raccolte dal sacerdote salesiano Giovanni Battista Lemoyne
(Giovanni Battista LEMOYNE voll. I-IX, Angelo AMADEI vol. X, Eugenio CERIA voll. XI-XIX, Indice anonimo dei voll. I-VIII e Indice dei voll. I-XIX a cura di Ernesto FOGLIO)
QUARTO SUCCESSORE DEL BEATO DON BOSCO
SIANO APPORTATRICI DI LUCE E DI CONFORTO
IN QUESTO QUATORDICESIMO VOLUME
Nello svolgere le pagine di questo volume parrà più volte ai lettori di vedere Don Bosco insanguinare la persona movendo i passi sotto quel Pergolato da lui descritto in un notissimo sogno. Era un pergolato di magnifiche rose: rose sopra il capo, rose sotto i piedi, rose da ambo i lati; ma tutte quelle rose nascondevano tremendi aculei, che nell'andare gli squarciavano le carni. Spettatori superficiali lo guardavano con ammirazione o con invidia incedere sicuro Per un cammino così fiorito; chi invece si appressava e si metteva sulle sue tracce, sperimentava subito a costo di quante e quali trafitture l'Uomo di Dio conquistasse ogni palmo di terreno.
Anche il Presente volume narra fatti e produce documenti di due anni, che non senza discapito dell’esposizione si sarebbero sdoppiati. Procedendo così passo passo con gli anni del Beato e raccogliendo per via e coordinando checchè abbia rapporto col nostro Fondatore, noi raduniamo la maggior copia Possibile di elementi, non solo Per informare ad aedificationem i nostri Confratelli, ma anche con la mira di preparare tutto il materiale che potrà occorrere al futuro biografo, il cui ufficio sarà di delineare con sintesi poderosa la straordinaria figura del Santo, inquadrandola bene entro la cornice del suo tempo.
Durante questo biennio l'operosità di Don Bosco nel governo della crescente Congregazione, nei ministeri sacri, nel maneggio degli affari, nei viaggi frequenti, nel parare i colpi degli avversari non subì alcun rallentamento, quantunque le condizioni della sua salute si facessero ognor più penose. Ora a meglio [8] comprendere e valutare una sì stragrande attività tornano quanto mai opportune certe osservazioni del Beato Claudio De la Colombière. In un tempo nel quale, il lavoro apostolico lo teneva febbrilmente occupato, egli scriveva di sè alla sorella visitandina[1]: “Il difficile è stare del continuo fra gli uomini e non cercare che Dlo; aver sempre un da fare tre o quattro volte superiore alle proprie forze, e non perdere la calma dello spirito, senza della quale non si può possedere Dio; non disporre se non di Pochi minuti per rientrare in se stessi e raccogliersi in orazione e ciò nonostante evitare la dissipazione. Tutto questo è possibile, ma non è tanto facile”. Che fosse possibile, ben si vide nei due Beati, con la differenza che un simile tenore di vita durò appena un paio d'anni per il De la Colombière, cioè durante il suo primo soggiorno in Paray-le-Monial, mentre per Don Bosco si protrasse almeno a un paio di ventenni. Tale possibilità, come accenna ivi il primo e come fu vero Per entrambi, deriva dall'applicarsi a ogni genere di occupazioni solamente per fini soprannaturali e perchè Dio lo vuole.
Della spiritualità di Don Bosco è questo un lato su cui gettano nuova luce le parole proferite dal Santo Padre Pio XI in una udienza del 17 giugno 1932 agli alunni dei pontifici seminari romani, maggiore e minore. Fra le altre cose disse del nostro Beato il Papa[2]: “La sua vita di tutti i momenti era un'immolazione continua di carità, un continuo raccoglimento di preghiera; è questa l'impressione che si aveva più viva della sua conversazione: un uomo che era attento a tutto quello che accadeva dinanzi a lui. C'era gente che veniva da tutte le parti, chi con una cosa chi con un'altra: ed egli in piedi, su due piedi, come se fosse cosa di un momento, sentiva tutto, afferrava tutto, rispondeva a tutto, e sempre in alto raccoglimento. Si sarebbe detto che non attendeva a niente di quello che si diceva intorno a lui: si sarebbe detto che il suo pensiero era altrove, ed era veramente così: era altrove: era con Dio con spirito di unione; ma poi eccolo [9] a rispondere a tutti: e aveva la parola esatta per tutto e per se stesso, così proprio da meravigliare: prima infatti sorprendeva e poi proprio meravigliava. Questa la vita di santità e di raccoglimento di assiduità nella preghiera che il Beato menava nelle ore notturne e fra tutte le occupazioni continue e implacabili delle ore, diurne”.
Da questo suo fondo di spiritualità Don Bosco traeva un'illimitata fiducia in Dio, per la quale nulla gli sembrava troppo arduo nelle opere a cui poneva mano, nulla lo turbava di fronte a qualsiasi eventualità del futuro. La stessa fiducia egli poi sapeva trasfondere ne' suoi collaboratori e cooperatori che, non mai troppo sgomenti da difficoltà interne o esterne, lo seguivano per la via da lui tracciata, gli uni condividendone le quotidiane fatiche, somministrando gli altri a lui e a' suoi col pane quotidiano anche mezzi moltiplicati a molteplici imprese.
Un'altra cosa Don Bosco non perdette mai di vista in mezzo al trambusto degli affari: lo zelo per indirizzare a Dio le anime de' suoi Salesiani. A conseguire tale intento il suo gran segreto era amarli molto e individualmente tutti e far sì che ciascuno compiesse di buona voglia il proprio dovere. In pratica siffatta paternità universale, ma non generica e trascendentale, gli suggeriva quella moderazione che distingue gli uomini illuminati e veramente superiori e che, sapendosi adattare con buon criterio ai diversi temperamenti, tutti piega fortiter et suaviter là dove il bisogno o il dovere richiede
E questo ci conduce a un'altra importante osservazione. Il lavorìo di Don Bosco per tirarsi su i soggetti che dovevano formare la base della sua Società, fu ben lungo e duro! Sceglierli, crescerli, plasmarli, affezionarli a sè e all’opera sua fu il suo travaglio di almeno trent'anni. E quante volte le sue speranze gli venivano frustrate da dolorosi abbandoni! Ma alla fine raccolse i frutti della sua invitta costanza, due specialmente, i quali furono la compattezza dei primi membri fra loro e col loro capo, e lo spirito di unione che da quelli noi abbiamo ereditalo. Fino a oggi infatti nessuna di quelle deplorevolissime [10] scissure che afflissero in su gl'inizi altre famiglie religiose, ha scosso in sessant'anni la nostra bella compagine. Di tanta concordia fraterna qual prova più luminosa che la recente elezione del quarto Successore di Don Bosco? Più di ottanta elettori convenuti dalle quattro parti del mondo ecco che, senz'ombra di previa intesa, si sono affermati sul nome di Don Pietro Ricaldone con sì mirabile unanimità, seguíta da sì pronto consenso dei mille e mille non elettori, che il fatto non isfuggì all'attenta osservazione del Papa, il quale nella prima udienza concessa al novello Rettor Maggiore si compiacque di rilevarne il significato e il valore[3]. I muri di un edifizio si fendono allorchè le fondamenta non hanno la dovuta stabilità; quando invece la durano compatti, è segno che l'architetto le ha basate su salda roccia. Dio non permetterà giammai, speriamo, che elementi deleteri si accostino a questa base; ma se col tempo principii rovinosi avessero ad attentarvi, nutriamo fiducia che, non che a disgregarla, non arrivino nemmeno a scalfirla. La piena conoscenza di Don Bosco nella sua vita, nelle sue opere e nel suo spirito avrà una sovrana e perpetua efficacia a cementare sempre più Ira loro le parti del gran tutto da liti creato.
Ritorniamo a noi e al nostro modesto lavoro, Nonostante la prova dei fatti, anche nel periodo d i cui qui ci occupiamo, quanta e quale incomprensione ci toccherà deplorare, e non in volgari intelletti! Mentre la forza stessa delle cose costringeva i più a esclamare Digitus Dei est hic !, per altri il dito di Dio stava occulto sotto l'umiltà del suo Servo. Nel campo evangelico è questa la sorte dei grandi seminatori; ivi chi semina non suol essere precisamente quel desso che poi miete, e il germe da cui maturerà la gioia del mietere viene d'ordinario fecondato dalle lacrime che per lo più accompagnano il travaglio del seminare[4].
Il crescente sviluppo che le Opere salesiane prendevano in Italia e in Francia, obbligava Don Bosco ad assenze sempre più frequenti e prolungate sia per visitare le case di fresca fondazione sia per conferire con promotori e benefattori; ma soprattutto gli bisognava non perdere mai di vista Roma, dove si agitavano per la Congregazione i maggiori interessi riguardo al suo avvenire. Buon per lui che aveva a Torino chi ne adempieva assai bene le veci. L'esperienza degli ultimi anni era stata più che sufficiente a dimostrargli ch'ei poteva riposare tranquillo sulla maturità di Don Rua; non avrebbe infatti potuto desiderare un figlio più devoto, un interprete più fedele, un lavoratore più indefesso e più intelligente, uno spirito più illuminato, un superiore la cui autorità fosse più indiscussa, un uomo insomma che, tutto consacrato alla missione di Don Bosco, tutto imbevuto delle sue idee, fosse meglio capace non solo di tener in pugno le redini dell'Oratorio, ma anche di rappresentare degnamente la persona del Fondatore in ogni ordine di affari. Perciò anche nel 1879 Don Bosco si assentò a più riprese e per notevole spazio di [12] tempo dalla Casa madre senza punto preoccuparsi delle conseguenze che la sua lontananza potesse produrre. Noi dunque cominceremo per quattro successivi capitoli a seguirlo in Francia, in Liguria e Toscana, a Roma e nel ritorno Per aliam viam a Valdocco.
Veramente, se avesse dovuto chiedere consiglio al medico, il Servo di Dio non si sarebbe esposto nella stagione invernale ai disagi, alle fatiche e agli strapazzi che lo attendevano in sì lunga peregrinazione; ma degli uomini eletti da Dio a compiere nel mondo opere grandiose per la sua gloria è lecito ripetere in certo senso che convaluerunt de infirmitate, ricevettero forza quand'erano infiacchiti[5], tanto apparvero tetragoni a tutte le influenze avverse.
Partendo il 30 dicembre da Torino, egli non lasciò a Don Rua un gran che di danaro, ma gli rimise una circolare da spedirsi il I° di gennaio per la lotteria dei quadri[6]; anche la lettera ai Cooperatori prossima a uscire nel Bollettino di gennaio era un appello a beneficenza[7]. Nella circolare Don Bosco diceva:
Prego umilmente V. S. Benemerita a volermi continuare la sua carità per la piccola lotteria, di cui si è già tenuta parola nel nostro Bollettino. Dal regolamento, che le unisco, vedrà quale ne sia lo scopo. Si tratta di vestire i nudi, albergare i pellegrini, dar da mangiare ai poveri affamati e cooperare alla salvezza delle anime.
Fiducioso pertanto nella sua carità, le unisco biglietti N... che spero voglia ritenere per sè, o distribuire ad altre persone benevoli di sua conoscenza. Se però al principio di marzo possedesse ancora biglietti che non giudicasse di ritenere ella può con piena libertà rinviarmeli. Qualora poi giudicasse poter distribuire ancora altri biglietti, favorisca darmene cenno, che coli animo riconoscente le verranno tosto spediti.
