che presiedeva, finita l'accademia, disse in privato all'oratore. - Non son mai da nominare certi personaggi nè fare appello alla loro autorità; altrimenti si accende negli uditori il desiderio di leggere i loro libri, e certamente non ne riceveranno vantaggio.

                Ma in Gioberti avrà lasciata nessuna buona impressione l'ammonizione di D. Bosco? Dopo qualche tempo stabili nuovamente la sua dimora in Parigi, e non ebbe più un istante di pace. Ne' suoi ultimi giorni passò notti agitate da sogni angosciosi, nei quali vedeva strani e paurosi personaggi; ora udiva un suono indistinto quasi fremito di tigri, ed ora gli pareva di stringere la mano di uno scheletro. Nelle sue lettere si sente ad ogni tratto la paura dell'Indice che gli straziava l'anima (1). Terminava la sua vita per un colpo apoplettico nella notte del 25 - 26 ottobre 1852. Si trovò aperto sopra il suo letto il libro dell'Imitazione di Cristo.

                Quanto sarebbe stata felice la sua vita e la sua morte se avesse imitato l'Abate Antonio Rosmini, il quale, da buon prete e da buon religioso ossequente verso l'autorità della Chiesa, accettava rispettosamente il decreto che proibiva i suoi due libri. Ed è per ciò che D. Bosco continuava le sue amichevoli corrispondenze coi Rosminiani, e spediva a Stresa la seguente lettera: [529]

 

                                Carissimo Sig. D. Fradelizio,

 

                Questa mattina con mio piacere pranzai coi due inviati (non plenipotenziarii) che vanno alla Sacra.

                Ecco le 20 copie del libretto il Sistema Metrico che sono al prezzo di centesimi 40 caduno. Mi prendo pure la libertà di racchiudere nel pacco una dozzina di Pensieri Ecclesiastici opera di un'ottimo Ecclesiastico della Capitale, libri che desidero siano propagati...

                Ho due giovani (uno è un po' vecchio) che da qualche tempo insistono perchè li raccomandi all'Istituto della Carità, se mai potessero essere ricevuti. Uno è di professione sarto; dice che sa bene la sua professione, ma trovasi ai quarant'anni. L'altro è nei diciassette, ha compiuto il corso di umanità, è parente dei Beato Sebastiano Valfrè, e ne porta il nome, con parecchie altre buone qualità. L'indole di costui io la scorgo ottima.

                La ringrazio dei parecchi libri recenti che m'inviò, che leggo assai volontieri; mi comandi, e se valgo qualche cosa, me le offro di tutto cuore.

                Di V. S. Car.

 

                Torino, 5 giugno 1849.

 

Aff.mo amico

D. Bosco.

 

                Le risposte che ricevette, facevano eziandio cenno della prova alla quale era stato posto l'Istituto della Carità dalla mano del Signore e mentre rescriveva, raccomandando la diffusione dei suo libro: Il Cristiano guidato alla virtù ecc., aggiungeva una parola d'incoraggiamento: [530]

 

                               Carissimo Sig. D. Fradelizio,

 

                Ho ricevute più lettere da V. S. Car.ma e da alcuni miei figliuoli, i quali tutti cordialmente ringrazio.

                Sul finire dell'anno stimo anche bene darle conto di alcune spese ed esazioni fatte, decorrente quest'anno, come può vedere nella nota ivi racchiusa. Siccome però sovente noto le cose alla sfuggita, così trovando Ella qualche sbaglio io mi rimetto interamente.

                Mando i cinque primi volumetti dell'associazione per Don Paoli, il quale può far chiedere quelli che seguono, al segretario di Mons. Vescovo di Novara, che ne ha incombenza per tutta la Diocesi.

                Veniamo a noi. Che si dice dei preti della Carità? Che si dice della proibizione e della sommissione del Sig. Antonio Rosmini? Tanto in pubblico che in privato si parla assai bene dell'Istituto della Carità. Si loda l'impegno per le scuole e si ammira specialmente perchè i Rosminiani (sono espressioni originali) si uniformano all'insegnamento senza fare il ficcanaso a voler proporre ed usare libri da loro composti. Non così è di altri, che sforzandosi di usare ed introdurre nelle classi i proprii, eccitano presso molti invidia e gelosia e forse anche rivalità.

                In quanto poi all'ottimo Sig. Rosmini pareva che la proibizione dovesse deteriorare la grande sua fama, e nol fu. L'Abate Rosmini si fece conoscere per un dotto filosofo nello scrivere le sue opere; ma si mostrò filosofo profondamente cattolico colla sommissione: mostrò essere coerente a sè stesso e che il rispetto tuttora professato alla cattedra di Pietro, sono fatti e non parole, quali cose non possiamo dire di altri distinti personaggi che un tempo altresì primeggiavano. Come [531] ben vede, queste sono amichevoli espressioni riguardanti al suffragio del pubblico. Per me ho sempre nutrito e nutro tuttora la più schietta e leale venerazione per l'Istituto della Carità e pel veneratissimo suo fondatore.

                Intanto la prego di salutare li miei amici e figliuoli che costì si trovano; e se l'Abate Rosmini già trovasi a Stresa, anche di offerirgli i miei umili ossequii, provenienti da persona a lui non conosciuta, ma che l'ha nella più profonda venerazione.

                Mi ami nel Signore, e se valgo qualche cosa, mi comandi e mi troverà mai sempre.

                Di V. S. Ill.ma e Car.ma

 

                Torino, 5 dicembre 1849.

 

Aff.mo amico

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

 

CAPO XLVIII. Visite dei Vescovi all'Oratorio e festose accoglienze - L'onomastico di D. Bosco e due cuori d'argento - A S. Ignazio sopra Lanzo - Due corsi di esercizii spirituali ai giovani sulle colline di Moncalieri - Liberazione di Roma - Morte di Carlo Alberto - Alcune decisioni dei Prelati subalpini a Villanovetta - Buon esito della prudenza e carità di D. Bosco.

 

                ABBIAMO detto nel capitolo precedente che una delle cause per le quali i giovanetti dell'Oratorio amavano e rispettavano D. Bosco era il rispetto e l'amore che egli professava verso i suoi superiori. Dopo il Papa erano i Vescovi. Riconosceva egli in questi i successori degli Apostoli, messi dallo Spirito Santo a reggere la Chiesa di Dio sotto la dipendenza del Romano Pontefice, e ciò andava predicando del continuo ai suoi alunni insistendo sull'obbligo di obbedire alle loro prescrizioni. Un giorno ammonì un sacerdote che affermava, a metà dell'anno, di non aver egli ancor letto i moniti del calendario liturgico diocesano! - E che cosa legge lei d'importante, gli disse, se non legge questi moniti?

                Quando un Vescovo veniva all'Oratorio all'improvviso, egli si faceva premura di onorarlo nei modi più cordiali e riverenti; e non per mera cortesia ma per istretto dovere di [533] giustizia; e trasmetteva subito ordine a tutti, che gli facessero le accoglienze più festose. Se ne era prevenuto, ne dava con santo giubilo l'annunzio ai giovani, usando le espressioni più energiche per dimostrare qual rispetto era dovuto a tanta dignità. In queste occasioni ci metteva in moto tutto l'Oratorio, si moltiplicava per fare egli stesso o disporre ogni cosa; talora preparava qualche accademia musico - letteraria, e se il Vescovo doveva celebrare la Santa Messa si raccomandava che numerose fossero le comunioni. Il giorno poi dell'arrivo, in mezzo al plauso dei giovani e sovente al suono di una banda musicale, era un giorno di gran festa. D. Bosco accoglieva il Vescovo inginocchiato per terra e lo accompagnava per la casa sempre col suo berretto in mano. Desiderando di aver sovente l'onore di visite così preziose, invitava sempre qualche Prelato alle feste principali dell'Oratorio e per amministrare la S. Cresima; andava a consultarli nelle difficoltà che incontrava nella sua missione o per qualunque altro affare d'importanza; si stimava fortunato quando poteva prestar loro qualche servizio od aiuto.. Per la sua figliale affezione e la santità della vita oltre un migliaio furono le visite di Vescovi che onorarono la casa di Valdocco in tutto il tempo della vita di D. Bosco, venuti da ogni parte dell'orbe cattolico e quasi sempre per trattare di affari riguardanti il bene della Chiesa. Tale frequenza di così eminenti personaggi incominciò nel 1848 e fra i primi non una sola volta veniva il Nunzio Apostolico Mons. Matteucci, il quale strinse con D. Bosco un vincolo d'amicizia che durò, come vedremo, tutto il tempo della sua vita.

                Il Teol. Savio Ascanio vide nell'Ospizio mentre era chierico, Mons. Riccardi Vescovo di Savona, Mons. Moreno d'Ivrea, Mons. Balma Vescovo missionario nelle Indie, e nel 1851 Mons. Cerretti venuto per l'amministrazione [534] della S. Cresima, e altri. Questi indirizzavano quasi sempre un'affettuosa parola ora ai giovani dell'Ospizio, ora a quelli dell' Oratorio Festivo, nel cortile o nella cappella, invitandoli a ringraziare Iddio che li aveva raccolti in quel luogo di benedizioni ed esortandoli a corrispondere agli insegnamenti ed alle cure del loro Padre Don Bosco. Per questi ed altrettali ragioni adunque, l'affetto, la stima, la gratitudine dei giovani verso D. Bosco non aveva limiti. Ma occasione speciale per dimostrare questi loro sentimenti era la festa di S. Giovanni Battista. Nel 1847 e nel 1848 gli alunni interni si erano contentati di leggere alcune brevi ma affettuose composizioni di augurii, i giovani esterni di offrirgli qualche mazzo di fiori. Che potevano allora far di più que' poveretti? Ma l'affezione fu una industriosa consigliera; e forse che sarebbe in errore chi pensasse la colletta per Pio IX e le feste al Vescovi aver suggerito il modo di onorare D. Bosco?

                Or adunque nel 1849 vi fu chi ebbe una felice idea. Carlo Gastini e Felice Reviglio accordatisi in segreto per varii mesi, risparmiando sul cibo e conservando gelosamente le loro piccole mance, riuscirono a comperarsi due cuori d'argento. Erano infastiditi, non sapendo in qual'ora presentare il loro dono; desideravano pure che altri non venisse in cognizione dei loro segreto perchè a D. Bosco tornasse inaspettata la cosa. Eravamo già alla vigilia di S. Giovanni. - Come fare? - si chiedevano a vicenda. La stanza di D. Bosco era vicina a quella ove dormivano gli alunni, perchè egli voleva averli sempre sott'occhio. Quando adunque tutti i giovanetti furono a riposo, Gastini e Reviglio andarono a bussare alla porta di D. Bosco, il quale benchè l'ora fosse molto tarda, essendo ancora in piedi, rispose che entrassero. Pensate la sua meraviglia e commozione nel vedersi [535] presentare quei due cuori d'argento, e nell'udire le poche, ma cordiali parole di augurio di quei suoi due buoni figliuoli.

                Il domani da tutti i compagni si seppe di quel dono, e non senza un po' di gelosia, e proponendo ciascuno che per l'anno venturo si sarebbe fatto una bella festa da tutto l'Oratorio. Frattanto in quel giorno il cortile risuonò più lietamente di quegli inni composti dal Teol. Carpano, che continuamente cantavano i giovani in ogni circostanza e ovunque andassero

 

Andiamo, compagni,

D. Bosco ci aspetta

La gioia perfetta

Si desta nel cuor.

Il tempo è gradito,

C'invita a goder;

Corriamo' all'invito

Di festa e piacer

Lieti, lieti andiamo in fretta,

Abbia ognuno il cuor contento,

Nè mai voce di lamento

Osi il labbro proferir.

 

Ovvero.

 

Viva D. Bosco

Che ci conduce

Sempre alla luce

Della virtù,

Che in lui men lucida

Giammai non fu.

I fuochi accendansi

In questo loco,

S'accenda il fuoco

Del nostro amor,

Per D. Giovanni

Nostro Pastor.

 

                Ma gli anni seguenti, costituitasi una commissione, i giovani interni ed esterni fecero una colletta tra loro e incominciarono a comprare qualche dono da offrire al caro padre. [536] Quindi alla sera della vigilia della festa di S. Giovanni Battista, se era di Domenica, ovvero al giorno del Santo, con gran solennità, musica ed entusiastiche ovazioni, andavano tutti a radunarsi innanzi alla casetta. Una deputazione dei più anziani nel 1850 salì alla camera di D. Bosco e lesse il primo componimento di presentazione del dono, attestando la loro riconoscenza. Egli poi compariva sulla loggia e non è qui facile cómpito descrivere il tripudio di mille cuori sinceri, affezionatissimi, dai quali erompevano sentimenti i più puri, i più figliali, quali sa coltivarli solamente la carità. D. Bosco disse alcune parole di ringraziamento e quindi fu cantato un inno. Questa festa fu rinnovata per alcuni anni colto stesso programma, mentre gli alunni interni non trascuravano di fare una piccola accademiola in famiglia. Non andò molto però che simile festa assunse un aspetto veramente regale per gli apparati, i doni, la lettura dei molti componimenti, e le lettere individuali di ringraziamento, di promesse, di suppliche, di richiesta di consigli, tutte riboccanti di affetto, lettere che D. Bosco gelosamente conservava. Dal 1849 in poi ogni anno si cantò un inno sempre nuovo, musicato da valente maestro.

                Precedeva o susseguiva la festa del padre, la festa dei figli cioè quella di S. Luigi.

                Dopo queste feste D. Bosco preparavasi ad andare al Santuario di S. Ignazio, ove assolutamente chiamavalo la volontà di D. Cafasso. Il santo prete, succeduto al Teologo Guala nell'amministrazione di quel Santuario e nella direzione degli esercizii spirituali, dava mano a' suoi disegni di proseguire il lavoro colossale della strada carrozzabile nella massima parte già compiuta, di accrescere il numero delle celle nel locale per gli esercitandi, di compiere la fabbrica dal lato di levante, di rinnovare con pietre lavorate la grandiosa [537] gradinata che metteva alla chiesa. D. Bosco a S. Ignazio e con D. Cafasso si trovava come a casa sua. Meditava sopra se stesso col ritiro spirituale, confessava molti dei convenuti agli esercizii, e col suo benefattore e maestro prendeva la decisione risoluta di por mano al principio della sua pia Società.

                Ritornato in Torino dispose che in luglio avessero luogo, secondo il consueto, gli esercizii spirituali, per i giovanetti alunni interni e per alunni esterni. Sulle colline di Moncalieri presso S. Margherita sorge una villa, ove a riposo dello spirito e a ristoro delle forze corporali si raccoglieva il Beato Sebastiano Valfrè. Padrone per qualche tempo di quell'incantevole sito fu in quei giorni il Teologo Giovanni Vola, quello stesso che aveva regalato a D. Bosco il suo orologio quando lo incontrò con sua madre che veniva a prendere alloggio in casa Pinardi. Egli invitò D. Bosco a condurre lassù alcuni suoi giovani per il ritiro spirituale. Fu messa in ordine una cappella. Predicarono il Teologo Botto e il Teologo Vola. Don Bosco presiedette, predicò, e tutte le sere faceva ai giovani una breve esortazione. Il primo corso di esercizii occupò la prima settimana di luglio, e i giovani furono ventotto. Il secondo corso incominciò il 23 luglio lunedì e terminava al sabato, e si radunarono trentanove giovani, due dei quali venuti da Moncalieri, quattro da Cambiano e quattro da Chieri. D. Bosco scrisse i nomi di tutti questi giovani, e noi li conserviamo come preziosa memoria di quei fortunati[40]. La casa non era vasta, e furono [538] occupati perfino i sottoscala e i sottotetti. Le stanze erano sprovviste dei mobili anche più necessarii. D. Bosco raccontava più tardi, e con enfasi, gli aneddoti succeduti in conseguenza di tali strettezze sia pel dormire, sia pel mangiare; nonchè l'industriosa sollecitudine congiunta ad ammirabile pazienza dei giovani stessi nell'adattarsi alla meglio, tollerando con allegria gli incomodi inevitabili. Una panca, due sedie, un asse, una coperta per terra, un pagliericcio erano i loro letti.

                È nella domenica intermedia fra questi due ritiri spirituali, il 15 del mese, che i Francesi, dopo lunghe trattative e disperati combattimenti, entravano a forza nella capitale del mondo cattolico spiegandovi la bandiera pontificia, ma lasciando che i capi settarii potessero mettersi in salvo ed ordire nuove congiure. Il generale Oudinot aveva mandate immediatamente al Papa le chiavi di Roma.

                Ma se D. Bosco fu consolato da questa notizia, ne giunse in Torino un' altra che lo addolorò profondamente con i [539] suoi figli. Aggravato in Oporto dal peso della sventura e dall'incrudelire di un'antica malattia, Carlo Alberto, munito dei conforti della nostra santa Religione, era spirato da vero cristiano il 28 luglio. D. Bosco fece pregare, come era doveroso per un sovrano che egli stimava ed amava assai, e che più volte aveva beneficata e protetta la sua Istituzione. Il suo dolore però era unito alla speranza, essendo stato questo Re molto devoto di Maria Consolatrice e pieno di carità verso i poveri. Sopra il suo feretro non si ebbe a sentire stringere il cuore da tremende dubbiezze circa gli eterni destini dell'anima sua. Anzi di quando in quando, come un caro ricordo, Carlo Alberto si affacciava alla mente di D. Bosco che molti anni dopo, in poche parole ci esponeva, ed eravamo due soli, una graziosa fantasia che eragli durata tutta la notte.

                “Mi parve di essere nel dintorni di Torino, e passeggiare in mezzo ad un viale. Ed ecco venirmi incontro il Re Carlo Alberto, il quale sorridente si fermò a salutarmi. - Oh Maestà! - esclamai.

                - E come state, D. Bosco?

                - lo sto bene e son troppo contento d'averla incontrata

                - Se è così, volete accompagnarmi in questa passeggiata?

                - Volentieri!

                - Dunque andiamo! - Ci siamo messi in cammino verso la città. Il Re non indossava nessuna insegna della sua dignità vestiva panni bianchi, ma non candidi.

                - Che cosa dite di me? - ripigliò il Sovrano.

                Risposi: - So che Vostra Maestà è un buon cattolico.

                - Per voi sono qualche cosa di più ancora: io ho sempre amata l'opera vostra, sapete. Ho sempre avuto gran [540] desiderio di vederla prosperare. Avrei voluto aiutarla molto e molto, ma gli avvenimenti me lo impedirono.

                - Se è così, Maestà, io Le farei una preghiera.

                - Parlate.

                - La pregherei ad essere priore della festa di S. Luigi che facciamo nell'Oratorio in quest'anno.

                - Volentieri, ma intendete anche voi che la cosa farebbe troppo rumore: sarebbe un fatto inaudito, quindi non pare che sia conveniente tanta confusione di festa. A tutti i modi vedremo come possiate essere contento, anche senza la mia presenza.

                Continuando a parlare di varie altre cose siamo giunti ambedue vicino al Santuario della Consolata. Quivi era come un'entrata sotterranea, quasi alle falde di un'alta collina, e il cunicolo, che era strettissimo, invece di discendere saliva. - Bisogna passare di qua, - mi disse il Re; e piegate le ginocchia e abbassata fino a terra la maestosa sua fronte, così prostrato incominciò a salire e disparve.

                Allora, mentre io esaminava quell'entrata e cercava collo sguardo di scrutare quelle tenebre, mi svegliai”. Esaminando la data di questo sogno, abbiamo trovato che poco dopo l'Oratorio riceveva un grazioso sussidio dalla Casa Reale. Il cuore di D. Bosco era all'unisono verso Carlo Alberto con quello di Pio IX e del venerabile Cottolengo, e ai suoi giovani era riserbato l'onore di cantare più volte nella metropolitana la Messa da Requiem nel giorno anniversario della sua morte.

                Ripigliamo il nostro racconto. Il 25 luglio i Vescovi subalpini, essendo sempre lontano dalla sua archidiocesi Monsignor Fransoni, per cinque giorni si radunarono in Congresso a Villanovetta nella Diocesi di Saluzzo, col fine di prepararsi alle gravissime lotte che presentivano imminenti. Non è nostro [541] scopo esporre le prese deliberazioni; accenneremo soltanto ciò che può riguardare D. Bosco. Si promossero adunque pubbliche preghiere perchè il Signore ispirasse al Papa la definizione dogmatica della Concezione Immacolata di Maria SS., e nell'Oratorio si incominciarono tosto tali supplicazioni perchè D. Bosco troppo era acceso di ardentissimo desiderio di vedere coronata la sua Madre celeste con questa nuova e a Lei dovuta corona. Più volte ce lo affermava D. Reviglio Felice.

                Si creò una commissione di Vescovi per la preparazione di un catechismo unico, adottando per norma quello del Vescovo Casati di Mondovì e del Cardinale Costa di Torino. Fra questo un voto di D. Bosco, ed avealo già palesato a Mons. Fransoni. Frequentando il suo Oratorio giovani di ogni provincia e di ogni diocesi, un testo unico era convenientissimo perchè non si confondessero le idee di quelli che dalla diocesi di Torino ritornavano alle proprie, quivi ritrovando formole diverse da quelle che avevano imparato per esprimere le verità della religione. Questo progetto non fu allora tradotto in pratica.

                Infine si deputarono i Vescovi di Mondovì e d'Ivrea a comporre un disegno di associazione per la stampa e diffusione dei buoni libri e così combattere le massime propugnate dal giornalismo irreligioso contro la fede, l'autorità della Chiesa ed il buon costume. È da questo punto che D. Bosco incominciò ad ideare le Letture Cattoliche e a trattrarne poi con Mons. Moreno nelle frequenti visite che a lui faceva ad Ivrea, o quando accoglievalo all'Oratorio.

                Aggiungeremo ancora come un non leggero motivo avesse D. Bosco di ringraziare il Signore, poichè egli era riuscito, pel dono della prudenza, a passare incolume in mezzo a tante passioni politiche e religiose, senza venir mai a patti [542] coll'errore, o compromettere il suo carattere di sacerdote. La sua carità verso gli uomini di tutti i partiti lo facevano ben volere da quanti non erano accecati dall'empietà. Ritornata Venezia in potere degli Austriaci il 24 agosto, dopo mesi di valorosa resistenza, alcune famiglie di que' profughi ed esiliati trovarono in lui un cuore che seppe compatirli e soccorrerli. È per ciò che in Torino ei godeva la simpatia ed anche la protezione di un gran numero di liberali. Prova di che è un articolo del Giornale della Società d'Istruzione e d'Educazione anno I, fascicolo 13 e 14 mese di luglio 1849, Torino, scritto dal Professore della Regia Università, Casimiro Danna che apparteneva al partito dominante. Dopo aver esposto quanto si era operato per le pubbliche scuole così continuava:

                “Se non che mentre il Racheli lo spirito educativo diffonde sulle classi che possono inviare i loro figliuoli alla scuola, un altro non men generoso pensa ai figliuoli di quelle o che sono talmente misere che non possono, o talmente dall'ignoranza abbrutite che trascurano dare ogni barlume d'istruzione, ogni sentimento alla loro prole che si trascina nel fango, ultimo anel della social catena. - lo voglio dire la scuola domenicale di D. Bosco, sacerdote che non posso nominare senza sentirmi compreso della più schietta e profonda venerazione. Fuori di Porta Susa, in quel gruppo di case che tutti conoscono sotto la comune denominazione di Valdocco, egli stabilì un Oratorio intitolato di S. Francesco di Sales. Non a caso e non invano. Perchè più che il titolo, lo spirito di quell'apostolo ardente del diritto Zelo che smisuratamente in cuore avvampa, trasfonde nel suo istituto quest'ottimo prete, il quale ha consacrato se stesso ad alleggerire i dolori del popolo misero, nobilitandolo nei pensieri. E sarà lode assai il raccontar quel che fece, e fa tuttodì [543] mostrando come la religione nostra sia religione di civiltà. Egli raccoglie ne' giorni festivi, là in quel solitario recinto da 400 a 500 giovanetti sopra gli otto anni, per allontanarli da pericoli e divagamenti, e istruirli nelle massime della morale cristiana. E ciò trattenendoti in piacevoli ed oneste ricreazioni, dopo che hanno assistito ai riti ed agli esercizii di religiosa pietà, lui pontefice e ministro, maestro e predicatore, padre e fratello, colla più edificante santimonia compiti. Loro insegna inoltre la Storia Sacra e l'Ecclesiastica, il Catechismo, i principii d'Aritmetica. Li esercita nel sistema metrico decimale, e quei che non sanno, anco nel leggere e scrivere. Tutto questo per l'educazione morale e civile. Ma non trasanda la fisica, lasciando che nel cortile, posto a fianco dell'Oratorio e chiuso d'ogni intorno, negli esercizii ginnici, o trastullandosi colle stampelle o all'altalena, colle piastrelle o ai birilli crescano, rafforzino la vigoria del corpo. L'esca con cui attrae quella numerosissima schiera oltre i premii di qualche pia immagine, oltre le lotterie, e talvolta qualche colazioncella, si è l'aspetto sempre sereno, e sempre vigile nel propagare in quelle anime giovanette la luce della verità e del vicendevole amore. Pensando il male che evita, i vizii che previene, le virtù che semina, il bene che fruttifica, pare incredibile che l'opera sua potesse avere impedimenti e contrarietà. E per parte di chi? Per parte di coloro ai quali molti difetti si possono perdonare, ma non l'ignoranza: che l'educare dovrebbero reputare parte nobilissima del ministero evangelico: che dovrebbero anzi ringraziare D. Bosco. Perocchè ben lungi di distogliere dalle pratiche di religione i giovanetti, è tutto volto ad istruire in essa coloro, che abbandonati dai genitori non andrebbero mai alla parrocchia, o andandovi potrebbero sfuggire all'influenza benefica de' catechizzanti. La povertà di moltissimi [544] meschinetti fa comparire agli occhi del mondo le loro anime meno preziose, e talvolta alcuni degli operai evangelici non si prendono così sollecito pensiero a coltivare la pietà, massime nelle città popolatissime, quando si presenta sotto lacere vesti. Perciò in queste alligna la mala semenza de' vizii, e mentre dai tribunali severe pene promulgansi contro i disordini infesti alla società, intanto dentro le proprie mura s'allevano i malfattori. Già da 7 anni incominciato l'istituto di D. Bosco, con sapienza più che regale venne protetto da Carlo Alberto, che bene ravvisò l'utile immenso che può recare alla pubblica moralità. E tanto va via crescendo l'affluenza de' giovani, che si dovette ripartire in due. E un altro Oratorio detto di S. Luigi, quindi s'aprì a Porta Nuova tra il viale de' Platani e quello del Valentino, diretto dal Sig. Teol. Carpano, pio, zelante e già degno collaboratore di lui che lodiamo. Una tuttavia è la vita, uno lo spirito, uno lo scopo de' due Oratorii. Anche un terzo s'era già: iniziato in Vanchiglia mercè le sollecite cure del vicecurato dell'Annunziata D. Cocchis, ma, oh quanto mi duole che per non so quali motivi sia cessato!

                Ma quello che dà massimamente a D. Bosco diritto alla gratitudine cittadina si è l'ospizio, che là nella stessa casa dell'Oratorio, dischiuse a fanciulli più indigenti e cenciosi. Quando egli sa o incontra alcuno più dalla squallidezza immiserito, non lo perde più d'occhio, lo conduce a sua casa, lo ristora, lo sveste de' luridi, gl'indossa nuovi abiti, gli dà vitto mane e sera, finchè trovatogli padrone e lavoro sa di procacciarli un onorato sostentamento per l'avvenire, e può accudirne con maggior sicurezza l'educazione della mente e del cuore. Alcuni sacerdoti concorrono ai molti dispendii che quest'opera inestimabile richiede. Ma la maggior parte la sostiene del suo questo verace ministro di Colui, che si disse mite e [545] ricreatore degli spiriti travagliati. Oh l'esempio imitabile che ei porse agli altri come s'abbiano ad usare le ricchezze! Non sempre giova abbandonare in un tratto ogni rendita di bene terreno, che può in mani provvide farsi strumento di carità generosa. La povertà sta nell'animo alieno così dalle ricchezze che non si posseggono, come da quelle che si hanno.

 

CASIMIRO DANNA”.

 

 

CAPO XLIX. D. Bosco risolve di dar principio alla Pia Società di S. Francesco di Sales - Tempi difficili per aver vocazioni  - Scelta di quattro giovanetti popolani dell'Oratorio - Don Bosco incomincia ad iniziarli nella grammatica italiana e latina: rapidi progressi. Scuola continua ai Becchi - Due lettere di D. Bosco scritte da Morialdo al Teol. Borel - Indirizzi al Governo perchè sia richiamato l'Arcivescovo in Torino - Un assassino convertito e confessato.

 

                L’IDEA fissa di D. Bosco era di aver col tempo sacerdoti suoi coadiutori per gli Oratorii festivi, e per altri suoi vasti progetti. Sovente il giovane Michele Rua l'udì esclamare: - Oh se avessi dodici sacerdoti a mia disposizione, quanto bene si potrebbe fare! Vorrei mandarli a predicare le verità di nostra santa Religione non solo nelle chiese, ma persino nelle piazze! - E gettando talora gli sguardi su qualche carta del mappamondo, sospirava nel vedere come tante regioni ancora giacessero nell'ombra della morte, e mostrava ardente desiderio di poter un giorno portar la luce del Vangelo in luoghi non raggiunti da altri missionarii.

                Fin dal Convitto di S. Francesco di Assisi aveva fatto scuola a giovani da lui giudicati atti a coadiuvarlo. I primi furono quattro: Piola, Occhiena, Boarelli e Genta. Aveva [547] concepite le più belle speranze; ma costoro vicini ad essere chierici, lo abbandonarono. Due altre volte ritentava la prova, e dopo aver consumato tempo e fatica la prova falliva; perchè i giovani, o distolti dalla famiglia, o altrimenti dissuasi lasciavano gli studii e spesso anche l'Oratorio. Cercò di radunare i preti che venivano pel catechismo, propose loro di far vita comune; di questa dimostrò i vantaggi pel bene delle anime, ma le sue esortazioni approdarono a nulla.

                Come fare adunque per raggiungere il suo scopo? Se avesse fatto appello alle persone di buona volontà che sono nel mondo non avrebbe trovato chi gli rispondesse, poichè egli, obbedendo alla sua missione, voleva fondare una congregazione religiosa e in tempi nei quali tutto cospirava contro il suo disegno. I governi si accingevano a guerra spietata contro gli ordini religiosi, alla confisca dei loro beni, alla loro soppressione. Qualche congregazione era già stata dispersa. Teatri, romanzi, fogliacci, colle calunnie più infami ed atroci, e col ridicolo sparso a piene mani facevano abborrire dal popolo la vita del chiostro. La società era imbevuta di pregiudizii: in pubblico sovente si manifestava il dispregio per i religiosi. La parola frate suonava vilipendio presso di tutti. Lo stesso clero secolare in gran parte era ostile alle tuniche e alle cocolle, chi per interesse, chi per gelosia. Molti fra gli stessi religiosi malvolentieri portavano il giogo della regola, e sembravano dar ragione alle critiche e alle invettive degli empi, dei giornalisti e dei romanzieri. Tutto queste cause rendevano difficilissimo trovare anche poche vocazioni a così nobile stato.

                Eppure D. Bosco doveva rintracciarle, doveva ragunare le pietre di un grande edifizio spirituale, doveva formarsi un popolo di religiosi. Era questa la sua missione, e lo spirito del Signore gli fece intendere il mistero del sogno, nel quale [548] le belve si erano mutate in agnelli e un numero di questi in pastori. Bisognava adunque che si rivolgesse a quella classe di giovani che gli era stata indicata. Ma prevedeva che questi eziandio gli avrebbero voltate le spalle se sul bel principio avesse chiaramente detto di volerli fare religiosi. Perciò avrebbe dovuto procedere con grande cautela e guadagnar terreno passo a passo nei loro cuori senza che se ne accorgessero.

                La sua impresa era delle più ardue.

                I fondatori di tutti gli altri ordini religiosi avevano trovati, tra coloro che per i primi si aggregarono alla lora società, uomini maturi per virtù, scienza, esperienza di cose di mondo e di spirito. Erano vocazioni formate, che bisognava e si potevano provare, anche mettendole a duro cimento. Il mondo allora faceva plauso a chi si consecrava a Dio.