Iddio misericordioso, elle promette larga mercede per un bicchier d'acqua fresca data in suo onore, rimeriterà copiosamente l'opera sua [13] benefica, mentre l'assicuro delle comuni preghiere di tutti i beneficati giovanetti, e con profonda gratitudine ho l'onore di professarmi
Lo accompagnava Don Cagliero. Fermatisi alcuni giorni a Sampierdarena[8], si recarono il 3 gennaio ad Alassio, dove rovarono il Direttore malazzato e i principali confratelli rotti dalla stanchezza. Era prossima l'Epifania: unanimi quei superiori supplicarono Don Bosco di lasciare là per alcuni giorni il suo valoroso compagno di viaggio, affinchè aiutasse i giovani a far bene la festa e con la sua grande briosità ne ravvivasse l'allegria. “Mi fermai [ ... ] lavorando non poco, scriss'egli[9], e questa mia fermata servì di visita pastorale ai Salesiani e di straordinariato per le suore”. In quella circostanza Don Bosco stabilì ufficialmente Don Luigi Rocca vicedirettore, che in pratica equivaleva poi a direttore, del collegio; la poca salute di Don Cerruti e la sua recente nomina a, Ispettore esigevano quel provvedimento.
Il Beato, menando seco tre chierici che l'avevano raggiunto a Sampierdarena, partì quasi subito per Nizza Mare. Qui non [14] se ne sapeva nulla, Parve però che di qualche cosa straordinaria quei confratelli avessero 1 un vago sentore; infatti, mentr'erano a pranzo, un fischio fortissimo della locomotiva, quale non solevasi udire, fece sì che dicessero ridendo: Qualche gran novità ci dev'essere in aria! -Levatisi poi da mensa, il Direttore aveva già il cappello in testa per andare a fare una visita, quando gli corse incontro il portinaio gridando: - Don Bosco, Don Bosco! - I giovani a quell'annunzio si precipitarono verso la porta e intorno a Don Ronchail, che senza scomporsi credette trattarsi di sogno o scherzo. Ma, posto piede sulla soglia per uscire, vide con i suoi occhi Don Bosco, sceso allora allora dalla vettura. Gli fu improvvisata la migliore accoglienza possibile. Sull'entrare in casa egli chiese al Direttore come stesse il barone Héraud. Singolare combinazione! Proprio in quell'istante il Barone, anche lui di nulla informato, comparve là improvvisamente e con un profondo inchino presentò a Don Bosco le chiavi. Allorchè Don Bosco finiva di desinare, ecco il fattorino con un telegramma, che egli aveva spedito da Montone per annunziare il suo arrivo.
Fece pena a tutti il vederlo non poco sofferente. Il treno lo stancava; era sempre afflitto nella vista; aveva lo stomaco logoro e pativa incitamenti al vomito. “Ha però molta speranza nelle preghiere dei suoi figli, scriveva Don Ronchail, e si raccomanda che facciano a questo scopo delle buone e sante comunioni”. E a sua volta Don Cagliero: “Converrà che si facciano preghiere per Don Bosco. La sua vista e il suo stomaco si risentono facilmente e bisogna convincersi che non è più quello di una volta. Chi lo accompagna deve usargli riguardi assai; ora che ne ha bisogno, non essendo accostumato a domandarli, tace. Bisogna prevenirlo in tutto”. La sua corrispondenza di quei giorni è scritta sotto la stia dettatura[10] [15] Passò la domenica 5 e la solennità dell'Epifania nella casa di Nizza, donde il 7 partì per Marsiglia. Si prese Don Roncbail per segretario; quindi Don Cagliero, allorchè giunse a Nizza, vi trovò l'ordine di governare il Patronage Saint-Pierre fino al ritorno del Direttore. Alla partenza del Beato vi fu un po' d'ilarità, giacchè egli portava cappello e facciuola o rabat alla francese. Agli occhi de' suoi figli pareva strana la sua figura in quell'abbigliamento. Egli pure rideva e disse: - Oggi comincia il carnevale e bisogna ben fare qualche cosa di straordinario! - Ma la facezia nascondeva un pensiero assai più serio che coloro non s'immaginassero. Come allora in Francia alla francese, così appresso in Ispagna vestirà alla spagnuola. Quella carità che lo faceva essere tutto a tutti per portar tutti a Gesù Cristo, gli dettava atteggiamenti esteriori atti a sgombrare dalle menti dannosi pregiudizi, come per esempio che oltre le frontiere italiane egli volesse improntare le sue opere a un proprio nazionalismo con pericolo di eccitare la suscettibilità dei paesi che lo ospitavano, e di sollevare dubbi odiosi sulla sincerità del suo zelo.
Presero il treno per Fréjus, dove furono accolti assai cortesemente dal vescovo monsignor Terris; indi la sera stessa ripartirono per Marsiglia. Qui ricevettero il primo saluto dal mistral o maestrale, vento freddissimo che soffia da tramontana a ponente e che imperversò un paio di giorni, sìcchè in certi momenti sembrava che volesse rovesciare la casa. Non era proprio il tempo più desiderabile per la malferma salute di Don Bosco!
Ma il freddo non era soltanto nell'aria: sulle prime quasi nessuno si occupava di Don Bosco. Venuto a Marsiglia pressochè in incognito, unicamente dall'Oratorio ricevette festevoli accoglienze. Anche il curato di San Giuseppe non sembrava più quello d'una volta, cotanto mostravasi indifferente. Nelle visite poi Don Bosco non incontrava che gli atti di una gelida officiosità. In un caso anzi gli toccò di peggio. Andato a visitare un'importante comunità religiosa, chiese del superiore [16] al portinaio, che gl'indicò le scale, il corridoio e la stanza. Aveva con sè Don Bologna. Salirono da soli, guardando in qua e in là, finchè trovarono il posto indicato, e ivi seduti sopra un sofà tre religiosi che trattavano di affari. Don Bosco si presentò umilmente -Che cosa cerca? gli chiese il superiore.
- La cartiera del padre Rettore, rispose Don Bosco.
- Vorrei solamente dire al padre Rettore...
- Passi in anticamera. Adesso dobbiamo sbrigare alcuni negozi.
Don Bosco andò in anticamera e aspettò parecchio. Finalmente venne il padre Rettore e con modi sostenuti lo interrogò:
- Vorrei raccomandare alla sua bontà il nuovo collegio che ho fondato qui in Marsiglia.
- Nossignore. lo era venuto solamente per questo fine e per ossequiarla.
- Se non ha altro da dirmi... Ho capito... La riverisco..
Ciò detto, egli si ritirò e Don Bosco uscì da quella casa. Don Bologna lo seguiva barcollante, tanto era irritato e confuso. Ma il Servo di Dio gli disse con tutta calma: - Sta' allegro! Saranno essi più confusi di noi riflettendo al modo col quale ci hanno trattati. - Infatti quando negli anni seguenti i prodigi rivelavano la mano della Provvidenza nelle Opere di Don Bosco, quei Padri accorsero premurosamente a visitarlo e a prestargli ossequio.
Diremo fra breve quale fosse la causa che aveva indotto negli animi un sì grande mutamento, per cui da tempo Don Bologna si sentiva molto a disagio - sollecitava la presenza del Beato Padre. Questi senza sgomentarsi cercava di rinfrancare [17] il Direttore. La stia cameruccia dava sopra una collinetta coronata da tre magnifiche querce; ma da basso un cortile a piano inclinato permetteva di guardare dentro alle stanze. Un giorno, additando a Doli Bologna l'altura attraverso i vetri delle finestre, che non erano adorne di cortine, gli disse: - Vedrai che presto ci libereremo da questo inconveniente e avremo là una bella e grande casa con un ampio e ben spianato cortile. - Parole che rianimarono un po' il Direttore, ma senza rasserenarlo del tutto, tanto più quando sentì Don Bosco esclamare: - Io qui perdo tempo! - Infatti non si trovava la via per conchiudere alcunchè di serio.
Ma a torre d'imbarazzo il Servo di Dio intervenne la Provvidenza con un fatto, che in tiri batter d'occhio cambiò le disposizioni degli spiriti. Una madre piemontese, e propriamente astigiana, condusse da Don Bosco un suo figlio che faceva pietà: piccolo, rachitico, quasi raggomitolato in se stesso, moveva a stento le povere gambe, sorretto da due stampelle. Gli si potevano dare otto anni. Lo videro passare parecchi giovani esterni, che frequentavano le scuole dei Salesiani e appartenevano alla cantoria di San Giuseppe. Fanciullo e madre vennero introdotti nella stanza di Don Bosco. Il Servo di Dio indirizzò a entrambi alcune parole; indi benedisse lo storpio, ingiungendogli di buttar via le grucce. Succedette una metamorfosi istantanea: il ragazzo si raddrizza, getta da sè i miseri sostegni e se la dà a gambe. La donna, quasi demente, afferra quei legni, gli si slancia dietro gridando al miracolo e nè l'uno nè l'altra si fecero più vedere[11]. Solo otto mesi dopo, durante gli esercizi spirituali, [18] Don Bologna osò chiedere in confidenza a Don Bosco in che modo fosse andata la cosa, non avendovi egli assistito. Don Bosco gli rispose con pari confidenza: - Vedi, Don Bosco pensò che in Francia non poteva far nulla e disse alla Madonna: Là[12], incominciamo!
E si cominciò davvero. La fama del prodigio si sparse per tutta la città, levando un rumore straordinario, sicchè principiarono visite senza fine. Sebbene non si possa asserire che Don Bosco possedesse la lingua francese, tuttavia la parlava con una franchezza, che ne rendeva simpatici anche gl'immancabili sbagli. Un'altra cosa elle impressionava ancor più era la sua invincibile tranquillità, elle maggiormente spiccava di fronte all'abituale vivacità tutta propria dei Francesi. Lo dominava allora l'idea d'ingrandire la casa e tanti de' suoi visitatori, sapendolo, andavano a gara nel descrivere la rapidità con cui l'ingrandimento si sarebbe eseguito: essi ci vedevano già duecento cinquanta ragazzi di lì a sei mesi. Don Bosco lasciava dire, ma poi con una sua osservazione pratica, espressa in un tono che al paragone si sarebbe detto flemmatico, riconduceva gl'interlocutori nel mondo della realtà.
Il giorno 12 Doli Bologna scrisse a Don Rua: “L'entusiasmo si sveglia”. Quel giorno Don Bosco fu invitato a pranzo dal Vescovo, elle lo volle seduto accanto a sè, fra una corona di dieci parroci della città. Di nuovo Don Ronchail a Don Rua il 14: “Non ci saremmo mai aspettati di trovare tanta generosità e tanto buon volere. A considerare quello che si fa in questi giorni, pare di essere nei tempi favolosi. Don Bosco è fuori di sè. e non sa darsi ragione come siansi oltrepassate le sue speranze e le stesse sue immaginazioni. Questa settimana formerà una bella pagina nella storia della Congregazione”. E Don Bologna con la stessa data al medesimo: “t, favoloso come si estenda il movimento”. La fiumana dei visitatori crebbe a segno elle il segretario interinale, non [19] avvezzo ai servizi che si richiedevano in simili circostanze, diceva a Don Rua, in una lettera del 20: “Il suo nome è come un elettrico che in breve percorse tutta Marsiglia, e se rimane qui ancora per qualche tempo, bisognerà che Don Berto venga a regolare le udienze”. Anche Don Bosco in data dei 27 ragguagliava Don Rua così: “Le nostre imprese qui procedono in modo favoloso, direbbe il mondo, ma noi diciamo in modo prodigioso. Sia sempre lodata ed esaltata la bontà del Signore”.