                Per D. Bosco la cosa nonandava così. Egli doveva fondare una Congregazione senza averne, umanamente parlando, gli elementi. Non si trattava di provare le vocazioni, sibbene di crearle. Se voleva cooperatori pii e dotti, egli stesso avrebbe dovuto formarseli. Neanco a parlare d'esperienza o di cose di spirito o di cose di mondo. D. Bosco stesso avrebbe dovuto infonderla in coloro che si sarebbero messi alla sua sequela.

                Da solo, senza mezzi o appoggi umani, doveva togliere di mezzo ad una strada, da un'officina, qualche giovane fra i mille che frequentavano l'Oratorio: aiutarlo a riformare la sua condotta morale, avviandolo alla frequenza dei sacramenti; insegnargli il catechismo e i primi elementi della grammatica italiana e latina; provvederlo di letto, vestito e vitto; procurargli i mezzi dì andare innanzi nelle classi superiori; quando fosse sufficientemente istruito mettergli la veste clericale, e preporlo per maestro agli altri compagni che fossero sopravvenuti, mentre avrebbe nello stesso tempo [549] studiata la filosofia e la teologia fino ad essere prete: ecco il suo progetto che, suggerito dalla Madonna e maturato da lui per molto tempo, doveva dargli a poco a poco il personale necessario al suo divisamento. Egli adunque a S. Ignazio sopra Lanzo Torinese aveva deciso risolutamente di metter mano a questa impresa.

                Perciò aveva preparati col Teol. Vola quegli esercizii spirituali dei quali abbiamo più sopra parlato. A questi in due riprese radunò settantun giovani, scelti fra le centinaia dei due Oratorii. In quei giorni li studiò particolarmente, per iscoprire se in alcuno di essi si manifestasse qualche segno di vocazione allo stato sacerdotale. Di tanti ne prescelse tre fra i migliori: Giuseppe Buzzetti, Carlo Gastini e Giacomo Bellia, nei quali aveva scorto assai felici attitudini, e nei quali l'intelligenza, il buon volere e la singolare pietà davano speranza di felice riuscita. Ne aggiungeva un quarto, ed era Felice Reviglio, il quale essendo infermo non aveva potuto recarsi cogli altri a quel ritiro spirituale. Questi D. Bosco aveva stabilito di farli cessare dal lavoro manuale, esperimentarli per alcuni mesi, sottoponendoli a varie prove, specialmente coll'obbedienza, per conoscere da quale spirito fossero animati, e quindi avviarli agli studii. Ma fra tutti e quattro il solo Bellia aveva frequentate le scuole elementari sino a corso completo; gli altri, giunti, a così dire, a forza di spinte a far bene o male il loro nome, non erano andati più oltre, essendo occupati nel loro mestiere.

                In un giorno dei mese di luglio D. Bosco chiamava a sè Buzzetti, Gastini, Bellia e Reviglio e con un tono singolare di voce disse loro: - Ho bisogno di raccogliere giovanetti che mi vogliano seguitare nelle imprese dell'Oratorio. Accettereste voi di essere i miei aiutanti?

                - E in che cosa potremo aiutarla? [550]

                - Incomincierò a farvi un po' di scuola elementare, vi insegnerò i primi rudimenti della lingua latina, e se tale fosse la volontà di Dio, chi sa che a suo tempo possiate essere suoi sacerdoti.

                - Sì, sì, - risposero tutti e quattro ad una voce.

                - Ma perchè possiate giungere fino a quel punto ci vogliono molte cose, e principalmente che vi rassegniate ad essere nelle mie mani come questo fazzoletto.  In così dire trasse di tasca la sua pezzuola e si diede a sfilacciarla sotto i loro occhi; indi soggiunse: - Come mi avete veduto fare a questo fazzoletto, così bisognerebbe che lo potessi fare di voi; cioè lo vorrei vedervi obbedienti in tutto, qualunque fossero i miei desiderii. - I giovani promisero, accettarono quanto loro aveva proposto, e seco restarono convenuti in quanto alla scuola.

                D. Bosco intanto faceva affiggere qua e là alle pareti dell'Oratorio molti cartelli coll'iscrizione: - Ogni momento di tempo è un tesoro. - Benchè egli desiderasse far presto, considerando che l'ignoranza de' suoi allievi non era punto minore della loro buona volontà, riflettè che per gente ignara di ogni altro lavoro che non fosse dell'officina era come trovarsi in un mondo nuovo; e volle che in questo fossero introdotti passo a passo. Quindi nell'agosto 1849 assegnò loro per maestro dei primi rudimenti della grammatica italiana il Teologo Chiaves, ed essi andavano alle sue lezioni in casa sua presso S. Agostino. Dopo un mese di prova, riuscita felicemente, D. Bosco stesso incominciò a dar loro con una pazienza ammirabile le prime nozioni della lingua latina.

                Mediante il continuo suo insegnamento, dato non solo ad ore prefisse, ma talora eziandio durante il tempo della ricreazione e della sua refezione, riusciva a far loro imparare, [551] nello spazio di un altro mese, le cinque declinazioni, le quattro coniugazioni, e ad esercitarli nelle prime traduzioni dette volgarmente latinetti.

                Alla metà di settembre ei condusse i suoi allievi alla casa paterna dei Becchi, perchè potessero prendere un po' di riposo e di svago. Giunto a Morialdo, scriveva la seguente lettera al Teol. Borel che in sua assenza assumeva sempre la direzione dell'Oratorio di Valdocco.

 

                               Carissimo Sig. Teologo,

 

                Stimo far cosa grata alla S. V. Car.ma il dare un ragguaglio sul nostro viaggio.

                Partiti col vapore alle sei del mattino da Torino, andammo felicemente fino a Valdichiesa, dove siamo smontati. Giunti alle cascine de' Savi, dovetti essere testimonio di un tetro spettacolo. Era la sepoltura di un fratello ucciso da un'altro fratello. Il fatto era avvenuto così. Fra le buone e fra gli alterchi questi due fratelli si erano già divisa la paterna eredità; rimaneva solo un po' di concime. Le parole e le villanie giunsero a tal segno, che, non potendo più in alcun modo accordarsi, nell'eccesso di furore il maggiore s'avventò sopra il minore e con un coltello lo trapassò. L'ucciso è nubile, d'anni 18: l'uccisore è padre di famiglia d'anni 24. Oh! maledetti alterchi. Un altro caso anche strano: fu un uomo trovato morto in un bosco, di qui poco distante, e già putrefatto per metà. Questi era di Chieri, e si dice che vaneggiasse alquanto.

                Lunedì e martedì fui assai male in salute. Ieri ed oggi mi sento di gran lunga meglio; di giorno in giorno spero grande acquisto di sanità.

                Giudico di grande vantaggio la partita che abbiamo ideata, cioè che Lei col Teol. Carpano, col Teol. Vola [552] vengano a fare una gita fin qui. Valdichiesa, Croce grande, Morialdo ossia casa di D. Bosco sono l'itinerario.

                Quivi stanno tutti bene; solo a Gastini continuano le febbri.

                Io, mia madre, tutti i figliuoli salutano Lei, il Sig. Don Pacchiotti, T. Bosio, il D. Vola ecc., e mi creda sempre, quale di tutto cuore mi dichiaro nel Signore di Lei car.mo

 

                Castelnuovo d'Asti, 20 Settembre 1849.

 

aff.mo amico

Sac. Bosco Giov. capo de' biricchini

 

                P. S. - Può affidare i divertimenti al suo Agostino, che giudico capace di averne cura, specialmente unendosi con Arnaud.

 

                Mentre D. Bosco era a Castelnuovo, sentivasi in Torino sempre più il bisogno di riavere l'Arcivescovo, ormai da troppo tempo tenuto lontano dal regno. I Canonici della metropolitana avevano domandato al Governo che lo richiamasse e lo proteggesse. Il cavaliere Edoardo della Marmora, amico di D. Bosco e che frequentava l'Oratorio di Valdocco, preparava per questo stesso fine una petizione, da presentarsi al Ministro dell'Interno, sottoscritta da ben 10.154 firme di laici. Il Governo però fin dai primi tempi del Ministero Gioberti aveva deciso di privare, a tutti i costi, Mons. Fransoni della sua sede, ed un giornalismo empio ed immorale continuava a vomitare contro di lui calunnie ed insulti. Ciò non pertanto l'imperterrito Prelato, saputo il movimento dei buoni in suo favore, era entrato in Savoia, mandando ordine che gli fosse preparata la sua villa di Pianezza ove faceva [553] conto di prendere stanza. Essendosi di ciò accorto il Governo, gli fece scrivere da Mons. Charvaz, come il Re non gradisse il suo ritorno in diocesi. E l'Arcivescovo si fermò nell'Episcopio di Chambery.

                Erano queste le novelle che il Teol. Borel mandava, rispondendo a D. Bosco, mentre davagli conto di ciò che facevasi nell'Oratorio. Intanto scusavasi del non poter recarsi a Morialdo, dovendo egli aiutare i canonici della SS. Trinità nel far sottoscrivere al clero un'istanza ragionata alle Autorità civili, perchè fosse tolto un divieto ingiusto per l'Arcivescovo, dannoso per la diocesi.

                D. Bosco rimandava allora al Teologo un biglietto in questi termini:

 

                               Carissimo Sig. Teologo,

 

                Lodo a tutto cielo la intrapresa sottoscrizione di cui desidero anch'io far parte; però credo che una giornata non ritarderà l'opera, giacchè se vengono gli altri preti e non V. S. credo che la partita tornerà di poco profitto. Godo che l'Oratorio sia andato bene e spero che il Signore ci vorrà continuare la sua benedizione. Dica solo al T. Vola che sia più breve nel predicare, altrimenti l'Oratorio del mattino diminuisce. Tanti saluti a' soliti amici, e mi creda quale di tutto cuore mi dico

 

                Morialdo, 25 Settembre 1849.

 

aff.mo amico

Prete BOSCO.

 

                Frattanto D. Bosco fin dal primo giorno che era giunto ai Becchi non aveva interrotta la sua scuola. Riposare per lui non significava oziare. I suoi discepoli imparavano [554] quasi senza avvedersene dietro la viva voce del maestro. In tempo di colazione, di pranzo, di cena il tema della conversazione era normalmente vario. Fra un boccone e l'altro si parlava sempre di declinazioni e di coniugazioni. Sovente li conduceva a qualche paesello vicino, o nelle vigne mentre si vendemmiava; ma non omettevansi mai quelle lezioni. Unicamente con tanta tenacità di sacrifizio e di dolce energia ei potè rendere i suoi allievi atti a subire con buon risultato gli esami di grammatica sul finire dell'ottobre.

                D. Felice Reviglio l'11 agosto 1889, inaugurando una lapide posta al Becchi presso la casa dove nacque D. Bosco, concludeva il suo magnifico discorso con queste parole.

                “Addio luoghi benedetti, che mi richiamate alla mente i singolari tratti di bontà del mio insigne benefattore. Questi filari di viti, questi prati furono già le cattedre da cui istruiva nel rudimenti della lingua latina i suoi primi figli, che avviava alla carriera ecclesiastica. Tra il lavoro, nelle passeggiate, alle refezioni cori pazienza ammirabile ci faceva scuola, ripetendoci cento volte le medesime regole, rafforzate da frequenti esercizii, se occorreva, e avveniva di spesso, sino a che sapessimo dare la ragione, l'ultimo perchè delle nostre risposte. Quante volte pel timore d'esser interrogato mi teneva lungi dal mio buon maestro ed Egli chiamarmi dolcemente e propormi latinetti da tradurre, nomi da declinare, verbi da coniugare. Sebbene fossimo tardi nell'imparare, non si stancava d'insistere... Addio, casa diletta, in cui ho ricevuto prove di paterna predilezione perchè mi infervorassi nel bene”.

                È in questo autunno che D. Bosco incontrossi in un giovane di anni 15, che un giorno sarebbe stato suo appoggio e braccio in molte imprese, testimonio fedele delle sue virtù e che doveva morir missionario nella Repubblica dell'Equatore. Andato a Ramello, Borgata di Castelnuovo d'Asti, in [555] casa di Carlo Savio per comperare delle uve, questi, che era padre del chierico Ascanio, e aveva preparato un pranzo per i giovani dell'Oratorio, presentò a D. Bosco un altro suo figliuolo di nome Angelo e lo pregò a volerlo annoverare tra i suoi discepoli. D. Bosco lo accettò volentieri e l'anno seguente 1850 egli stesso lo condusse a Torino.

                Celebratasi la novena e la festa dei Santo Rosario i giovani lasciarono i Becchi e D. Bosco dopo qualche giorno doveva raggiungerli in Torino.

                Una sera D. Bosco soletto soletto, dalla borgata dei Becchi si recava a Buttigliera, o, come altri racconta, da Capriglio a Castelnuovo. Giunto a metà del cammino sulla strada pubblica, fiancheggiata da un bosco che rendevala scura e deserta, a un tratto scopre un giovinotto seduto sopra una ripa, il quale vedendo il prete che gli si avvicinava scese e gli venne incontro chiedendo soccorso. La sua voce però minacciosa faceva intendere come la sua preghiera equivalesse ad un'intimazione. D. Bosco senza turbarsi si fermò e gli disse: Abbi pazienza un momento.

                - Che pazienza! datemi subito i danari, o che lo vi uccido.

                - Danari per te io non ne ho; in quanto alla vita me l'ha data Iddio ed Egli solo me la può riprendere. - In quel luogo, senza testimonii, un colpo era presto fatto. Ma D. Bosco, benchè il giovane avesse il cappello sugli occhi, lo aveva riconosciuto pel figlio di un proprietario dei dintorni; tanto più che avevalo catechizzato e confessato nelle carceri di Torino, dalle quali era uscito da pochi giorni e per sua raccomandazione al Procuratore del Re. Il giovane in quel momento e per la notte che era molto oscura e per il turbamento naturale che agitavalo nel commettere il delitto, non ravvisava chi fosse l'aggredito. Perciò D. Bosco, alzando il capo, continuò sottovoce: - Come! e tu, Antonio, fai questo [556] brutto mestiere? Così mantieni le tante promesse che mi hai fatte, sono pochi giorni... in quel luogo... là... presso S. Agostino, di non più rubare?

                Il disgraziato, che da queste parole aveva riconosciuto D. Bosco, rimase avvilito e, abbassata la testa: - Ha ragione, rispondeva... ma, vede bene... la necessità ho rossore a ritornare al mio paese. Del resto io non sapeva che fosse lei. Se l'avessi riconosciuto, non le avrei mai fatto simile affronto... Le chieggo perdono.

                - Ciò non basta, mio caro Antonio, bisogna mutar vita. Tu stanchi la misericordia di Dio, e se non fai presto a convertirti, temo che ti manchi il tempo.

                - Certo che desidero mutar vita: glielo prometto.

                - Non basta ancora; bisogna incominciar subito e confessarti, perchè se morissi adesso, saresti perduto per sempre.

                - Ebbene, mi confesserò.

                - E quando?

                - Anche subito se vuole: ma non sono preparato.

                - Ti preparerò io. E tu prometti al Signore di non, offenderlo più.

                D. Bosco, preso quel poveretto per mano, salì con esso per quella ripa, s'inoltrò alquanto in mezzo agli alberi, sedette sopra un rialto erboso e gli disse: - Inginocchiati qui. - Il giovanotto s'inginocchiò a lui vicino, e commosso fino alle lagrime, si confessò, dando tutti i segni di un vero dolore. Ciò fatto, Don Bosco gli donò una medaglia di Maria Immacolata e quel po' di danaro che aveva seco, e lo condusse con sè a Torino. Questo giovane era stato imprigionato per il furto di un orologio, e il padre avevalo scacciato di casa pel disonore che aveva recato alla famiglia. D. Bosco, dopo averlo indotto a vivere onestamente, gli procurò un impiego, ed egli visse poi sempre da uomo dabbene, buon cristiano e virtuoso padre di famiglia. [557] Mentre D. Bosco rientrava in Torino, il 12 ottobre, vi giungeva, sbarcata a Genova, la salma dei Re Carlo Alberto, la quale, dopo i solennissimi funerali nella metropolitana, fu portata nella basilica di Soperga e deposta nei sepolcri reali. Era eziandio arrivato in tempo per apporre la sua firma alla istanza promossa dai Canonici della SS. Trinità, la quale sottoscritta da oltre mille Ecclesiastici, il 25 ottobre 1849 era presentata al ministro di Grazia e Giustizia. D. Bosco sospirava con ansietà ed amore la presenza del suo Arcivescovo; con lui aveva tenuta corrispondenza per lettere ed aveva ricevuto da quel buon pastore qualche somma pel suo Oratorio. Nel registro delle elemosine e delle spese il Teol. Borel notò che Mons. Fransoni il 5 febbraio 1849 aveva elargite 100 lire. Ma soprattutto era necessaria una sapiente e ferma direzione pel clero. Il Governo il 15 ottobre poneva un nuovo incaglio alla Chiesa, nell'esercizio de' suoi diritti, vietando con legge ai corpi e alle persone morali, ed erano le persone e le istituzioni Ecclesiastiche, l'acquistare stabili anche per disposizioni testamentarie, venderli, far locazioni di lunga durata, senza l'autorizzazione del Governo, previo il parere del Consiglio di Stato.

 

 

CAPO L. Apertura dell'Oratorio dell'Angelo Custode - Primordii difficili - I Direttori - Imprudenza di un catechista e sue conseguenze - Frutti consolanti - D. Bosco, D. Verri, D. Olivieri e i fanciulli africani riscattati - Speranze di future missioni per la salvezza eterna dei Moretti - Eroica decisione di D. Biagio Verri presa nella Cappella dell'Oratorio di Valdocco - Sua grande stima per le virtù di D. Bosco.

 

                NON è cosi facile tener dietro con ordine alle incalzanti nuove opere che D. Bosco intraprendeva o proseguiva simultaneamente a gloria di Dio, le une di natura diversa, le altre omogenee e fra loro collegate. Nella seconda metà del 1849 egli erasi eziandio occupato nell'aprire un suo terzo Oratorio festivo in Vanchiglia.

                L'Oratorio, o ricreatorio, che dir si voglia, di Don Cocchis era stato chiuso. Riaccesa la guerra coll'Austria si eccitò in quei giovani, già usi a maneggiare il fucile e la spada, un grande ardore bellicoso; quindi, ansiosi di poter dalle manovre passare ai fatti e misurarsi col nemico, domandarono ed ottennero di marciare alle patrie battaglie. In numero di circa 200, accompagnati da D. Cocchis, che non poteva reggere al pensiero di abbandonarli soli a quello sbaraglio, partirono da Torino, colle armi chieste ed ottenute dal [559] Governo. Nella loro fantasia speravano essi di potersi coprire di onorata polvere: ma disgraziatamente dopo alcuni giorni di cammino, passati per Chivasso e giunti a Vercelli, non trovarono nè munizioni, nè viveri, nè luogo ove dormire. Il Capo Divisione non voleva riconoscerli come soldati, poichè non gli erano stati trasmessi ali avvisi dalla Capitale. Nello stesso tempo giungeva la notizia della rotta dell'esercito a Novara. Non avendo potuto giungere al campo dell'onore, non v'era per essi altra via da prendere che quella già percorsa; consegnate quindi le armi, ritornarono indietro alla rinfusa. Invano chiedevano cibo ai contadini, i quali li respingevano dalle loro case temendo che fossero assassini di strada, e li inseguivano per i campi. Quando, mezzo morti per la stanchezza e per la fame, furono in vista di Torino, essendo ancora giorno alto, si nascosero dietro i rialti di terra e nei burroni per non essere visti e burlati, e caduta la notte, rientrarono quietamente e alla spicciolata nelle loro case. L'Oratorio rimase chiuso perchè D. Cocchis per qualche tempo aveva vissuto in luogo nascosto; poi era partito per Roma, dopo l'entrata dei Francesi, per mettersi a disposizione di Propaganda Fide Senonchè, mutata idea, aveva fatto ritorno in Torino il 13 ottobre ove unito coi Teologi Tasca e Bosio progettava un ospizio di beneficenza per i poveri artigianelli, e ne ricoverava i primi due nella casetta del portinaio del suo Oratorio in Vanchiglia, pagando egli la pensione. Questa fu la culla del grande Istituto degli Artigianelli, il cui edificio venne poi eretto in corso Palestro, dagli infaticabili cooperatori di D. Cocchis i Teologi Roberto Murialdo e Giuseppe Berizzi. Intanto D. Cocchis, non avendo di che pagare il fitto e mantenere que' giovani, dei quali cresceva il numero, doveva, come D. Bosco, industriarsi pel loro vitto e vestito. Or questa sollecitudine, congiunta alle varie occupazioni della [560] parrocchia della SS. Annunziata, finì per impedirlo totalmente dal riaprire il detto Oratorio.

                Questo adunque stava già sospeso da parecchi mesi, quando D. Bosco e il Teol. Borel, conscii dei gran bisogno di un cotale istituto in quella parte della città, prese le necessarie intelligenze con D. Cocchis medesimo, subentrarono nel locale già tolto in affitto a tale uopo, e coll'approvazione chiesta ed ottenuta per iscritto da Mons. Fransoni riaprirono il detto Oratorio sotto il titolo dell'Angelo Custode.

                Consisteva in una grande area chiusa, annessa alla casa dei proprietarii, con due tettoie l'una al lato di mezzanotte e l'altra al lato di ponente; un casino di due camere soprapposte sull'angolo formato dalle due tettoie; un camerone eretto in prosecuzione della tettoia a ponente, verso mezzogiorno, che D. Bosco adattò ad uso cappella, con attiguo ripostiglio che serviva per sagrestia. Il fitto convenuto fu di 900 lire annue e non è a dire quanto dovette adoperarsi il buon servo di Dio in questa nuova impresa.

                Coll'aiuto del parroco della SS. Annunziata, il Teol. Luigi Fantini, la riapertura fu fatta in ottobre intorno alla festa di S. Raffaele Arcangelo, ricorrente il 24; e per la grande devozione che D. Bosco nutriva verso gli Angeli Custodi, ci dispose che ogni anno se ne celebrasse in Vanchiglia la festa con grande solennità. Tanto per le sacre funzioni e pratiche di pietà, quanto per i giuochi e i mezzi di emulazione si adottò lo stesso orario, metodo e regolamento, che facevano, sì bella prova negli Oratorii di S. Francesco di Sales e di S. Luigi, dei quali fu considerato come fratello. Ma assai costò di pazienza e di fatiche a coloro che furono destinati a questo Oratorio, e come sentirono il bisogno di invocare sovente l'Angelo Custode secondo le raccomandazioni che ne aveva fatte loro D. Bosco. [561] Il vecchio borgo di Vanchiglia col suo nucleo di catapecchie le cui mura screpolate ed annerite dal tempo minacciavano di crollare ad ogni istante, era come la fortezza di uomini nemici dell'ordine, avidi della roba altrui, spinti da un feroce istinto al male, pronti a fatti di sangue. Là erano confinati il delitto, la miseria e il mercato del vizio. Là era nata, là si ramificò, là divenne grande e temuta la Cocca, della quale abbiamo già parlato. Vanchiglia era luogo in cui nessuno all'imbrunire volgeva il piede. Nemmeno le guardie osavano affrontare quelle fitte schiere di malfattori. Come un castello cui fosse stato alzato il ponte levatoio, a nessuno nella notte era dato libero il passo, se non apparteneva alla Cocca.

                I preti e i catechisti di D. Bosco presero il posto, loro assegnato. Il primo Direttore fu il Teol. Carpano, trasferitosi dall'Oratorio di S. Luigi, che erasi ampliato grandemente. Quivi a lui succedette in questo uffizio l'ottimo sacerdote Pietro Ponte da Pancalieri, che lo governò con paterna sollecitudine fino al 1851. Era coadiuvato dall'abate Carlo Morozzo, che poi fu elemosiniere del Re e Canonico della Metropolitana, dal Sac. Ignazio Demonte, dall'Avvocato Bellingeri, dal Teol. Felice Rossi e dall'Avvocato D. Berardi.

                Intanto in Vanchiglia le prime difficoltà sorsero dagli stessi giovani beneficati, corrispondendo con ingratitudine insubordinazione, insulti e minaccie, contro la stessa persona dei Sacerdote. Degni figli dei loro padri, indisciplinati e villani nelle ricreazioni, pronti a fuggire facendo violenza al portinaio quando il campanello li invitava alla chiesa, disturbatori e turbolenti quelli che erasi riuscito a condurre alla predica o al catechismo, schernitori dei buoni avvisi che loro venivano dati, sembrava che dovessero rendere inutili le premure di quelli che zelavano il loro bene. Eppure la carità doveva trionfare. Infatti, colla costante [562] amorevolezza, col dissimulare gli sgarbi ricevuti, col far loro opportunamente qualche dono, coi procurare nuovi divertimenti, colle feste, col distribuire loro colazioni e merende, col trarre a parte quelli che sembrava avessero un cuore migliore, si riuscì a padroneggiarli. D. Bosco diverse volte venne a visitarli, e colla sua incantevole parola e le sue promesse compiè l'opera. Alcuni incominciarono ad accostarsi ai sacramenti, e a poco a poco il loro esempio attrasse gli altri, e, la maggior parte prese ad amar l'Oratorio, come attestò D. Reviglio Felice. Fra i catechisti, che vi prestavano la loro opera, accondiscese per qualche anno ali' invito di D. Bosco il Teol. Giov. Batt. Bertagna, ora Arcivescovo. Il giovane Rua Michele, ancor secolare, vi si recò in sui primordii più volte, e stupì della moltitudine di que’ giovani, grandi e piccoli.

                Dopo il Teol. Carpano, che non vi stette gran tempo e che nel 1853 era eletto a cappellano a S. Pietro in Vincoli, successore al defunto D. Tesio, vi fu impiegato il suo coadiutore Teol. Giovanni Vola. A lui per fare il catechismo e pe' trattenimenti dei giovani D. Bosco dava per compagno Brosio Giuseppe, il Bersagliere, incaricandolo di prestargli mano forte. Brosio lasciava relazione per iscritto di qualche disturbo avvenuto in quei giorni, in questi termini.

                “Incominciai a divertirli insegnando loro la ginnastica e la manovra alla bersagliera, divertimento il più favorito di quei tempi per la gioventù vivace; e di fatti quasi tutti i giovani lo avevano scelto e si passava la festa allegra e tranquilla.

                I Barabba, cioè la confederazione dei monelli, non poteva però vedere di buon occhio questo Oratorio, perchè decimava la loro Cocca; e così tutte le Domeniche venivano all'Oratorio a fare le loro bravure, insultando, schernendo [563] e anche dando scappellotti ai giovani che frequentavano le nostre radunanze.

                Una festa comparvero in numero di circa quaranta, armati di pietre, bastoni e coltelli per entrare nell'interno dell'Oratorio, del che il Teol. Vola si prese tanta paura, che tremava come una foglia. Io, vedendo che que' malviventi erano risoluti di menar le mani, pensai di mettermi in difesa, perchè guai se uno di quelli si fosse accorto di essere temuto.

                Chiusi la porta dell'Oratorio, e fatto nascondere in una camera sicura il Teol. Vola, radunai tutti i giovani più grandi dando a ciascuno uno dei fucili di legno che servivano per le esercitazioni, quindi li divisi in squadriglie, con ordine che se i Barabba entravano nel cortile fossero tutti pronti ad un mio segnale convenuto, li attaccassero da tutte parti contemporaneamente e giù legnate senza misericordia. Radunati in quel mentre tutti i ragazzi più piccoli, che piangevano di paura, li nascosi in chiesa, e andai di guardia alla porta d'entrata, per vedere se cedeva agli urtoni poderosi coi quali tentavano gli assalitori di gettarla a terra.

                Il portinaio della casa dell'Oratorio e altre persone che si trovavano nella strada, udendo i propositi vociati del Barabba di venire ad eccessi, andarono ad avvisare i soldati di cavalleria acquartierati poco lontano, e questi accorsero colle sciabole sguainate accompagnati da quattro carabinieri. I Barabba si diedero alla fuga.

                Avendo poi saputo questi farabutti che io era stato bersagliere e pronto per difendermi a qualunque cimento, non venivano più ad insultarci da vicino, ma in lontananza ci balestravano sassate. Tuttavia mentre ci mostravamo inaccessibili alla paura, non curanti delle loro minacce, nello stesso tempo ci astenevamo da ogni ricatto o rappresaglia, senza mai dimostrarci offesi delle loro brutalità. Così una parte di [564] costoro incominciarono a calmarsi, poi a frequentare l'Oratorio, e infine nell'eccellente condotta divennero gli esemplari di tutti. Degli altri che si ostinarono a minacciarci, alcuni, per delitti commessi, finirono in galera, e due furono impiccati nel circolo Valdocco vicino all'Oratorio di S. Francesco di Sales. D. Bosco andò a confortarli ed a confessarli in carcere”.

                Al Teol. Giovanni Vola successe il sacerdote Grassino, il quale pure, con tutto lo zelo possibile, promosse l'incremento di quell'Oratorio, poscia il Teol. Roberto Murialdo. Questo zelante e pio sacerdote torinese, coadiuvato dal suo degno cugino il Teol. Leonardo e dai catechisti che ogni festa D. Bosco gli mandava da Valdocco, continuò parecchi anni nel difficile incarico, e coi consiglio e colla mano proseguì a far prosperare d'assai quell'Istituto. Il numero dei giovani saliva spesso sino a 400 e talora oltre i 500 così che poco tempo dopo si dovette prolungarne la Cappella.

                L'associazione o Cocca di Vanchiglia, la quale era ancora potente, aveva cessate le ostilità contro l'Oratorio, e molti anzi dei suoi affigliati lo frequentavano. Ma i Direttori di questo dovevano usare molta prudenza nel parlare e nel trattare con loro. Un'esortazione fatta in pubblico di staccarsi da quella biasimevole congrega, venuta immancabilmente a cognizione dei capoccia, avrebbe fatte rinnovare le violenze. D'altra parte era di molto diminuita la perversità della sua indole, per l'influenza esercitata dall'Oratorio; ma restava sempre lo spirito di solidarietà, che univa quelli dello stesso Borgo, e in qualche circostanza poteva diventar pericoloso.

                Grandi e piccoli erano stretti in lega tale, che l'offesa fatta ad uno, era offesa di tutti, e tutti pronti a vendicarla. S'intende che ciascuno era fornito di coltello ed anche a serramanico. Una Domenica un giovanetto della Cocca aveva ricevuto uno schiaffo da un catechista, dimentico delle tante [565] ammonizioni di D. Bosco, e la Cocca in massa non tardò ad irrompere furibonda nel cortile in cerca di quel catechista, il quale per fortuna riuscì a nascondersi. Nella Domenica seguente, temendosi qualche rappresaglia, i superiori cambiarono i catechisti e i chierici assistenti. Il sacerdote che in quel giorno ebbe l'incarico della direzione, così lasciò scritto: “Nell'Oratorio dell'Angelo Custode celebravasi la festa di S. Luigi; ma in tempo della funzione era tale il baccano in cappella, da non permettere che si udissero distintamente coloro che cantavano in orchestra. Usciti appena di chiesa, ecco sopraggiungere una turba di giovanastri, che manomettendo i giuochi, con aria provocante passeggiava nel cortile. Alle finestre delle case dei dintorni si erano affacciate varie femmine da trivio, che si scambiavano parolaccie cogli invasori da far vomitare i cani. Intanto io aveva raccolto in un crocchio i più piccoli, per impedire con un racconto che prestassero attenzione a quelle infamie. Precauzione inutile. Quei della Cocca vengono verso di me ed io sono costretto ad andar loro incontro. Essi mi circondano e con gesti di irritante dispregio muovono molteplici interrogazioni, che solo il diavolo potrebbe avere l'impudenza di fare. Come cavarmi d'imbroglio? Rimproverarli non era il momento, poichè essi cercavano un pretesto per attaccar briga. Perciò ricorsi ad uno stratagemma; siccome essi interrogavano in piemontese io presi a parlare in italiano, acciocchè si persuadessero che io non capiva il dialetto. Essi, dopo aver riso villanamente schernendomi, finalmente si tacquero, e mentre io credeva di tener un po' di ragionamento per indurli a migliori consigli, a un tratto sento odore di fumo. Avevano, quei che mi stavano dietro, messa sotto la mia veste della paglia dandovi fuoco. Rapidamente mi ritrassi di qualche passo, e con un piede spensi la fiamma. Essi erano un [566] centinaio, e bisognava avere pazienza. A sangue freddo proseguii la mia conversazione, tenendo le braccia conserte; quando un ragazzetto di quattro anni, grazioso come un angiolo, penetra in mezzo al crocchio, mandato forse da suo padre che era presente, mi si avvicina e con mia meraviglia vedo che mi toglie prima da una tasca e poi dall'altra due fogli accartocciati di carta accesa. - Costoro a quel che pare mi vogliono bruciar vivo! pensai: e dopo aver chiamato consiglio alla Madonna, dissi: - Orsù abbiam parlato abbastanza. Vogliam fare una partita?