In mezzo a tanto entusiasmo era sorta la proposta di una conferenza: ma la facesse Don Bosco, la tenesse nella chiesa parrocchiale o almeno parlasse a un pubblico scelto in un salone della città. Don Bosco dovette piegarsi; ottenne però di radunare gli amici nell'ospizio, entro un dormitorio trasformato in sala. Pensare a quel che dovesse dire e soprattutto come dirlo non gli fu possibile per le visite che non gli davano tregua. Assistette alla riunione anche il Vescovo. Don Bologna stupì nell'udirlo parlare con tanta disinvoltura in quel suo francese; stupirono anche altri uditori, taluno dei quali, dovendo rispondere ad amici curiosi di sapere come Don Bosco se la fosse cavata quanto alla lingua, si espresse argutamente così: “Ha parlato francese come se lo sapesse”.
In sì universale favore, al disegno dell'ingrandimento rispondevano pronti i primi mezzi di esecuzione. Quasi a stimolare la liberalità dei Marsigliesi Don Bosco affidò tosto a un impresario un lavoro per cinquanta mila franchi da terminarsi entro agosto, affinchè vi fosse posto per due centinaia di giovani. Una mattina che con l'architetto Itier egli studiava un piano di costruzione, sopraggiunse l'abate Timon[13], che stette lungamente con loro esaminando, consigliando, approvando, obbiettando, disapprovando; finalmente prese [20] commiato. Don Bosco che, per quanto guardingo nelle sue opere, nondimeno univa alla circospezione gran prontezza d'intuito, disse all'architetto: - Io temo che il buon canonico Timon, entrato in paradiso, vi troverà qualche cosa che non sarà pienamente di suo gusto.
Avrebbe voluto Don Bosco dare un pranzo ai principali suoi amici di Marsiglia; tua le condizioni della casa mal si prestavano alla bisogna. Fu dunque ben inspirato il signor Giulio Rostand, presidente della Società Beaujour, ad allestire in onore di Don Bosco un banchetto veramente regale, a cui convitò il fiore della città. Inter pocula il discorso cadde stilla casa da costrurre e sul grande ospizio da aprire per artigiani sotto la direzione di Don Bosco. Due problemi si affacciavano di noti facile soluzione: mettere insieme le non poche migliaia di franchi necessarie per tirar su la fabbrica e creare un capitale i cui frutti bastassero al mantenimento (lei giovani ricoverati. Tutti convenivano essere ardimentoso quel progetto e di non sicura attuazione. Don Bosco al momento buono disse sorridendo e con aria grave: - Sì, abbiamo cose grandi da fare; ma per fare grandi cose ci vogliono i Marsigliesi. - Queste parole produssero l'effetto di una scintilla elettrica: Don Bosco non si sarebbe mai immaginato di ottenere il successo che ottenne. Le difficoltà delle spese a poco a poco scomparvero, nè mai si dovettero sospendere i lavori per mancanza di denaro. Narrando l'incidente ad Alassio il Beato confessò di non essersi punto accorto lì per lì dell'impressione prodotta dalle sue parole, uscitegli proprio ex abundantia sermonis; glielo disse dopo l'abate Guiol e lo dimostrarono i fatti. E’ da ricordare per altro quanta fosse la maestria di Don Bosco, in dir parole che sonassero le più gradite all'orecchio de' suoi ascoltatori.
Le visite si succedevano quasi senza interruzione. Di una particolarmente abbiamo trovato memoria. Si presentò a Don Bosco un signor Olive, marsigliese ricchissimo, il quale, afflitto da una malattia incurabile, lo pregava di benedirlo [21] e d'impetrargli la guarigione. Il Beato gli propose un mezzo sicuro per guarire: andare alla banca, prendere una somma proporzionata alla stia fortuna e portargliela. Non essere questo per lui un gran sacrifizio; ma se anche dovesse costargli un po', bisognare piegarvi il capo, trattandosi di ottenere un vero miracolo. Quegli chiese tempo per parlarne con la moglie. Don Bosco gli disse: - Se crede che sia troppo, veda lei; per me la credo condizione indispensabile. Dio però vede i cuori e conosce quale possa essere adeguato sacrifizio... Se mai non volesse dare a me la somma che ho detto, la consacri pure a qualche altra opera pia o la consegni al Vescovo che la distribuisca... Ma se vuol guarire, deve fare così.
Il signore tornò parecchie volte da Don Bosco, ma non veniva mai al punto di decidersi. Finalmente un giorno il Servo di Dio, essendosi recato dal Vescovo, ricevette dalle sue mani duemila e cinquecento franchi a nome del signor Olive. Questi poi non tardò a rivedere Don Bosco, credendosi d'aver fatto abbastanza; ma per le sue possibilità quella era una bezzecola. Sembra che la Provvidenza volesse aiutarlo a staccare il cuore dalle ricchezze.
Don Bosco naturalmente gli rese le dovute grazie dell'offerta; ma alle sue insistenze per sapere se potesse sperare la sospirata grazia, gli rispose: - Senta! L'altra volta, quando le fu fatta quella proposta, vedevo che il Signore l'avrebbe esaudito; adesso non ho più la medesima sicurezza. Preghi pure il Signore; può darsi che Egli nella sua bontà la esaudisca; ma la cosa è difficile. Il momento è passato e non ritorna più. Gesù, dice la Scrittura, pertransiit benefaciendo, e non mansit. Intende questo latino? - Quegli intese purtroppo di doversene restare con la sua malattia, e così fu.
Se le visite lo assediavano, non erano meno incalzanti gli affari. “Grandi imprese abbiamo tra mano, scrisse a Don Rua, e grandi preghiere occorrono, affinchè tutto riesca bene”. Uno di questi gravi negozi era di chiarire e definire nettamente [22] la posizione dei Salesiani di fronte alla parrocchia di San Giuseppe. Direttore e curato non se la intendevano più fra loro. Anzitutto questi voleva dall'Oratorio di San Leone il servizio della maìtrise, ossia scuola di canto e di cerimonie per la sua chiesa. Di maìtrise in verità nessuno aveva mai parlato durante le trattative per aprire un ospizio a pro' della gioventù povera; se ne parlò solamente dopo che Don Bologna prese la direzione dell'Oratorio. Un bisogno inaspettato fu la causa che mosse il canonico Guiol ad affidare la maìtrise ai Salesiani, che con gran disturbo del personale e gratuitamente vi si acconciarono per compiacere a chi aveva dato loro tanti segni di benevolenza. Facevano però le cose come potevano, valendosi di giovani esterni, mentre si sarebbe preteso che fosse assicurato meglio il servizio per opera dei ricoverati. Con questo sarebbe andata di mezzo la buona riuscita degli interni, perchè certamente non si sarebbero potuti assistere abbastanza, qualora avessero dovuto andar fuori di frequente nè fossero stati sotto l'assoluta dipendenza del Direttore. “Noi, sarà spiegato più tardi, quando si acuiranno le divergenze[14], abbiamo un sistema speciale di educazione detto Preventivo, la cui pratica riesce impossibile, se gli allievi non sono a totale nostra disposizione e indipendenti. Non si fa mai uso di mezzi repressivi: la sorveglianza, la ragione, la religione debbono usarsi ad ogni momento. Riesce perciò indispensabile che la maìtri se faccia il servizio parrocchiale senza che ne siano obbligati i giovanetti interni, i quali però non si rifiuteranno, quando fosse necessario, in occasione eli grandi solennità, di completare il coro dei cantori ed il servizio delle sacre funzioni”.
Oltre alla schola cantorum il curato chiedeva pure ordinariamente, come cosa dovutagli, preti ausiliari per il servizio [23] della parrocchia, ministero non conosciuto in Italia. La prima volta che se n'era parlato, il parroco ne aveva fatto a Don Bosco la proposta come di un mezzo con cui ricavare qualche emolumento a vantaggio dell'Istituto. Questi preti, diceva egli, celebrata la loro Messa, potranno impiegare il rimanente del loro tempo negli affari dell'Oratorio. Non si fede mai parola d'altri servizi se non quando Don Bosco fu a Marsiglia. Nemmeno su questo punto Don Bologna avrebbe potuto contentare il parroco senza compromettere il buon andamento della sua casa. Al qual proposito nel documento citato poc'anzi si aggiungerà ancora un'osservazione che interessa la vita della nostra Società. “Essa è, si dice ivi, consacrata al bene morale e materiale della gioventù, e l'ufficio di prete ausiliario, l'assistere alle sepolture, l'accompagnare i cadaveri al Camposanto torna ripugnante ai membri della medesima Congregazione in modo che parecchi amerebbero meglio ritirarsi dalla Congregazione anzichè variare lo scopo con cui si erano consacrati al Signore”.
Queste due circostanze crediamo che bastino a spiegare come, passata la luna di miele, si manifestasse del malumore fra la casa e la parrocchia, fra il Direttore Don Bologna e l'abate Guiol, e come per riverbero si fosse negli amici di quest'ultimo intiepidito l'affetto verso i Salesiani. Il ridestarsi poi, anzi l'accrescersi dell'entusiasmo dopo la miracolosa guarigione sopì i dissensi; ma conveniva portar la scure alla radice, regolando bene la faccenda, e qui si parve la magnanimità di Don Bosco. Sempre riconoscente a colui che tanto erasi adoperato per l'andata de' suoi figli a Marsiglia, trattò benevolmente della vertenza con l'abate, e dopo una corrispondenza assai animata fra Marsiglia e Torino, il Beato nel mese di settembre s'indusse a sottoscrivere col curato di San Giuseppe una specie di convenzione, la quale fosse da parte sua un segno tangibile di volontaria gratitudine. Ad evitare però che si andasse oltre i limiti, egli fece inserire ivi la clausola che l'oratorio di San Leone si sarebbe prestato [24] al servizio parrocchiale nel modo proposto, “compatibilmente con gli uffici che ciascuno avrebbe dovuto compiere nell'oratorio”[15].
Per un altro grave negozio Don Bosco tornò a chiedere speciali preghiere, scrivendo a Don Rua il 21: “Havvi grande bisogno di preghiere. Se i giovani vogliono farmi una cosa la più cara, facciano un triduo di comunioni e di preghiere secondo la mia intenzione e pel buon esito degli attuali nostri affari”. Bisognava stipulare con la Società Beaujour una nuova convenzione da sostituire all'antica, che veniva a scadete da sè per la necessità di un'altra assai più importante. Si trattava di assicurare le fondazioni della Navarre e di Saint-Cyr; al quale scopo la Beaujour avrebbe fatto acquisto delle due proprietà rurali dall'abate Vincent e dai suoi locatari, pagando soltanto i debiti che vi gravavano sopra, mediante danari di benefattori, e affidando poi terreni e case a Don Bosco in base a condizioni da stabilirsi. Queste condizioni furono studiate in laboriose conferenze e fissate in un accordo da ratificarsi entro tre mesi e da mettersi in vigore dopo altri quattro[16]. A cose fatte il Beato ne informò così Don Rua il 27: “Oggi alle due si decideranno grandi affari per noi. Tutto è preparato in nostro favore; speriamo che le cose saranno tutte conchiuse secondo i santi voleri del Signore”. Di queste cose gli aveva scritto pochi giorni prima: “Sono di molta importanza morale, materiale e religiosa”.