                 - Adesso il prete vuol giuocare! - dicevansi sogghignando a vicenda; - e a qual giuoco?

                - A correre alla barra rotta. Dividiamoci in due schiere. - Si tirò la sorte, e alla parte avversaria gridai:

                - Vi sfido!

                Sul principio il giuoco fu un po' rimesso; quindi i miei competitori si misero nell'impegno di farmi prigioniero, ma non ci riuscirono neppure una volta. Ora un pilastro, ora un'altalena, ora un gruppo di giovani mi serviva per riparo e per dare di volta. Allora il giuoco diventò animatissimo: chi non giuocava, stava spettatore. I battimani si succedevano. - Non corre troppo, dicevano di me, ma corre a tempo.

                Venuta la sera, tutta la Cocca dileguossi, meno quattro dei caporioni. Invitai in porteria i quattro rimasti, e feci recare del vino. Essi mi guardarono fissi in volto e rifiutarono di bere. Quando mi avviai per ritornare in Valdocco ed era notte fatta, costoro si offersero di accompagnarmi. Accettai: lungo la strada si parlò dell'importanza di essere buon cristiano, senza far nessuna allusione a ciò che era accaduto; ma giunto alla porta di casa, essi mi presero la mano, la baciarono e mi dissero: - Perdoni gli sgarbi di [567] quest'oggi! - E si allontanarono. Poveri figli! Di cuore, di intelligenza, ma guasti dalla malizia degli uni e dalla non curanza degli altri”.

                Questi disturbi, rari però, non impedivano che in quell'Oratorio le cose procedessero d'ordinario regolarmente, e il frutto che se ne ricavava per le anime non fu punto inferiore a quello che ottenevasi in Valdocco e a Portanuova. D. Michele Rua ancor studente e poi chierico e sacerdote, vi si recava per l'assistenza, pel catechismo, per la predicazione e gli altri ufficii del sacro ministero, e sì vide sempre corrisposto dai giovani con tanta cordialità e confidenza da formare uno dei più soavi ricordi della sua vita. Egli e D. Giuseppe Bongioanni ne furono gli ultimi Direttori.

                Così l'Oratorio dell'Angelo Custode continuò felicemente nel sito medesimo e sotto l'alta direzione di D. Bosco per circa venti anni. Il primo aprile del 1858 egli aveva rinnovata la locazione direttamente coi proprietarii per nove anni, cioè fino al primo aprite 1867 per l'annuo fitto d 650 lire. Nel 1866 fu eretta la nuova parrocchia di Santa Giulia, fabbricata quasi tutta per opera della caritatevole Marchesa Giulia Barolo, e il sobborgo di Vanchiglia, staccato dalla parrocchia della SS. Annunziata, fu compreso nella circoscrizione di quella di Santa Giulia. La benemerita e ricca signora, fondando questa parrocchia, aveva lasciato pure per testamento che vi andasse unito un Oratorio per raccogliervi i giovanetti nella Quaresima e nei giorni festivi, destinando a tale fine un legato. Quando l'Oratorio di Santa Giulia fu aperto, D. Bosco scorgendo come uno pareva che bastasse al bisogno di quella regione, e non volendo che il suo comparisse come un contro altare a quello della parrocchia chiuse l'antico dell'Angelo Custode sul finir del 1866, applicandone i sacerdoti ed i chierici nell'Oratorio di S. Giuseppe [568] in Borgo S. Salvario, dove maggiormente se ne sentiva il bisogno.

                Dato così un breve cenno sul terzo Oratorio di D. Bosco in Torino non dobbiamo passare sotto silenzio una preziosa amicizia da lui contratta nel 1849, la quale continuò a tener acceso in lui un vivo pensiero verso le missioni evangeliche ai popoli infedeli e specialmente ai fanciulli dell'Africa.

                Il Venerabile servo di Dio Nicolò Giovanni Battista Olivieri da Voltaggio in Liguria, mosso a compassione della sorte misera dei poveri bimbi di Africa, gementi sotto il giogo d'inumani padroni, ma tocco ancora più dallo stato Infelicissimo delle anime loro, aveva consecrato tutta la sua vita e le sue sostanze al riscatto de' moretti. Nel maggio del 1849 egli sbarcava a Genova, conducendo con sè dall'Egitto un certo numero di piccoli schiavi comprati, e avendo così consumato ogni suo avere si accingeva a viaggiare per l'Italia e per la Francia in cerca di elemosine per continuare quell'opera santa. Giunto a Milano colle sue morette, chiese qualcuno che lo accompagnasse a questuare, e un giovane e santo prete, D. Biagio Verri, accettò volentieri la proposta e prese ad aiutare l'opera del riscatto con abbondanti elemosine.

                Ma il Verri in questo stesso anno aveva stretto amicizia con D. Bosco, ammirandone la santa vita, e di tempo in tempo soleva recarsi a Torino a passare qualche giorno nell'Oratorio di S. Francesco di Sales. Mise quindi in relazione l'Olivieri con D. Bosco, il quale nel suo zelo desiderava di abbracciare tutto il mondo e convertirlo alla Fede. Infatti il 29 ottobre 1849 egli accettò in casa il moro Alessandro Bachit. Altri giovani mori nel corso degli anni ei riceveva dal Padre Olivieri acquistati sui mercati di Alessandria [569] d'Egitto. Facendoli buoni cristiani non si può dire con quanta pazienza e con quante dimostrazioni di paterna tenerezza ei li trattasse; il che faceva a bello studio conoscendo quanto profondamente questi infelici soffrissero di nostalgia. Così D. Rua e D. Reviglio. Adoperossi eziandio nel raccomandare le morette presso qualche Istituto di suore, e alcune ne fece accogliere ove sapeva che quali amate figliuole, avrebbero vissuto in santità tutti i loro giorni.

                Per verità non era questo attualmente il campo di un suo vasto apostolato; tuttavia ben sì può dire il principio dì una missione per lui e per i suoi figli destinata dalla Provvidenza Divina. Infatti i giovanetti mori erano eziandio sempre l'oggetto delle sue aspirazioni; e nei sogni, come diremo poi, si vedeva circondato dalle turbe di questi, i quali a lui domandavano la salute eterna. E come preludio di questo avvenimento felice, nei nostri ospizii, e specialmente in quelli dei Brasile, i figli dei vecchi schiavi Africani siedono senza distinzione alla stessa mensa dei figli dei paese, mentre la Repubblica di Liberia in Africa e quella di Haiti nelle Antille chiesero a D. Bosco Missionarii Salesiani per i loro giovanetti, ottenendo promessa che non sarebbero dimenticati.

                Dirò ancora di più, che nell'Oratorio di Valdocco fu decisa la continuazione dell'Opera dell'Olivieri. Questo santo apostolo, invecchiato, stremato di forze, aveva bisogno di un compagno che l'aiutasse nella travagliosa sua missione e D. Biagio Verri sentissi ispirato a coadiuvarlo. Tuttavia prima di risolversi volle nell'orazione consultare Iddio per conoscere se era da Lui un tal desiderio. Senz'altro partì da Milano e venne a passare qualche giorno con D. Bosco. “Fu qui nella nostra Chiesa di S. Francesco di Sales, scrisse D. Bosco, che il Verri risolvette di cooperare coll'Olivieri [570] alla pia opera del riscatto. Una sera mi chiese licenza di passare la notte innanzi a Gesù in Sacramento, poichè aveva da chiedere a Lui consiglio. Stette in chiesa fino all'alba in continua e profonda orazione, e, quando le porte di questa si apersero, ne uscì fermamente deciso di consecrare la sua vita alla eterna salvezza dei piccoli schiavi”.

                La voce di Dio erasi fatta sentire chiaramente in quella memorabile notte, e D. Verri, venduta ogni sua possessione e postone il prezzo in mano all'Olivieri, nel dicembre del 1857 partiva con lui alla volta dell' Egitto. Morto l'Olivieri in Marsiglia nel 1864, egli continuò l'opera santa e difficile del riscatto. Quanto egli abbia sofferto nei viaggi continui, nella sua estrema povertà, nel chiedere soccorsi ai fedeli di ogni parte d'Europa, nel collocare presso pii istituti quelle sue povere creature, mantenendone molte a proprie spese, nel sopportare con calma quelle indoli selvagge e talora resistenti alla carità, tornerebbe arduo pur il descriverlo. Basti dire che furono circa due migliaia le morette e i moretti da lui redenti, e ognuno d'essi gli costò 500 lire di sola compra. Ritornando in Italia più volte venne ancora all'Oratorio di Torino co' suoi moretti, e alcuni di questi vennero affettuosamente fatti accogliere ed istruire. Una giovane mora da lui condotta fu ricoverata presso le figlie di Maria Ausiliatrice in Nizza Monferrato.

                Finalmente D. Verri, consumato da lunga e dolorosa malattia, giungeva dalla Francia in Torino il 23 ottobre 1884, e prese alloggio nella pia casa del Cottolengo, ove per un sfinimento apoplettico fu trasportato sul letto. Si fecero accendere candele alla Consolata e a Maria SS. Ausiliatrice; si cercò di vedere D. Bosco per raccomandare l'infermo alle sue preghiere, ma trovandosi pur egli ammalato, si lasciò quell'incarico ad un suo sacerdote. D. Bosco non potè recarsi [571] presso al santo amico, il quale volava al cielo la notte che seguiva il 25 ottobre.

                Nelle sue vesti, in un portafoglio gli si trovò un biglietto diretto a D. Bosco in questi termini.

 

                               Molto Rev.do D. Bosco,

 

                Se il Signore le dà a conoscere cose gravi o cose piccole, che dispiacciano in oculis suis nell'anima del sottoscritto, noli, quaeso, abscondere a me sermonem tuum pro pace animae meae.

 

Devot.mo in Gesù e Maria

D. BIAGIO VERRI

A. M. D. G.

 

                2 Luglio 1882.

 

                P. S. Preghiera di due righe di risposta su questo foglio medesimo (al Cottolengo).

 

                D. Bosco in calce del biglietto scriveva la risposta:

                Bono animo esto, et vade in pace. Noli timere. Tale era il concetto che della santità di D. Bosco aveva un sacerdote di eroiche virtù, ed esaltato dal Signore di favori e fatti miracolosi[41], da essere persuaso che per mezzo di lui avrebbe conosciuti i reconditi giudizii di Dio.

 

 

CAPO LI. D. Bosco continua la scuola di latino ai quattro giovani prescelti - Studio sui regolamenti di varii Ospizii e Collegii - La moltiplicazione delle castagne - Elogi all'Oratorio del Conciliatore Torinese.

 

                LA SCUOLA di latino, non interrotta a Castelnuovo, continuò alacremente dopo il ritorno in Valdocco. D. Bosco voleva condurre i suoi quattro allievi al punto di potere nel più breve tempo possibile vestire l'abito clericale. Il sacerdote D. Merla, suo compagno a Chieri, e fondatore dell'Istituto di S. Pietro in Torino, accondiscese ad aiutarlo per circa un anno, svolgendo un programma ordinato di cognizioni necessarie, della grammatica inferiore e poi della Rettorica. Buzzetti e i tre suoi condiscepoli erano mandati tutte le sere alla sua casa ad esercitarsi nelle composizioni e nelle spiegazioni degli autori classici. Al chierico Savio Ascanio venne affidato il cómpito di assegnare e correggere le traduzioni dall'italiano al latino.

                Ma D. Bosco era come la ruota principale che metteva in moto tutto questo lavorio d'insegnamento. Aveva compreso che gli ordinarii metodi usati nel far scuola non gli avrebbero dato frutto sufficiente; quindi ne escogitava uno tutto caratteristico e l'esperienza diede ragione alla sua ingegnosa audacia. Insegnava la grammatica esponendone con brevità [573] e lucidissima chiarezza le regole, ed esigendone da ciascun allievo la ripetizione, per così accertarsi se avessero compreso. In virtù del suo ingegno sì acuto e si chiaro, della sua facile comunicativa, e soprattutto in forza della sua inalterabile pazienza e carità, egli potè ben presto renderli in grado di assaggiare il latino.

                Nè ciò dee far meraviglia se riflettasi come fossero piene le giornate di D. Bosco e de' suoi scolari. Si levavano alle 4½ e colla Messa, la santa Comunione e la lettura spirituale, occupavano la prima ora della giornata. Circa alle 6 si portavano nella cameretta di D. Bosco, e là si dava principio alla scuola. D. Bosco pel primo facendo da scolaro, recitava la lezione assegnata precedentemente, e come egli aveva finito, gli altri la ripetevano il meglio che potessero, sempre aiutati, sostenuti, incoraggiati. Il libro della grammatica non si apriva quasi mai in iscuola, ma vi era solo per sciogliere un dubbio allorchè era necessario riandare qualche punto sfuggito. Avendo le menti imparato a lavorare si tirava avanti di buon passo. Come per la grammatica, così si usava per le altre materie.

                Alle 8 suonate andavano alla colazione ed alla ricreazione e quindi a studiare per non levarsene se non a mezzogiorno.

                Alle 2 pomeridiane D. Bosco li radunava di bel nuovo e riprendevasi la scuola. Non bisogna però credere che egli non riflettesse come l'arco troppo teso può spezzarsi; quindi un giorno sì ed uno no, li conduceva a passeggio dalle quattro alle sette della sera, e con questo regime li manteneva sani di corpo e vivaci di mente. Non li perdeva però di vista un momento solo, e quando si ponevano a sedere sulla piazzetta innanzi alla Madonna di Campagna, o in Piazza d'armi o nel viale di Rivoli, questo infaticabile maestro ricominciava le lezioni sotto altra forma e più dilettevole. Egli allora faceva [574] bellamente ripetere tutte le spiegazioni già date, le quali così, senza che essi vi durassero fatica, si stampavano sempre meglio in quelle giovanili intelligenze. È ben vero che questo studio all'aperta campagna era una tentazione a qualcuno di quei fanciulli, i quali talora avrebbero amato più di sollazzarsi che non di studiare in quel tempo: ed in realtà più volte provarono a sbandarsi rincorrendosi. Ma D. Bosco non lasciossi vincere da condiscendenze inopportune e, sempre calmo, raccolto, come fermo ed inflessibile nelle sue risoluzioni, non permise mai che si perdesse il più piccolo ritaglio di quel tempo. Durava di questo passo quasi fino al termine del 1850.

                D. Giacomelli in quest'anno rilevava l'eccellenza del suo metodo d'insegnamento, attestando come fruttasse mirabili risultati.

                Mentre D. Bosco era tutto occupato nel far progredire tale scuola, incominciò ad ideare la compilazione di un regolamento interno pel suo Ospizio in Valdocco ed anche per i collegi di studenti che aveva in mente di fondare. Prese pertanto ad esame il metodo educativo usato specialmente negli stabilimenti delle opere pie e delle case religiose di educazione pei giovanetti. Domandò ad alcuni e ne ebbe i programmi ed i regolamenti. Visitò attentamente varii istituti in Torino ed in altri luoghi del Piemonte.

                Sul finire dell'anno 1849 mandava eziandio D. Pietro Ponte, Direttore dell'Oratorio di S. Luigi, a Milano, a Brescia e in alcune altre città a prendere cognizioni sull'ordinamento e le costumanze religiose, professionali, disciplinari ed economiche di certi ricoveri pei figli dei popolo e anche di qualche collegio dei più reputati per la buona riuscita dei giovani appartenenti a famiglie signorili o di medio stato. D. Ponte ritornava in Torino sul principio del 1850 avendo raccolte memorie ed appunti che giovassero allo scopo pel [575] quale aveva fatto quel viaggio. Intanto D. Bosco pensava ai chierici dei quali sentiva che un giorno avrebbe dovuto prendere la direzione e chiedeva ed otteneva da Mons. Gentile le regole dei seminarli grandi e piccoli della Diocesi di Novara. Così, unendo la preghiera a questo studio e alla propria esperienza, preparavasi ad ordinare, quando la necessità lo richiedesse, il nuovo popolo che andava radunando.

                Ma prima che finisse l'anno 1849 avveniva un fatto sorprendente del quale fa memoria il Padre Giovanni Giuseppe Franco della C. di G. nella sua lettera riprodotta in un capitolo precedente. Dopo aver accennato alla sua persuasione che, per la straordinaria bontà, gli sembrasse cosa naturale che D. Bosco operasse dei veri miracoli, soggiungeva: “L'udirne raccontare qualche saggio non mi avrebbe recato veruna meraviglia, se anche la cosa fosse frequente. Ne intesi poi in realtà raccontare; ma non ricordo abbastanza i particolari. Posso accertare in generale d'aver udito dire che una Domenica, avendo accolto, come soleva, un gran numero di giovani a trattenersi in onesti divertimenti, alla fine nel congedarli volle fare una buona grazia a quei cari giovanetti dando a ciascuno una manciata di castagne lesse e calde. Gli fu fatto osservare che la pentola non sarebbe bastata a tutti. Allora si pose egli in persona a dispensare le castagne, dandone a ciascuno una mestolata, e in tanta copia ne diede che i circostanti si avvidero le castagne essersi moltiplicate sotto le sue mani. Questo fatto mi sembra d'averlo udito dalla bocca di un gentiluomo, il cavaliere Federico Oreglia di Santo Stefano che, o vi fu presente, o l'udì come pubblico fatto e conosciuto nell'Istituto, dove egli usava con famigliarità continua. Non saprei tuttavia accertare se il detto cavaliere ciò mi raccontasse quand'era ancor secolare o dopo che egli entrò nella Compagnia di Gesù in cui ora vive ed è sacerdote”. [576] Noi racconteremo come andò l'avvenimento.

                In quest'anno 1849 una Domenica dopo la festa d'Ognissanti, D. Bosco, fattosi in cappella l'esercizio della buona morte, condusse tutti i giovani interni ed esterni dell'Oratorio a visitare il campo santo e a pregare pace per i poveri defunti. Aveva loro promesse le castagne quando fossero ritornati in Valdocco. Mamma Margherita ne aveva comperati tre sacchi, ma pensando che il figlio non ne abbisognasse che di piccola quantità per divertire i giovani, non ne fece cuocere che due o tre coppi. Giuseppe Buzzetti, che aveva preceduto i compagni nel ritorno, entrato in cucina vide che bolliva una pentola di poca capacità e sì lamentò colla mamma che di castagne non ce ne fossero a sufficienza per tutti. Ma non potevasi rimediare subito a quella mancanza. Ed ecco sopraggiungere i giovani e accalcarsi alla porta della Chiesa di S. Francesco; D. Bosco medesimo si mise alla soglia per fare la distribuzione. Buzzetti versò la pentola dentro un cestello e lo teneva fra le sue braccia. D. Bosco credendo che sua madre avesse fatto cuocere tutte le castagne comperate, ne riempiva il berretto che ogni giovane gli sporgeva. Buzzetti, vedendo che ne dava troppo grande quantità a ciascuno, - Che fa D. Bosco? grida. Non ne abbiamo per tutti. Se ne dà così, non andiamo alla metà.

                - Ma sì, gli rispondeva D. Bosco, ne abbiamo comperati tre sacchi, e mia madre le ha fatte cuocere tutte.

                - No, no; queste sole, queste sole, ripeteva Buzzetti. Tuttavia D. Bosco, rincrescendogli diminuire le porzioni, gli disse tranquillamente: - Continuiamo a dare a ciascuno la parte sua, fintanto che ce ne sarà. - E continuava a dare agli altri la stessa quantità che ai primi. Buzzetti crollava il capo guardando. D. Bosco, fintantochè nel canestro non vi fu più altro che la porzione per due o tre. Solo una terza [577] parte dei giovani aveva ricevute le sue, castagne, e il loro numero era di circa 600. Alle grida di gioia successe un silenzio di ansietà, poichè i più vicini si erano accorti che il cesto era quasi vuoto.

                Allora D. Bosco, credendo che sua madre per motivo di economia avesse riposte le altre castagne, corse sopra a prenderle; ma trovò, con sorpresa, che non erano state cotte, e che invece della pentola grossa se ne era posta al fuoco una più piccola che era destinata per i superiori. Che fare? Non si sgomentò, ma disse: - Le ho promesse ai giovani e non voglio mancar di parola. - Preso un grosso mestolo bucherato, lo colmò di castagne quanto ne poteva capire e riprese la distribuzione di quelle poche che restavano. Qui incominciò la meraviglia. Buzzetti era come fuori di sè. D. Bosco calava il mestolo nel canestro e lo ritraeva pieno in modo che le castagne si riversavano; mentre la quantità che rimaneva nel cesto sembrava non diminuisse. Nè due o tre, ma circa 400 ne ebbero a sazietà. Quando Buzzetti portò il canestro in cucina vide che eravi ancora dentro una porzione, quella di D. Bosco, perchè forse la Madonna SS. aveagli riserbata la sua parte. La voce dei fatto dai giovani più vicini si propagò a quelli più lontani, tutti rattenevano perfino il respiro, aspettandone la fine, e quando l'ultimo ebbe la sua parte, un grido universale risuonò D. Bosco è un santo, D. Bosco è un santo! - Il buon prete subito impose loro silenzio, ma gli costò gran fatica far cessare i loro schiamazzi, mentre da tutte parti gli si stringevano attorno. In memoria di questo prodigio D. Bosco volle che si distribuissero alla sera di Ognissanti, come asserisce il Canonico Cav. Anfossi, le castagne lessate a tutti quelli dell'Oratorio.

                Noi abbiamo esposta fedelmente questa moltiplicazione delle castagne, secondo la narrazione che ascoltammo dal [578] nostro amico Giuseppe Buzzetti confermata per iscritto da Carlo Tomatis, e riconosciuta da tutti gli antichi allievi di questi tempi come autentica. Quale spiegazione potrassi dare a tale meraviglia? Null'altro che questa. La buona Madre Maria SS. manifestava il suo gradimento per quanto facevasi nell'Oratorio! Quivi fiorivano le virtù cristiane come se ne legge un magnifico elogio, pubblicato l'anno 1849 nel periodico il Conciliatore Torinese.

                Questo giornale era scritto e diretto dal Canonico Lorenzo Gastaldi. L'elogio è così splendido che ci sembra pregio dell'opera l'inserirlo quale documento in questa istoria, come quello che è una solenne conferma di quanto noi abbiamo narrato nel corso di queste nostre memorie. Eccolo nella sua interezza[42].

                “Se all'uscire di questa città per la porta di Susa, nasca vaghezza a taluno di ricrearsi sotto il viale che gli sta a destra, e costeggiando i quartieri militari e gli ospedali di S. Luigi e dei pazzerelli, scendere per l'ameno declive sino al bel palazzo, che gli si porge innanzi, quindi volgendo a manca proseguire il delizioso cammino pel viottolo, che rasenta i muri dei varii edifizi quivi attigui, a breve distanza gli si presenta un cancello di legno, per cui entrasi in un recinto d'una certa ampiezza. Al fabbricato lungo sì, e piuttosto decente, ma assai basso, e di aspetto più rustico che civile, il quale, sporgendo verso mezzanotte, divide quel recinto in due parti, l'una assai più ampia e lavorata a mo' di orto, l'altra più stretta e lasciata incolta, egli di leggieri estima, questa sia la dimora di alcuni ortolani, di cui infatti abbondano quei [579] dintorni; ma portando l'occhio attento su quell'umile edificio, alle varie religiose iscrizioni, che vi si leggono, al campaniluzzo, che sormontato da una croce si eleva sul tetto, all'avviso: Questa è la casa del Signore, che sta sopra l'uscio verso ponente; egli vede, benchè non senza meraviglia, che qui è un sacro Oratorio. Ma quanto più crescerà il suo stupore, ove chiegga da chi e per qual fine siasi consacrato alle pratiche di religione quel luogo sì modesto, e gli sarà risposto che un umile Prete, fornito di nessun'altra ricchezza, che di una immensa carità, già da più anni vi raccoglie ogni dì festivo da cinque a seicento giovanetti per ammaestrarli nelle virtù cristiane, e renderli a un tempo figliuoli di Dio e ottimi cittadini.

                “Questo egregio Sacerdote, pieno di quella filantropia, la quale non deriva da altra fonte che dalla fede cattolica, era altamente accuorato nel vedere, nei dì sacri al Signore, centinaia e centinaia di fanciulli, che abbandonati a se stessi, invece di accorrere alla Chiesa, per attignervi lezioni di santità, si disperdevano nelle piazze, nei viali, nelle campagne, che cingono la città, a sciupare tutto il giorno in sollazzi pericolosi, e quindi ritornavano alle case loro ognora più dissipati, e irreligiosi e indocili. La vista di tanti garzoncelli, che per la trascuranza, oltre ogni modo biasimevole, dei genitori e dei padroni, crescevano nella più crassa ignoranza di ciò che più importa all'uomo, esposti a tutte le corruttele, che nascono dall'ozio e da pessime compagnie e da pravi esempli, il punse così vivamente nel cuore, che deliberò di porvi quel rimedio, che ei sapesse migliore. Che fece egli adunque il nuovo discepolo di Filippo Neri? Consigliatosi col suo zelo, armatosi di una pazienza a tutte prove, vestitosi di tutta la dolcezza e umiltà, che ben conosceva richiedersi all'alta impresa, diedesi a girare nei dì festivi pei dintorni di Torino, e quanti vedesse crocchi di [580] giovani intenti a' trastulli, avvicinarli, pregandoli che lo mettessero a parte dei loro giuochi; poscia dopo essersi affratellato alquanto con essi, invitarli a continuare il giuoco in un luogo, che egli teneva a ciò assai più atto al sollazzarsi, che quello non fosse. Egli è facile il pensare con quanti scherni sarà stato assai delle volte ricevuto il suo invito, e quante ripulse avrà dovuto soffrire; ma la sua costanza e la sua dolcezza a poco a poco trionfarono in un modo prodigioso; e i fanciulli più riottosi, i giovanetti più scapestrati, vinti da tanta umiltà e da tanta mitezza di modi, si lasciarono condurre all'umile recinto che vi ho descritto, dove convertita una parte dell'edificio in modesta sì, ma divota Cappella, si varino alternando le ore del giorno festivo tra gli uffizii della religione ed innocenti trastulli.

                “I primi giovanetti, che vi furono chiamati, assaporate le dolcezze della pietà, provato l'ineffabile piacere di un'anima, che sentesi o cavata dall'abisso della corruzione, o sollevata alla più ferma speranza di un eterno premio, divennero altrettanti piccoli apostoli presso i loro compagni e colleghi nel vizio o nella dissipazione, promettendo a questi dei sollazzi assai più cari presso il signor D. Bosco (che tal'è il nome di questo esimio ecclesiastico), di quelli con cui si ricreavano per lo innanzi, e così di bocca in bocca divulgatasi la notizia del nuovo Oratorio, fra breve vi accorse una turba sterminata di giovani, con quanto pro dell'anima ognuno il pensi. Un alveare intorno a cui s'aggiri ronzando uno sciame di api, mentre una gran parte di queste dentro vi sta lavorando tranquillamente il miele, ti presenta una vera immagine di quel sacro recinto nei dì festivi. Per le vie che vi conducono tu incontri ad ogni passo frotte di giovinetti, i quali cantarellando vi si portano con più allegrezza che non andrebbero ad un festino: dentro per ogni parte tu vedi fanciulli a [581] trastullarsi divisi in piccole brigate, ed altri saltellare, altri giuocare alla palla, altri alle boccie, chi fare all'altalena, chi dei capitomboli e chi la quercia[43]; mentre nella chiesetta altri imparano il catechismo, altri si preparano ai Sacramenti, e nelle attigue stanze ad altri s'insegna il leggere e lo scrivere, ad altri l'aritmetica e la calligrafia, ad altri il canto. Varii Sacerdoti vegliano quella turba composta di sì diversi elementi, agitata da sì disparate inclinazioni, adoperandosi a tutt'uomo per rivolgerne i pensieri, gli affetti, gli atti verso la religione, e vegliando perchè nelle ore destinate alla preghiera e alla istruzione comune tutti cessino dai trastulli e si raccolgano nell'Oratorio. Ed egli è senza dubbio un piacere indicibile lo scorgere la docilità, con cui tutti quei giovani, un dì sì male avviati, ora obbediscono a quegli ecclesiastici; la gioia che loro sta dipinta sul volto, la divozione con che assistono ai divini uffizii, usano ai Sacramenti, frequentano le istruzioni religiose, che anche lungo la settimana si porgono a chi ne abbisogna, intervengono agli spirituali esercizii, che ogni anno si rinnovano pel corso di parecchi giorni.

                Ella è una meraviglia il vedere l'affetto e la riconoscenza tenerissima, che quei fanciulli nutrono in cuore verso il loro benefattore, il signor D. Bosco. Nessun padre riceve più carezze dai suoi figliuoli, tutti gli sono ai panni, tutti vogliono parlargli, tutti baciargli la mano; se lo veggono per la città escono incontanente dalle botteghe per riverirlo. La sua parola ha una virtù prodigiosa sul cuore di quelle anime ancor tenere, per ammaestrarle, correggerle, piegarle al bene, e lucarle alla virtù, innamorarle anche della perfezione. La [582] sua umile abitazione è un asilo sempre aperto in ogni ora a qualunque sia giovanetto, che ricorra a lui per campare dai pericoli del mondo corrotto, per liberarsi dagli artigli della colpa, avere dei consigli, ottenere aiuto in qualche onesto intento. Non potendo capire in quest'Oratorio tutti i fanciulli che vengono a lui, egli già da alcuni mesi ne aperse un altro fuori di Porta Nuova, cui affidò alle cure di varii Sacerdoti già formati anch'essi alla scuola della sua carità, e che speriamo sarà per apportare frutti non meno copiosi di cristiana civiltà”.

                Qui il valente scrittore, pieno di caldo entusiasmo, conchiude il suo articolo con questa bellissima apostrofe a D. Bosco:

                “Salve perciò, o nuovo Filippo, salve, o Sacerdote egregio. Il tuo esempio deh! trovi molti imitatori in ogni città; sorgano per ogni parte Sacerdoti a premere le tue orme; aprano ai giovani de' sacri recinti, dove la pietà si circondi li onesti sollazzi: chè solo in tal modo si potrà guarire una delle piaghe più profonde della società civile e della Chiesa, che è la corruzione dei giovani”.

                Tal è l'elogio che il Canonico Gastaldi tributava in quei giorni all'Oratorio di S. Francesco di Sales.

 

 

CAPO LII. L'Oratorio di S. Francesco di Sales sul finire del 1849 - Carità di D. Bosco coi giovani esterni e loro corrispondenza - Le ricreazioni dei giovani interni e i consigli amorevoli - Odio al peccato - La presenza di Dio - Preghiera affettuosa - Un'antifona e alcune immagini in onore di Maria SS. - D. Bosco e la virtù della purità. - Origine del teatrino per gli interni - Carceri ed ospedali - Gran stima di molti per le virtù di D. Bosco.

 

                IL 18 novembre 1849 D. Giacomelli veniva ad abitare con D. Bosco nell'Oratorio e trovò, come a noi raccontava, che il numero dei giovani ricoverati era di circa trenta.

                La maggior parte avevano perduti i loro genitori ed erano stati raccolti da D. Bosco mentre vivevano alla ventura senza dimora stabile e tra i pericoli di cattivi compagni. Spesso era stato pregato di accettare nel suo ospizio ragazzi rimasti orfani di padre per causa della guerra, ed egli acconsentiva; ma i mezzi e il locale limitavano le sue buone intenzioni. A tutti questi si continuava a provvedere pel vitto giornaliero la minestra ed i cinque soldi pel pane[44]. Alcuni [584] pochi, i quali pagavano pensione regolare, a pranzo e a cena sedevano alla stessa mensa di D. Bosco e andavano a scuola in città. Fra questi eravi Cagno Benedetto, che poi fu Preside della scuola normale femminile a Mondovì e quindi Direttore di scuola tecnica a Torino; un ex - chierico che, deposto l'abito talare, studiava per conseguire la laurea in belle lettere, ed il chierico Savio Ascanio.

                D. Giacomelli quasi per due anni convisse con D. Bosco nell'Oratorio e lo aiutava specialmente nell'ascoltare le confessioni. Andato poi come vice - parroco fuori di Torino, vi ritornò nel 1854, e fu cappellano e Direttore Spirituale dell'Ospedaletto di S. Filomena al Rifugio per ben quarantasette anni, cioè fin che gli durò la vita. L'Ospedaletto era quasi attiguo all'Oratorio ed egli fu sempre in grande intimità con D. Bosco, dal quale aveva ricevuti molti benefizii e si confessava da lui. Più volte alla settimana d'allora in poi veniva ad intrattenersi con D. Bosco ed entrava sempre nella cappella fermandovisi a pregare con grande edificazione dei giovani.