Anche l'affare di Auteuil venne ad accrescergli il lavoro. L'abate Roussel,. desideroso da tempo di abboccarsi con lui, profittò della stia presenza a Marsiglia per andar a conferire. Aveva intenzione di sollevare difficoltà al progetto inviatogli da Torino qualche mese innanzi, compilato dal Capitolo Superiore e già sottoscritto da Don Bosco; ma a poco a poco, vedendo l'entusiasmo dei Marsigliesi per Don Bosco, si sentì [25] talmente conquidere, che firmò sic et simpliciter, instando perchè si facesse presto ad eseguire[17].
Documento della sua attività marsigliese sono anche le lettere da lui inviate a Don Rua. Ne abbiamo cinque, ma più che lettere, si direbbero tanti promemoria di cose fatte o da fare, disposte a elenco ed esposte in forma schematica; dal che si rileva quanto le due anime s'intendessero a vicenda. Le pubblichiamo in fondo al volume[18]. Dalle medesime i lettori vedranno pure come Don Bosco, nonostante le brighe d'ogni sorta che lo stringevano da tante parti, pensasse a tutto e a tutti con solerzia di superiore generale e con sollecitudine di padre. Nè pensava direttamente al solo suo vicario. Infatti un pensiero premuroso egli portò, per esempio, agli ascritti, scrivendo al loro Maestro.
Altre cose per noi a parte. Spero elle i nostri cari ascritti, pupilla dell'occhio mio, godranno buona salute e che gareggieranno col loro fervore ad estinguere il freddo elle naturalmente sentesi in questa stagione. Dirai loro che essi sono gaudium meum et corona mea. Corona di rose, ma certamente non di spille. Non mai vi sia un aspirante Salesiano che colla cattiva condotta pianti la spina nel cuore del loro affez.mo padre Don Bosco. Ciò non sarà mai, anzi sono sicuro che tutti gareggieranno colle loro preghiere e comunioni a consolarmi colla esemplare loro condotta.
I tre ascritti partiti con me furono divisi come segue: Boyer alla Navarra, Taulaigo che scrive, e Turin sono qui per santificare gli abitanti de la maison Beaujour. Questa casa è un rampollo che ha bisogno di molta coltivazione in principio, ma che crescerà in alto albero 1 cui rami ed ombra benefica faranno sentire i benefici effetti in altri lontani paesi. Così spero nel Signore. Sabato Foglino e Quaranta prenderanno l'imbarco per Montevideo. Sono allegri e contenti e non altro desiderano che volare velocemente in aiuto ai loro compagni dell'Uruguay.
D. Ronchail scriverà altre notizie. Dirai a Don Depert che mi santifichi la sagrestia e tutti quelli che si recano in essa; a Palestrino sagrestano che si faccia buono; a Giulio Augusto[19] che stia allegro, [26] a D. Rua che cerchi danaro; al sig. conte Cays che abbia cura della sua salute come egli farebbe per me.
Iddio vi benedica tutti e a tutti conceda la grazia di ben vivere e di ben morire. Questa grazia Dio la conceda specialmente a colui che non troverò più al mio ritorno a Torino.
Marsiglia, 10 Gennaio 1879] Tuo affez.mo amico
Colui che Don Bosco non avrebbe più ritrovato era uno dei dipendenti di Don Barberis, cioè l'aspirante Don Remondino, che morì il I° febbraio.
Non dimenticò le Figlie di Maria Ausiliatrice, per le quali tutte mandò al Direttore di Mornese Don Lemoyne un suo scritto, rimastoci purtroppo finora irreperibile.
Dalla diocesi di S. Lazzaro scrivo una lettera e forse dal sito dove S. Maria Maddalena si raccoglieva a pregare ed a far penitenza, scrivo questa lettera alle Figlie di Maria Ausiliatrice. O la madre superiora, o meglio tu stesso, leggerete questa lettera con quelle osservazioni che giudicate a proposito. Avrei anche piacere che se ne potesse mandare copia in tutte le altre case di suore.
Io sono qui con molti e gravi affari alla mano. Quando li saprai, rimarrai stordito e vedrai il sogno di Lanzo realizzato[20]. Mercoledì prossimo vado alla Navarra passando per S. Cyr, che pure è nostro. Pel fine della settimana, a Dio piacendo, sarò a Nizza. Non so a che punto si trovino le ordinazioni del mio amico Musso che saluterai da parte mia. Saluterai pure gli altri di casa nostra, il sig. prevosto ed altri nostri amici e cooperatori salesiani.
Dio ti benedica, o caro D. Lemoyne, e prega per me che ti sarò sempre in G. C.
Un altro suo delicato pensiero fu per gli artigiani dell'Oratorio, i cui auguri paternamente intese ricambiare con questa affettuosissima letterina indirizzata al loro catechista. [27]
Tutte le volte che io penso ai miei cari artigiani e che prego per loro, se andassi a far loro visita, sarei più volte al giorno tra di essi a parlare e consolarli. Tuttavia voglio dimostrare coi fatti che di loro mi ricordo in maniera particolare. Dirai adunque che gli augurii fattimi nelle feste natalizie e di buon capo d'anno mi furono graditi e li ringrazio di cuore. Ho avuto di loro buone notizie e benedico il Signore che dia loro il buon volere e la grazia di essere virtuosi.
Mi trovo qui in questa casa di S. Leone dove sono già un sessanta ragazzi, che poco per volta si faranno veri seguaci degli artigiani dell'Oratorio. Anzi alcuni hanno dimostrato l'impegno di volerli superare nell'ubbidienza e nella pietà. Ho loro risposto che non vi riusciranno! Vedremo!
Intanto dirai a tutti che raccomando di cuore la frequente confessione e comunione; ma ambidue questi sacramenti siano ricevuti colle dovute disposizioni in modo che per ogni volta si veda il progresso in qualche virtù. Volesse Iddio eh e io potessi dire, ogni artigiano essere un modello di buon esempio agli altri compagni! Dipende da voi, o miei cari giovani, il darmi questa grande consolazione.
So che pregate per me e attribuisco il miglioramento di mia vista alle vostre preghiere; continuate. Vi ringrazio e Dio vi ricompenserà.
Il dono che vi chiedo è una santa comunione secondo la mia intenzione.
Dio benedica te, o caro D. Branda, benedica tutti gli assistenti, gli operai, tutti gli artigiani e ci conceda la grazia grande di poter fare un cuore solo ed un'anima sola per amare e servire Dio in terra, per poterlo poi un giorno lodare e godere eternamente in cielo.
Allorchè le relazioni con la. Francia si facevano ogni dì più frequenti e rilevanti, la Provvidenza inspirò al conte Cays, benchè così avanzato in età, di abbracciare la di dura vita dell'Oratorio[21]. Questo virtuoso gentiluomo, possedendo a perfezione la lingua francese che scriveva in modo impeccabile, e conoscendo a fondo l'indole di quel popolo, rese al Servo di Dio segnalatissimi servigi sia con la penna che di [28] persona. In qual pregio Don Bosco l'avesse, ce ne fa fede questo documento.
Ho ricevuto con piacere la sua lettera e la ringrazio delle notizie. elle mi dà. L'abbé Roussel veline di fatto a Marsiglia e dopo qualche trattenimento egli firmò puro e semplice il progetto da noi mandato. Io lo porterò meco camminando verso Torino. Spero che al giorno 3 prossimo febbraio potremo trovarci insieme ad Alassio dove tratteremo quanto sia da farsi in concreto.
Veda se può vendere qualche cascina di S. Anna, altrimenti faremo bancarotta[22]. Io sono tuttavia a Marsiglia per una serie di affari di qualche importanza che spero molto utili per la nostra Congregazione, il che sarà tema delle nostre conferenze in Alassio.
Il sig. D'Ycard è venuto qui a chiedere di sue notizie e si rallegrò assai in saperla già sacerdote, anzi pensava che ella fosse qui meco[23].
La mia salute ha migliorato alquanto e ne sia ringraziata la bontà del, Signore.
Se può, faccia un passo dalla marchesa Fassati, ossequiandola da parte mia e dandole di mie notizie.
La prego pure di ossequiare da parte mia tutta la sua famiglia; e partecipare a D. Ghivarello elle si faccia buono, a D. Fusconi che sono privo di sue notizie, a D. Angelo Savio che sia veramente un angelo, a lei poi che si abbia tutti i riguardi per la sua salute e faccia per lei come ella farebbe per me stesso. [29]
La grazia di N. S. G. C. sia sempre con noi e ci aiuti a compiere in ogni cosa i santi divini voleri.
Preghi per me che le sarò sempre in G. C.
Il Beato ebbe inoltre occasione di scrivere alla signora Matilde, consorte del signor Alessandro Sigismondi, che più volte abbiamo incontrati nei viaggi di Don Bosco a Roma. Questa lettera è prova della costante devozione di quei piissimi coniugi verso il nostro Beato Padre. Gli volevano veramente bene! Nell'estate del 1931 il signor Don Rinaldi, trovandosi a Roma nella sede della nostra Procura Generale, sì vide venire innanzi una buona vecchietta, che, reggendo i passi col suo bastoncino, aveva fatta a stento la pur comoda scala e si presentava a lui per riverirlo e porgergli una caritatevole offerta. Era la vedova signora Matilde la quale, avendo casualmente appreso che dimorava colà il terzo successore di Don Bosco, non aveva potuto resistere alla forte brama di fargli visita e parlare con lui del Beato.
La sua lettera venne a raggiungermi nella casa di Marsiglia. Doli Rua ha già fatto celebrare una santa Messa a Torino all'altare di Maria Ausiliatrice secondo la pia di lei intenzione. Dal canto mio, ne ho celebrata un'altra qui colla comunione e preghiere dei nostri orfanelli.
Questa casa fu inaugurata l'anno scorso quando partendo da Roma venni a Marsiglia e fu chiamata Oratorio di S. Leone in ossequio al novelle Pontefice.
Sul finire della corrente settimana partirò per altre case che abbiamo in Francia e continuerò il cammino alla volta di Roma dove a Dio piacendo spero potermi trovare circa dai 15 ai 20 del prossimo febbraio.
Signora Matilde e signor Alessandro, quanto avremo da discorrere, quante cose a dire!
Potendomi solo trattenere poco tempo nella santa città dovremmo proprio trattenerci qualche giorno intiero a chiaccherare.
Dio la benedica e con lei benedica il caro sig. Alessandro, la sig.a [30] Adelaide, e raccomandandomi alle loro preghiere ho l'onore ed il piacere di professarmi.
Marsiglia, 21 Gennaio 1879] Aff.mo come figlio
P. S, Mi servo di un segretario pel disturbo del mal d'occhi, che ora però vanno alquanto meglio.
Don Bosco il 27 col curato di San Giuseppe andò a Aix “per un affare di rilievo”, come scrisse a Don Rua. Sembra che quivi abbia allora tenuto un sermon de charité, seguito da questua[24].
Nella vetusta città romana accadde un curioso episodio, narrato più tardi da Don Bosco stesso e raccolto da Don Lemoyne Recatosi a visitare il barone Martiri, fu da lui trattenuto a mensa in mezzo alla sua famiglia. Egli aveva molta confidenza cori quei nobili signori. Poco prima che si mettesse in tavola, il Beato, attraversando un salotto in cui vide sopra un tavolo vasellami e posate d'argento, si fermò a osservare quel piccolo tesoro; poi con affettata serietà e con tutta calma, stese la mano e pezzo per pezzo parte si cacciò nelle tasche, parte chiuse nella valigia che era là in un canto. Il Barone e gli altri stavano a vedere come andasse a terminare quello scherzo. Finita la sua operazione, che fu cosa di pochi minuti, Don Bosco gli chiese quanto potesse valere quel servizio di tavola. - Se si dovesse comperare nuovo, rispose, ci vorrebbero diecimila franchi: ma la rivendita ne darebbe forse soltanto mille.
- Ebbene, riprese Don Bosco, giacchè il signor Barone è così ricco, e io (levo tribolare tanto per isfamare i miei poveri giovanetti, mi dia mille franchi e io le restituirò la sua argenteria. [31] Il nobiluomo cori la maggiore naturalezza del mondo sborsò a Don Bosco mille franchi e cori noli minore naturalezza Don Bosco rimise ogni cosa al proprio posto.
Il 29, accompagnato sempre da Don Ronchail, lasciò Marsiglia e partì alla volta di Saint-Cyr. Qui l'aveva preceduto circa due settimane avanti Don Cagliero, di ritorno dalla Navarre, dove aveva condotto due Figlie di Maria Ausiliatrice; ma la sua gita era stata frettolosa, non essendovi altri nel Patronage Saint Pierre che potesse, com'eglì diceva, “tenere il foro coscienzioso”[25], cioè confessare la comunità.
Per essere in quel giorno la festa di San. Francesco di Sales, non fu lauta la cena imbandita loro a Saint-Cyr la sera dell'arrivo: brodo di lenticchie, pietanza di lenticchie in olio e aceto, più due passerotti fritti, che i giovani avevano presi lungo il giorno e che dovevano servire per tre commensali.
La mattina appresso erano aspettati a Tolone per visitare quella maìtrise, che si voleva mettere sotto la direzione dei Salesiani; poichè è da sapere elle in certi luoghi le maìtrise sono veri piccoli seminari. La visita fu lunga e minuziosa. Il Servo di Dio benedisse durante quel soggiorno una signorina gravemente inferma, che guarì quasi subito e campò ancora cinque anni. Ignoriamo le circostanze del fatto; solo ci è noto che in conseguenza di esso la zia della graziata divenne, finchè visse, zelantissima cooperatrice Salesiana[26].
Mentre la visita si protraeva più che non si sarebbe creduto, Don Bosco disse sotto voce al segretario che cercasse una trattoria dove fare un po' di pranzo; ma quei signori per eccesso di cortesia non si staccarono mai dai loro fianchi e li vollero infine accompagnare alla stazione, dove si giunse appena in tempo per prendere il treno che doveva portarli a Hyères. E qui agli stimoli della fame altri guai si aggiunsero [32], che ne misero a dura prova la pazienza. Fra notte Ci sarebbe dovuta essere ad attenderli la carrozza del conte di Buttigny, perchè un telegramma gli avevano essi spedito da Tolone e un altro Don Perrot da La Crau per annunziarne l'arrivo. Don Bosco, sicurissimo di trovare la carrozza, lasciò partire gli omnibus, tanto più che a una certa distanza occhieggiavano due fanali come quei che si accendono ai lati delle carrozze. La città d'Hyères dista venti minuti di cammino dalla stazione. I nostri viaggiatori si mossero nella direzione dei fanali, elle dopo una diecina di passi improvvisamente un dopo l'altro si spensero Erano i lampioni del gas, che rischiaravano la strada all'ingresso della stazione.
Che fare? Noli restava che proseguire a piedi. Ma tutto il giorno là era piovuto, sicchè il fango arrivava alle caviglie; e poi era buio e le valige pesavano. Facendo di necessità virtù, s'incamminarono in nomine Domini. Quando le braccia indolenzite dallo sforzo noli reggevano più il peso delle valige, le posavano su paracarri o su mucchi di ghiaia e si fermavano alcuni minuti; allora Don Bosco raccontava piacevoli storielle in modo però da invogliare il compagno a raccontarne anche lui di sue. Con tali soste giunsero a Hyères quando e come poterono. Incontrata ivi una donna, le chiesero dove stesse il signor Buttigny; ma la poveretta che era di Cuneo, non seppe che rispondere. Entrarono in un caffé, dove speravano di avere informazioni; ma ivi fu detto loro che di Buttigny esistevano tre famiglie. Andavano così a zonzo per le vie deserte, quando s'imbatterono in un signore, al quale chiesero sé sapesse dir loro in che parte si trovasse la casa di un Buttigny, elle possedeva una villeggiatura vicino alla Navarre. Quel signore, chiamato un ragazzetto e dategli indicazioni precise, ve li fece condurre.
Intanto il Conte stava sulle spine. Il suo carrozziere, che era andato ad aspettate Don Bosco alla stazione di La Crau anzichè a quella d'Hyères, aveva fatto ritorno con la notizia [33] che Don Bosco non c'era. Ma il suo padrone, che, vestito in abito nero, aveva premura di recarsi a un'adunanza, diceva essere impossibile elle Don Bosco non fosse arrivato; aver egli ricevuto non tino, ma due telegrammi. E tempestava di rimproveri il disgraziato automedonte. In quel mentre ecco arrivare Don Bosco e il suo compagno. - Sono qui, - fece Don Bosco, posando la sua valigia e guardandolo con un'aria stanca e con il suo consueto sorriso. Erano infangati fino alla cintura: dal treno al palazzo avevano impiegato più di un'ora. Il Conte proruppe in espressioni di grande allegrezza; ma, vedendolo in quello stato, ordinò ai servi elle ne facessero pulite le vesti. - Signor Conte, disse invece Don Bosco, oggi non abbiamo pranzato; ci faccia la carità di darci prima tiri po' di cibo.
Intanto crepitava già un gran fuoco sotto la cappa del camino. La mensa fu presto imbandita. Non è a dire come facessero onore alle vivande. Andati finalmente a riposo, lasciarono gli abiti ai domestici, elle, messili ad asciugare, ebbero al mattino un bel da fare per ripulirli a dovere.
Verso le undici il dottore D'Espiney, medico d'Hyères, venne a prendere Don Bosco per condurlo a visitare il conte di Villeneuve. Don Ronchail li accompagnava. Quel signore in una caduta da cavallo aveva dato della testa contro tiri albero, riportandone serie lesioni al cervello, elle facevano temere circa lo stato delle sue facoltà mentali. Per colmo dì sventura la morte gli rapì la moglie da lui grandemente amata, sicchè andò vicino a perdere il senno. Furioso non era, ma tanto bisbetico, che i medici avevano deciso d'internarlo quella settimana in una casa di salute.
Se non elle il dottore D'Espiney, uomo di fede antica, suggerì di ricorrere prima ai mezzi celesti. Don Bosco trovò il malato che fumava -Signor Conte, gli disse il dottore, abbiamo qui Don Bosco, che è venuto a farle una visita. Il Conte squadrò Don Bosco e poi, chiamando la fantesca: Maddalena, disse, è l'ora della passeggiata. [34] - Ma scusi, signor Conte, pregò il dottore, la rimandi un poco. C'è qui Don Bosco che le vuol dare la sua benedizione.
Il Conte serio serio si pose a sedere. Don Bosco gli presentò una medaglia di Maria Ausiliatrice, ch'ei gradì, e lo benedisse. Da quel punto alla solita esaltazione nervosa sottentrò in lui una calma perfetta. Sulla sera mandò a prendere Don Bosco in casa del conte Buttigny e lo intrattenne in lunga conversazione. Il Servo di Dio lo esortò ad aver fiducia in Maria Ausiliatrice, gli prescrisse alcune preghiere e gli disse che lo aspettava perfettamente guarito nel mese di maggio a Torino per la festa di Maria Santissima Ausiliatrice. Il Conte anticipò di un mese quel viaggio. Non gli rimaneva più traccia di male.
La visita alla Navarre e a Saint-Cyr gli diè modo di conoscere bene le condizioni materiali e morali dei due stabilimenti. Alla Navarre riscontrò fertilità di terreni; non così a Saint-Cyr. Qui per altro s'avevano buoni cespiti d'entrata nelle primizie della campagna e nella vendita di sempreverde da far corone, ricercatissime in Francia per carri mortuari e per tombe. Rimaneva a studiarsi se fosse meglio dare in affitto le terre o coltivarle per mezzo di giornalieri o sfruttarle direttamente, stabilendovi due colonie agricole. Tali istituzioni godevano il favore universale, sicchè uomini d'ogni colore le avrebbero aiutate.
Quanto all'andamento interno, trovò un'eredità poco desiderabile. Alla Navarre seppe cose che gli fecero orrore riguardo alla moralità degli antichi padroni; allora si cercava con ogni possibile mezzo di far dimenticare si brutte miserie. Vi era già una cinquantina d'individui, di cui dieci palesavano chiara vocazione allo stato ecclesiastico. A Saint-Cyr invece scoperse una vera babele. Gl'inquilini in numero di oltre quaranta, andavano dai tre ai trent'anni; le così dette monache, delle quali dicevamo nel volume precedente, assistevano i dormitori; nei laboratori ragazzi e ragazze lavoravano [35] insieme per lo più senza assistenza. Urgeva quindi accelerare l'apporto alla Beaujour, per potervi andare al possesso e prenderne la regolare amministrazione[27]. Nelle conferenze di Alassio, riferitone al Capitolo Superiore, Don Bosco disse: “Preghiamo il Signore, affinchè ci benedica e ci tenga la sua santa mano sul capo. Certamente, se io fossi stato a giorno di queste cose prima del contratto, sarei andato più adagio nell'accettare; ma mi si era detto che gli affari della colonia non erano andati guari bene solo per mancanza di direzione”.
Con questa e somiglianti maniere di parlare Don Bosco chiudeva preventivamente la bocca a chiunque nel volgere dei tempi, udendo parlare dei suoi sogni, fosse mai tentato di crederlo un visionario, uno cioè che andasse dietro alle illusioni della fantasia. Egli non aveva senza dubbio dimenticato il roseo sogno del 1877 a Lanzo; come poteva dunque asserire che se avesse saputo prima quello che seppe dopo, non avrebbe accettato? Noi vediamo qui una volta di più come il Servo di Dio in agibilibus, non ostante i sogni, non si credesse punto dispensato dal condursi conforme ai dettami di un'illuminata prudenza. Ma la Provvidenza era poi sempre quella che guidava gli eventi.
Nessun'altra notizia ci è dato di registrare intorno al primo passaggio di Don Bosco per quelle terre, dove ancor oggi risuona benedetto il suo nome. Ai 2 di febbraio lo ritroviamo già a Nizza[28] sulla via del ritorno in Italia. Qui nuovamente la bontà di Dio volle glorificare il suo Servo con un fatto prodigioso, che noi racconteremo ricalcando la nostra narrazione sopra una memoria autografa della persona interessata[29] e sopra un ampio certificato del suo medico curante.
La contessa di Villeneuve, colta nel 1876 da peritonite acuta, era giunta sull'orlo della tomba. La grave malattia [36] fu vinta, ma lasciò orine profonde del suo passaggio. Febbri intermittenti, che già per l'addietro assalivano la signora, si mantennero ribelli a tutti i rimedi, e coli accessi di tale intensità che talora sembravano minacciarne l'esistenza. Nel 1878 le forze declinavano di giorno in giorno, nè più si credeva alla possibilità di una guarigione.