                Anticipiamo questi ragguagli perchè viemeglio si riconosca l'autorità di un testimonio, col quale pienamente concordano quanti vissero con D. Bosco. Ed esporremo una sua relazione che volle dettarci intorno ai primi anni dell'Oratorio. Sarà però da noi intercalata da osservazioni di altri personaggi, giudici non meno competenti. [585]

                “Presa stanza in Valdocco, incominciai a persuadermi quanto fosse vera l'affermazione di D. Bosco, che l'unico mezzo per guadagnarsi la confidenza dei giovani e per tenerli lontani dal male, era il trattarli con un cuore aperto. Ebbi agio di osservare il suo studio nel tirarli a sè coi più bei modi e con qualche piccolo dono. Accompagnai un mio nipotino, presentandolo a D. Bosco, per avviarlo alle sue adunanze festive. Appena egli lo vide, gli fece tosto molte amorevolezze e gli regalò una moneta da venti centesimi, cosa che destò in me grande meraviglia. E mio nipote da quel momento divenne affezionatissimo dell'Oratorio e finì con entrarvi come alunno.

                I giovani, di mano in mano che si avvicinavano a Don Bosco divenivano migliori e laboriosi, ed egli accompagnava costantemente colla carità ogni suo comando, avviso o correzione, cosicchè da tutto il suo modo di fare appariva evidente non cercar egli altro che il loro bene. Prevenendo le mancanze, non era costretto a por mano ai castighi. I giovani di contraccambio lo amavano tanto, e tanta stima e rispetto avevano per lui, da bastare che egli esternasse un desiderio per venir subito ascoltato. Si astenevano essi da qualunque cosa avesse potuto dispiacergli: nella loro obbedienza non vi era alcun timore servile, ma un affetto veramente figliale. Taluni si guardavano dal cadere in certe mancanze quasi più per riguardo a lui che per riguardo all'offesa di Dio; ma egli, accorgendosene, tosto li rimproverava seriamente, dicendo: Dio è qualche cosa più che D. Bosco!

                E ciò che maggiormente mi sorprendeva si è che questa povera e ineducata gioventù andava continuamente rinnovellandosi col sopraggiungere di altre turbe, delle quali pure, con nuovi disturbi, ed incagli, bisognava riformare le idee ed i costumi. Ma la perseverante pazienza e lo spirito di sacrificio [586] che animavano D. Bosco a poco a poco trionfavano sempre.

                Col medesimo metodo reggeva gli alunni interni....

                Quando avevano compiuti regolarmente i loro doveri, amava che si divertissero allegramente e si esercitassero nella ginnastica, dicendo essere anche la ricreazione un'opera meritoria al cospetto dei Signore. Cercava però di impedire que' giuochi che esigono troppa attenzione e lo stare fermi: come pure quelli che avrebbero potuto danneggiare la costituzione fisica, e fors'anco la moralità. Era solito dire a' suoi allievi: - Fate chiasso, correte, saltate, purchè non facciate peccati. - Ed egli stesso ne dava l'esempio, mantenendosi costantemente allegro, cercando ogni mezzo più adatto per dar loro causa d'allegria, prendendo talora parte ai divertimenti e procurando loro amene passeggiate, che avevano sovente per meta la visita di qualche santuario.

                Talora al mattino io lo vedeva passare nel cortile mentre i giovani facevano colazione. Sorridendo agli uni e agli altri con motti amorevoli, a un tratto simulava serietà, e diceva ad alcuno, che aveva in mano la sua pagnotta: Getta via quella pietra! - E il giovane rispondeva staccando con un morso un grosso boccone dal pane. Io però, che studiava attentamente ogni sua parola ed ogni suo gesto, era persuaso che in tutto, anche nelle cose che sembravano più indifferenti, egli mirava costantemente ad un fine spirituale. E mi avvidi che con questo scherzo sul pane, alludeva al digiuno ed alla tentazione di Gesù sul monte, all'onnipotenza e bontà di Dio, all'obbligo di essergli riconoscente e ad altrettali ricordi. Infatti egli, subito dopo, diceva all'orecchio di quel figliuolo una parola confidenziale, che era accolta con riverenza e con gioia.

                Sapeva vestire un rimprovero sotto forma di consiglio. A chi era propenso alla ghiottoneria diceva: - Non siam creati [587] per bere e per mangiare, sibbene per amare Dio e salvar l'anima. - A chi vedeva poco amante della fatica: - Lavora per il Signore. Quanto ti toccherà patire in questo mondo è cosa di un momento, e il Paradiso paga tutto. - Se alcuno lasciavasi lusingare troppo dall'amor proprio: - Sono contento che tu faccia progresso nel mestiere. Ma se possedessi tutte le ricchezze, tutte le arti, tutte le scienze meccaniche, se perdi l'anima, che ti giova?

                “Era delicatissimo di coscienza e teneva lontana non solo da sè ogni apparenza di male, ma con una continua amorevole assistenza, colla frequenza dei Sacramenti e con industrie senza numero, cercava per quanto era possibile di allontanare dai giovani ogni pericolo di peccato ed ogni disordine dalla casa. Egli abborriva tanto l'offesa fatta a Dio, che si sarebbe sacrificato cento volte al giorno per impedirne anche una sola. - Come è possibile, egli talora esclamava, che una persona assennata, la quale creda in Dio, possa indursi ad offenderlo gravemente?

                Se qualcheduno avesse commesso qualche grave mancanza, se ne attristava, quanto non avrebbe fatto per qualsiasi disgrazia succedutagli, e tutto addolorato diceva ai colpevoli: - E perchè trattar così male Iddio, il quale ci vuol tanto bene? - E talora lo vidi piangere. Tutte le sue parole in privato ed in pubblico avevano il fine d'ispirare orrore per il peccato”.

                - Quando nelle prediche, aggiungeva D. Savio Ascanio, nei discorsi famigliari, nel confessionale, parlava dei terribili giudizii di Dio, lo si vedeva così impressionato, da infondere in tutti noi il timore dell'inferno ed il desiderio del paradiso.

                A tutti raccomandava sovente che recitassero le preghiere con divozione, che pronunciassero distintamente le [588] parole, badando anche al senso delle medesime. Come professione di fede esigeva che tutti facessero con raccoglimento e venerazione il segno della santa croce, e non esitava a rimproverare cortesemente persino quei Sacerdoti che segnavansi con poca gravità. Nei soliti discorsetti della sera dimostrava la necessità di occupar bene il tempo, di operar tutto per la gloria di Dio, rendendo famigliare fra i giovani il detto di S. Ignazio: Omnia ad maiorem Dei gloriam: e li esortava spesso e caldamente a lavorare e patire volentieri per N. S. Gesù Cristo. Ed egli, benchè di costituzione sensibilissima, fosse il tempo nuvoloso, secco, umido, ventoso, freddo, caldo, come se non avesse nervi, era sempre eguale a se stesso, cioè tranquillo e sereno. La sua vita era un continuo sacrificio e il suo cibo una mortificazione.

                Nei cortili e in tutte le stanze della casa disponeva che li interni e gli esterni avessero sott'occhio il Crocifisso e l'immagine di Maria, perchè si avvezzassero a vivere alla presenza del Signore. E il pensiero della divina presenza era così vivo nella sua mente che trasparivagli nella fisionomia; ed io osservandolo mi sentiva eccitato ad esclamare: Conversatio nostra in coelis est. Dovunque fosse, anche a mensa, o solo nella propria camera, era sempre composto ne' suoi atti; i suoi sguardi teneva raccolti e il capo piuttosto chino, come di chi sta innanzi ad un gran personaggio, o meglio, al SS. Sacramento dell'altare. Benchè si mostrasse d'indole molto socievole, se camminava soletto per via, difficilmente scorgeva le persone che gli rivolgevano il saluto. Pareva che il suo spirito fosse continuamente concentrato in qualche gran pensiero che lo dominasse, e da tutto l'insieme si rilevava chiaramente come fosse assorto nella contemplazione di Dio. Molti si provarono qualche volta ad interrogarlo per consigli spirituali in certi momenti in cui si sarebbe detto essere egli distratto da affari temporali, eppure [589] rispondeva sempre come uno che sia in attenta e divota meditazione delle cose eterne”.

                D. Savio Ascanio era persuaso che D. Bosco vegliasse, molte ore della notte e talora la notte intiera, pregando; e notò che quando recitava le orazioni in comune, pronunciava con un gusto affatto speciale le parole Padre nostro, che sei nei cieli; e la sua voce, spiccando in mezzo a quella dei giovani, aveva in quel momento un suono armonioso, indefinibile, che muoveva a tenerezza chi udiva. - Fu sempre un modello, ei diceva, a tutti noi nella preghiera, ben che nulla avesse di straordinario nel suo contegno: ma non lo vidi mai in sagrestia o in chiesa ad appoggiar i gomiti sul banco: si contentava di posare l'avambraccio sullo spigolo dell'inginocchiatoio, tenendo le mani giunte od un libro in mano. Il suo raccoglimento però, soggiungeva D. Reviglio, e il contegno della sua persona era così divoto che Mons. Bertagna ebbe a dirmi che D. Bosco pregando aveva dell'Angelo.

                “La sua divozione alla Madonna era in capo ai suoi pensieri. Ne parlava sempre con tutti e non di rado anche con me, e un giorno mi disse, recitandomi l'Alma Redemptoris Mater; - Nota quelle parole: stella maris succurre cadenti, surgere qui curat populo. Fa la costruzione: Succurre cadenti populo, qui curat surgere spiega la bontà di Maria e da parte nostra il dovere di corrispondere. Ecco il segreto dell’aiutati che io t'aiuterò. La nostra cooperazione. - Sembrava che prevedesse la gloria di Maria Ausiliatrice.

                D. Bosco sopra un cartone, sul quale era stampato il lunario del 1848, attaccava nel 1849, non so per qual sua idea, cinque immagini rappresentanti Maria SS. Tre portavano l'effigie dell'Immacolata. La prima di queste ritrae varii giovani in un campo intorno ad un sacerdote, alcuni in ginocchio, altri in piedi e tutti rivolti verso Maria SS., la [590] quale appare tra le nubi corteggiata dagli angioli colle mani giunte, coronata di dodici stelle, e colla luna e il serpente sotto il piede. Il sacerdote addita loro la Madonna e sopra l'immagine sta il motto: Figliuoli miei, siate divoti di Maria SS. La seconda porta la scritta: Sia sempre benedetta la Santa Immacolata Concezione. E la terza, una preghiera: O Vergine Immacolata, Tu che sola portasti vittoria di tutte le eresie vieni ora in nostro aiuto: noi di cuore ricorriamo a te: Auxilium Christianorum, ora pro nobis. Sotto, D. Bosco vi aveva aggiunto di sua mano queste parole: Inde expectamus consolationem. La quarta immagine è quella di N. S. delle Vittorie coll'ínvocazione: Refugium peccatorum, ora pro nobis. Nella quinta, Maria SS. siede col Bambino in braccio presso un tavolino, coperto con un tappeto, e sul quale sta un canestro colmo di frutta. Il bambino colla sinistra solleva il velo che scende sul viso della madre, e a lei colla destra pare che metta in mano un pane o altro commestibile da distribuire ai bisognosi. Si legge, sotto queste figure: - Mater pauperum. E quindi: Venite a me, o voi tutti che mi amate, e vi ricolmerò dei beni dei quali sono la sorgente (Ecclesiastico). - Sotto queste immagini D. Bosco appiccò una carta geografica della Palestina e appese quel cartone alla parete della sua stanza. Ma io, D. Giacomelli, conoscendo intimamente l'animo dell'amico, intravvidi in questa immagine come l'intero programma della sua vita, e volendo avere una memoria della sua divozione a Maria SS. Immacolata ed Ausiliatrice, segretamente tolsi per me quel cartone e lo ritenni come preziosa reliquia fin dopo la morte di D. Bosco, cioè per quasi quarant'anni. Allora temendo che, stante la mia cadente età, potesse essere fra breve distrutto, lo consegnai ai Superiori dell'Oratorio perchè fosse conservato e tenuto nel debito conto”. [591]

                La sua divozione per Maria SS. andava a pari coll'illibatezza de' suoi costumi. Mons. Bertagna, i due fratelli Savio Angelo ed Ascanio, D. Giacomelli e più altri asserirono che D. Bosco su questo punto godette sempre fama senza la più piccola macchia, tanto a Castelnuovo pel tempo della sua gioventù, come in Torino; e che da tutti si ritiene che avesse un dono speciale per saper insinuare la virtù della purità negli animi giovanili. Mons. Giovanni Cagliero così si esprimeva: - Io sono persuaso, per le intime attinenze avute sempre con lui, che egli sia vissuto e morto in castità verginale. Sempre castigato ne' suoi sguardi, riserbatissimo con persone di altro sesso, non si vide mai alzare gli occhi in faccia a loro. Si vedeva chiaramente che sentiva in sè una certa ripugnanza a trattare con esse, fossero pur anco sue parenti.

                “Io vidi, così D. Giacomelli, in questi anni più di una volta la figlia del suo fratello Giuseppe, che dalla patria veniva a Torino per vedere la nonna Margherita e lo zio. D. Bosco dimostrava che non ne aveva piacere, la riceveva per brevi istanti e la rimandava tosto presso sua madre; a me poi disse: - Mi sarebbe più caro che venisse a trovarmi una dozzina di giovanetti che non questa od altra. - E il chierico Savio Ascanio lo sentì ripetere a sua madre, come non fosse conveniente che la nipote venisse all'Oratorio.

                Cogli stessi suoi alunni, sebbene lo amassero tanto ed egli li ricambiasse di amore paterno, tenne sempre un contegno riservato e dignitoso e non si permise mai sdolcinature di nessuna fatta come sarebbe di baciarli od abbracciarli. Tutto al più, per dimostrare la sua contentezza per la buona condotta, metteva loro per un istante la mano sulla spalla o sul capo, o leggermente percuotevali sulla guancia accompagnando sempre questa carezza con un salutare ammonimento”. [592] Fumero nel 1890 diceva a Gastini: - Ti, ricordi di aver mai notato in D. Bosco un gesto, una parola, un'occhiata, che anche alla lontana fosse in qualche maniera sconveniente e meno corretta? - Mai! rispose l'altro. Ed erano famigliari con lui fin da questi primi anni. Un giorno il giovane Carlo Tomatis sbadatamente si presentò in un crocchio di compagni, tra i quali stava D. Bosco, col vestito non accomodato alla persona secondo le strette esigenze della modestia. Tutti al vederlo presero ingenuamente a ridere, ma D. Bosco rimase impassibile. Interrogato in questa e in altre circostanze di simil genere, come facesse a trattenere le risa, rispose: - io rido quando voglio, e quando non voglio non rido. - Nelle sue prediche parlava della castità con ammirabile delicatezza, come pure in tutti i suoi scritti. Nel suoi discorsi famigliari sovente diceva magnifiche lodi di questa virtù e suggeriva i mezzi per conservare immacolato il cuore. Egli per farla amare aveva, come più tardi vedremo, espressioni tutte sue proprie e che dimostravano la bellezza della sua anima. Talora, mandando alcuni di essi a fare il catechismo negli Oratorii, acciocchè non si lasciassero adescare il cuore da qualche passione, diceva loro: - Ricordatevi che vi mando a pescare e che non dovete essere pescati.

                Per aiutare i giovani a conservarsi buoni, anche allora li faceva assistere colla massima, ma prudente vigilanza, in ogni luogo ed in ogni tempo dai compagni più virtuosi, mettendoli quasi nell'impossibilità, di far mancamenti. E fu questo suo ardente amore alla bella virtù che diede origine al teatro per gli allievi interni. D. Bosco al sabato sera non incominciava a confessarli che ad ora tarda, ritornato dalle sue urgenti commissioni in città; quindi non finiva che verso le 11 e ad ora anche più avanzata, perchè il mattino della Domenica era [593] sempre da lui tutto consecrato pel bene spirituale degli esterni, In che cosa occupare in quel tempo i giovani che si erano già, confessati? E nelle vigilie delle feste solenni, o di esercizio di buona morte per quelli dell'Oratorio festivo, come si sarebbero potuti contenere i ricoverati, già confessati al mattino, mentre D. Bosco stava nel tribunale di penitenza? Non era caso di studii, lavori, ricreazioni in cortile. Era uso che per andare in camerata si aspettasse D. Bosco. Perciò il giovane Carlo Tomatis che, in età di 20 anni, il 5 novembre aveva fissata la sua stanza nell'Oratorio ove dimorò fino al 1861, faceto nelle sue burle, ricco di motti brillantissimi, coll'approvazione e consiglio di D. Bosco, incominciò a radunare tutti i giovani in una stanza. Presi quindi due fazzoletti, faceva loro un nodo in un angolo, e messili sovra un dito di ciascuna mano, e facendoli muovere in modo bizzarro, intrecciava dialoghi così ameni fra i due fazzoletti, che eccitava risa inestinguibili.

                Dopo qualche tempo, più non bastando questo giuoco a destar interesse, Tomatis comprò una testa di Gianduia, ne formò un burattino, e allora i trattenimenti serali ripresero maggior brio per le sbardellate cose che si facevano dire a quel pezzo di legno, con tutti i frizzi e movimenti caratteristici di tale maschera.

                Un nobile signore, il Marchese Fassati, che aveva talora assistito a questa ricreazione, regalò ai giovani un intero teatrino delle Marionette, e Tomatis fu sempre colui che ebbe l'impresa delle rappresentazioni. Suo aiutante nel far ballare i burattini fu, nel 1849 - 50 - 51, un certo Chiappero e più d'una volta si vide un Vescovo assistere lietamente a simile trattenimento. Ne faceva a noi fede il giovane Chiosso e lo stesso Tomatis.

                Finalmente sul palcoscenico, eretto per le accademie nella sala nuova a levante della casa, i giovani allievi interni [594] presero di quando in quando a recitare qualche farsa o commedia. Ma lo stesso movente che aveva ispirato i primordii di quel passatempo, ne regolò il proseguimento. D. Bosco vide subito come questo esigesse tutta la sua previdente attenzione. Diceva esser il teatro un gravissimo pericolo per chi recita e per chi assiste, se non si usa moltissimo rigore nella scelta delle commedie e nella vigilanza. Proibiva le merende, che gli attori con varii pretesti desideravano fare dopo la recita; disponeva che le rappresentazioni per ordinario fossero semplici, e non spettacolose; e a quei tempi non voleva saperne di vestiarii in costume presi a nolo, perchè troppo costosi. I giovani per conseguenza erano obbligati ad accomodarsi come potevano. Una volta sola permise, stretto dalla loro insistenza, che mettessero in scena Gelindo, ossia la Natività del N. S. Gesù Cristo, dramma popolare, conosciutissimo in Piemonte; ma non potendosi ridurre ad uso di collegio, per le conseguenze che ne vennero, protestò che non si sarebbe mai più dato.

                Infatti trattandosi di sconvenienze morali D. Bosco era inesorabile. Un giorno fu invitato ad assistere ad una recita eseguita in un convitto di nobili fanciulli. La commedia rappresentava un figlio, dicevasi, d'un incauto amore, e che era preferito al figlio legittimo, per le sue virtù. Vedendo svolgersi innanzi una simile tela D. Bosco si alzò sul finire del primo atto: - E danno di queste cose? disse ad un superiore che gli era al fianco.

                - Capisce bene! Bisognerebbe uscir fuori non solo dal collegio, ma anche da questo mondo, per non saper certi avvenimenti.

                - Sia come si vuole, intanto io la saluto.

                - Come? Se ne va?

                - Precisamente! ed uscì fuori. [595]

                “Ma non solo per i suoi giovani, continua D. Giacomelli, D. Bosco in questi anni prendevasi tanta premura. Io lo accompagnava alle prigioni, ove faceva i catechismi e confessava. Talora mi dava incarico di comprare pane bianco e frutta, che poi distribuiva ai detenuti. Lo accompagnai eziandio all'Albergo di Virtù, ove egli predicava a più di un centinaio di giovanetti ivi ricoverati. Per ispirito di carità verso il prossimo, incominciava a dare udienza ora in sagrestia, or in camera alle persone della città, che a lui si recavano per avere consigli o soccorsi; ascoltavali con calma e pazienza, e, potendo, soccorreva generosamente i bisognosi. Talvolta qualche suo famigliare cercava di congedare tali persone come importune, ma io stesso vidi che egli, quando veniva a saperlo, ne provava dispiacere. Non mi accorsi mai che egli perdesse eziandio un sol minuto, o che giuocasse alle carte, o alle bocce per suo divertimento. Vidi che trovava sempre il tempo per essere assiduo al confessionale e per continuare le sue visite agli ospedali e specialmente al Cottolengo”.

                Ancora Carlo Tomatis, ci scriveva come D. Bosco andasse nelle infermerie eziandio quando vi erano curati i mali più contagiosi, e che per questa cagione ebbe una pustola maligna al braccio accompagnata da febbre, da cui guarì però senza ricorso a medicine.

                È quindi per la condotta veramente sacerdotale di Don Bosco che quasi tutti i Vescovi del Piemonte ben presto presero ad amarlo encomiando e favorendo l'opera sua, convinti che questa doveva essere veramente benedetta dal Signore. Un venerando ministro di Dio parlando con noi di Don Bosco osservava: “Tre cose, dice S. Benedetto, formano il santo. Sobrietà nel vivere, giustizia nell'operare, pietà nel sentire. Tres sunt quae sanctum faciunt hominem; victus sobrius, actus justus, sensus pius. A questa stregua giudicate D. Bosco”. [596]

                Abbiamo udito molti personaggi distinti ripetere eziandio: Son pochi gli uomini i quali, studiando un altro uomo, almeno a lungo andare non iscoprano in lui qualche difetto che non avevano scorto prima. Di D. Bosco non fu così; più si studiava e più si doveva stimare. - D. Giacomelli affermava inoltre: - Io ho sempre tenuto D. Bosco come un prete che faceva tutte le sue opere, anche comuni, non in modo comune, specialmente gli atti di religione e di carità. - E a coloro che gli domandavano chi fosse D. Bosco, egli rispondeva: Se lo conosceste! Fu sempre un modello in seminario, ed ora è un sacerdote dei più esemplari.

                Concludiamo con ciò che a noi pure disse D. Reviglio Felice. - Negli undici anni che io ebbi la fortuna di dimorare con D. Bosco posso attestare, che le sue virtù erano così risplendenti ed eminenti, che noi giovani lo dichiaravamo già un santo, ed appunto in vista delle sue eroiche azioni noi ci lasciavamo interamente guidare da lui.

 

 

CAPO LIII. Il sistema metrico sul teatro - Il litro appoggiato alla brenta Otto dialoghi - Sussidio del Regio Economato - Fatiche di D. Bosco nell'esercitare i giovani in queste recite - Risultati ed amenità - Esercizii spirituali alla gioventù di Torino - Avvisi ai giovani.

 

                PASSIAMO ora a dire anche di una specialissima rappresentazione teatrale data dai giovani dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, la quale levò in quel tempo alto grido in Torino.

                Si avvicinava il gennaio del 1850 nel quale, secondo il regio editto, doveva andare in vigore il sistema metrico decimale e cessare affatto i pesi e le misure sino allora usate. Perciò in questo anno il Governo, per essere sicuro di una buona riuscita, per mezzo del Ministro di Agricoltura e Commercio, scrisse e indirizzò un'apposita circolare al Vescovi dei Regno. In essa il Ministro li piegava a voler esortare i parroci delle rispettive Diocesi, onde prestassero la loro valida cooperazione allo scopo accennato, coll'istruire convenientemente le popolazioni alla loro cura affidate, svellerne i radicati pregiudizii, modificarne le inveterate abitudini, affinchè la introduzione del nuovo sistema non avesse ad ingenerare malcontenti, frodi ed inganni. I Prelati aderirono volentieri all'invito del Governo, siccome quelli che furono [598] e sono sempre pronti a promuovere il bene della Chiesa e dello Stato.

                Lo stesso Vescovo d'Asti Mons. Filippo Artico, non ostante le nere calunnie colle quali si era cercato di coprirlo di fango innanzi ai tribunali e le parole equivoche del Ministro di Grazia e Giustizia, che nel mese di agosto aveva tentato di confermare i sospetti contro di lui nella Camera dei Deputati, dalla solitaria sua villa e seminario di Camerano, scriveva in proposito a' suoi parroci una bella circolare concludendo: “Io vi inculco pertanto, in nome anche del Ministro di Sua Maestà, di mettervi d'accordo coi maestri comunali per la istituzione di scuole serali e domenicali, profittando particolarmente delle ore in cui, terminati gli uffizii divini, ogni individuo può senza incomodo assistere alle lezioni; e dove manchi il maestro, vi prego di supplire colla religiosa vostra sollecitudine”. Presso a poco dello stesso tenore erano le circolari degli altri Vescovi, e i parroci non mancarono di secondare queste provvide esortazioni dei loro pastori.

                Anche D. Bosco, che già varii anni prima aveva introdotto nelle sue scuole l'insegnamento del sistema metrico, nel vivo desiderio che i suoi giovani fossero per tempo bene istruiti, nel 1849 aveva fatta una scelta di maestri abili e diligenti che secondassero le sue intenzioni. Fra questi fu Brosio Giuseppe, il quale al cadere della notte, chiuso il suo negozio in città, veniva immancabilmente all'Oratorio per dare le sue lezioni. D. Bosco intanto ristampava da Paravia il suo Sistema metrico - decimale ridotto a semplicità, aumentandolo e migliorandolo, poichè la prima edizione, benchè molto copiosa, in meno di tre mesi era stata esaurita. L'operetta aveva riscosso il suffragio dei pubblici fogli. Parecchi maestri l'avevano introdotta nelle loro scuole esperimentando [599] che la dicitura semplice, i modi popolari e la nitidezza dei concetti la rendevano assai agevole alle intelligenze degli alunni[45].

                Ma di ciò ancor non pago, D. Bosco in quest'anno medesimo immaginò un altro mezzo efficacissimo per far passare la nuova scienza come in sugo e in sangue. Scrisse pertanto e fece recitare nel suo teatro una commedia in tre atti intitolata appunto: Il sistema metrico decimale. Rappresentavasi sul palco come un mercato, dove figuravano varie sorta di venditori e compratori. Ignari questi che avevano incominciato a farsi obbligatorii i pesi e le misure nuove, oppure [600] non volendone sapere, domandavano di fare acquisto coi pesi e misure antiche. Il venditore, già conscio dell'ordine, osservava che queste erano abolite, ed il compratore gridava alla novità, all'imbroglio, all'inganno. Talora i due contraenti si riscaldavano l'uno nel persuadere, l'altro nel non voler essere persuaso: finchè colla pazienza e colla calma il primo riusciva a far entrare la cosa in capo al secondo, che, compresa l'utilità del nuovo sistema, il divario tra l'uno e l'altro peso, tra l'una e l'altra misura, non che la proporzionata e ragionevole differenza di prezzo, finiva per comperare tranquillamente e se ne andava istruito e convinto. Talvolta la scena rappresentava un povero operaio infastidito, il quale incontrando un compagno od il suo antico maestro, lo pregava dell'opportuna istruzione, e l'aveva. Per siffatta guisa si fecero passare i pesi, rilevando il divario tra l'oncia e l'etto, tra la libbra e il chilo, tra il rubbo e il miria. Si venne alle misure lineari, mostrando la differenza, che passa tra il raso e il metro. Si discorse delle misure di capacità, dicendo del boccale e del litro, della brenta e dell'ettolitro, e così del resto. D. Bosco aveva saputo intrecciare così bene i fatti e gli episodii, mettere sulle labbra degli interlocutori parole e diverbii così arguti ed ameni da mutare una materia, per se stessa cotanto arida, in un divertimento giocondo.

                La scena della brenta, del litro e dell'ettolitro fece scoppiare dal ridere. Vi diede occasione il seguente episodio. Uno degli attori, il giovane Giacinto Arnaud, faceva la parte spettante le antiche misure di capacità, e compariva sul palco colla brenta sulle spalle. Deposto il suo arnese e standovi appoggiato, egli doveva in un certo punto fare al suo interlocutore questa domanda: Quanto è grande il litro? Ma non venendogli tosto sulle labbra queste parole, nè tenendo egli la dovuta posizione, il suggeritore a bassa voce gliele ricordò e [601] ad un tempo stesso lo ammonì dell'atteggiamento che doveva tenere, dicendogli: Sta appoggiato alla brenta. Allora il buon giovane, forse un po' confuso, non badò più che tanto al senso dei suo discorso e gridò: Oh! quanto è grande il litro! sta appoggiato alla brenta. A questa uscita uno scoppio di risa risuonò per tutta la platea: il suggeritore non ne poteva più; il compagno di recita si faceva sforzi erculei per tenere la serietà, e dovettero passare alcuni minuti prima che si potesse riprendere la scena.

                Tra i ragguardevoli personaggi, che assistettero a questa rappresentazione fuvvi il celebre abate Ferdinando Aporti, il quale per verità ne fu sì preso che disse: - D. Bosco non poteva immaginare un mezzo più efficace per rendere popolare il sistema metrico - decimale; qui lo si impara ridendo.

                Il giornale L'Armonia nel suo N. 149 del 1849 parlava di detta rappresentazione in questi termini: “Ieri (16 dicembre) assistemmo ad un saggio, che diedero i figliuoli dell'Oratorio di S. Francesco di Sales sul sistema metrico - decimale. Si sa che quest'Opera fu fondata ed è diretta dall'ottimo sacerdote D. Bosco, che all'educazione dei giovani operai consacra le sue sostanze e la sua vita. Non ci stenderemo a fargli verun elogio, chè i suoi giovani colle savie risposte, colle belle maniere, coll'edificante compostezza ieri glielo fecero tale da non potersi desiderare nè più ampio, nè più veritiero. Lo commenderemo però altamente per aver voluto chiudere il saggio con un tratto di storia sopra Pio VI e Pio IX, scritto bene e declamato con forza da un giovinotto, talchè riscosse gli applausi della stipata moltitudine che assisteva”.

                È forse in conseguenza di questa accademia che il Regio Economato veniva in soccorso dell'Oratorio sborsando a D. Bosco il 20 dicembre la somma di lire 400. [602] Non possiamo comprendere come D. Bosco abbia in quest'anno trovato il tempo per scrivere la sopraddetta commedia, che era come un estratto di otto dialoghi che aveva composti sul sistema metrico, i quali per molto tempo fece poi esporre sulla scena, in vario ordine e numero. Furono più di quaranta o cinquanta i giovani ai quali distribuì le parti da studiare, gli uni come attori ordinarii, gli altri come supplenti qualora mancassero i primi. Improba però era stata la fatica ed eroica la pazienza di D. Bosco nel far imparare quei dialoghi a tanti giovanetti senza coltura di studii, a mala pena capaci a leggere, che non capivano il valore di molte parole, il nesso di una proposizione coll’altra. Quante spiegazioni non dovette dar loro, quante maniere adoperare per addestrarli alla mimica, quanto tempo perdere, quante volte ripetere egli stesso un dialogo finchè fosse imparato perfettamente a memoria. E talora non riusciva a raddrizzare loro in bocca certe parole, che, errate ostinatamente nelle prove, facevano poi ridere gli spettatori, col vantaggio di rendere più lepida la recita; come per es. il pronunziare grando per grande, mazzanghino per magazzino.

                Tuttavia tanta costanza, portava in fine i suoi frutti consolanti, sia per l'istruzione acquistata dai giovani, sia per la disinvoltura colla quale si presentavano al pubblico a recitare.

                Questi componimenti erano una vera scuola anche per i giovani spettatori. Variava però sempre l'aspetto delle scene, ora rappresentando una bottega, ora un'officina, ora un'osteria, ora un'aperta campagna, o la casa di un fattore. Erano recati in vista, e adoperati i nuovi e vecchi pesi, le vecchie e le nuove misure; primeggiava eziandio in mezzo il globo terracqueo. D. Bosco trovava sempre nella sua mente feconda il modo di mutare la veste drammatica a' suoi dialoghi. Talora il palco aveva l'aspetto di scuola co' suoi [603] cartelloni, il pallottoliere e la lavagna. Faceva la parte di maestro Giuseppe Brosio, che D. Bosco voleva sempre in divisa da bersagliere. Coloro che rappresentavano gli scolari erano vestiti chi da contadino, chi da brentatore, chi da cuoco, chi da signorotto di campagna e altri in altre foggie. Un mugnaio era tutto bianco per la farina, un fabbro tutto nero per la polvere ed il fumo del carbone. Gli spettatori godevano un mondo di queste scene e ancor più i giovanetti.

                “In una di queste recite, scrivevaci il detto Brosio, all'ultimo atto, gli scolari entusiasmati alle mie lezioni, vollero pagare una merenda al maestro sul palcoscenico, e tosto venne imbandita, coi denari però di D. Bosco, che aveva preparato già prima ogni cosa. Fu una sua improvvisata per dimostrar gratitudine alle mie povere fatiche. Credo che Gastini si ricorderà ancora che per far ridere gli spettatori, si mangiò i nostri aranci e che Piumatti per castigarlo lo prese, lo ficcò nella brenta e così trattoselo sulle spalle, lo portava attorno[46]”.

                D. Bosco però, in mezzo al succedersi e l'avvicendarsi di queste fatiche, non perdeva di vista un solo istante il suo fine primario.

                Quindi dai pensieri della matematica e del tempo, pochi giorni dopo la rappresentazione del 16 dicembre, faceva passare i suoi allievi alle sublimi considerazioni dell'anima e dell'eternità. I frutti ubertosi e consolanti, che gli Esercizii spirituali degli anni precedenti avevano prodotto, animarono D. Bosco a procurarli nuovamente, non soltanto ai giovani dell'Ospizio, ma a tutti quelli che frequentavano i tre Oratorii, anzi a tutta la gioventù di Torino, se gli [604] fosse dato. A questo fine invece di farli dettare nella Cappella dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, troppo ristretta e lontana dal centro della città, dopo aver parlato con chi di ragione, egli scelse la chiesa della Confraternita della Misericordia, detta dei Mercanti, più comoda ed ampia. Avutone il permesso, anzi il più vivo incoraggiamento dall'Autorità ecclesiastica, D. Bosco la Domenica innanzi, che fu la terza di Avvento e il 16 di dicembre, diede e fece dare opportuni avvisi ed annunziò il giorno dell'apertura e l'orario delle sacre funzioni, caldamente raccomandando che tutti vi prendessero parte. - “A mio nome, egli disse, pregate i vostri genitori e padroni che abbiano la bontà di lasciarvi liberi, se occorre, alcune ore del giorno onde possiate intervenirvi comodamente. Dal canto vostro promettete loro che li ricompenserete di quel tempo, con maggiore diligenza e puntualità nei vostri doveri”. Egli stesso visitò quei padri e quei padroni che dubitava non dessero importanza a quell'invito.

                Per assicurare l'intervento di un più gran numero di giovani operai, gli Esercizii vennero fissati nell'ultima settimana dell'anno, nella quale occorrono feste carissime, generalmente bene osservate; fu stabilito un orario che desse meno aggravio ai padroni[47], e venne affisso alla porta delle chiese di Torino e spedito in molte case e laboratorii uno stampato [605] dei tipografo Paravia in 1500 copie a forma di Avviso Sacro, le cui espressioni rivelano tutto l'ardore del prete zelante, dell'amico sincero della gioventù. Di questo Avviso ebbimo una copia tra mano, e qui lo riproduciamo per documento e per saggio del come scriveva D. Bosco in quel tempo:

                “La porzione dell'umana società, così egli, su cui sono fondate le speranze del presente e dell'avvenire, la porzione degna dei più attenti riguardi è, senza dubbio, la gioventù.

                Questa, rettamente educata, vi sarà ordine e moralità al contrario, vizio e disordine.

                La sola religione è capace di cominciare e compiere la grand'opera di una vera educazione.

                Ora, attese le vicende dei tempi e gli sforzi, che i malevoli fanno a fine d'insinuare massime irreligiose nella mobile mente della gioventù, per appagare il desiderio di molti genitori, principali di negozii e padroni di bottega, si è stabilito di dare in pubblico una muta di Esercizii spirituali ai giovani nella chiesa della veneranda Confraternita della Misericordia, che a tale oggetto generosamente concorre.

                Padri e madri, padroni e principali di fabbriche e di negozii, a cui sta a cuore il benessere presente e futuro dei giovani dalla divina Provvidenza a voi affidati, voi potete grandemente al loro bene cooperare col mandarli ed animarli ad intervenire. Il Signore non mancherà di compensare quegli intervalli di tempo, che per avventura doveste per un sì santo fine sacrificare.

                Giovani, giovani miei cari, delizia e pupilla dell'occhio divino, non vi rincresca di tollerare alcuni disagi della stagione, onde procurare alle anime vostre un bene, che non verrà meno giammai. Il Signore chiamandovi ad ascoltare la santa sua parola vi porge favorevole occasione per ricevere le sue grazie e le sue benedizioni. Approfittatene. Beati [606] voi se da giovani vi avvezzate ad osservare la divina legge: Bonum est viro, cum  portaverit jugum ab adolescentia sua” (Gerem.). Fin qui D. Bosco.

                Fin dalla introduzione, che fu la sera del 22 dicembre, la chiesa della Misericordia era gremita di giovani, quasi tutti artigiani. Il Chierico Savio Ascanio assisteva la cara assemblea. I predicatori scelti da D. Bosco erano quattro e dei più adatti alla gioventù. Essi furono: il Canonico Borsarelli, il Teol. Borel, il sacerdote D. Pietro Ponte e il Canonico Lorenzo Gastaldi. Gli Esercizii, che durarono sette giorni, ebbero un risultato felice. Malgrado la cruda stagione, tu fin dal mattino per tempo avresti veduto più centinaia di giovani pendere divoti dal labbro del predicatore: il numero ne era incalcolabile al dialogo del mezzodì e alla istruzione e meditazione della sera. Negli ultimi giorni furono letteralmente assiepati i tribunali di penitenza di parecchi sacerdoti, e nel mattino della chiusura la comunione generale fu numerosa, divota, solenne. Laonde genitori e padroni benedicevano al provvido pensiero di quegli Esercizii, e facevano voti che si tenessero ogni anno. Questa utilissima pratica continuò ancora negli anni susseguenti. Oggidì si prosegue per l'opera e per lo zelo di una pia Società cattolica di operai Torinesi specialmente nell'occasione della Pasqua, allo scopo di aiutare i giovanetti più bisognosi a compiere con frutto il precetto della SS. Comunione. Lode ai benemeriti socii, il meritato applauso ai veri amici della gioventù.

                D. Bosco alla chiusa dei suddetti esercizii aveva fatto stampare e distribuiva agli intervenuti e poi al fin dell'anno a tutti i giovani dei tre Oratorii, il seguente foglietto. [607]

 

                               Avvisi di un amico alla gioventù secondo i bisogni dei tempi.

 

                1° Ricordatevi, o giovani, che voi siete la delizia del Signore. Beato quel figlio che da giovane comincia ad osservare la legge del Signore.

                2° Iddio merita di essere amato perchè ci ha creati, ci ha redenti, e ci ha fatto e ci fa innumerevoli benefizii e tiene preparato un premio eterno a chi osserva la sua legge.

                3° La carità è quella che distingue i figliuoli di Dio dai figliuoli del demonio e del mondo.

                4° Colui che dà buoni consigli a' suoi compagni fa grande opera di carità.

                5° Obbedite ai vostri superiori, secondo il comando di Dio, ed ogni cosa vi riuscirà bene.

                6° Chi vuol vivere da buon cattolico deve guardarsi da quelli che parlano male della religione, dei suoi ministri e specialmente dei Papa che è il padre di tutti i cattolici. Dite pur sempre essere un cattivo figlio chi parla male di suo padre.

                7° Guardatevi dalla lettura dei libri e dei fogli cattivi e procurate di leggerne dei buoni.

                8° Le abitudini formate in gioventù per lo più durano tutta la vita: se sono buone ci conducono alla virtù e ci dánno morale certezza di salvarci. Al contrario guai a noi se ne prendiamo delle cattive.

                9° Le cose che sogliono allontanare il giovane dalla virtù sono i cattivi compagni, l'eccesso del bere, l'attaccamento al giuoco, l'abitudine al fumare tabacco.

                10° Per cattivi compagni s'intendono: 1° Quelli che cercano di parlare di cose disoneste, o fanno cose contrarie alla virtù della modestia. 2° Che parlano con disprezzo della religione [608]. 3° Che vi allontanano dalle funzioni di Chiesa o v'invitano a trasgredire i vostri doveri.

                11° L'eccesso del bere snerva le forze del corpo, fa venire a noia la divozione, porge occasione di frequentare luoghi pericolosi.

                12° L'attaccamento al giuoco vi conduce alle risse, alle bestemmie, al trasgredire i vostri doveri ed a profanare i giorni festivi.

                13° L'uso del tabacco e sopratutto il fumarlo e il masticarlo, guasta i denti, indebolisce le forze alla gioventù e conduce a frequentare compagni viziosi.

 

AVVISI DI MASSIMA IMPORTANZA.

 

                1° Fuggite l'ozio e gli oziosi, lavorate secondo il vostro stato; quando siete disoccupati siete in gravissimo pericolo di cadere in peccato. L'oziosità insegna ogni sorta di vizii.

                2° Vivete pure nella massima allegria, purchè non facciate peccato.

                3° Fate ogni sforzo possibile per non mai perdere la predica nei giorni festivi.

                4° Sceglietevi un confessore di vostra confidenza, frequentate i Sacramenti della Confessione e Comunione. S. Filippo Neri, quel grande amico della gioventù, esortava i giovani a confessarsi ogni otto giorni e a comunicarsi anche più spesso secondo gli avvisi dei confessore.

                5° Figlio, hai un'anima sola; pensa a salvarla. Nulla giova acquistare tutto il mondo se perdi l'anima tua. Beato chi si trova in punto di morte e avrà fatto opere buone in vita sua.

 

Scrivi, o figlio, nel cuore il detto mio

Fallace è il mondo, il vero amico è Dio. [609]

 

                D. Bosco intanto nel frattempo degli esercizii non aveva tralasciato di celebrare una messa alla mezzanotte del Santo Natale, colla Comunione generale, avendogli Pio IX rinnovata questa facoltà per altri tre anni; e donava ai giovani dell'Oratorio cinquecento copie di una lode a Gesù Bambino, colle note musicali, stampate per suo ordine da Speirani e Ferrero.

 

 

CAPO LIV. I Chierici della Diocesi dispersi sono raccolti nell'Oratorio - Le scuole del Seminario - Regole per questi chierici nell'Oratorio - Ammaestramenti, consigli, correzioni - Il Kempis - I biglietti di D. Bosco - Le strenne pel Capo d'anno ai chierici - La scuola di geografia in Seminario e nell'Oratorio - I chierici di D. Bosco e il servizio religioso nelle chiese di Torino.

 

                L’ANNO 1849, nel suo tramonto, lasciava prevedere che gravi fatti stavano preparandosi contro Chiesa Cattolica. Eran note le predizioni del Padre Bernardo Clausi, morto in concetto di santità il 20 dicembre a Paola in Calabria e che D. Bosco aveva conosciuto a S. Francesco d'Assisi nel 1842. Egli aveva annunziato che prima che sparisse la presente generazione sarebbero avvenute nel mondo terribili catastrofi, flagelli divini affatto inauditi, persecuzioni spaventose contro i buoni, conversioni miracolose di empii, trionfo repentino della Chiesa quando i inali fossero giunti al colmo. Ma l'indizio più certo di tempi infelici era la deficienza improvvisa e quasi generale degli alunni del Santuario, i quali nel massimo numero avevano deposta la veste clericale, od erano stati costretti dai varii Prelati a deporla, per lo stravolgimento delle idee, causato dalla rivoluzione. Bisognava in qualche modo riparare a tanto danno; ma con qual mezzo? [611]

                Per causa delle guerre era stato chiuso il Seminario di Torino, ed occupato dai militari. In conseguenza eziandio i pochi chierici rimasti fedeli ai proprii doveri avevano dovuto ritirarsi nei loro paesi, privi dei mezzi necessarii per recare a compimento la loro istruzione ed educazione ecclesiastica; oppure mettersi in pensione a Torino, quale in una, quale in un'altra famiglia privata, fra le distrazioni, e le abitudini mondane, non senza pericolo di perdere la celeste vocazione.

                D. Bosco nel 1848 - 49 aveva dato convegno nell'Oratorio a questo e quel seminarista torinese, e li intratteneva con lezioni di Teologia; ma ciò non bastava per secondare le calde raccomandazioni dei suo Arcivescovo. Egli pertanto, quantunque vedesse la disastrosa malignità dei tempi e l'assoluta mancanza dei mezzi adeguati, si accinse all'opera di riparazione. Esaminati con calma i provvedimenti da prendersi, appoggiato come sempre alla divina Provvidenza, venne nella risoluzione di aprire nella sua stessa casa un asilo per i chierici dell'Archidiocesi.

                A questo scopo ottenne che il Sig. Pinardi lo aiutasse ad allontanare alcuni inquilini che ancora occupavano un'ultima stanza a pianterreno del suo edifizio. Costoro infuriarono, minacciarono D. Bosco e sua madre e lo stesso proprietario, e si dovette fare grande sacrificio di denaro perchè se ne andassero in pace. Per questa guisa si ebbero due spirituali vantaggi: si bandirono dal vicinato individui di mala vita, che per molti anni avevano fatto di quel sito un covo di satana, a tal segno che talvolta comparivano nel cortile persone che obbligavano a chiudere occhi ed orecchie per non vedere ed udirei recando così gravissimi disturbi. L'altro vantaggio pure assai rilevante si fu che, avuto a sua disposizione maggior locale, D. Bosco potè incominciare a [612] raccogliere alcuni giovani leviti, qua e colà sbandati, e tenerli presso di sè. Al Ch. Savio Ascanio si aggiunsero i chierici Vacchetta, Chiantore, i due Carbonati, e nel novembre del 1850, Damusso, e poi a poco a poco altri ed altri. Qualcuno, appartenendo a famiglia agiata, pagava pensione di 45 o 30 lire mensili, altri una somma al tutto esigua; e i poveri furono accettati gratuitamente. Essi convivevano e studiavano nell'Ospizio, e sedevano a mensa comune con D. Bosco, il quale non servivasi di altra minestra fuor di quella dei giovani, ne' di altre pietanze che delle servite ai chierici. Mattina e sera recavansi a scuola nei locali lasciati liberi dal Governo nell'edifizio del Seminario. Nelle stanze di facciata, ove abitavano col Rettore Can. Vogliotti, gli altri Superiori cogl'insegnanti di filosofia, di fisica e di teologia morale, assistevano alle lezioni secondo il corso al quale erano ascritti. Per la scuola di Teologia speculativa salivasi ad un ampio e semibuio mezzanino dove il mobile più vistoso era un fornello da cucina rivestito di tavole connesse e fisse; e attigua aveva un'altra misera stanzetta. Qui esponevano i loro trattati i Teologi collegiati Marengo Francesco, Molinari Francesco, Appendini Bernardo, Allais, cordiali amici di D. Bosco. Professore di filosofia, era Don Farina Teol. Lorenzo. Quasi tutti i loro scolari provenivano dall'Oratorio ed erano animati da un vivo desiderio di far progressi nello studio. Ad alcuni insegnava la filosofia e la matematica nella propria abitazione il Teol. collegiato Augusto Berta, poi canonico della Congregazione di S. Lorenzo e professore dei Seminario metropolitano quando dal Governo fu restituito alla diocesi, dopo sedici anni di occupazione soldatesca, cioè sul finire del 1864. Dal 1849 - 50 adunque l'Oratorio di Valdocco divenne il Seminario dell'Archidiocesi e del Piemonte, e si può dire che tale fu per venti anni, poichè, come vedremo, gran numero di giovanetti raccolti, mantenuti, istruiti nella [613] lingua latina, vestiti da chierici, mandati alla scuola dai professori del Seminario per le spese e le fatiche di D. Bosco, furono da lui rimessi preti ai Superiori Ecclesiastici di varie diocesi.

                Questi chierici attendevano in comune alle pratiche di pietà, imparavano le sacre cerimonie, prendevano parte coi giovani, o assistendo od esercitando il loro ordine, alle feste dei principali misteri di N. S, Religione. D. Bosco metteva un grande impegno perchè riuscissero splendide, e i divini ufficii si cantassero con decoro. Specialmente egli era zelantissimo nell'invitarli a frequentare la S. Comunione. Affermavano varii fra questi chierici e specialmente Savio Ascanio: “Non lasciava alcuna occasione per raccomandarci di non omettere mai la visita quotidiana al SS. Sacramento, fosse anche brevissima, purchè costante. Ci animava ad acquistare lo spirito di preghiera, perchè, diceva: L'orazione è necessaria a coloro che si consacrano al servizio degli altari quanto al soldato la spada. - Ci esortava ad aver fede, perchè ogni bene tanto spirituale quanto temporale viene dal Signore, e in ogni occorrenza di bisogni, senza perderci in lamentanze o cure inutili, hassi a ricorrere in primo luogo a Lui. Di più ci consigliava, quando si trattasse di ottenere una grazia importante, per noi o per gli altri, e specialmente se per la salute delle anime e per un'impresa di gloria a Dio, di fare qualche voto temporario di cosa che in quel momento conoscessimo essere di maggior gradimento al Signore, e ci assicurava che ciò avrebbe rese più efficaci le nostre preghiere. Dal modo che parlava ci accorgevamo essere questo un mezzo col quale egli attirava le benedizioni celesti sopra le sue intraprese. Ei si prendeva gran cura dei chierici. Ci convocava a conferenze per confermare sempre più in noi lo spirito ecclesiastico e la fedeltà alla vocazione, e ci ripeteva essere [614] la santa abnegazione la prima virtù dei discepoli di Gesù Cristo. Esclamava sovente: - Incominciate a mortificarvi nelle cose piccole, per potervi poi facilmente mortificare nelle grandi. - S'informava dei nostri studii, esortandoci a metterci in grado, con una santa vita ed una soda scienza teologica, di salvare quante più anime avremmo potuto. E aggiungeva: - Ma se avremo la scienza senza l'umiltà, non saremo giammai figliuoli di Dio, sibbene figli del padre della superbia che è il demonio! - E talora ripeteva a chi era facile nel parlare de' suoi studii: - Non dir sempre quello che sai, ma fa di saper bene quello che dici.

                “Osservava attentamente la nostra condotta e ci trattava con tanta amorevolezza che gli portavamo un affetto figliale riponendo in lui ogni confidenza. Ed egli si affaticava a distruggere in noi ciò che poteva condurci al peccato, e per incoraggiarci a vincere i nostri difetti, diceva che non bisogna pretendere di diventar santi in quattro giorni, perchè la perfezione si acquista con fatica a poco a poco”.

                Quasi non passava giorno senza che desse in particolare qualche consiglio a' suoi chierici. Ripeteva a Savio Ascanio: - Procura di agir sempre con un principio di fede e non mai a caso o per fini umani. Dà sempre grande importanza a tutte le cose che fai - E altra volta: - Di Dio pensa secondo la fede, del prossino secondo la carità, di te bassamente secondo l'umiltà. Di Dio parla con venerazione, del prossimo come vorresti che si parlasse, di te, di te stesso parla umilmente o taci.

                Se, qualcuno entrava a parlar di politica con un po' di passione: - Attienti, gli diceva, alla massima di D. Cafasso, cioè di non essere di alcun partito per virtù, e non mostrarti partigiano per prudenza. - Sorgendo fra i chierici dispute scientifiche; storiche o pedagogiche, soleva raccomandare [615] che non si contraddicesse direttamente all'opinione altrui; che la propria si esprimesse con modesta diffidenza, dicendo mi sembra; suppongo; la cosa è così, se non m'inganno. Quando non si cerca di contraddire si è ascoltati con attenzione e piacere, e benevolenza, e rimangono convinti quelli che si vogliono fare entrare nelle nostre vedute. Il difetto di modestia nel parlare, indica mancanza di giudizio.

                Usava una gran prudenza nel compatire la suscettibilità dei varii caratteri, non prendendoli di fronte nel comandare; e specialmente nella distribuzione degli impieghi. Non mancava mai di correggerli al minimo difetto che in essi scoprisse, ma stava in grande attenzione a non disgustar nessuno. Il suo avviso non era mai un rimprovero che irritasse, e tutti intendevano come egli ciò facesse per amore del loro bene. Un giorno diceva ad un chierico, troppo attaccato alla propria volontà: - Tu sei un giovane di giudizio e sai meglio di me che solo l'obbedienza può condurci per la strada sicura. Venne a sapere che alcuni si erano preparata una merenda. Quel pasto fuori dell'ordinario non era un delitto, ma neppure un atto di virtù. Avendoli incontrati dopo qualche settimana disse loro sorridendo: - Voi altri che studiate la teologia morale, ditemi un po': in quanti modi si può mancare mangiando? - Gli interrogati, che più non pensavano alla loro scappatella si affrettarono a rispondere: - In cinque modi: Praepropere, laute, nimis, ardenter, studiose. - Bravi! soggiunse Dori Bosco; e non disse di più. Ma quei chierici, riflettendo, intesero la portata di quei bravi! e approfittarono dell'ammonizione. Nell'inverno uno di questi da qualche mattina non compariva in Chiesa ad ascoltar la S. Messa, perchè si levava da letto più tardi dell'ora stabilita. In tempo di ricreazione essendosi costui avvicinato a D. Bosco, sentissi chiedere: - Oh! come son contento di vederti; e come stai di sanità? [616]

                - Benissimo, grazie a Dio, - rispose quel chierico.

                - Tanto meglio! Credeva che tu fossi ammalato; è qualche giorno che non ti vedeva prendere parte al mattino alle orazioni in comune. - La lezione produsse il suo effetto e il chierico fu più diligente.

                Da notarsi ancora che D. Bosco qualche volta rimandava le correzioni a più mesi, quando era persuaso che riuscirebbero più efficaci e sarebbero meglio accolte. Ben inteso che, quando si trattava di casi più importanti, le faceva subito, ma sempre con parole dolci e con mansuetudine. Talvolta anche una sola occhiata valeva una predica. Così narrava Reviglio Felice, il quale attentamente osservava ogni azione, ogni detto di D. Bosco, e aggiungeva quanto fosse ricco di espedienti per far vivere i chierici in un ambiente spirituale.

                Talvolta per intrattenerli in ricreazione apriva a caso il libro del Kempis o lo faceva aprire ad essi, ed indicava che leggessero o il primo o l'ultimo versicolo della pagina, ovvero a metà per averne un avviso salutare; e li esortava ad accogliere con rispetto le risposte eventuali che ne ricevevano, poichè li assicurava ne avrebbero ricavato grande vantaggio. In fatti la materia di questo aureo volumetto è sparsa di tanta varietà di condimenti, che qualsivoglia tratto venga sottocchio, offre sempre qualche sussidio opportuno al presente bisogno di chi lo legge. I chierici non credevano certamente all'infallibilità di questi responsi, ma quante volte uno esclamava: “Fa proprio per me”; un secondo leggendo faceva ridere i compagni che gli dicevano: “È a proposito”. Talora un terzo leggeva, arrossiva, chiudeva il libro e si schermiva dal dire ciò che aveva letto.

                Un'altra industria di D. Bosco era lo scrivere di quando in quando un bigliettino, facendolo rimettere a chi voleva [617] dare un consiglio. Alcuni furono conservati, ed eccone il tenore: - Parla poco degli altri e meno di te. - Ama i tuoi doveri se desideri di bene adempirli. - Sopporta volentieri i difetti altrui se vuoi che gli altri sopportino i tuoi. - Non cercare di scolparti de' tuoi difetti; cerca piuttosto di emendartene. - Agli altri perdona tutto, a te nulla. - Non tener per amico chi soverchiamente ti loda. - Dimentica i servizii prestati e non i ricevuti. - La salvaguardia più sicura contro l'ira è il tardare a sfogarla. - Non lodare un uomo per la sua avvenenza: Così lo Spirito Santo.

                Oltre a ciò D. Bosco fin dai primi tempi aveva incominciato a dare sul finir dell'anno una strenna a tutti i suoi giovani in generale e un'altra a ciascuno in particolare. La prima consisteva in norme da seguirsi pel buon andamento dell'anno che stava per incominciare, e talora eziandio con previsioni di ciò che sarebbe accaduto. La seconda era una massima od un consiglio, a voce confidenzialmente o in iscritto, adattato ai bisogni ed alla condotta di ciascuno. Ai chierici la dava scritta in lingua latina, traendola dalla Santa Scrittura o dai Santi Padri. Qualcuno di questi biglietti fu custodito come preziosa memoria da quei primi chierici che ce ne diedero copia. - Ad uno scriveva D. Bosco: Non coronabitur nisi qui legitime certaverit. - Ad un secondo: Delectet mentem magnitudo praemiorum, sed non deterreat certamen laborum. - Ad un terzo: Cogitas magnam fabricam costritere celsitudinis? De fundamento prius cogita humiliatatis. - E via, via: - Semper, dico, vigila. - Fili, sine consilio nil facias et post factum non poenitebis. - Alcuni biglietti erano però così intimi che certamente il possessore li teneva segreti. Queste strenne caratteristiche colpivano il cuore, rimanendo stampate nella mente, e lungo l'anno, ricordate da D. Bosco in momento opportuno ed in segreto, producevano mirabili [618] effetti. Quasi ogni anno, cioè finchè visse, D. Bosco continuò a dare tali strenne.

                Ma se con queste industrie i chierici approfittavano nello spirito, corrispondevano eziandio alle sue premure facendo grande profitto nello studio. Di questa nostra asserzione daremo a suo luogo le prove. D. Bosco intanto per secondare il loro amore allo studio e per sempre meglio sorvegliarli, ci narrava D. Giacomelli, nel 1850 e 1851 recavasi in giorni determinati a far loro scuola di geografia sacra nella sala destinata in seminario per i teologi. Egli, per acquistare una più chiara intelligenza della Santa Scrittura, aveva studiata accuratamente la geografia antica dei luoghi santi e di tutte le regioni confinanti colla Palestina, non esclusa l'Asia Minore, la Mesopotamia, l'Egitto e la Grecia. Il dottissimo Teologo collegiato Ghiringhello Giuseppe, professore di lingua ebraica, aveva tale stima di lui, che più volte venne a consultarlo su varii punti dell'ermeneutica e su certe narrazioni bibliche che richiedevano spiegazione.

                Con grande piacere le lezioni del nuovo maestro furono ascoltate eziandio dai pochissimi chierici dei varii corsi che abitavano in Torino, perchè metteva loro innanzi con grande esattezza la topografia delle regioni e delle città, descrivendo con vivi colori i fatti dei quali erano state il teatro. Sapeva pure con grande unzione citare opportunamente sentenze dei libri profetici e sapienziali, cosa a lui famigliare, in ogni circostanza notabile.

                Parlando dei luoghi santificati da N. S. G. C. nella sua vita mortale, pareva superasse se stesso. E affinchè la divina passione fosse ben impressa nei cuori, raccomandava ai chierici e ai sacerdoti lo studio anche archeologico dei viaggi, fatti dal Redentore nella Palestina, specialmente sulla via del Calvario colle circostanze di sua morte, per tenerne sempre [619] più viva memoria ed eccitare meglio negli animi la gratitudine verso Gesù Crocifisso.

                Dopo un anno e più di tale scuola, dovette sospendere le sue lezioni in Seminario per causa delle faccende che non gli davano tregua. Desiderando però continuarla in qualche modo, la trasportò nell'Oratorio ed il giovane Rua Michele, sebbene ancora secolare, vi prese parte coi chierici, e udillo più volte a rimproverare amorevolmente chi talora si permetteva di scherzare colle parole o sentenze dei libri sacri. - Nolite miscere sacra profanis, - egli esclamava con un'espressione di voce e di sembianze, che manifestava quanto egli soffrisse per quella irriverenza alla parola di Dio.

                Nell'Oratorio, come aveva fatto nel Seminario, oltre la geografia sacra, trattava della geografia delle varie parti del mondo in servigio della storia Ecclesiastica. La conosceva perfettamente, e sapendola maneggiar bene, le sue conferenze domenicali su questa storia erano grandemente attraenti. Il giovane Marchisio ed altri venivano all'Oratorio per udire da lui ripetizioni sulla geografia universale. Fu D. Bosco che esortò e spinse Marchisio a disegnare la sua famosa carta geografica postale, prima del Piemonte e poi di tutta l'Italia, che gli guadagnò l'ufficio di Direttore delle poste a Roma. Egli stesso gliela corresse di mano in mano che il lavoro progrediva. Mons. Miotti, Vescovo di Parma, diceva poi a Don Francesia nel 1890: “Nel 1862, mentre era Direttore e professore nel Collegio Municipale di Chieri, venni a visitare D. Bosco nell'Oratorio. Trovatolo nel cortile egli mi condusse in sua camera. Entrammo a parlare di geografia. Egli me ne trattò con tanta estensione, profondità di cognizioni e precisione, che io rimasi stupito di quell'uomo”.

                La virtù adunque, la scienza e le fatiche di D. Bosco avevano guadagnata a lui tutta l'affezione di quei buoni aspiranti [620] al sacerdozio. Un giorno uno di questi gli domandava che cosa avrebbe potuto fare per recargli maggior piacere, e D. Bosco rispose: - Aiutami a salvare molte anime e prima la tua. - E più volte ripetè queste parole stesse ad altri chierici che rinnovavano così affettuosa domanda. Quindi varii di essi per riconoscenza erano divenuti un suo potente aiuto nell'assistere e catechizzare i giovani dell'Oratorio festivo con grande vantaggio spirituale proprio e degli altri. Col loro esempio infatti ispirarono eziandio a parecchi il desiderio di vestire le sacre divise, come a suo luogo diremo. Di costoro però D. Bosco non poteva servirsi molto nella sorveglianza dell'Ospizio e nelle scuole serali, e appena appena alla Domenica si prestavano qualche volta ad andare in Vanchiglia o a Porta Nuova. Le loro aspirazioni erano tutte opposte ai progetti di D. Bosco, e ad altro non pensavano che ai loro studii. Perciò D. Bosco, con una costanza mirabile, continuava la scuola ai quattro che aveva scelti, Bellia, Gastini, Reviglio e Buzzetti.

                Intanto, oltre all'educazione dei chierici, D. Bosco apprestavasi a rendere un altro eminente servizio alla diocesi di Torino, coi procurare un culto decoroso a' suoi templi. Egli stesso o qualche sacerdote amico da lui invitato, esercitava i suoi chierici nelle sacre cerimonie, e a questo fine il Teol. G. B. Bertagna veniva nell'Oratorio per tutto l'intero anno 1855. Dalla Curia Arcivescovile e dal parroco dei Ss. Simone e Giuda si esigeva che i chierici di D. Bosco assistessero alle funzioni sacre nella Metropolitana, alle quali avrebbero dovuto intervenire i seminaristi che allora mancavano, e nella parrocchia di Valdocco. D. Bosco cercava volentieri e in ogni modo, ed anche con suo grave incomodo, di contentare i Superiori Ecclesiastici; e perciò mandava regolarmente alcuni suoi chierici a fare il catechismo e gli ufficii religiosi nella [621] propria parrocchia; a servire i canonici nella cattedrale in tutte le feste dell'anno; e a richiesta dei parroci e dei rettori li conduceva in speciali circostanze ad altre chiese della città; Fra queste era preferito il Santuario della Consolata nella mezzanotte di Natale e nella Settimana Santa. Ma in tale settimana gli stessi chierici, con grande fatica e zelo, andavano a servire a tutte intiere quelle lunghe funzioni, in tre chiese consecutivamente; l'ultima, all'ora più tarda, era la Metropolitana. D. Bosco ne riteneva in casa solamente alcuno, che era indispensabile per gli Oratorii festivi.

                Necessario e grandemente meritorio fu questo servigio che D. Bosco rendeva alla sua diocesi, tanto più che, per le morti continue di vecchi ministri del Signore, incominciarono a scarseggiare in Torino anche i Sacerdoti, sicchè D. Bosco appena ebbe preti con sè, per invito del Vicario Generale, dovette mandarne tutte le feste qualcuno alla Metropolitana per celebrarvi la Santa Messa. Uno fra questi fu il Professore Sac. Celestino Durando. Tale stato di cose durò fino al 1865, e per altri anni ancora nelle vacanze autunnali continuarono ad andare al Duomo i chierici dell'Oratorio non trovandosene in città,

                Si doveva pertanto lamentare: Messis quidem multa, operarii autem pauci; ma D. Bosco non dimenticava l'esortazione di N. S. Gesù Cristo: Rogate autem Dominum messis ut mittat operarios in messem suam. Perciò ordinava fin dai primordii dell'Oratorio che si recitasse in casa ogni giorno un Pater, Ave e Gloria per i presenti bisogni di Santa Chiesa. E Dio ascoltava le sue preghiere, e infondevagli le virtù necessarie per risvegliare, conservare e far crescere, moltiplicandole, le vocazioni al santuario. La sua condotta ammirabile faceva concepire dai giovani una gran stima per il carattere e lo stato sacerdotale, mentre la sua carità e dolcezza [622] infondeva una attrattiva convincente ai consigli che dava in nome di Dio. Quanti lo conobbero nell'intimità della sua conversazione lo proclamarono padrone dei cuori, e di lui ripeterono col libro dei Proverbii: - Il volto ilare del Re dà la vita, e la clemenza di lui è come la piova serotina[48].