Or avvenne che nel novembre di quell'anno un amico le parlasse di Don Bosco e delle grazie ch'egli otteneva mercè l'intercessione di Maria Ausiliatrice. Tale discorso accese in lei un desiderio vivissimo di vedere l'uomo di Dio per sollecitare i soccorsi delle sue preghiere. Il suo medico dottor D'Espiney le consigliò l'aria di Nizza, La contessa nel gennaio del 1879 era in quella città, ma non vi sperimentava alcun giovamento; anzi prostrazione generale, inappetenza, insonnia, insofferenza di qualsiasi fatica, fosse anche di fare pochi gradini, le rendevano la vita insopportabile. Udito che Don Bosco trovavasi a Nizza, chiese e ottenne udienza il 3 febbraio. La vista del Beato la impressionò forte. Egli la fece sedere, la pregò di spiegargli la stia malattia, l'ascoltò con bontà paterna e poi alzatosi le disse: - Certo sii questa terra non vi è cosa che abbia maggior pregio della sanità. Ma noi non conosciamo in ciò i voleri di Dio. Nondimeno egli ha promesso di aprire a chi bussa; busseremo dunque tanto forte che ci dovrà aprire, perchè l'ha promesso. Ella sarà guarita perché educhi cristiana mente i suoi figli. -
La Contessa s'inginocchiò per ricevere da Don Bosco la benedizione, e Don Bosco, benedettala, le parlò dei figli e invitò lei pure a Torino per il 24 maggio. Scrive essa nella stia relazione: “Rientrai in casa piena di speranza, quasi non ricordando più d'essere stata ammalata un'ora prima. Sulla sera andai a diporto con i figli, facendo circa sei chilometri Nel salire le scale non sentivo il menomo incomodo l'appetito e il sonno nulla mi lasciavano a desiderare e de' miei lunghi patimenti non mi rimaneva più traccia. Mi sentii restituito immediatamente l'uso delle mie gambe, tanto che dopo brevissimo [37] tempo io potei fare con un mio congiunto una passeggiata di dodici chilometri in meno di tre ore e quasi senza fermarmi”. Il suo medico, verificatane la guarigione, stese il particolareggiato ragguaglio che dicevamo poc'anzi e che si può leggere in altra parte del volume[30].
Rimangono da narrare due episodi avvenuti a Nizza, che con ogni probabilità appartengono a questo tempo. Il primo veniva ricordato dal cardinal Cagliero, quand'egli voleva mostrare quanta efficacia avessero lo sguardo e la parola di Don Bosco. Dopo una conferenza tenuta a Nizza il Beato usciva dal presbiterio per avviarsi alla porta, stretto intorno intorno dalla folla che non lo lasciava proseguire. Un individuo di torvo aspetto stava immobile a guardarlo, come se macchinasse qualche brutto tiro. Don Cagliero lo teneva d'occhio ed era inquieto, perchè Don Bosco, lentamente procedendo, si avvicinava a lui. Finalmente si trovarono di fronte. Don Bosco, appena lo vide, gli rivolse la parola: Che cosa desiderate?
- Eppure sembra che abbiate qualche cosa da dirmi.
- Confessarmi io? Ma neppur per soglio!
- Sto qui... perchè non posso andar via...
- Ho capito... Signori, mi lascino un momento solo, disse Don Bosco a coloro che lo circondavano.
Tiratisi i vicini in disparte, Don Bosco sussurrò ancora qualche parola all'orecchio di quell'uomo, elle, cadendo in ginocchio, si confessò là in mezzo alla chiesa.
L'altro fatto è narrato nella stia Vita di Don Bosco dal D'Espiney, il quale lo udì dal notissimo editore parigino Josse. A Nizza fu a vedere Don Bosco monsignor Postel, sacerdote [38] dotto e fecondo scrittore, che era anche uomo di grande pietà. Durante la conversazione il prelato gli domandò a bruciapelo: - Mi dica su, ho io la coscienza in regola col Signore? Il Servo di Dio, sfiorando un sorriso, fa per andarsene; ma il suo interlocutore gli taglia il passo, serra a doppio la porta, si mette in tasca la chiave e: - Guardi, Don Bosco, gli dice, non s'esce di qui, fino a che io non sappia come sto col Signore.
Queste parole furono proferite con accento sì risoluto, che Don Bosco, fattosi pensoso e rimasto un po' con le mani sul petto, l'una nell'altra secondo il suo costume, rimirò con occhio pieno di benevolenza Monsignore, e gli disse spiccato spiccato:
- Mi resta però il dubbio, replicò quegli, che soltanto la sua benignità la faccia parlare così:
-No, caro Monsignore, soggiunse Don Bosco, quel che dico, lo vedo.
NEL 1878 il prolungato soggiorno di Don Bosco a Roma aveva impedito che queste conferenze si tenessero; ma nell'anno seguente egli non volle elle si tralasciassero, anzi parecchio tempo prima vi fermò il pensiero. “Abbiamo da sistemare la radunanza di san Francesco, scrisse a Don Rua da Marsiglia l'II gennaio. Io proporrei di trovarci ad Alassio oppure a S. Pier d'Arena. Si potrebbe scegliere il giorno tre febbraio. Potresti venire con D. Durando e qualcuno che giudichi ad hoc. Dimmi il tuo parere sulla convenienza, sul luogo e sul tempo. Andrei io stesso a Torino, ma [ciò] interromperebbe i miei progetti”. Don Rua si dovette rimettere a Don Bosco, esprimendo soltanto la stia preferenza per Alassio; infatti, il Beato gli tornò a scrivere il 21: “Prepariamo adunque le cose per Alassio nel giorno 3 Febbraio”. Questa data però fu dovuta spostare al giorno 6[31].
Partito da Nizza il 5 febbraio in compagnia di Don Cagliero e di Don Ronchail, dopo una fermatina a Vallecrosia per rallegrare i confratelli di quella casa, Don Bosco giunse [40] sull'imbrunire ad, Alassio. Verso mezzogiorno del 6 arrivarono da Torino Don Rua, Don Lazzero, Don Ghivarello, Don Barberis e il conte Cays, che avevano pernottato a Sampierdarena. Quanto commovente fu l'accoglienza fatta loro da Don Bosco! Egli era sceso nel refettorio. I nuovi arrivati, siccome venivano alquanto intrattenuti fuori dai chierici e dai giovani, così entrarono uno alla volta; ora, al comparire di ognuno, Don Bosco lo accoglieva con segni di grande benevolenza, facendo festa e battendo le mani e mentre gli s'accostavano per baciargli la destra, egli domandava notizie della loro salute, li interrogava sui giovani o sui chierici, chiedeva di questo e di quello. Alla fine: - Oh va bene! esclamò. Bisogna poi scrivere ai tali così e così... Bisognerà che al tale io mandi un biglietto... Scrivendo ai giovani, dirai che Don Bosco è stato tanto contento di saperli sani e buoni; che desidero vederli; che preghino per gli affari che stiamo trattando, affinchè tutto riesca bene...
Le conferenze si apersero alle quattro pomeridiane del 6 febbraio. Oltre ai già nominati, vi parteciparono i Direttori della Liguria. La prima seduta si passò tutta in ragionare delle cose di Francia. Don Bosco narrò le accoglienze avute a Marsiglia; riferì minutamente sulle case della Navarre e di Saint-Cyr; disse di proposte venutegli da Fréjus, da Aix, da Tolone e da Hyères. Parlando dell'abate Guiol si espresse così: “A Marsiglia, il parroco Guiol si mostrò di una generosità grande nel sostenere materialmente e moralmente i Salesiani, e quindi bisogna che ci mostriamo anche noi generosi nell'accondiscendere ad alcune domande che ci fa”. La lettura di due lettere, scrittegli da Don Bologna, gli suggerì questa osservazione: ““Io credo elle qualunque francese fosse venuto a Torino, quand'anche facesse miracoli, non avrebbe avuto le profferte avute da noi in Francia e soprattutto a Marsiglia, città così gelosa di estranee ingerenze”. Dopo vennero in discussione gli articoli sottoscritti a Marsiglia dall'abate Guiol e da Don Bosco, intorno all'affare della Maìtrise, e si esaminarono i [41] punti più salienti della convenzione con la Società Beaujour. Seduta stante, furono nominate due commissioni, una presieduta da Don Rua per provvedere ai bisogni di personale della casa di Marsiglia, e l'altra per completare quello di Sampierdarena; Don Bosco e il conte Cays si riserbarono il disbrigo della corrispondenza, massime con la Francia, Per ultimo fu messa sul tappeto la questione di Anteuil, della quale abbiamo già ampiamente trattato nel capo diciannovesimo dell'altro volume esaurito anche quest'argomento, l'adunanza si sciolse a sera molto inoltrata. I convenuti avevano speso bene il loro tempo!
La mattina del 7 lavorarono in separate sedi le due commissioni per il personale. Nel pomeriggio si addivenne alla creazione delle Ispettorie, che furono tre: piemontese, ligure e americana, facenti centro rispettivamente a Torino, ad Alassio e a Buenos Aires. Le case poste fuori delle due prime circoscrizioni vennero aggregate a uno dei due primi centri suddetti. A Ispettori furono designati per il Piemonte Don Francesia, che però avrebbe continuato a dirigere il collegio di Varazze fino al termine dell'anno scolastico; per la Liguria Don Cerruti, a cui era già stato assegnato un vicedirettore nella persona di Don Luigi Rocca, per l'America Don Bodrato, che di fatto esercitava già da due anni tale ufficio A questa parte della seduta assistevano solamente i Capitolari nell'anticamera di Don Bosco,- appresso Don Bosco e i membri del Capitolo Superiore passarono nella sala attigua, ov'erano già radunati i Direttori, e il Beato annunziò loro l'avvenuta erezione delle Ispettorie con la nomina degli Ispettori. Dagli Ispettori egli disse che si attendeva mi gran sollievo per il Capitolo Superiore e un grande aiuto per i singoli Direttori.
E' bene notare che, come riferisce Don Barberis, il Beato non considerava ancora questo ordinamento come definitivo, ma lo voleva solo in via di esperimento: si cominciasse a fare e frattanto si sarebbe veduto se avvenissero inconvenienti, a cui porre rimedio. Osserveremo inoltre che ad Alassio non [42] si fe' cenno dell'Italia centrale, forse perchè fra breve non vi sarebbe rimasta altra residenza che quella dì Magliano Sabino; in seguito per altro si cambiò parere, secondochè vediamo nella comunicazione ufficiale alle case. Questa comunicazione fu fatta con la data di Torino, quando il Servo di Dio trovavasi a Roma. Dal medesimo documento apprendiamo una seconda notizia, di cui però ad Alassio era già pervenuta un'informazione confidenziale, comunicata all'assemblea. I membri del Capitolo Superiore, la cui carica durava sei anni, erano pressochè al termine del loro sessennio, sicchè si sarebbe dovuto convocare il Capitolo Generale per nuove elezioni. Ma da questa convocazione durante il corso dell'anno scolastico sarebbero derivati gravi disturbi; onde Don Bosco aveva presentato a Roma una supplica per ottener la proroga dei poteri fino al prossimo Capitolo Generale. La grazia fu accordata. Mettiamo qui la circolare anzidetta.
Ai Direttori delle nostre Case,
Con grande consolazione vediamo come l'umile nostra Congregazione, coll'aiuto di Dio, prenda ogni giorno maggior incremento e vada dilatandosi. Laonde per corrispondere alla Divina bontà niente dobbiamo risparmiare di quanto può contribuire al suo consolidamento.
A tale fine il Capitolo Superiore con parecchi direttori di nostre Case si raccolsero nel Collegio di Alassio il 6 febbraio dell'anno corrente e stabilirono le Ispettorie di cui dò comunicazione a tutti i direttori delle nostre Case.
I. Ispettoria Piemontese con Sede nella Casa Madre di Torino. Ispettore è il Sac. Gio. Francesia, che continuerà a reggere il collegio di Varazze. Questa Ispettoria si estende a tutte le case del Piemonte compresa quella di Este.
II. Ispettoria Ligure colla Sede in Alassio e si estende a tutte le Case di Riviera da Lucca a Marsiglia.
III. Ispettoria Romana. Le Case di questa sono quelle di Magliano, di Albano e di Ariccia. Essa sarà retta dal Sac. Monateri che terrà le veci di Ispettore sino a nuove disposizioni.
IV. Ispettoria Americana. Per tutte le Case dell'America Meridionale che formano questa Ispettoria, continuerà nella sua carica il Sac. Frane. Bodrato Curato della Parrocchia della Bocca in Buenos Aires.
Pertanto ciascun Direttore procuri di attivare le necessarie relazioni col proprio Ispettore, onde avere così un aiuto nella propria direzione [43] morale e materiale, e nell'appianare le. difficoltà che possono insorgere.
Debbo pure notificarvi un'altra cosa assai importante relativa al Capitolo Superiore. I Consiglieri di esso erano scaduti e si sarebbero dovuti raccogliere i direttori per la elezione. Ma ad evitare i disturbi e danni che ne sarebbero avvenuti alle singole case per l'assentarsi del Direttore a metà dell'anno scolastico, ho fatto ricorso alla S. Sede, affinchè fossero mantenuti in ufficio per qualche tempo. Il S. Padre con apposito Rescritto 14 febbraio benignamente ha concesso che gli attuali consiglieri continuassero in carica fino al settembre del 1880. In quel tempo dovendosi tutti radunare pel Capitolo Generale, riuscirà molto più agevole la elezione di tali consiglieri. Così negli anni successivi avrà luogo detta elezione.
Colgo quest'occasione per raccomandarvi caldamente la lettura, la spiegazione e la pratica delle deliberazioni prese nel Capitolo Generale celebrato in Lanzo nel Settembre 1877. Coloro poi che conoscessero cose da aggiungere o da modificare in quelle deliberazioni, procurino di notarle per dame a suo tempo comunicazione nel futuro Capitolo che, a Dio piacendo, speriamo di tenere nel 1880.
Riceverete pure una copia della esposizione fatta alla S. Sede sullo stato della nostra Pia Società. Questo servirà d'informazione a ciascun socio, di eccitamento a ringraziare il Signore che in un modo cotanto sensibile benedice i nostri deboli sforzi, e di forte stimolo a promuovere con uno zelo ognor più vivo la maggior gloria di Dio e la salute delle anime, specialmente di quelle che la Divina Misericordia ci affida per la morale e cristiana educazione.
Non debbo terminare questa mia lettera senza raccomandarvi una virtù la quale abbraccia tutte le altre, la santa ubbidienza. Amate voi stessi questa virtù e coll'esempio e col consiglio fatela amare dai vostri dipendenti. Obedientia est quae caeteras virtutes inserit, insertasque conservat.
La grazia di N. S. Gesù Cristo sia sempre con voi. Pregate per me che io vi sarò sempre in G. C.
P. S. Ai soci di ciascuna casa si dia comunicazione delle cose e loro possono riguardare.
Il Servo di Dio dedicò la seconda parte della seduta al suo tema preferito, svolgendo questi concetti sulle vocazioni.
Ora la prima cosa da trattarsi è il modo di aiutare le vocazioni. A questo proposito prepareremo mi capo pel nuovo Capitolo generale. [44] Fra di noi vi è la base delle vocazioni, che è la frequenza ai santi Sacramenti; stiamo saldi su questa santissima base, procurando che le confessioni e le comunioni siano fatte bene. Ma ciò non basta ancora. Posto questo fondamento, si tratta di alzar la fabbrica, cioè a dire, bisogna che i Direttori più volte all'anno parlino di vocazione. Non è mai il caso di suggerire ai giovani: Fatevi preti, o non fatevi preti. Bisogna istruirli come vi siano due vie: gli uni debbono salvarsi passando per l'una, gli altri passando per l'altra; bisogna raccomandar loro di pregar molto il Signore per conoscere su quale delle due debbano essi camminare, in quale abbia egli sparse le sue grazie perchè le possano raccogliere; e si consiglino col confessore.
Mezzi importantissimi per risvegliare nei giovani o conservare la vocazione allo stato ecclesiastico od anche il desiderio di appartenere alla Congregazione, sono:
I° La carità con cui i giovani si vedranno trattati.
2° La carità reciproca elle vedranno usarsi tra di loro i Superiori. Se vedranno che uno non tratta guari bene coll'altro, che questo mormora di quello, che si criticano le disposizioni di questo o di quel Superiore, allora più nessuno si fa salesiano.
3° Altra cosa elle giova assai è il promuovere la cognizione del regolamento delle case e le deliberazioni del Capitolo generale di Lanzo. Ogni socio abbia copia del regolamento dei collegi, lo studii, sicchè se fosse interrogato sul suo regolamento speciale riguardo alla carica elle copre, possa rispondere secondochè è stampato nel libro. Qualora un Direttore non potesse fare altro e ottenesse che ciascuno eseguisca bene la parte elle gli è assegnata, farebbe già molto. Da ciò verrebbe l'ordine, e l'ordine impedisce tanti mali che fanno perdere la vocazione.
Desidero pure elle si dia a tutti i soci una copia delle deliberazioni del Capitolo generale, non solo perchè si conoscano, ma ancora perché essi vedano le cose elle si potrebbero aggiungere. I Direttori, i prefetti e chi copre qualche carica è bene che ne abbia una copia interfogliata per annotarsi le proposte da trattare o da mutare, secondo loro parrà venir insegnando l'esperienza. Si tratta di perfezionare i nostri regolamenti quanto si può e il più presto che si può. Le basi che si stabiliscono adesso, col pieno assenso di tutti, dureranno: i giovani elle crescono adesso si imbeveranno facilmente delle nostre idee e tradizioni. Invece, passata la prima generazione, noti si accetteranno più i cambiamenti, fossero anche necessari, o almeno si accetteranno con grande difficoltà. Dobbiamo compir l'opera. Si vede ciò elle accade per lo più in altri Ordini religiosi, i quali ebbero poi bisogno di riforme, fecero scismi, e talora diedero scandali.
I Capitoli generali che si raduneranno fra trenta o cinquant'anni, quando noi saremo morti, perderanno molto della loro importanza.
Ritorniamo alle vocazioni. Altra cosa da stabilirsi per avviarle, e generalmente pel bene delle nostre case, riguarda i confessori dei [45] giovani. E’ necessario elle i giovani siano diretti da confessori elle tutti abbiano lo stesso spirito. Avviene coli frequenza che vengano e si fermino nelle nostre case ecclesiastici molto buoni, ma elle non sono dei nostri, e confessano. Taluno sarà santissimo, ma non conoscendo lo spirito della Congregazione, dà consigli contrari a quelli elle daremmo noi, e il giovane perde assolutamente la confidenza al suo confessore antico, al Direttore della casa. Vi sono poche cose elle rechino ai giovani maggior danno di questa. Un tale agli esercizi di Lanzo venne a consultare Don Bosco su puliti delicati di occasione; poi andò a consultare un altro confessore elle noli era dei nostri, il quale gli diede un consiglio diametralmente opposto al mio. Quel consiglio fu il principio della sua rovina e adesso quel tale è totalmente guasto. Si inetta per principio elle nei collegi nessuno vada a confessare se noli ne ha l'incarico dal Direttore. I preti elle noli appartengono a noi, noli si mettano mai a confessare regolarmente, fossero pure saliti come Monsignor Belasio e Don Persi. Se ne scapiterebbe sempre. Si vada anche adagio nel mettere i nostri preti nuovi in questo uffizio pei giovani.
Altro gran male alle vocazioni e al buon ordine generale lo arrecano coloro che cercano di fare centro a parte in mezzo agli allievi. Si insista perchè in ogni casa tutti facciano centro al Direttore. Chi in qualche modo vien domandato di consiglio risponda sempre: -Il Direttore elle cosa ti ha detto? Interroga il Direttore. Consígliati coli lui, confídati pienamente coli lui e vedrai elle te ne troverai contento. Esso è posto dal Signore per conoscere i tuoi bisogni e provvedere: ha lumi speciali per suggerirti ciò elle devi fare e ciò elle devi fuggire.
Ma guai quando in una casa si formano due centri! Sono come due campi, come due bandiere, e se noli saranno contrari, saranno almeno divisi. L'affezione che si mette in uno è a scapito dell'altro. Tutta la confidenza che un giovane pone in chi cerca di attirarlo a sè, è tolta a colui che avrebbe diritto di possederla intiera. La freddezza porta l'indifferenza, la minor stima ed anche lui principio di avversione, e un regno diviso sarà desolato. Il Direttore procuri adunque eh nella sua casa non si rompa l'unità.
A questo riguardo non si stabilisca qui nulla di categorico e di assoluto, ma si lasci alla prudenza del Direttore il dirigersi praticamente secondo le norme sovra esposte e in qualunque caso si dà loro facoltà di dire: - Abbiamo per regola, elle siccome i Vescovi hanno facoltà di approvare o non approvare gl'individui per le confessioni negli istituti, così l'ha il nostro Superiore per i suoi sudditi. E questa facoltà è riservata a lui solo. Chi vuole ottenerla bisogna elle si rivolga a lui. -Essendovi nelle nostre case qualche buon ecclesiastico secolare, si dia ogni comodità agli esterni di confessarsi da lui. Per gli interni in tutti i giorni vi sia il solo Direttore incaricato di ascoltare le confessioni, dando però nelle domeniche maggior comodità ai penitenti. [46] Riguardo alla comunione frequente come regolarci? Si conceda pure una gran frequenza, ma si fissino alcuni punti:
I° Che i giovani si confessino una sola volta per settimana. Se hanno bisogno di confessarsi più volte per fare la comunione, io giudicherei essere meglio che se ne astengano. Questa come regola generale elle può avere eccezione in qualche individuo e specialmente in alcune circostanze.
2° Dare licenza ai penitenti, quando chiedono il permesso di andare alla comunione tutte le volte elle nulla hanno sulla coscienza che loro dia pena. E quando hanno solo piccole cose? Si noti che colui il quale si confessa ogni settimana e lungo questa cade sempre in molte piccole colpe, non dà indizio troppo buono di sè.
Detto quello che voleva dire su questo tema, fece due raccomandazioni sull'ammissione di estranei a convivere coi soci. Non si tenessero nelle nostre case nè come capi d'arte, nè come incaricati d'uffici un po' influenti individui che non avessero intenzione di appartenere alla nostra Società. Neppure si permettesse mai a maestri d'arte stipendiati di abitare in casa nostra; ma, presentandosi la necessità di stipendiarne alcuno, non gli si desse mai l'abitazione, ma fosse trattato come esterno e all'esterno abitasse.
Infine si procedette all'ammissione di parecchi ascritti ai voti perpetui. Chiedendo poi alcuni di farli triennali, Don Bosco ribadì cosa già da lui detta e ridetta, essere cioè i voti triennali occasione di troppe tentazioni per i giovani, molti dei quali non resisterebbero agli allettamenti del mondo in causa di tale stato, secondo loro, precario, da cui potevano di leggieri svincolarsi; invece coi voti perpetui stare tutti generalmente più tranquilli nè pensare più oltre al proprio avvenire, che si considerava ormai come stabilito. “S'introdussero i voti triennali, continuò testualmente, quand'io aveva un'altra idea della Congregazione. Avevo in animo di stabilire una cosa ben diversa da quella che è; ma ci costrinsero a far così, e così sia. Ora stando le cose come oggi sono, i voti triennali creano pericoli; meglio è ammettere solamente ai perpetui coloro che vediamo forniti delle virtù e condizioni [47] necessarie; gli altri si escludano”. Così terminò ad ora avanzata quella seduta.