 

 

NOTA. Dialoghi scritti da D, Bosco sul Sistema Metrico.

 

 

 

DIALOGO I. Scoperta - Definizione del sistema - Sue unità fondamentali. Cesare e Ferdinando.

 

                Ces. Tempi stravaganti!!! Se io fossi alla testa degli affari, vorrei tagliare capo e coda a quell'ente immaginario che chiamano progresso e mandarlo in sepoltura.

                Fer. Che hai, Cesare, da mostrarti cotanto sconsolato? Questa è cosa insolita pel tuo animo sempre mai pacifico.

                Ces. Non sai?

                Fer. Non so nulla; spiegati.

                Ces. Sono sei mila anni che il Signore creò il mondo e non si è mai parlato di sistema metrico. Adesso che il mondo camminava in santa pace, ecco una novità: Sistema metrico decimale; subito si cangino pesi, misure, e chi non sa cavarsi almen sappia imbrogliarsi... oh che tempi! oh che teste!

                Fer. Adagio, caro Cesare, le cose siano antiche, siano nuove, non vogliono mai essere disprezzate, ma giudicate ragionevolmente. Se io ti facessi in poche parole conoscere che il Sistema Metrico è stata un'ottima scoperta, che diresti tu?

                Ces. Ti darei dei valoroso, ma nol credo.

                Fer. Ascoltami in pace e ti appagherò. Se in un paese ci fosse la libbra di dodici oncie ed in altri di dieci, di quattordici e fino di sedici, non diresti questo essere un imbroglio nel commercio?

                Ces. Senza dubbio, e vi sarebbe gran pericolo di essere ingannati nei contratti.

                Fer. Questa regione è il Novarese, in cui c'è un'enorme diversità dì pesi da un luogo all'altro Ascolta ancora: in un paese dove ci sia vareità nelle misure del panno, delle campagne, del grano, della meliga, [624] del vino e simili non troveresti in ciò un pericolo grande di ingannare e di essere ingannato nelle compre o nelle vendite?

                Ces. Questo andrebbe male tanto per i forestieri, quanto per i compaesani.

                Fer. Questo paese è il Monferrato. Ora se si trovasse un sistema invariabile, per cui in tutti i paesi venisse usato un solo modo di pesare, di misurare e numerare, l'approveresti tu?

                Ces. Caro Ferdinando, benedirei mille volte l'inventore, e non risparmierei nè studio, nè fatica per impararlo.

                Fer. Eccoti nel laccio. Il Sistema Metrico decimale è quel gran sistema che in tutti i paesi, in tutte le provincie, in tutti i luoghi rende invariabili ed uniformi i pesi e le misure di qualsiasi genere. È perciò che molti Governi si sono messi d'accordo di adottarlo e speriamo che anche dagli altri popoli saranno imitati.

                Ces. Col sistema metrico decimale si può dunque stabilire questa grande uniformità?

                Fer. .

                Ces. Oh! prima di darmi per vinto, mi dovrai ancora dire più cose. Primieramente come fecero a fabbricare questo sistema? Io non ho mai veduto questa fabbrica.

                Fer. Esso è basato sul metro, il quale è la quaranta milionesima parte del meridiano terrestre. Tu ridi, e perchè?

                Ces. Perchè capisco meno che prima. Che cosa è il meridiano terrestre?

                Fer. Per meridiano terrestre s'intende una linea che parte dal luogo ove siamo, passa per i due poli, cioè alle due estremità della terra e ritorna ove ha cominciato. Più semplicemente: Se prendi un filo, e lo fai passare tutto intorno alla terra, e lo dividi in quaranta milioni di parti uguali, ciascuna di queste parti, è lunga un metro. Indi ne segue che questo meridiano o circonferenza della terra essendo in ogni luogo la stessa, gli uomini non faranno difficoltà ad adoperare in tutti i paesi gli stessi pesi e le stesse misure. (Mette sul tavolo un globo terrestre, prende un filo, lo fa passare attorno a quel globo e ripete. Ecco il meridiano!)

                Ces. Ferdinando, credi tu che vi sia stato quell'uomo sì paziente per misurare tutta questa circonferenza della terra?

                Fer. Vi fu veramente, e sebbene non abbia percorsa tutta la circonferenza, misurò un piccolo tratto e mediante l'esattezza del calcolo ebbe la lunghezza cercata.

                Ces. Ti pare di avermi detto tutto, ed io ho capito pochissimo. Capisco che il metro è la quaranta milionesima parte della circonferenza [625] della terra, e che questa misura è invariabile in tutti i paesi di questa mondo (volto agli astanti). Non so se nell'altro mondo si faccia anche uso del Sistema Metrico. Io però punto non comprendo la lunghezza del metro; fammi veder questo, e poi vedrò, farò, dirò se mi piace o no questo sistema.

                Fer. Lodo il tuo buon giudizio. Tu non fai come tanti cianciatori i quali biasimano e disprezzano ogni cosa senza mai averne avuto cognizione. Tu vuoi vedere e ragionare: eccomi pronto ad appagarti. Il Sistema Metrico è il complesso di tutti i pesi e di tutte le misure aventi il metro per base. Vale a dire: Tutti i nuovi pesi e le nuove misure hanno per base il metro od una parte del metro. Questo è il metro (lo mostra) ed è lungo 231/3 di oncia del piede liprando ovvero piemontese. Quasi due dei nostri piedi piemontesi fanno un metro. Questo sistema dicesi anche decimale perchè cammina sempre per dieci, sia nell'aumentare come nel diminuire. Tu mi dimanderai: Quali sono le unità fondamentali di questo sistema? Ti rispondo: Le unità fondamentali di questo sistema sono sei:

                1° Il metro per le misure di lunghezza; e serve a misurare panno, tela, strade e simili.

                2° Il litro per le misure vuote o di capacità; e serve a misurare grano, meliga, vino, acqua ecc.

                3° L'ara per le misure di superficie, come sono prati, campi, vigne ecc.

                4° Lo stero per la legna, paglia, fieno, ghiaia ecc.

                5° Il gramma per ogni sorta di peso.

                6° Il franco per le monete secondo che già abbiamo in uso.

                Ecco le cose che mi hai domandato: i nostri compagni ti daranno maggiori spiegazioni di quanto io ti ho brevemente accennato.

                Ces. Bravo, caro Ferdinando, sono soddisfatto di quanto mi hai esposto intorno al Sistema Metrico, e ti assicuro che per l'avvenire ne parlerò favorevolmente, e di buon animo mi occuperò per impararlo.

 

 

 

DIALOGO II. Spiegazione delle unità e loro derivazione dal metro. Lorenzo ed Alberto.

 

                Lor. Hai inteso, Alberto, i nostri amici a ragionare del Sistema Metrico?

                Alb. Sì, ho inteso, ed ho capito la loro discussione sul vantaggio grande che il nuovo sistema porta al calcolo ed al commercio. [626]

                Lor. Ma mentre parlavano delle unità fondamentali di questo sistema, ho sentito la parola metro, tirolitro, tirolara: ora desidererei da te una distinta spiegazione di queste parole, e prima: Invece di quali misure si userà il metro?

                Alb. Non hanno detto tirolitro, tirolara, ma bensì litro ed ara. E per farti un'idea delle unità principali di questo sistema nuovo, bisogna ripassare i pesi e le misure del sistema antico. Dimmi adunque: sai che cosa è il trabucco, il piede, il raso?

                Lor. Sì, so che il trabucco ed il piede si usano per misurare le strade, le campagne; il raso per le misure di bracciatura, come sono panno, tela, ecc.

                Alb. Or bene invece di queste misure si userà il metro, sia in luogo del raso come del trabucco e del piede.

                Lor. Per le misure di lunghezza il metro va bene; ma per le misure dei prati, campi e vigne si userà anche il metro?

                Alb. Per le misure di superficie, dei prati, campi e vigne si usa il metro quadrato che è un quadrato avente un metro di lato. Siccome però questo spazio sarebbe troppo piccolo per le misure di campagne, così invece del metro quadrato venne adottato il decametro quadrato.

                Lor. Capisco poco il metro quadrato e adesso capisco niente, nientissimo il decametro quadrato: sei italiano, dunque parla italiano. Se tu cercassi nei vocabolari di tutti i rabbini credo che non troveresti la parola.

                Alb. Queste parole sono italiane, sebbene non ancora molto conosciute; se hai un po' di pazienza te le farò facilmente capire - Vedi questo metro?

                Lor. Lo vedo anche senza occhiali...

                Alb. Un quadrato vale a dire uno spazio fatto così (forma un quadrato sulla lavagna) con ciascuno dei quattro lati lungo come questo metro si dice metro quadrato.

Lor. (lo mira). Oh! adesso comincio a capire che cosa è metro quadrato: ma e quel decametro quadrato decametro

                Alb. Se tu supponessi lo spazio del metro quadrato cento volte maggiore, che cosa avresti?

                Lor. Avrei cento metri quadrati.

                Alb. Quello che chiami cento metri quadrati, forma appunto il decametro quadrato. Esso è un quadrato i cui lati sono lunghi dieci metri ciascuno; e questo quadrato dicesi anche ara.

                Lor. Oh Deo gratias! tu mi fai capire cosa che non ho mai capito. Dimmi ancora: quest’ara che cosa vuol dire? invece di quali misure si userà? [627]

                Alb. Ara dicesi da arare perchè serve specialmente a misurare le campagne, e si userà in luogo della tavola,

                Lor. L'ara è più o meno spaziosa della tavola?

                Alb. L'ara contiene maggiore spazio della tavola e corrisponde a tavole due (2) piedi sette (7) oncie sei (6).

                Lor. Per misurare lo scavo fatto in un terreno, quanta paglia è in un pagliaio, quanto fieno nel fienile, qual sia il volume di una catasta di legna o di un mucchio di ghiaia e cose simili useranno anche l'ara?

                Alb. No, per queste misure si userà lo stero o il metro cubo, che è un dado, del quale ogni spigolo è lungo un metro: o, più semplicemente ancora: Il metro cubo ha un metro in lunghezza, larghezza e profondità. (Fa portare in scena un recipiente che avrà le misure sopraddette e fa vedere che ogni spigolo è di un metro).

                Lor. Alberto mio, se io volessi andare a bere alla trattoria del Gambero (dove vanno i signori) dovrei farmi portare un metro cubo di vino? Poffarbacco! questo sarebbe un buon quartino! ce ne sarebbe per me e per te.

                Alb. No, Lorenzino, se ben ti ricordi, ci sono più unità principali di questo sistema. Metro per le misure di lunghezza, ara per le misure di superficie, stero o metro cubo pel fieno, paglia, legna, ghiaia. Per le misure per cui si ricerca un vaso vuoto abbiamo il litro.

                Lor. Ah! tiro litro! che cosa è questo tiro litro?

                Alb. Non tiro litro, ma semplicemente litro. E per fartene un'idea supponi questo metro diviso in dieci parti uguali, che avrai?

                Lor. Se divido il metro in dieci parti uguali mi resta la decima parte del metro.

                Alb. Questa decima parte del metro si dice decimetro. Ora un decimetro cubo ossia un vaso (lo mostra nel quadro) lungo, largo, profondo un decimetro, forma la capacità del litro che verrà usato invece dell'emina, del coppo, della brenta e della pinta.

                Lor. Quel litro che tu mi mostri è della capacità del coppo, dell'emina del quartino, del boccale, della pinta? ecc.

                Alb. No, perchè queste misure essendo altre più grandi, altre più piccole non possono corrispondere esattamente al litro, e ne faranno solamente le veci. P. es. invece dei coppo, si userà il litro, ma il litro contiene solo circa un terzo del coppo, e 23 litri fanno un'emina.

                Lor. Sarà poi lo stesso a dire litro, quartino, pinta, boccale, brenta? dimmi questo che mi preme assai.

                Alb. Parmi che assai ti piaccia il vino; è vero? Sta dunque attento, tre quartini circa fanno un litro, cinquanta litri circa fanno una brenta. [628]

                Lor. Oh che giustizia! Questo non va: io penso di domandare un litro ed avere una pinta ed ho solo tre quartini e se ne voglio di più bisogna che io dimandi cinquanta litri; e li beverò tutti?

                Alb. Un galantuomo, una persona onesta come un par tuo ne ha abbastanza di un litro, ovvero tre quartini: se poi ci fosse un bevone che ne volesse di più, dimandi due litri e ne avrà circa una pinta e mezzo.

                Lor. Bravo, Alberto mio, (gli stringe la mano), tu mi hai fatto capire più cose che tra il non aver potuto, e il non aver voluto studiare non ho mai capito. Ma sii ancora compiacente e dimmi; che cosa si userà per li pesi?

                Alb. Per li pesi useremo il gramma...

                Lor. Poh! ci sono già tanti grami al mondo, ancora mettere il gramo nel Sistema Metrico. Mettere dei buoni che ne abbiamo tanto bisogno! Che diavolo vuol mai dire questa parola gramo?

                Alb. Non devi dire gramo ma gramma. E per esso s'intende un peso che corrisponde alla trentesima parte dell'oncia. Supponi questo metro diviso in cento parti uguali, che cosa ti rimane?

                Lor. Mi rimane la centesima parte del metro.

                Alb. Appunto. Questa centesima parte del metro dicesi centimetro. Ora il peso di un centimetro cubo di acqua pura, vale a dire il peso dell'acqua pura contenuta in questo vaso (mostra una scatoletta in forma di cubo avente lo spigolo interno lungo un centimetro) vale il peso del gramma.

                Lor. Mi hai veramente appagato colla tua semplice e chiara spiegazione delle unità principali del Sistema Metrico decimale: sarei ancora ansioso di sapere come tutte queste unità derivino dal metro.

                Alb. Questo ti sembrerà un po' strano; ma è assai facile: 1° Il metro è la prima unità del sistema, chiamata fondamentale. 2° L'ara ossia il decametro quadrato non è che un quadrato, i cui lati sono lunghi dieci metri. 3° Lo stero o metro cubo è uguale ad un dado che abbia un metro di spigolo, vale a dire un metro in lunghezza, larghezza e profondità. 4° Il litro origina dal metro essendo la capacità di un decimetro cubo. 5° Il gramma viene altresì dal metro giacchè è il peso di un centimetro cubo di acqua pura o distillata. 6° Anche il franco risulta dal metro giacchè pesa cinque grammi ovvero la sesta parte dell'oncia. In questa guisa spero di aver soddisfatto ad ogni tua dimanda intorno alle unità fondamentali del Sistema Metrico e come queste dal metro derivino. [629]

 

 

 

DIALOGO III. Multipli e Sottomultipli. Antonio e Beppe.

 

                Bep. Già da qualche tempo vorrei mettermi a studiare il Sistema Metrico, ma alcuni mi hanno detto che ci sono molte parole latine, greche, arabe, francesi così difficili che difficilmente si possono imparare. Tu, Antonio, che hai studiato molto e che ne sai ancor più di quello che hai studiato, dimmi: è proprio vero che ci sono tutte queste grandi difficoltà?

                Ant. Beppe mio, in qualsiasi scienza ci sono delle difficoltà, e chi non vuole faticare non parli di studiare. Ma ciò che mi duole è che vi sono tante cose buone le quali vengono disprezzate, perchè da alcuni scappafatica sono riputate difficili, solo perchè costano alcunchè di fatica.

                Bep. Ma ci sono queste parolaccie, queste difficoltà nel Sistema Metrico?

                Ant. Queste difficoltà e queste parolaccie si riducono a farsi un'idea chiara dei multipli e sottomultipli del metro; ed io credo brevemente farteli capire.

                Bep. Oh! il più bravo, dimmelo presto, che cosa sono questi multipli e sottomultipli?

                Ant. I multipli nel nuovo Sistema si usano per esprimere più unità insieme; i sottomultipli esprimono solamente parti dell'unità. Cominciando dai multipli osservo che eziandio nel Sistema Metrico antico esistono multipli. Dodici oncie in misure di lunghezza come le chiamavi?

                Bep. Dodici oncie di lunghezza le chiamo con un sol nome: Piede liprando.

                Ant. Sei piedi liprandi come li chiami?

                Bep. Sei piedi liprandi li chiamo trabucco.

                Ant. Vedi dunque che anche nell'antico sistema ci erano multipli ovvero più unità appellate con un sol nome. Venendo ora ai multipli del nuovo sistema ti dirà che sono quattro: Deca, Etto, Kilo, Miria.

                Bep. Oh che parolaccie, oh che parolaccie!! Non verrò mai più a capirle (vuol fuggire). [630]

                Ant. Non fuggire, Beppe mio, capirai tutto sicuramente, abbi pazienza; dimmi solamente come si chiama questo (gli mostra il metro).

                Bep. Si chiama metro.

                Ant. Bene: dieci si dice deca che è una decina di unità della medesima specie. A questo deca io aggiungo metro, dirò decametro. Se voglio dire cento dirò etto ed è un centinaio di unità della medesima specie: Se ad etto aggiungo metro ho un ettometro ovvero un centinaio di metri. Hai capito?

                Bep. Parmi di aver capito ma...

                Ant. Alla prova. Di', che cosa vuol dire deca?

                Bep. Deca vuol dire dieci.

                Ant. Che cosa vuol dire etto?

                Bep. Etto vuol dire cento.

                Ant. A deca se aggiungo metro che cosa ho?

                Bep. Ho un decametro o dieci metri.

                Ant. Se alla parola etto aggiungo metro che cosa mi risulta

                Bep. Mi risulta un barometro.

                Ant. Per carità non dir Barometro, esso è un istrumento di cui servonsi i fisici a misurare la pressione dell'aria, e anche l'altezza delle montagne: devi dire ettometro, che vuol dire cento metri. Fatta un'idea chiara dei due primi multipli ti sarà facile il capire gli altri due, che sono kilo che vuol dire mille, e miria, dieci mila.

                Bep. Adagio, non andare in fretta, del resto mi fai girar la testa, torna a ripetere queste due parole!

                Ant. Le ripeterò: kilo, che vuol dire mille unità; miria che vuol dire dieci mila unità. Per es. se io avessi una strada lunga mille metri, direi con un solo nome che è lunga un kilometro; se la strada fosse lunga dieci mila metri direi che è lunga un miriametro. Ora dimmi qual è il primo multiplo.

                Bep. Deca che vuol dire dieci.

                Ant. Il secondo?

                Bep. Etto che vuol dire cento.

                Ant. Il terzo?

                Bep. Kilo che vuol dire mille.

                Ant. Il quarto?

                Bep. Miria che vuol dire dieci mila.

                Ant. Bene; ora dimmi tutti questi multipli uno dopo l'altro.

                Bep. Deca, Etto, Kilo, Kirie eleis....

                Ant. No, non confondermi il Kirie della Santa Messa col Miria dei Sistema Metrico. Dunque dirai: deca, etto, kilo, miria. [631]

                Bep. Dunque dirò: deca, etto, kilo, miria.

                Ant. Qui vorrei che tu conoscessi il gran passo che tu hai fatto con queste quattro parole; tu conosci già i multipli di tutte le unità fondamentali di questo sistema. Per es. se a deca aggiungo metro che cosa mi risulta?

                Bep. A deca aggiungendo metro ho decametro.

                Ant. Aggiungendo litro

                Bep. Decalitro.

                Ant. Aggiungendo gramma

                Bep. Decagramma.

                Ant. Aggiungendo stero?

                Bep. Avrò decastero.

                Ant. Parimenti se applichi qualsiasi unità di questo sistema alle quattro parole: Deca, etto, kilo, miria, avrai i multipli di tutte le altre unità fondamentali.

                Bep. Vuoi dire che queste quattro bastino anche per le altre unità?

                Fammelo vedere.

                Ant. Io dirò: etto: tu aggiungi le unità.

                Bep. Ettometro.

                Ant. Dico gramma.

                Bep. Ettogramma.

                Ant. Dico litro.

                Bep. Ettolitro.

                Ant. Dico ara.

                Bep. Dicendo ara, avrò ettara.

                Ant. Invece dirò kilo.

                Bep. Aggiungo metro e avrò un kilometro.

                Ant. Dirò: gramma.

                Bep. Kilogramma.

                Ant. Dirò: litro.

                Bep. Avrò Kilolitro.

                Ant. All'ultimo multiplo io dico miria.

                Bep. Aggiungo metro ed avrò un miriametro.

                Ant. Dico gramma.

                Bep. Avrò miriagramma

                Ant. Dirò litro.

                Bep. Avrò mirialitro. Davvero ti dico che sono assai contento della tua spiegazione: con quattro parole mi spiccio di tutti i multipli del Sistema Metrico. Veggo proprio che esageravano coloro i quali mel dipingevano tanto difficile. Mi avevi detto essere anche i sottomultipli, abbi la bontà di spiegarmeli. [632]

                Ant. Ti appagherò volentieri. Per sottomultipli si intendono le parti dell'unità. Essi si esprimono con tre sole parole: Deci, centi....

                Bep. (interrompe) Adagio, adagio; altrimenti non ne capisco più nulla: dunque i due primi sono deca, cento.

                Ant. No, non devi dire deca, ma deci, non cento, ma centi. Conosci la diversità che passa tra deca e deci?

                Bep. Mi sembra che abbia lo stesso suono e lo stesso significato.

                Ant. Ben al contrario. Non trovi diversità tra dieci metri e la decima parte del metro?

                Bep. Goffo! che io non sappia questo? Se andassi a comperare dieci metri di salame ne avrei uno più lungo di questo palco. Se ne compro la decima parte del metro, ne ho solamente lungo così: un decimetro (lo segna colle dita).

                Ant. Appunto così: Ora dieci metri si dicono decametro; e la decima parte del metro si dice decimetro. Onde deca vuol dire dieci unità, deci la decima parte dell'unità. Similmente cento vuol dire cento unità, centi vuol dire la centesima parte dell'unità. Milli la millesima parte dell'unità.

                Bep. Questi tre sottomultipli si estendono a tutte le unità fondamentali del nuovo Sistema?

                Ant. Si estendono a tutte le unità fondamentali come i multipli. Per es. se a deci aggiungo metro, ho un decimetro, la decima parte del metro; oppure aggiungo litro, stero, gramma, ed ho un deci - litro, deci - stero, deci - gramma.

                Bep. E nel centi?

                Ant. Nel centi si tiene il metodo stesso: Per es. a centi, io aggiungo metro, litro, gramma, ara e mi risulta il centimetro, il centilitro, il centigramma, il centiara: ossia la centesima parte di questa unità.

                Bep. Non c'è alcuna diversità nel milli?

                Ant. Nel milli non c'è alcuna diversità. Per es. a milli io aggiungo metro, litro, gramma; avrò il millimetro, il millilitro, il milligramma ossia la millesima parte di questa unità. Persuaso che abbi compreso anche i sottomultipli, voglio farti il confronto di questi coi multipli per vedere se li sai ben distinguere: dimmi adunque: quale differenza passa tra deca e deci?

                Bep. Supponi che un par mio che ha studiato la grammatica non sappia questo? deca è numero singolare: deci è numero plurale...

                Ant. Bravo!!! C'è discordanza di genere, numero e caso, nella tua risposta: attento. Deca (l'abbiamo detto le tante volte) deca vuol dire dieci unità; deci, la decima parte dell'unità. Similmente: etto vuol dire cento unità; centi la centesima parte. Kilo, vale mille unità; milli [633] solamente la millesima parte. Ora mi sapresti dire i quattro multipli e i tre sottomultipli coll'analoga spiegazione?

                Bep. Spero di sì. I multipli sono quattro: Deca che vuol dire dieci, etto che vuol dire cento, kilo che vuol dire mille, miria che vuol dire diecimila.

                Ant. Benissimo: e quanti sono i sottomultipli?

                Bep. I sottomultipli sono tre: deci, la decima parte dell'unità; centi la centesima; milli la millesima parte.

                Ant. Questo va anche bene; mi sapresti ancora dire che differenza passa tra multipli e sottomultipli?

                Bep. I multipli sono tutti maggiori dell'unità principale; i sottomultipli sono tutti minori di essa. La differenza dei rispettivi loro nomi parmi che sia questa: deca vuol dire dieci; deci significa un decimo: etto cento; centi un centesimo: kilo mille; milli un millesimo.

                Ant. Sono assai soddisfatto della tua risposta; procura di abilitarti per le altre cognizioni del nuovo Sistema e proverai grande sollievo e vantaggio ne' tuoi affari.

 

 

 

DIALOGO IV. Metro - Ettometro – Kilometro paragonati col Piede - Trabucco - Miglia. Un falegname ed un Maestro di Sistema Metrico.

 

                Fal. Ho l'onore di riverirla, Signore; son qui per pregarla di un incomodo.

                Mae. Buon giorno, amico, se vi posso essere utile in qualche cosa, sono contento di potervi compiacere.

                Fal. Io sono un povero falegname che di mattino a sera sudo in far porte, ponti e solai; finora ho sempre usato il piede, il trabucco per misurare. Adesso c'è una legge che ci obbliga a servirci del nuovo sistema metrico decimale. Ho già letto qualche libro, ma in nissun modo posso cavarmi. La prego adunque a volermi dire che cosa dovrò usare invece del piede e del trabucco.

                Mae. Godo della vostra dimanda, giacchè essendo questa la scienza a citi in modo particolare mi sono dedicato, spero essere in grado di potervi appagare. Ditemi pertanto: avete un'idea esatta della lunghezza del piede e del trabucco? [634]

                Fal. , Signore, ecco il piede (lo tira fuori) il quale è dodici oncie; sei piedi fanno un trabucco.

                Mae. Or bene (tira fuori il metro) invece del piede, del trabucco, del miglio useremo il metro. Se poi volete vedere la differenza che corre tra piede e metro mettiamoli a confronto (si fa il paragone).

                Fal. Io trovo che il piede è più corto del metro, anzi questo parmi lungo due volte il piede.

                Mae. Appunto, il metro vale quasi due piedi; vale 23 oncie e un terzo. Voi vi stupite di tutte queste lineette che sono nel metro, non è vero?

                Fal. , mi fa meraviglia perchè non ce ne sono tante nel piede.

                Mae. Ditemi; come si divide il piede?

                Fal. Il piede si divide in dodici oncie: l'oncia si divide in dodici punti: il punto in dodici atomi.

                Mae. È un difetto che tali divisioni non siansi notate sul piede. Esse segnano i sottomultipli e sono anche necessarie pel metro; vedete le linee più grosse?

                Fal. , le veggo.

                Mae. Queste linee dividono il metro in dieci parti uguali che diconsi decimetri.

                Fal. Oh questo è un decimetro! Corrisponde quasi alla larghezza dei pugno.

                Mae. Generalmente la larghezza del pugno corrisponde al decimetro il quale è lungo due oncie e quattro punti. Vedete queste lineette più brevi ed anche più vicine sul metro?

                Fal. Sì, sì; le veggo.

                Mae. Queste lineette dividono il metro in cento parti uguali, ciascuna delle quali dicesi centimetro, che è lungo circa tre punti dell'oncia, ovvero circa un quarto dell'oncia.

                Fal. Il centimetro... mi par lungo come il pollice.

                Mae. Non è tanto; misurate bene, e lo troverete lungo come la larghezza dell'unghia del dito mignolo.

                Fal. Proprio; pare che prima di fabbricare il sistema metrico siano venuti a prendere la misura dell'unghia del mio dito. Ma veggo lì in margine al metro alcune lineette ancor più brevi e molto vicine, che cosa significano?

                Mae. Queste lineette più piccole e più vicine poste sul margine del metro, segnano i millimetri e dividono il metro in mille parti uguali.

                Fal. Oh come sono piccoli i millimetri! Quanti ce ne vogliono per fare un centimetro?

                Mae. Per fare un centimetro ci vogliono dieci millimetri. [635]

                Fal. E per far un decimetro?

                Mae. Per formare un decimetro, ci vogliono cento millimetri ovvero dieci centimetri.

                Fal. Che bella spiegazione mi ha fatto! Mi dica ancora, invece del trabucco che cosa si userà?

                Mae. Userete anche il metro... perchè ridete?

                Fal. Come può andar questo? Invece del piede uso il metro, invece del trabucco uso il metro. Sarà dunque il metro una parola magica che vada bene dappertutto?

                Mae. Quando io dico che in luogo del trabucco si userà il metro, non dico che siano uguali. Imperocchè il trabucco è lungo più di tre metri.

                Fal. Ah! così va bene; vediamo un poco (avvicina il trabucco al metro) quanti metri precisamente ci vogliono per formare la lunghezza del trabucco?

                Mae. (col metro) Contiamo. Uno, due, tre, ci è ancora un pezzo del trabucco lungo nove cent.; perciò il trabucco è lungo tre metri, più nove centimetri.

                Fal. Da quanto mi disse conosco la differenza che passa tra piede, trabucco e metro. Ma questo non mi toglie da un imbroglio avvenutomi ieri l'altro. Ho comperato delle assi; il venditore nello spedirmele le misurò a metri lo nel riceverle le ho misurate a piedi ora non possiamo andare d'accordo giacchè non so quanti metri facciano i piedi da me misurati.

                Mae. Qui noi entriamo in nuova materia, vale a dire come i piedi si possano ridurre in metri. Il che si ottiene facendo il paragone del piede col metro. Facciamo questo (avvicinano il piede al metro) se voi contate tutte queste lineette più brevi, che sono millimetri, vedrete che 514 millimetri corrispondono alla lunghezza del piede, sicchè il piede è lungo 514 millimetri, ossia metri 0, 514. Ora ditemi, quanti piedi di assi avevate?

                Fal. Aveva 234 piedi di assi.

                Mae. Se volete ridurre questi piedi in metri non avete a fare altro che moltiplicare il numero dei piedi 234 pel numero fisso 0, 514.

                Fal. (Il falegname scrive sulla lavagna 0, 514 e lo moltiplica per 234 0, 514 234

                Fatta l'operazione mi risulta il prodotto di 120276; sono tutti metri?

                Mae. Quante frazioni avevate nei due fattori?

                Fal. Tre. [636]

                Mae. Dunque separate tre cifre nel prodotto a parte destra, secondo le regole della moltiplicazione decimale e avrete i metri: il resto sono parti del metro.

                Fal. Mi restano (120, 276) cento venti metri, più dugento settantasei millametri.

                Mae. Non dite millametri ma bensì millimetri. Siccome nel decimale per lo più quello che eccede il cent si trasanda, così invece di 276 millimetri diremo 27 centimetri

                Fal. Se poi volessi ridurre i metri in piedi, come farei?

                Mae. Per ridurre i metri in piedi bisogna anche cercare il numero fisso, vale a dire confrontare il metro col piede e vedere quanti piedi si ricercano per formare la lunghezza del metro: (avvicinano il piede al metro) noi vediamo che il metro vale un piede Più 944 millesimi del piede: p. e qual numero di metri volete ridurre in piedi?

                Fal. Il mio venditore mi aveva dato in nota 125 metri.

                Mae. Moltiplicate 125 per 1, 944, ed avrete i piedi ricercati.

                Fal. (Il falegname fa l'operazione) 1, 944     125

                Fatto l'operazione mi risulta 1, 944 x 125 = 243. Oh veda, signor Maestro, se non veniva da lei era proprio truffato! Il mio venditore abusando della mia ignoranza intorno al Sistema metrico mi consegnava nove piedi di più esponendo così la mia borsa ad una grave costipazione.

                Mac. Se vi stabilirete a dovere nel nuovo Sistema eviterete parecchi altri pericoli di essere frodato.

                Fal. Con questo modo di moltiplicare potrò eziandio ridurre i trabucchi in metri e i metri in trabucchi, cercando solo il numero fisso, cioè il numero che risulta dal confronto di una misura coll'altra, moltiplicando dico questo numero fisso pel numero di metri o di trabucchi che si vogliono ridurre. P. es. A mia casa ho una toppia cioè (sorridendo) un pergolato dove si mangia l'uva quando è dolce, quel pergolato è lungo 13 trabucchi, quanti metri sarebbero?

                Mae. Il trabucco è lungo tre metri, più nove centimetri perciò il numero fisso è 3, 09 il quale moltiplicato per 13 trabucchi vi darà 40, 17 onde il vostro pergolato è lungo m. 40, 17 cent. Parimente se aveste a ridurre i metri in trabucchi il numero fisso sarebbe 0, 324 perchè se dividiamo il trabucco in mille parti dovremo prendere 324 di queste parti per formare un metro.

                Fal. Mi aveva anche detto poco fa che invece del miglio vi sarebbe un'altra misura: favorisca di ripeterlo chè mi è già fuggita da questa zucca piena di panata. [637]

                Mae. Invece del miglio si userà il kilometro che è una misura lunga mille metri. Due kilometri e mezzo corrispondono alla lunghezza del miglio.

                Fal. Ho capito, sono assai contento; temo però di fare qualche confusione; se avesse la compiacenza di sentirmi, io desidererei di ripetere tutte quelle cose che ebbe la bontà di spiegarmi.

                Mae. Volentieri; l'uomo è nato per far del bene, ed io godo assai quando posso essere utile al mio prossimo.

                Fal. Mi ha detto adunque che invece del piede e del trabucco si userà il metro, il quale è lungo quasi due piedi; che se io volessi ridurre le misure di un sistema nelle misure dell'altro si deve prima di tutto cercare il numero fisso. Per numero fisso s'intende il numero che risulta dal confronto delle misure d'un sistema con quelle dell'altro; si moltiplica il numero fisso per...

                Mae. Si moltiplica il numero fisso per quel numero che si vuol ridurre.

                Fal. Per quel numero che si vuol ridurre. P. es. Se volessi ridurre piedi in metri, il numero fisso, ossia la parte che corrisponde al metro è 514 milli i quali moltiplicati per il numero dei piedi dánno i metri ricercati; mi disse inoltre che invece del miglio si userà il termometro.

                Mae. Non dite termometro, perchè questo è un istrumento che serve a misurare i gradi del caldo e del freddo. Dite piuttosto: kilometro. Perchè meglio comprendiate queste nuove misure vi dirò che dieci metri diconsi con un sol nome decametro; cento metri ettometro; mille metri kilometro; che vale a dire due quinti di miglio. Dieci mila metri miriametro. Questo ultimo però è poco usato. Tenete a mente quanto vi ho qui brevemente esposto. Ma siccome sapete leggere e scrivere vi consiglierei di provvedervi qualche buon libro per accertarvi sulla precisione dei numeri fissi, e sul modo di paragonare le misure di un sistema coll'altro.

                Fal. Grazie, Signore, grazie, ciarea, grazie.

 

 

 

DIALOGO V. Metro paragonato col Raso. Luigi (Girard) e Costante (Cagliano).

 

                Cos. Siamo a guai.

                Lui. Che c'è di nuovo, Costante mio?

                Cos. Ieri ho saputo che il Verificatore della provincia gira su tutti i mercati; ed ai mercanti, che usano ancora il raso, intima assolutamente [638] che lo lascino e fa la contravvenzione; questa antifona mi dispiace al sommo.

                Lui. Oh! questo a te deve poco importare: tu sei andato a scuola e hai studiato il sistema metrico.

                Cos. No, mio caro: ti debbo dire il vero: facevo poco caso di queste novità: mio padre mi dava bensì il tempo, ma io (adesso mi rincresce) io badavo ad altro. Tu che l'hai già imparato bene fa il piacere d'insegnarmi le cose principali.

                Lui. Imparare il sistema metrico non è cosa di pochi momenti: ci vuole tempo e buona volontà.

                Cos. Ci è la buona volontà: siccome il tempo preme assai, comincia ad istruirmi intorno alle cose principali del mio negozio, del resto la mia cascina.....

                Lui. Giacchè ti trovi in questa urgenza potremo scegliere la parte del sistema che ha relazione col raso. Sai che cosa si usa invece del raso?

                Cos. So che si usa un'altra misura, ma non so quale sia.

                Lui. Ecco. (tira fuori il metro). Invece del raso che hai in mano si userà questa misura che dicesi metro.

                Cos. Metro! (lo avvicina). Il metro mi pare più lungo del raso.

                Lui. Il metro è assai più lungo del raso. Questo vale tre quinti dei metro ovvero sei decimetri.

                Cos. Che cosa sono questi decimetri? Questa parola mi è affatto nuova.

                Lui. Decimetro è la decima parte del metro. Vedi queste linee più grosse qui sul metro?

                Cos. Sì, le veggo.

                Lui. Queste dividono il metro in dieci parti uguali che diconsi decimetri.

                Cos. Quelle altre linee più piccole che cosa sono? Non ci sono nel raso.

                Lui. Le linee più brevi e più vicine dividono il metro in cento parti uguali dette centimetri ovvero centesimi del metro. Ci sono anche alcune linee, quasi punti, sul margine del metro; esse dividono il metro in mille parti eguali, dette millimetri: i millimetri sono la millesima parte del metro. I millimetri si usano solamente quando si misurano oggetti di prezzo straordinario: nelle misure ordinarie si trasandano.

                Cos. Precisamente, quanto è lungo il raso paragonato col metro?

                Lui. Se tu ben calcoli (avvicinano il metro al raso) trovi che 6 decimetri fanno un raso.

                Cos. Le persone che verranno a comperare, che cosa domanderanno in luogo del raso?

                Lui. Domanderanno un metro: metro di panno, di cotone, di tela ecc. [639]

                Cos. Quale quantità dare a chi ne volesse assolutamente un raso?

                Lui. A chi domanda un raso si dà la parte dei metro corrispondente al raso, vale a dire 6 decimetri.

                Cos. E a chi domanda la metà del raso?

                Lui. A chi domanda la metà del raso darai tre decimetri.

                Cos. A chi domanda un terzo del raso?

                Lui. A chi domanda un terzo del raso darai due decimetri.

                Cos. A chi domanda un sesto?

                Lui. A chi domanda un sesto darai un decimetro.

                Cos. Ah! corpo di bacco! Questo mi fa già respirare. Ma se mi chiamassero p. e. 20 rasi di una merce, quanti metri ne darei?

                Lui. Non hai a fare altro che moltiplicare i sei decimetri per 20 e nel prodotto, separata una cifra, avrai i metri che desideri.

                Cos. Voglio fare la prova: 6 moltiplicati 20 mi dánno 120. Separo l'ultima cifra, mi resta dodici. Sono proprio 12 metri?

                Lui. 20 rasi corrispondono proprio a 12 metri

                Cos. Perchè separare l’ultima cifra?

                Lui. Perchè quando si fa la moltiplicazione decimale, nel prodotto si separano tante cifre quante erano le cifre decimali dei due fattori: ora questo 6 non esprime interi ma decimi del metro, perciò bisogna separare l'ultima cifra.

                Cos. E se dopo aver venduto p. e. 8 metri io volessi sapere quanti rasi fanno?

                Lui. In questo caso si moltiplicherebbe il numero dei metri per il numero fisso 1, 67; e si otterrebbe il numero dei rasi. Hai 8 metri? Moltiplica 8 per 1, 67 e avrai i rasi.

                Cos. Perchè moltiplicare i metri per 1, 67?

                Lui. Perchè il metro è lungo il raso più 67 centesimi del raso.

                Cos. Voglio fare quest'operazione. 8 X 1, 67 = 1336. Saranno tutti rasi?

                Lui. Quante cifre decimali avevi nei due fattori?

                Cos. Ne aveva due.

                Lui. Dunque separa due cifre nel prodotto e avrai 13 rasi più 36 centesimi del raso.

                Cos. Ho capito. Trovo ancora una difficoltà riguardo al prezzo. Come dovrò regolarmi nel prezzo?

                Lui. Posto che il raso valga 6 decimetri ne viene che sei decimi dei prezzo del metro, corrispondono al prezzo del raso: p. e. il panno si vende franchi io al metro: quanto farai al raso? Il raso sarà 6 decimi di dieci cioè 6 franchi.

                Cos. Se la stoffa costasse 30 soldi al metro, quanto costerebbe un raso? [640]

                Lui. Se la stoffa costasse 30 soldi al metro, un raso costerebbe 6 decimi di 30 che sarebbero 18 soldi.

                Cos. Anche questo parmi di averlo sufficientemente capito. Una cosa ancora mi confonde ed è: se io calcolo il prezzo del metro in rapporto col raso prendo 6 decimi del prezzo. Ma come fare per non imbrogliarmi quando trattasi di far passaggio dal prezzo del raso a quello del metro?

                Lui. Vuoi dire come ridurre il prezzo del raso in prezzo del metro? Bada bene al già detto: 6 decimetri fanno un raso, ed è lo stesso come dire che ogni decimetro è lungo un sesto del raso: di modo che dal raso al metro ci mancano 4 decimetri, ossia quattro sesti del raso. Mi capisci?

                Cos. Parmi di sì: vuoi dire che dieci decimetri è lo stesso che dieci sesti del raso.

                Lui. Appunto così. Ora al prezzo del raso aggiungendo quattro sesti avrai quello del metro. Supponi che il prezzo del panno sia a sei franchi il raso: aggiungerai quattro sesti ovvero quattro franchi e avrai io per prezzo del metro.

                Cos. Se il prezzo del raso fosse dodici?

                Lui. Qual è il sesto di dodici?

                Cos. È due.

                Lui. Aggiungi a dodici quattro volte due, cioè 8 e avrai franchi 20 pel metro.

                Cos. Qual è il sesto di 69 centesimi?

                Lui. È dieci centesimi.

                Cos. Se fosse tela a cent. 60 al raso, quanto varrebbe il metro?

                Lui. Aggiungi quattro volte dieci a centesimi 60: quanto avrai?

                Cos. Avrò cent. 100 ovvero un franco.

                Lui. Dunque la tela che costa 60 cent. al raso costerebbe un franco al metro.

                Cos. Bravo il mio caro Luigi (gli stringe la mano). Tu mi hai tolto da un gravissimo imbroglio. Domani andrò al mercato e farò stupire il mio padre. Anzi questa sera andrò con maggiore tranquillità a cena, giacchè mia madre già consapevole di quanto mi era avvenuto, pareva una furia: - Asino... bestiaccia... mangia pane a tradimento... - erano i soliti complimenti. Al sentire questa sera che sono in grado di tornare domani al mercato, mi vedrà di buon occhio come prima. Addio, caro Luigi; mille grazie... grazie. [641]

 

 

 

DIALOGO VI. Litro, Ettolitro, Decalitro paragonato colla Pinta, Boccale, Brenta, Emina, Coppo Battista brentatore, (Camp. L.co) Pietro mugnaio, (Mistralletti) Un militare (Camp. G.pe)

 

                Bat. Oh in che tempi viviamo mai! (sia appoggiato alla brenta).

                Pie. Che avete, compare Battista, che vi mostrate tanto tristo?

                Bat. Sono imbrogliato fino al collo di queste nuove misure. Tutti i brentatori che non sanno la nuova misura del vino sono proibiti di servire. Potessi trovare qualche brava persona che mi volesse pazientemente istruire!

                Pie. Toccatemi la mano: siamo nello stesso imbroglio. Ho qui il coppo e l'emina; mi hanno detto che adesso dovrò usare altre misure e non so quali siano. Lì c'è un militare: chi sa che non sappia dirci come dobbiamo fare!

                Bat. Per lo più i militari hanno studiato; voglio provare. Oh, dica lei sig. militare, sa il nuovo sistema dei pesi e delle misure?

                Mil. Chi mi chiama? Desiderate forse da me qualche cosa?

                Bat. Perdoni l'incomodo, signore. Io sono un povero brentatore: ho bisogno di sapere che cosa userò invece della brenta: abbia la bontà di dirmelo.

                Mil. La condizione mia volle che studiassi per tempo questo nuovo sistema che dicesi metrico, e in quanto riguarda a voi come brentatore, spero in poche parole rendervi soddisfatto. Invece della pinta userete il litro, invece della brenta userete l'ettolitro, queste due parole non vi debbono essere totalmente nuove,  perchè da più anni tra di noi nelle pubbliche misure sono in uso …Vi stupite!

                Bat. Mi stupisco perchè non capisco. Quanto è grande il litro?

                Mil. Venite avanti (mostra il litro nel quadro). Ecco il litro; esso vale circa tre quartini. Per l'avvenire invece della pinta e del boccale si userà il litro.

                Bat. Questo mi consola già assai: per l'avvenire invece della pinta e del boccale userò il litro... il litro che tiene tre quartini... il litro. E quell'altra misura che si usa in luogo della brenta?

                Mil. Quell'altra misura che voi userete invece della brenta dicesi ettolitro che vale cento litri. Questa misura contiene circa due brente. [642]

                Bat. Oh, oh! I brentatori non sono mica muli; ci fa andar gobbi una brenta, come faremo a portarne due?

                Mil. Io credo che per trasportare il vino si userà il mezzo ettolitro che contiene cinquanta litri.

                Bat. Cinquanta litri, ossia mezzo ettolitro è più grande o più piccolo della brenta?

                Mil. Cinquanta litri ossia mezzo ettolitro corrisponde presso a poco a quella medesima brenta che già usate.

                Bat. Oh! bene, bene. Lo ringrazio, non spenderò danari a farmi fare un'altra brenta. Invece della pinta userò il litro, invece della brenta userò il mezzo ettolitro, ossia questa medesima brenta.

                Mil. Prima di licenziarvi stimo bene di dirvi che invece della mezza brenta vi è un'altra misura detta doppio decalitro, ovvero venti litri. Invece del quarto di brenta si userà il decalitro che vale dieci litri. Inoltre siccome può darsi talvolta d'aver bisogno di misure minori del litro, così potremo far uso del decilitro, che è la decima parte del litro, centilitro la centesima parte del litro. Quanto ho detto a voi riguardo all'uso del litro, serve anche per questo vostro compagno pel coppo e per l'emina.

                Pie. Useremo anche la brenta in luogo del coppo o dell'emina?

                Mil. No: voglio dire che invece del sacco, dell'emina e del coppo si userà anche il litro.

                Pie. Quanto è grande il litro relativamente al coppo?

                Mil. Un litro contiene circa un terzo del coppo, tre litri fanno quasi un coppo. Dieci litri diconsi decalitro e si userà in luogo della mezza emina. Il doppio decalitro ovvero un vaso che contenga venti litri terrà luogo dell'emina. Invece poi del sacco si userà l'ettolitro, che contiene cento litri. Notate però le misure antiche non essere uguali alle nuove. In luogo del coppo si userà il litro, ma esso contiene solo circa un terzo del coppo. In luogo della mezza emina si usa il decalitro, ma la mezza emina contiene quasi un mezzo coppo di più del decalitro. Invece dell'emina si userà il doppio decalitro, ma l'emina contiene quasi un coppo di più, perchè circa 23 litri fanno un'emina. Finalmente in luogo del sacco si userà l'ettolitro, ma esso è assai più piccolo e tiene circa cinque coppi di meno; circa i 15 litri corrispondono al sacco.

                Pie. Quelli che non sanno queste nuove misure come potranno cavarsi? Senza dubbio si penseranno di comperare una quantità e non la comprano.

                Mil. Certamente coloro che trascurano d'istruirsi intorno a queste nuove misure vanno soggetti a gravissimo pericolo di essere ingannati. Voi intanto, per accertarvi di aver capito quanto vi ho detto, siate compiacente di dirmi: Invece del coppo che cosa userete? [643]

                Pie. Il litro.

                Mil. Invece dell'emina?

                Pie. Il litro.

                Mil. No; userete il decalitro per la mezza emina, il doppio decalitro per l'emina, l'ettolitro invece del sacco. Il litro quanto contiene?

                Pie. Circa un terzo dei coppo.

                Mil. Il decalitro quanto contiene?

                Pie. Circa la metà di un coppo meno della mezza emina.

                Mil. Il doppio decalitro quanto contiene?

                Pie. Circa un coppo meno della emina.

                Mil. Quanto contiene un ettolitro?

                Pie. Contiene circa 15 litri più del sacco.

                Mil. Anzi l'opposto. L'ettolitro è più piccolo: esso contiene circa 5 coppi meno del sacco. Ora concludiamo. Il coppo corrisponde a tre litri circa; l'emina vale 23 litri circa; il sacco vale un ettolitro più 15 litri circa ovvero circa i 15 litri (vuol partire).

                Bat. Mi dica ancora, signore; se all'osteria il vino costasse dodici soldi la pinta, quanto varrebbe il litro?

                Mil. Il litro essendo tre quarti della pinta, prenderemo anche tre quarti del prezzo: tre quarti di dodici sono nove soldi. Prendete sempre tre quarti del prezzo della pinta e avrete il prezzo del litro. Qualora poi voleste rapportare il prezzo della brenta a quello dell'ettolitro non avete a fare altro che raddoppiare il prezzo della brenta e avrete quello dell'ettolitro: p. e. sia il vino a fr. 12 la brenta: varrà 24 all'ettolitro. Qualora voleste rapportare il prezzo dell'ettolitro a quello della brenta lo prenderete per metà: p. e. se il vino si vendesse a fr. 24 l'ettolitro quanto varrebbe la brenta?

                Bat. Prendo la metà di 24 e avrò dodici franchi che sono il prezzo della brenta.

                Mil. Con queste cognizioni potete essere ambidue tranquilli per quanto vi occorrerà riguardo ad un brentatore e ad un mugnaio.

                Bat. Pietro, io sono assai contento di quanto ho imparato. Sono sicuro che domani potrò fare il maestro a tutti i brentatori di piazza Carlina. Intanto per ringraziare questo signore andiamogli a pagare una bottiglia di Nebiolo. [644]

 

 

 

DIALOGO VII. Gramma, Ettogramma, Kilogramma, Miriagramma confrontati coll'oncia, colla libbra, col rubbo. Giacomo cuoco, Alessandro carbonaro, Fabrizio panattiere.

 

                Gia. Sig. Fabrizio, sono qui col sig. Alessandro, pel nostro fine; scusatemi se abbiamo un tantino ritardato; alcuni miei affari di cucina mi hanno trattenuto più che non credeva.

                Fab. Ben venuto, caro Giacomo; era appunto in aspettazione; dacchè ci siamo parlato procurai di avere tutti quegli schiarimenti che intorno al sistema metrico sono necessari tanto alla mia professione di panattiere, quanto alla vostra di cuoco e di carbonaro. Ora per guadagnar tempo cominciate voi, Giacomo, a dirmi ciò che maggiormente vi preme.

                Gia. Sono qui col canestro per andare a far provvista per la cucina: quello che maggiormente mi preme si è sapere ciò che dovrò usare invece dell'oncia e della libbra.

                Fab. Prima di esporvi la qualità del peso che useremo invece dell'oncia e della libbra bisogna richiamare l'unità fondamentale de' pesi che è il gramma.

                Gia. Userò il gramma invece della libbra?

                Fab. No, il gramma è una misura piccolissima; questo pezzo di metallo (lo mostra) pesa un gramma. Ci vogliono circa trenta grammi per fare un'oncia; essendo troppo piccolo il gramma useremo il decagramma e l'ettogramma a vece dell'oncia.

                Gia. Mi hanno proprio detto che ci sono parole barbare, che non tutti sono capaci d'impararle. Attento, Alessandro, mettiamoci alla prova che cosa vogliono dire terogramma, totogramma?

Fab. Dite meglio: decagramma, ettogramma; si usano in luogo dell'oncia. Non vi spaventino tali voci; dieci grammi si appellano con un sol nome decagramma. Se poi la quantità che si ricerca è maggiore useremo l'ettogramma che vale cento grammi.

                Gia. Quanto pesa il decagramma?

                Fab. Il decagramma pesa circa un terzo dell'oncia, chi poi volesse un peso che corrisponda all'oncia dimanderà tre decagrammi.

                Gia. Prima di andare a casa voglio recarmi dal fondaco e invece di un'oncia voglio dimandare tre decagrammi di pepe. Farò vedere che anche i cuochi sanno qualche cosa. Ma ditemi, quanto pesa quell'altra misura che dicesi ettogramma? [645]

                Fab. Quando uno vorrà una quantitá maggiore di un'oncia userà l'Ettogramma che vale cento grammi, che corrisponde a circa tre oncie Più ¼ ossia circa 3 oncie e due ottavi.

                Gia. Il gramma eh! ce ne vogliono trenta per fare un'oncia. (Fabrizio la cenno di approvazione). Decagramma vale un terzo dell'oncia. Se poi ne volessi una parte corrispondente all’oncia dimanderò tre decagrammi. Qualora ne volessi una quantità maggiore dimanderò cento ettogrammi che valgono 3 oncie e ¼.

                Fab. (Interrompe animato) Adagio: un ettogramma vale 3 oncie e ¼.

                Gia. Queste misure vanno bene per comperare cannella, Pepe, tabacco. Ma per comperare butirro, spinaci, carni, sale, salumi, saracche, salsiccia che peso si userà?

                Fab. Voi volete dire qual peso si userà in luogo della libbra. Si userà un peso che dicesi kilogramma.

                Gia. Poffar….. parola turchina! fate il piacere di ripeterla.

                Fab. Kilogramma! e sarà quel peso che farà le veci della libbra. Questa parola viene da kilo che vuol dire mille e gramma perchè il kilogramma vale 1000 grammi. Questo pezzo di metallo, (e lo mostra) guardatelo, pesa un kilogramma.

                Gia. Avranno il medesimo peso la libbra ed il kilogramma?

                Fab. No, v'è diversità grande; il kilogramma vale circa libbre due, oncie 8 e ½, ovvero circa 32 oncie e mezzo.

                Gia. Brignole!! già che c'è diversità grande. Bisogna che io stia attento nel comperare, del resto compero più che non voglio. Che se volessi comperar meno di un kilogramma non potrei?

                Fab. Sì che potreste dimandando un mezzo kitogramma ovvero cinque ettogrammi, che corrispondono a circa 16 oncie e ¼ di oncia. Vedete, questo pezzo di ferro pesa un gramma; questo pesa un decagramma; quest'altro un ettogramma; questo qui un po' più grosso pesa un kilogramma, ovvero circa oncie 32½. (Li tira fuori dal cassetto e li mostra, a uno, a uno).

                Ales. Ho ascoltato con somma attenzione li vostri ragionamenti, e comprendo la facilità con cui a vece dell'oncia e della libbra si può usare il decagramma, l'ettogramma e kilogramma. Questo, secondo me, va bene per li pesi ordinari come per Giacomo che è cuoco, per voi Fabrizio che siete panattiere; ma per me, che vendo carbone, carbonina, legna, fascine a rubbi e a carra non so come spicciarmi.

                Fab. Conosco la vostra difficoltà, caro Alessandro, però non vi faccia pena: vi sono ancora altri pesi. Ditemi: quali sono i più grossi che fra noi sono presentemente in uso?

                Ales. Noi usiamo il rubbo che è di 25 libbre: la Somata o Gamallata [646] carico per una soma, per un asino per un (marcando) boricco ed è di dieci rubbi. Quindi la carra che è di sessanta rubbi.

                Fab. Ecco le misure che userete a vece di queste. In luogo del rubbo, il miriagramma; invece della somata avremo il quintale; per carra avremo la tonnellata.

                Ales. Invece del rubbo userò il miriagramma; esso è un peso maggiore o minore del rubbo?

                Fab. Il miriagramma vale dieci mila grammi e pesa alquanto più del rubbo; vale circa 27 libbre e due oncie, ossia quasi due libbre e due oncie più del rubbo.

                Ales. Ah! qui trovo un'intoppo per me: mi dimanderanno un miriagramma invece del rubbo, ed io sono in danno di due libbre: ora o rubare due libbre o perdere due libbre.

                Fab. Sapendo voi che il peso del miriagramma è di circa due libbre e due oncie maggiore del rubbo, potete facilmente regolarvi anche nel prezzo; mettiamo il carbone a 12 e mezzo il rubbo (questo sarebbe mezzo soldo la libbra e trascureremo le due oncie perchè due oncie di carbone costerebbero solo la dodicesima parte di un soldo) aumentate il prezzo di due libbre e in luogo di dodici e mezzo avrete 13½ e così del resto.

                Ales. Caro Fabrizio, se io aumento il prezzo la gente va a comperare altrove, e il mio negozio…

                Fab. Bisogna fare osservare ai compratori che non si aumenta il prezzo, ma che essendovi maggior peso, aumenta anche il costo, onde il medesimo danaro ottiene sempre la medesima merce. Che se alcuno volesse un peso minore di un miriagramma, ne prende un mezzo miriagramma ovvero 5 kilogrammi.

                Ales. Ho capito, avete ragione. Ditemi ancora: non ci sarebbe una regola facile per ridurre i miriagrammi in rubbi?

                Fab. Ritenendo il miriagramma due libbre maggiore del rubbo, riescirà facile il farne la riduzione. Qualora il numero dei rubbi fosse grande, ad ogni 25 miriagrammi si aggiunge due ed avremo i rubbi; fate la prova.

                Ales. D. Ho 25 miriagrammi? R. Aggiungo 2, avrò 27 rubbi.

                D. Ho So miriagrammi? R. Aggiungo 4 e avrò 54 rubbi.

                D. HO 75 miriagrammi? R. Aggiungo 6 e avrò 81 rubbi.

                D. Ho 100 miriagrammi? R. Aggiungo 8 e avrò 108 rubbi.

                Fab. In somma la regola generale è: ad ogni 25 miriagrammi aggiungendo 2 si avranno i rubbi.

                Ales. Oh! anche questo mi piace. Parmi però che da principio abbia detto che il miriagramma pesi due libbre e due oncie più del rubbo: e queste due oncie? [647]

                Fab. È vero. Il miriagramma vale 27 libbre e due oncie, perciò nelle materie di gran valore queste due oncie vorrebbero essere calcolate, ma nel commercio ordinario si trasandano.

                Ales. Il quintale e la tonnellata corrispondono perfettamente alla gamallata ed alla carra

                Fab. Il quintale metrico vale dieci miriagrammi ovvero cento kilogrammi e corrisponde al peso di rubbi 10, libbre 21, oncie 8 circa e possiamo ritenere rubbi io, libbre 22. La tonnellata poi è assai maggiore della carra. Questa è di 60 rubbi; la tonnellata vale 100 miriagrammi e corrisponde a rubbi 108 e 11 libbre circa. Dunque il quintale pesa rubbi io e 22 libbre: la tonnellata rubbi 108 e 11 libbre.

                Ales. Caro Fabrizio, voi ci avete prestato un gran favore, vi siamo cordialmente obbligati, Se non vi par troppo, siate ancor compiacente di ripeterci in poche parole tutto quello che ci avete minutamente spiegato.

                Fab. Di buon grado vi appagherò. Per li pesi piccoli si farà uso del gramma, del decigramma, che è la decima parte del gramma; del centigramma che è la centesima parte dei gramma. Per le misure ordinarie si farà uso del decagramma che corrisponde ad un terzo dell'oncia, e per avere un peso corrispondente all'oncia si possono chiedere tre decagrammi. L'ettogramma vale tre oncie e un quarto. Il peso poi usitato sarà il kilogramma e corrisponde a libbre due, otto oncie e mezzo. Nei pesi grossi faremo specialmente uso del miriagramma che vale due libbre e due oncie più del rubbo. Invece poi della somata o gamallata di rubbi dieci si userà il quintale metrico, che vale 10 miriagrammi e corrisponde a rubbi (10) dieci e ventidue libbre Finalmente a vece della carra di sessanta rubbi avremo la tonnellata, che vale cento miriagrammi e corrisponde a cento otto rubbi e undici libbre. Questo è quanto so dirvi riguardo ai nuovi pesi che si vogliono invece degli antichi.

 

 

 

DIALOGO VIII. Kilometri e Miglia - Tavola e Ara - Stero e Tesa. Lucio padre di famiglia fittaiuolo e Renzo Impresario.

 

                Luc. È forse V. S. quel cotale impresario chiamato sig. Renzo?

                Ren. , appunto. Sono io capace di servirvi a qualche cosa?

                Luc. Ho udito parlare tanto bene di lei, e come è persona di gran bontà di cuore, perciò mi son fatto lecito di venirla a pregare per una mia faccenda; che è appunto una differenza tra me ed un signore che [648] vuol farci i conti dei lavori de' miei figli, ma secondo il sistema metrico, che io non conosco molto.

                Ren. Fanno pur bene i signori ad obbligar quasi la gente di campagna ad imparare questo bel sistema metrico; però vi darà ben anche soddisfazione secondo le cognizioni che avete già o di questo sistema o dell'antico?

                Luc. Signor sì, mi darebbe soddisfazione: ma si è fatto l'accordo tra molti signori del paese di darci i lavori in misure nuove appunto perchè le impariamo per forza.

                Ren. È appunto un giorno libero piovoso in cui non debbo uscire di casa e farò di illuminarvi su ciò che mi chiederete. Ditemi or anzi tutto: Sapete già qualche cosa di questo nuovo sistema?

                Luc. Conosco già il metro invece del piede liprando e del trabucco e del miglio, e so anche sommare e fare il deve paga.

                Ren. Mio caro, bisognerebbe che sapeste anche moltiplicare i numeri decimali, allora sareste capace d'imparare assai più cose. Tuttavia cominciate a spiegare i vostri fastidi.

                Luc. Ho fatto condurre un equipaggio da Mondovì fin qua, che sono 49 miglia a L. 0, 50 cent. per miglio; ed ora mi vuol fare il conto a kilometri, invece delle miglia e mi vuol dare Solo 20 centesimi per chilom. So che 49 miglia fanno 122 chilom. e mezzo, ma sarà giusto il prezzo di 4 soldi per chilometro?

                Ren. Come avete fatto a conoscere che le 49 miglia corrispondono a 122 chil. e mezzo?

                Luc. Ho duplicato le miglia ed aggiunto la metà; cioè ho preso due volte 49 che fanno 98 ed aggiunto la metà di 49 che è 24 e mezzo e così ho contato che fanno proprio 122 chilom. e mezzo.

                Ren. Bene: per cambiare i miglia in kilometri fate sempre corde avete fatto ora; cioè duplicate le miglia e poi aggiungete la metà.

                Luc. Questo va bene: ma come fo a passare dal prezzo del miglio al prezzo del kilometro?

                Ren. Il kilometro vale circa due quinti del miglio; perciò il prezzo del kilometro vale circa due volte il quinto del prezzo del miglio.

                Luc. Vuol dire che bisogna raddoppiare il quinto del prezzo del miglio per avere che cosa?

                Ren. Quando avete trovato il quinto del prezzo del miglio, raddoppiatelo ed avrete il prezzo per chilometro: dimodochè, come già vi diceva, io soldi per miglio corrispondono proprio a quattro soldi per chilometro, perchè 2 soldi fanno il quinto di dieci soldi e quattro soldi sono i due quinti di 10 soldi. Sicchè ben vedete che non vi vuol fare verun torto, quel signore. [649]

                Luc. Non è già che io dubiti della sincerità di lui, ma è perchè ho bisogno d'imparare, che sono venuto qui ad incomodarla. Però la sarebbe questa la regola per tutti i casi, che possono succedere di questa fatta?

                Ren. , e non la sbaglierete mai: se prenderete due volte il quinto del prezzo pel miglio otterrete sempre il prezzo pel chilometro.

                Luc. Io comincio a ringraziarla di questo suo ammaestramento. Ma ho ancora altre cose a domandarle, se me lo permette.

                Ren. Dite pure con libertà, poichè vi ho detto che oggi non ho affare di premura, altronde mi piace che siete buon intenditore e calcolatore, onde non fa bisogno di starvi a fare delle lunghe dimostrazioni.

                Luc. Io la ringrazio della sua bontà e del favorevole giudizio che Ella fa di me e per non trattenerla di troppo vengo a dirle che il padrone mi vuoi dare a dissodare due giornate e 25 tavole di terreno incolto a un tanto per ara: come dunque dovrò fare per sapere a un dipresso la somma che avrei da patteggiare?

                Ren. Anche questo vi potrei far sapere con esattezza se sapeste fare la moltiplicazione colla penna, ma poichè trattasi di darvi una regola mentale per ogni caso che vi possa occorrere in tal sorta di misure, sentite bene; sapete quanto è grande l'ara?

                Luc. Mi fu detto che vale due tavole e 7 piedi e mezzo.

                Ren. Bene; or se l'ara corrispondesse a due tavole ed otto piedi, non direste voi che l'ara sarebbe due volte e due terzi più grande della tavola?

                Luc. Mi scusi, ma non capisco troppo bene questa cosa: otto piedi farebbero due terzi di una tavola.

                Ren. Oh i questo non vi sarà difficile ad intendere, perchè ci vogliono dodici piedi di tavola per farne una, e sapete ancora che siccome il terzo di dodici è quattro, così i due terzi di dodici valgono due volte quattro, cioè otto.

                Luc. Ora intendo: bisognerà dunque crescere il prezzo della tavola di due tanti e di due terzi?

                Ren. Così appunto. Essendo la tavola p. es. al prezzo di L. 3, duplicherete il prezzo ed avrete L. 6 e vi aggiungerete L. 2 per li due terzi del prezzo, e così avrete L. 8 per ciascuna ara.

                Luc. Così ancora se la tavola valesse L. 15, raddoppiandole avrei L. 30, ed aggiungendovi L. 10 pei due terzi farebbero L. 40 per ara; non dico bene?

                Ren. Si; dite benissimo: ma dovete sapere che questo non è poi un calcolo esatto precisamente, bensì un poco esorbitante cioè di circa mezzo piede per ciascuna ara, il che, come vedete, è pochissima cosa.

                Luc. Oh! per me credo che non si abbia a far gran caso di sì piccola differenza, e mi piace di aver conosciuto questa cosa, che a me torna [650] molto a conto, e non presenta molta difficoltà, così che andando in campagna saprò valutare i beni, e con questo esercizio spero che non mi cadrà più dalla memoria. Veramente si vede che V. S. sa ottimamente questo nuovo sistema, e non avrei creduto mai che avessi potuto con tanta prestezza imparare siffatte cose, che io mi figurava quali montagne da sormontare.

                Ren. Veramente è proprio così, che molte volte l'antipatia è il più grave ostacolo all'introduzione di notabili miglioramenti; e specialmente voi altri di campagna non volete per lo più credere, se non vi fanno toccare con mano, e se non siete veramente necessitati.

                Luc. Or questo non basta: quello stesso signore mi vorrebbe dare della legna a spaccare alla nuova misura che mi fu detta stero, ed io sono avvezzo a calcolare a tese; come dunque troverò il prezzo dello stero corrispondente alla tesa da legna?

                Ren. Neppur qui abbiamo delle difficoltà, ed è fortuna che per gente che non ha studiato sia così facile il rapporto fra la tesa e lo stero. Voi lo imparerete tantosto; state attento: la tesa da legna vale quanto quattro steri con un divario da nulla, cioè vi vogliono 4 steri per fare una tesa da legna. Onde lo stero è solamente un quarto della tesa, e per ciò ricaverete subito il prezzo dello stero da quello della tesa.

                Luc. Oh! sì; lo stero è un quarto della tesa, dunque ho da cercare il quarto del prezzo della tesa, ed avrò il prezzo dello stero: m'inganno forse?

                Ren. No, non v'ingannate. Quindi se il prezzo della tesa fosse di L. 2 cioè di quaranta soldi, ciascuno stero varrebbe 10 soldi.

                Luc. E se la tesa costasse L. 8, ne avrei L. 2 per prezzo dello stero Oh! la capisco.

                Ren. In questa maniera con pochissima riflessione troverete ancora il numero degli steri avendo il numero delle tese, perchè so bene che la maggior parte delle persone seguitano a far le legna e distribuirle in forma di tesa.

                Luc. Credo bene che sia assai faci le trovare il numero degli steri da quello delle tese, perchè se una tesa fa quattro steri, vorrà essere che moltiplicando per quattro il numero delle tese, si avrà il numero degli steri; non è forse cosi che 4 tese di legna fanno 16 steri?

                Ren. Ma benone!! Oh! io son così contento di parlare con voi che provo un piacere in questa nostra conversazione.

                Luc. È la sua bontà che fa chiamare conversazione la mia libertà nel chiacchierare, poichè io mi credo veramente di recarle un vero incomodo.

                Ren. No, mio caro; perchè gli incomodi stessi cambiansi in piaceri allorquando incontrasi a trattar con persona che fa cotanto profitto di sì poche lezioni. [651]

                Luc. Ohi la cosa è così evidente e piana, che chiunque abbia un po' di sale non può a meno di intenderla. Piuttosto favorisca ancora di rispondermi sopra una questione fattasi alcuni giorni fa in una cascina vicino alla mia.

                Ren. Dite pure.

                Luc. Il fittaiuolo aveva venduto il fieno a un margaro e non andavano d'accordo nè sulla misura nè sul prezzo.

                Ren. Sapete dirmi il numero delle tese? Io colla penna vi farò subito vedere il numero degli steri che dovevansi avere ed il prezzo di ciascuno.

                Luc. Signor mio, il numero delle tese in questa differenza era appunto 15½ a L. 45 ciascuna.

                Ren. Ebbene 15 tese e mezza moltiplicate pel numero di corrispondenza, che è 5, 04 (fa l'operazione sulla lavagna) dánno steri 75, 60 cioè 75 steri e 6o centesimi di stero. Lire 45 moltiplicate pel numero di corrispondenza che è 0, 198 dánno L. 8, 91. Dunque il prezzo di ciascun stero è di L. 8, 91. Moltiplicando il prezzo di uno stero, che è L. 8, 91 pel numero degli steri, che è 73, 60, otterremo il prezzo del fieno venduto. Facendo la moltiplicazione otteniamo L. 673, 59, cioè 673 lire e 59 cent. Siccome questi numeri di corrispondenza sono solo approssimati, il valore finale è solo approssimato; ma non differisce molto dal valor vero. Volendo avere un valore più esatto, basta prendere altri numeri di corrispondenza; ma allora le operazioni riescono un po' più lunghe. I vostri vicini adunque dovevano facilmente accordarsi, perchè non è cosa tanto difficile il fare questo riscontro delle tese, in steri col loro prezzo.

                Luc. Vossignoria non trova difficoltà, ma noi idioti, senza penna, alle volte indoviniamo molti conti, ma per lo più la sbagliamo. So però che non andavano d'accordo sul numero degli steri. Uno voleva moltiplicare quattro volte le tese e prendere il quarto del prezzo; l'altro voleva moltiplicare le tese per 5 e prendere un quinto dei prezzo. Qual dei due avrebbe avuto ragione, se si potessero riscontrare le tese di fieno in steri col loro prezzo?

                Ren. Propriamente parlando di esattezza, nè l'uno nè l'altro avevano ragione; ma quegli che voleva prendere il quarto prendeva un granchio madornale. Voi avete veduto che dalla tesa da legna alla tesa da fieno c'è un divario enorme.

                Luc. Oh! certo, perchè la tesa da fieno è alta, lunga e larga 46 oncie di piede liprando, e la tesa da legna è alta e lunga 40 oncie bensì ma larga soltanto 32 oncie.

                Ren. Per questo appunto la tesa di legna vale quanto quattro steri e la tesa da fieno corrisponde a cinque steri con qualche piccola eccedenza. [652]

                Luc. Vorrebbe Ella spiegarmi se moltiplicando per cinque le tese del fieno potrei ottenere gli steri che vi corrispondono?

                Ren. Moltiplicando le tese per cinque si hanno proprio gli steri con soli quattro centesimi di differenza, per ciascuna tesa, sicchè 15 tese farebbero 75 steri, più circa la metà di uno stero però questa regola vi dà la certezza di avere un conto assai approssimato.

                Luc. Oh! questa regola ancorchè approssimativa non mi dispiace, perchè mi servirà sempre a portare un giudizio. A questa maniera per conseguenza potrò anche rapportarne i prezzi?

                Ren. , ed il prezzo, della tesa si rapporta allo stero con facilità e con più esattezza, che non credereste, perchè il divario è di Soli 2 Millesimi, cioè lo stero corrisponde solo a 198 millesime parti della tesa, sicchè se calcoliamo (200 millesimi) ducento invece di 198 millesimi ben potremo avere il prezzo quasi esatto dello stero.

                Luc. Oh! mi ricordo che ducento è il quinto di mille, sicchè prendendo il quinto del prezzo dì tesa risulterà il prezzo dello stero. Non è così?

                Ren. Bene, e supponendo la tesa a L. 45 voi avrete lo stero a L. 9.

                Luc. Oh! oggi passo un giorno di bella soddisfazione. V. S. non crederà quanto io godo di avere imparato questo. Ora andrò a casa e saprò dirlo a' miei figli; saprò ancora dar consigli ad altri. Sarà per me una gloria sapere queste cose a differenza degli altri contadini: ed avrò motivo di tener grata memoria di sua bontà semprechè mi succederà di dover parlare o passare a queste nuove misure. Ben vorrei sapere come rimeritare V. S. del benefizio che mi ha fatto in oggi.

                Ren. Non fa bisogno di complimenti. Andatevene pure che io sono abbastanza pagato col piacere che ho di vedervi contento, e di avervi trovato così abile ad imparare queste cose.



[1] Luca, XVI, 8

[2] Prov. XXI, 30, 31

[3] Esodo XXV, 40

[4] Prov. I, 20

[5] Luca IV, 18

[6] Matt. IV, 19

[7] Così D. Bosco espone lo scopo della sua Opera.

Lo scopo dell'Oratorio festivo è di trattenere la gioventù ne' giorni di festa con piacevole ed onesta ricreazione dopo di aver assistito alle sacre funzioni di chiesa.

Dicesi i. Trattenere la gioventù nei giorni di festa; perchè si hanno, specialmente di mira i giovanetti operai, i quali nei giorni festivi soprattutto vanno esposti a grandi pericoli morali e corporali; non sono però, esclusi gli studenti, che nei giorni festivi o nei giorni di vacanza vi volessero intervenire. - 2. Piacevole ed onesta ricreazione; atta veramente a ricreare, non ad opprimere. Non sono pertanto permessi quei giuochi, trastulli, salti, corse, e qualsiasi modo di ricreazione in cui vi possa essere compromessa la sanità o la moralità degli allievi. - 3. Dopo aver assistito alle sacre funzioni di chiesa; perciocchè l'istruzione religiosa è lo scopo primario, il resto è accessorio e come allettamento ai giovani per farli intervenire.

Questo Oratorio è posto sotto la protezione di S. Francesco di Sales, perchè coloro che intendono dedicarsi a questo genere di occupazione devono proporsi questo Santo per modello nella carità, nelle buone maniere, che sono le fonti da cui derivano i frutti che si sperano dall'Opera degli Oratorii.

Nel Capo II della parte II sono esposte le condizioni per l'accettazione dei giovani nell'Oratorio. - I. Lo scopo di quest'Oratorio essendo, di tener lontana la gioventù dall'ozio, e dalle cattive compagnie particolarmente nei giorni festivi, tutti vi possono essere accolti senza eccezione di grado o di condizione. - 2. Quelli però, che sono poveri, più abbandonati, e più ignoranti sono di preferenza accolti e coltivati, perchè hanno maggior bisogno di assistenza per tenersi nella via dell'eterna salute. - 3 - Si ricerca l'età di otto anni, perciò sono esclusi i ragazzini, come quelli che cagionano disturbo, e sono incapaci di capire quello che ivi s'insegna. - 4. Non importa che siano, difettosi della persona, purchè [92] siano esenti da male attaccaticcio, o che possa cagionare grave schifo a' compagni; in questi casi un solo potrebbe allontanarne molti dall'Oratorio. - 5. Che siano occupati in qualche arte o mestiere, perchè l'ozio e la disoccupazione, traggono a sè tutti i vizii, quindi inutile ogni religiosa istruzione. Chi fosse disoccupato e desiderasse darsi al lavoro può indirizzarsi ai Protettori, e sarà da loro aiutato. - 6. Entrando un giovane in quest'Oratorio deve persuadersi che questo è luogo di religione, in cui si desidera di fare dei buoni cristiani ed onesti cittadini, perciò è rigorosamente proibito di bestemmiare, fare discorsi contrarii ai buoni costumi o contrarii alla Santa Cattolica Religione. Chi commettesse tali mancanze sarà paternamente avvisato la prima volta; che se non si emenda si renderà consapevole il Direttore, il quale lo licenzierà dall'Oratorio. - 7. Anche i giovani discoli possono essere accolti, purchè non diano scandalo, e manifestino volontà di tener condotta migliore. 8. Non si paga cosa alcuna nè entrando nè dimorando nell'Oratorio. Chi volesse aggregarsi a qualche Società lucrosa, può ascriversi in quella di Mutuo Soccorso, le cui regole sono a parte. - 9. Tutti sono liberi di frequentare quest'Oratorio, ma tutti devono essere sottomessi agli ordini di ciascun incaricato; tener il debito contegno nella ricreazione, in chiesa, e fuori dell'Oratorio.

[8] IV, I

[9] REG. p. Il, e. IV. Contegno in Chiesa - 1. Dato il segno di recarsi in Chiesa, ognuno vi si rechi prontamente con ordine, cogli abiti aggiustati, e quelli che sanno leggere non dimentichino il rispettivo libro. 2. Entrando in Chiesa ciascuno prenda l'acqua benedetta, faccia il segno della santa Croce, vada a mettersi a suo posto per fare ginocchioni una breve preghiera, e pensi che trovasi nella casa di Dio, che è il Padrone del cielo e della terra. - 3. In Chiesa non dovrebbe essere necessario alcun assistente; il solo pensiero di trovarsi nella casa di Dio dovrebbe bastare ad impedire ogni divagazione. Ma siccome taluno può dimenticare sè stesso ed il luogo ove si trova, perciò ad ognuno si raccomanda di stare sottomesso agli ordini dell'assistente e dei pacificatori, nè alcuno cerchi di uscire senza gravi motivi. - 4. Si raccomanda a tutti di non dormire, non ciarlare, non ischerzare, o fare gridi che possano eccitare il riso o il disturbo. Le quali mancanze saranno immediatamente corrette, ed eziandio punite, ad esempio del Divin Salvatore, che cacciò dal Tempio a sferzate quelli che vi negoziavano. - 5. Quando taluno è avvisato di qualche difetto, o a torto o a ragione, accolga in silenzio ed in buona parte l'avviso, e se ha qualche motivo a produrre, ciò faccia dopo le Funzioni di Chiesa. 6. Al mattino niuno cerchi di uscire finchè non sia cantato: Lodato sempre sia il nome di Gesù e di Maria. Alla sera niuno si alzi da ginocchioni finchè il Sacramento non sia chiuso nel Tabernacolo. - 7. Si raccomanda a tutti di fare quanto si può per non uscire di Chiesa in tempo di predica. Terminate le sacre Funzioni, ciascuno senza far tumulto si porti a fare ricreazione oppure a casa.

[10] Marco III, 5

[11] Regol. p. II, c. III - Contegno in ricreazione - 1. La ricreazione è il miglior allettamento per la gioventù, e si desidera, che tutti ne possano partecipare, ma solo con quei giuochi, che tra di noi sono in uso. - 2. Ognuno sia contento dei trastulli, che gli sono stati trasmessi, e si contenga nel sito assegnato a quel genere di giuochi. 3. (Durante la ricreazione ed in ogni altro tempo è proibito di parlare di politica, introdurre giornali di qualsiasi genere; leggere o ritenere libri senza l'approvazione del Direttore). - 4. È proibito il giuocar danaro, commestibili od altri oggetti senza il particolar permesso del Prefetto; si hanno gravi motivi, perchè quest'articolo sia rigorosamente osservato. - 5. Dato il caso, che durante la ricreazione entri nell'Oratorio qualche persona, che paia di condizione distinta, ognuno deve darsi premura di salutarla, scoprendosi il capo, lasciando libero il passo; e talora anche sospendere il giuoco. - 6. Generalmente è proibito il giuocare alle carte, ai tarocchi (alla palla, al pallone), il gridare smoderato, disturbare i giuochi altrui; lanciare sassi, palle di legno o di neve, il danneggiare le piante, le iscrizioni, le pitture; il guastare le mura ed i mobili, far segni o figure con carbone o legno, o con altra capace a macchiare. - 7. È poi in particolar maniera proibito il rissare, percuotere, ed anche mettere incivilmente le mani sopra i compagni; proferir parole sconcie, usare modi che dimostrino disprezzo ai compagni. Siamo tutti figliuoli di Dio, e dobbiamo tutti amarci colla medesima carità come altrettanti fratelli. - 8. Un quarto d'ora prima che termini la ricreazione, al tocco del campanello, ognuno deve ultimare il giuoco e la partita, che ha tra mano, senza più ricominciare. Suonato poi la seconda volta ciascuno porti il trastullo ove l'ha preso, e colà gli verrà rilasciato l'oggetto dato in pegno. - 9. Niuno può andare a giuocare fuori del recinto coi trastulli dell'Oratorio. - 10. In tempo di ricreazione tutti devono usare il debito rispetto agli incaricati, e dimostrarsi sottomessi agli invigilatori.

[12] Luca XXI, 19

[13] Parte 11, c. IX

[14] REG. O. F., p. III, c. V

[15] P. II, c. VII. - 1. Ritenete, giovani miei, che i due sostegni più forti a reggervi e camminare per la strada del Cielo sono i Sacramenti della Confessione e Comunione. Perciò riguardate come gran nemico dell'anima vostra chiunque cerca di allontanarvi da queste due pratiche di nostra santa Religione. - 2. Fra di noi non vi è comando di accostarsi a questi santi Sacramenti; e ciò per lasciare che ognuno vi si accosti liberamente, per amore e non mai per timore. La qual cosa riuscì molto vantaggiosa, mentre vediamo molti ad intervenirvi ogni quin - [163] dici od otto giorni, ed alcuni in mezzo alle loro giornaliere occupazioni fanno esemplarmente la loro Comunione anche tutti i giorni. La Comunione solevasi fare quotidiana dai cristiani dei primi tempi; la Chiesa Cattolica nel Concilio Tridentino inculca che ogni cristiano quando va ad ascoltare la santa Messa faccia la santa Comunione. - 3. Tuttavia io consiglio tutti i giovani dell'Oratorio a fare quanto dice il Catechismo della Diocesi, cioè: è bene di confessarsi ogni quindici giorni od una volta al mese S. Filippo Neri, quel grande amico della gioventù, consigliava i suoi figli spirituali a confessarsi ogni otto giorni, e comunicarsi anche più spesso secondo il consiglio del confessore. - 4. Si raccomanda a tutti e specialmente ai più adulti di frequentare i santi Sacramenti nella chiesa dell'Oratorio Per dar buon esempio ai compagni; perchè un giovane che si accosti alla Confessione e alla Comunione con vera divozione e raccoglimento, fa talvolta maggior impressione sull'anima altrui, che non farebbe una lunga predica. - 5. I confessori ordinarii sono il Direttore dell'Oratorio, il Direttore spirituale ed il Prefetto. Nelle Salennità s'inviteranno anche altri confessori a pubblica comodità. - 6. Sebbene non sia peccato il cangiare confessore, tuttavia vi consiglio di scegliervene uno stabile, perchè dell'anima avviene ciò che fa un giardiniere intorno ad una pianta, un medico intorno ad un ammalato. In caso poi di malattia il confessore ordinario conosce assai facilmente lo stato dell'anima nostra. - 7. Nel giorno che scegliete per accostarvi ai santi Sacramenti, giunti all'Oratorio non trattenetevi in ricreazione pel cortile, ma andate tosto in cappella, preparatevi secondo le norme spiegate nelle sacre istruzioni, e come sono indicate nel Giovane Provveduto ed in altri libri di pietà. Se vi tocca aspettare, fatelo con pazienza ed in penitenza dei vostri peccati. Ma non fate mai risse per impedire che altri vi preceda, o per passare voi stessi davanti agli altri. - 8. Il Confessore è l'amico dell'anima vostra, e perciò vi raccomando di avere in lui piena confidenza. Dite pure al vostro confessore ogni secretezza del cuore, e siate persuasi, che Egli non può rivelare la minima cosa udita in confessione. Anzi non può nemmeno pensarvi sopra. Nelle cose di grave importanza, come sarebbe nell'elezione del vostro stato, consultate sempre il confessore. Il Signore dice che chi ascolta la voce del confessore ascolta Dio stesso. Qui vos audit, me audit. - 9. Finita la confessione, ritiratevi in disparte, e col medesimo raccoglimento, fate il ringraziamento. Se avete il consenso del confessore, preparatevi alla santa Comunione. - 10. Dopo la Comunione trattenetevi almeno un quarto d’ora a fare il ringraziamento; sarebbe una gravissima irriverenza se pochi minuti dopo aver ricevuto il Corpo, Sangue, Anima e Divinità di Gesù Cristo, uno uscisse di chiesa o si mettesse a ridere e a chiacchierare, sputare o guar - [164] dare qua e là per la chiesa. - 11. Fate in maniera che da una confessione all'altra riteniate a memoria gli avvisi dati dal confessore, procurando di metterli in pratica. - 12. Un'altra cosa riguarda la Comunione ed è: fatto il ringraziamento, dimandate sempre a Dio questa grazia, cioè di poter ricevere colle debite disposizioni il santo Viatico prima della vostra morte.

[16] P. II, c. V. - Contegno fuori dell'Oratorio. - 1. Ricordatevi, o giovani, che la santificazione delle feste vi porta la benedizione del Signore su tutte le occupazioni della settimana; ma vi sono ancora altre cose che dovete praticare, altre cose che dovete fuggire eziandio fuori dell'Oratorio. - 2. Procurate ogni giorno di non mai omettere le preghiere del mattino e della sera, di fare alcuni minuti di meditazione o almeno un po' di lettura spirituale, e ascoltare la santa Messa, se le vostre occupazioni lo permettono. Non passate dinanzi a chiesa, croce, o immagine divota senza scoprirvi il capo. - 3. Evitate ogni discorso osceno, o contrario alla Religione, perchè S. Paolo ci dice che i cattivi discorsi sono la rovina dei buoni costumi. - 4. Dovete tutti in ogni tempo tenervi lontani dai teatri diurni e notturni, fuggire le bettole, i caffè, i ridotti da giuoco, ed altri simili luoghi pericolosi. - 5. Non coltivare l'amicizia di coloro che sono stati licenziati dall'Oratorio, e che parlano male dei vostri Superiori, o che cercano di allontanarvi dai vostri doveri; fuggite specialmente quelli che vi dessero consiglio di rubare in casa vostra o altrove. - 6. Finalmente è proibito il nuoto ed il fermarsi a vedere a nuotare, come una delle più gravi trasgressioni delle regole dell'Oratorio, perchè in tali occasioni si sogliono incontrare gravi pericoli per l'anima e pel corpo.

[17] Ecclesiaste XI, 4

[18] La pinta era una misura piemontese, che conteneva ben più di un litro

[19] BALAN St. Eccl. V. I. Torino, 1879, pag. 67

[20] I Timot. VI, 8

[21] Eccli. XXXVIII, I

[22] Concordia 18 Marzo 1848

[23] Civiltà Cattolica. Anno trigesimo, vol. X, pag. 394. 1879

[24] Bosch in piemontese significa legno

[25] Il Cristiano ecc. Giorno ventesimosecondo

[26] Eccl. IV, 7

[27] La mutta era una moneta di rame ed argento in vigore negli Stati Sardi, e valeva 40 centesimi

[28] Si chiamano barbetti i ministri Valdesi a cagione della lunga barba che una volta portavano

[29] V. L'aurora di Roma, N. 229, 7 ottobre 1880

[30] Contessa SPAUR. Relazione del viaggio di Pio IX a Gaeta

[31] MATT. X. 23

[32] Prov. XIX, 2

[33] Materia delle Prediche, e delle Istruzioni. I. La materia delle Prediche e delle Istruzioni morali deve essere scelta e adattata alla gioventù, e per quanto si può, essere mischiata di esempi, di similitudini, di apologhi. - 2. Gli esempi si ricavino dalla Storia Sacra, dalla Storia Ecclesiastica, dai santi Padri, o da altri accreditati autori. Ma si fuggano i racconti che possono eccitare il ridicolo sulle verità della fede. Le similitudini poi piacciono assai, ma bisogna che siano di cose conosciute, o facili a conoscersi dagli uditori; che siano bene studiate, ed abbiano un'applicazione chiara ed adattata agli individui. - 3. Si badi che gli esempi devono solamente servire a confermare le verità della fede, le quali devono già essere provate prima. Le similitudini poi devono solamente servire di mezzo per dilucidare una verità provata o da provarsi. Le Prediche si facciano in lingua italiana, ma nel modo più semplice e popolare che sia possibile, e dove ne sia mestieri si usi anche il dialetto della provincia. Non importa che ci siano giovani, ed altri uditori, che comprendano l'italiano elegante; chi capisce un discorso elegante, capisce assai più il popolare ed anche il piemontese. - 4. Le Prediche non devono mai oltrepassare la mezz'ora, perchè il nostro S. Francesco di Sales dice essere meglio che il predicatore lasci desiderio di essere udito e non mai noia. E la gioventù particolarmente ha bisogno, e desidera anche di ascoltare, ma sia usata grande industria perchè non resti mai nè oppressa nè annoiata. - 5. Quelli che si degneranno di venire in quest'Oratorio a spiegare la parola di Dio sono caldamente pregati di essere chiari e popolari quanto è possibile; facciano cioè in modo, che in qualsiasi punto del discorso gli uditori capiscano quale virtù sia inculcata, o quale vizio sia biasimato.

[34] Secondo i ragguagli più precisi e recenti che si conoscono oggidì (1902), la popolazione del globo è di un bilione, cinquecento ventitrè milioni.

Di tanti uomini, che abitano la faccia della terra, appena un quinto si trova nella vera Religione, che è la Cattolica. Oh! imperscrutabili giudizi di Dio

[35] Vedi N. 40 dell'Armonia, anno 1849

[36] Vedi Vol. XV, ediz. sesta italiana, lib. 91, pag. 558

[37] La Sacra Congregazione dell'Indice esamina i libri che le vengono denunziati da autorevoli persone. Il Segretario, ricevuta la denunzia motivata, la esamina e riscontra l'accusa insieme con due consultori eletti con approvazione dei Papa o del Cardinal Prefetto, indi rimette il libro ad un relatore specialmente versato in quell'argomento e approvato come è detto dianzi; il quale ne darà il suo giudizio per iscritto, notando le pagine e i passi a suo parere meritevoli di censura. Ciò fatto, avanti che la relazione passi alla Congregazione dei Cardinali, dev'essere presentata al giudizio della Congregazione preparatoria dei soli consultori adunati col Segretario. Questa Congregazione preparatoria si raduna ogni mese e v'interviene pure il Maestro del S. Palazzo. Le sue deliberazioni e i voti, uniti alla censura del relatore, sono deferite ai Cardinali della Congregazione perchè nella loro adunanza ne diano sentenza definitiva di condanna o di emendamento; la quale infine il Segretario insieme con una diligente relazione di tutto il processo sottoporrà all'approvazione dei Papa.

Quando poi si tratta di un autore Cattolico, insigne per fama e per altre opere pubblicate o forse per quella stessa che è in causa, e che pure meriterebbe censura, allora è consuetudine antica, riconfermata dallo stesso. Pontefice, di attenuarne la proibizione colla clausula donec corrigatur ovvero donec expurgetur, e frattanto il decreto non si pubblica, ma se ne avverte benignamente l'autore indicandogli le correzioni necessarie. E se egli è in tempo a ritirare il libro dal commercio per introdurvi quelle modificazioni, il decreto nè anche comparirà in pubblico, ma sarà soppresso; che se già troppi esemplari sono in circolazione, allora il decreto viene promulgato, ma con quel temperamento, acciocchè s'intenda che esso colpisce la prima edizione soltanto, e non quelle emendate.

[38] XVII, 12

[39] Pallavicino, Memorie Il 586 - 87. - Massari, Ricordi e Carteggio II, III, IV

[40]Giovani che fecero gli esercizii spirituali la prima settimana di luglio 1849.

T. Botto - D. Bosco - T. Vola.

Castagno Stefano, Soles Giacomo, Sansoldi Giovanni Battista, Appiano Giovanni, Giozza Edoardo, Boasso Simone, Scrivan Ignazio, Ludre Carlo, Billula Michele, Bens Luigi, Bussone Lorenzo, Michele Formica, Delponte Natale, Aschieri Felice, Candido Germano, Candido Musso, Timossi Giuseppe, Comba Antonio, Beglia Giacomo, Razetti Edoardo, Servetti Serafino, Savio Ascanio, Cherico, Malacarne, Avatanio, Viano Domenico, Costantino, Picca, Bozzetti”.

 

Per gli esercizii Spirituali, 23 luglio 1849.

Vandano, Minetti, Viglietti, Perrona, Gaddo, Longo, Buzzetti, Gallo Giacinto, Piacenza, Due di Moncalieri, Garda Domenico, Borda Giovenale, Blengio Francesco, Sola Stefano, Cumiana, Cagno Benedetto, Oddenino Giuseppe, Gastini Carlo, Un Lombardo, Giordanino Agostino, Mondo Luigi, Marchisio, Quattro di Cambiano, Quattro di Chieri, Montafameglio, Ceruti, Sardo, Degiuli, Truffo, Pavesi Vittorio, Piovano, Berrutto Bartolomeo, Gribaudo Bartolomeo, Crosa Gio. Battista, Sandrone Francesco, Poma Giacomo”

[41] Cenni sulla vita del Sac. Biagio Verri - Savona ecc. Stabilimento Tipografico Andrea Ricci, 1887

[42] V. Conciliatore Torinese, n. 42, anno 1849. - Il Conciliatore Torinese cominciò ad uscire il 15 luglio del 1848, e venne a mancare nel mese di settembre del 1849

[43] Fare la quercia o l'albero forcuto vuol dire tentare di star ritto col capo in terra e le gambe per aria

[44] In un quaderno troviamo scritto da D. Bosco il nome di alcuni di questi giovani: Gastini Carlo, Roccetta Agostino, Comba Antonio, Tomatis Carlo, Rosselli Battista, Rosso Domenico, Zeffirino Costante, Tarditi Giovanni, Bruno Giuseppe, Castini Agostino, Nigra Pietro, Rossi Giuseppe, Reviglio Felice, Berrutto Bartolomeo, Pelizzetti Luigi, Piumatti Giovanni, Grulio Augusto, Sarali Pietro, Fazio Gabriel, Mainetti Paolo, Fabbretti Luigi, Buzzetti Giuseppe, Genti Giuseppe, Canale Giuseppe. A questi aggiungiamo; Chiosso, Frassini, Pasero, Audisio, Chiappero, tutti testimonii di quanto narriamo

[45] ARMONIA I giugno 1849. - Già parecchie opere utili e per più titoli pregevoli uscirono alla luce intorno al sistema metrico - decimale. Però (Don Bosco) l'autore dell'operetta che noi annunciamo le trovò poco adattate ad un numero di giovani artigiani che la Providenza volle alle sue cure affidati; perchè vennero scritte con modi troppo elevati e per lo più mancanti delle analoghe relazioni dei sistema antico col nuovo, il che forma il punto più importante dei gran passaggio dal calcolo antico al nuovo metrico - decimale.

Il Sacerdote Bosco raccolse da altri autori quanto gli parve migliore e più popolare, compilò un libretto in cui si fanno precedere le quattro prime operazioni dell'aritmetica, indi in maniera veramente popolare passa a sviluppare il nuovo sistema, lo paragona coll'antico, indicando il modo di ridurre i pesi e le misure antiche in nuove metriche e reciprocamente colla semplice moltiplicazione.

Per la moltiplicazione nel sistema antico eravamo mancanti di prova propriamente detta; era bensì usata da alcuni la regola dei 9, ma la varietà delle frazioni la rendevano impraticabile. Il Sacerdote Bosco applicò pel primo al nuovo sistema questa regola del 9, e trovò che nel decimale si estende a qualsiasi operazione. Questa regola viene chiaramente spiegata dall'autore e si riduce a questo, che con quattro sole cifre si fa la prova di qualsiasi anche lunghissima operazione di moltiplica.

Atteso il bisogno che si fa vieppiù sentire di mano in mano che ci avviciniamo al 1850, speriamo che quest'operetta tornerà al pubblico di gradimento con vantaggio di tutti, ma specialmente di quelli che non possono frequentare le scuole stabilite per questo nuovo sistema

[46] Vedi nota in fondo al volume: Otto dialoghi di D. Bosco ecc.

[47] L'orario era questo: Giorni feriali. Mattino: ore 5½ la S. Messa; ore 6, Veni Creator Meditazione, Miserere; ore 12, Messa, canto della lode: Perdon. caro Gesù ecc., Dialogo. Sera, ore 7, Istruzione, lode: Noi siam figli di Maria; ore 8, Veni Creator, Meditazione, Litanie della Beata Vergine e Benedizione col SS. Sacramento. Giorni festivi. Mattino: tutto come nei giorni feriali. Sera: ore 5. Istruzione, lode: Noi siam figli di Maria - ore 6, Veni Creator, Meditazione, Litanie e Benedizione come nei giorni feriali.

[48] Capo XVI, 5




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