Sul punto dei voti triennali Don Bosco aveva manifestato le medesime idee che la sera del 18 ottobre 1878, discorrendo con Don Barberis e con Don Guidazio lassù nella stia galleria. Detto della sua nessuna simpatia per i voti triennali, aveva soggiunto: “Avevo messo i voti triennali, perchè da principio avevo in mente di formare una Congregazione elle venisse in aiuto ai Vescovi; ma siccome non fu possibile e mi costrinsero a fare altrimenti, i voti triennali ci tornano più d'inciampo che di vantaggio”.
Questa reiterata affermazione richiede qualche chiarimento. La Congregazione nella sua forma definitiva non balzò tutta d'un tratto dal cervello di Don Bosco. L'idea di associarsi collaboratori gli si aggirò assai presto per la mente: i misteriosi sogni gliela insinuarono e la tennero viva: ma essa gli si affacciava sotto aspetti vaghi, elle le circostanze venivano di mano in mano rischiarando e precisando. Egli cominciò nel 1855 a procacciarsi di proposito le cognizioni necessarie per compilare una regola, che, abbozzata nel 1857, presentò in quell'anno a otto volonterosi, perchè la studiassero e vedessero se si sentivano di praticarla. Orbene due cose si riscontrano in quella regola primitiva, che poi subirono rilevanti modificazioni. Una riguardava appunto i voti. “I voti, si diceva, saranno per due volte rinnovati di tre in tre anni. Dopo sei anni ognuno è libero di continuarli di tre in tre anni oppure farli perpetui, cioè obbligarsi all'adempimento dei voti per tutta la vita”. E’ una dicitura elle fa considerare la professione triennale non già subordinatamente alla perpetua, cioè quale stadio di preparazione a questa, ma come cosa a sè e semplice mezzo per legare ad tempus le volontà dei soggetti, che frattanto coadiuvassero Don Bosco nell'opera degli oratori e delle vocazioni ecclesiastiche; stava in questo principalmente l'aiuto da prestare ai Vescovi. Con l'articolo succitato si connette e si spiega quest'altro: [48] “I voti obbligano l'individuo finchè egli dimorerà in congregazione. Quelli che o per ragionevole motivo o dietro a prudente giudizio dei Superiori partono dalla Congregazione, possono essere sciolti dai loro voti dal Superiore Generale della casa Maestra”. L'altra cosa notevole è dove si tratta dei rapporti con i Vescovi. “Se avvenisse, si legge ivi, di dover stabilire qualche nuova casa, il Superiore Generale concerti prima quanto riguarda allo spirituale ed al temporale col Vescovo della Diocesi in cui quella intende aprirsi, secondo le regole del governo di casa come infra”. I Soci nelle nuove case bastava che fossero due, dei quali almeno tino sacerdote. Fin qui dunque si mirava unicamente ad un probabile moltiplicarsi di oratori fuori dell'archidiocesi torinese, dipendenti tutti da Don Bosco e in ausilio degli Ordinari diocesani. Solo dopo l'udienza pontificia del 9 marzo 1858 cominciò il lavorío per costituire modis et formis la Congregazione salesiana; ma la pratica dei voti triennali restò ancora per oltre un decennio, quando divenne pura eccezione per casi speciali fino al nuovo Codice di diritto canonico.
La mattina dell'8 andò tutta in esaminare le condizioni di Saint-Cyr e in determinare qualche provvedimento per quell'orfanotrofio. Non fa d'uopo ora aggiungere altro al già detto nel volume precedente, riporteremo soltanto le parole con cui Don Bosco pose termine alla discussione. “Consoliamoci, diss'egli, chè questa è veramente una vigna apertaci dalla divina Provvidenza. Da queste istituzioni verrà gran bene alle anime. Vi è speranza di vocazioni allo stato ecclesiastico, perchè fra quei giovani ve ne sono di costumati e atti al santuario. Parecchi mi parlarono di volersi fare Salesiani; vi si troveranno anche figli di Maria; avremo pure di quelli che si fermeranno nella Congregazione come coadiutori. In Francia oggi non vi sono quasi più Congregazioni di uomini che si occupino delle classi umili; quelle che vi sono o rimangono inoperose per varie cause o si consacrarono all'educazione dei figli delle classi superiori. Nessuno vi è che si [49] curi del genere di educazione, al quale ci siamo dati noi. Tutti amano lo spirito nostro e la classe dei giovani, attorno a cui noi impieghiamo le nostre cure. Per questo motivo appunto incontriamo tanta simpatia in ogni luogo e per questo, come spero, non saremo mai disturbati”. Con questo suo dire egli abbracciava tutta l'opera di colà; non solo cioè Saint-Cyr, ma anche la Navarre.
La conferenza pomeridiana non si protrasse come le altre volte. Per prima cosa si trattò di un viaggio circolare che Don Durando e Don Cagliero dovevano intraprendere per l'Italia allo scopo di visitare le più importanti delle molte case offerte a Don Bosco. Tale viaggio si sarebbe già dovuto compiere da più mesi, se le circostanze non avessero obbligato a ritardarlo. Se ne fissò dunque l'itinerario: andare fino a Napoli; da Napoli salpare per Catania, vedere Randazzo e procedere fino a Palermo; di qui tornar per mare a Napoli e passare a Brindisi, dove il Vescovo aspettava con gran desiderio; da Brindisi percorrere in ferrovia il littorale dell'Adriatico fino a Venezia e poi per la via di Milano far ritorno a Valdocco. La loro missione principale era di concludere le trattative per Randazzo, Brindisi e Cremona. A Randazzo dovevano far accettare il capitolato già stretto col municipio di Varazze; negli altri luoghi dove si volevano i Salesiani, promettessero per quando vi fosse personale sufficiente. Inoltre Don Cagliero decidesse sul posto per un istituto femminile che la duchessa di Cárcaci avrebbe voluto affidare alle Figlie di Maria Ausiliatrice in Catania. Il Beato terminò dicendo: “Andate; ma siccome tempus urget, procurate di riposar bene la notte; di giorno poi datevi attorno, sbrigando molti affari. Dovunque vi recherete, se c'è Vescovo o altra precipua autorità, andate a far visita e dite loro: Siamo qui a portarle gli ossequi del nostro Superiore”.
L'accenno alle Suore richiamò l'attenzione dei presenti sopra un penoso stato di cose. Il loro numero aumentava notevolmente d'anno in anno, ma eran troppe quelle che [50] ammalavano e morivano. Quali rimedi apprestare elle avessero efficacia a migliorarne le condizioni igieniche nelle loro comunità? Se ne ragionò minutamente, rimettendo a Don Cagliero un esame più accurato; intanto questi, che aveva maggior conoscenza della loro vita, cominciò a suggerire alcuni provvedimenti generali e di più facile attuazione: gran moto, aria libera, mutare sovente le suore addette alla cucina; annesso ad ogni casa un cortile o giardino, dove potessero senza soggezione di esterni giocare. gridare, saltare, divagarsi; liberarne le coscienze da opprimenti angustie, molte di esse, a parer suo, cadendo inferme per causa di pene interne, scrupoli, timori e simili. Dopo di che Don Bosco invitò a ringraziare il Signore e dichiarò chiuse le conferenze.
I Capitolari e i Direttori convenuti, passando quei tre giorni accanto a Don Bosco e osservandone, come calavano fare in ogni possibile occasione, il tenore di vita, ne ammiravano le virtù e si manifestavano l'uno all'altro le proprie impressioni. Don Barberis si è fatto per noi portavoce dei discorsi che correvano fra loro su quest'oggetto. Li colpiva soprattutto il suo eroico spirito di sacrifizio. Chi, non conoscendolo, si fosse fermato al svio esteriore, non avrebbe lontanamente supposto quant'egli dovesse soffrire; poichè con tanti pensieri per il capo, con tante importunità da più parti, non mai un modo brusco o un istante di nervosità verso chicchessia, anzi una grazia e specialmente una tolleranza delle altrui debolezze che sembrava in lui quasi seconda natura.
Della sanità egli comprendeva tutto il valore, nè ricusava i riguardi elle giovassero a mantenergliela; era però di grande edificazione il vedere con quale tranquillità d'animo si acconciasse agl'incomodi della stagione e ad altri inevitabili disagi. Certi giorni faceva freddo. - Già, esclamava, ogni anno bisogna che il freddo ritorni; procurate di ripararvi bene, perchè non abbiate a soffrire nella sanità. - Nella stagione del caldo, in certi giorni di afa, l'avevano udito dire: - Bene, bene! questo ci voleva, le campagne hanno bisogno di calore. [51] - E magnificava i vantaggi che l'estate reca alla natura. Era stanco? - Già, diceva sorridendo, mi sono stancato un po'. Oh, un giorno o l'altro, se avrò un tantino di tempo libero, vorrò riposarmi! - Ai suoi nondimeno ripeteva che non si affaticassero di troppo. Continuava ad aver male agli occhi e il destro non gli serviva quasi più. - E' vero, osservava, con un occhio vedo meno che con due. Tuttavia spero che il Signore mi conserverà quest'uno, perchè altrimenti non potrei più lavorare. Oh, il Signore saprà ben aggiustare in qualche modo le cose. - Nelle adunanze, in cui si ventilavano proposte già da lui vagliate per ogni verso, chi sa quanto gli costava lo star ad ascoltare osservazioni improvvisate, obbiezioni superficiali, opposizioni punto ragionevoli! Avere poi un disegno preciso nella mente, vederne sicura la possibilità di esecuzione, ma non poterlo per buone ragioni manifestare se non per metà e udire argomentazioni per dimostrarlo campato in aria e ineseguibile, quanto gli doveva riuscir cosa dura! Ma in tali casi il suo metodo era esporre con semplicità le sue vedute e poi senza entrare in discussioni rimettersi lì per lì tranquillamente al voto altrui, anche se contrario al suo desiderio; ma in seguito, dando tempo al tempo, condurre le fila in modo da far proclamare possibile l'impossibile, il tutto sempre da parte sua senza la minima aria di trionfo.
Ad Alassio questa volta, occupato com'era, non potè intrattenersi guari con gli alunni del collegio, fuorchè in confessione durante la messa della comunità. Tuttavia, uscendo di chiesa dopo le otto, non impiegava meno di venti minuti a traversare il cortile, perchè i giovani, appena lo vedevano spuntare, gli correvano d'attorno, ed egli sempre a rallegrarli con qualche facezia o a dir loro qualche buona parola; per ogni caso aveva pronte le sue interrogazioni o le sue risposte. Lo stesso faceva con i loro maestri e assistenti.
Parecchie autorevoli persone furono da lui per offrirgli collegi e case. Il suo contegno, la stia pacatezza e bonarietà, la sua profondità di vedute, la saggezza dei suoi suggerimenti, [52] la maniera affabile di trattare e quell'affettuoso sorriso li facevano rimanere incantati. Una deputazione del municipio di Porto Maurizio venne a pregarlo di prendere la direzione delle scuole cittadine e di aprire ivi un collegio da costruirsi a, pubbliche spese; quei signori, quantunque delusi nelle loro speranze, andarono via stimandosi fortunati per il colloquio avuto col Servo di Dio.
In pubblico Don Bosco ad Alassio parlò due volte, la prima ai giovani e la seconda ai cooperatori. Ai giovani diede la buona notte dopo le orazioni serali del sabato 8 febbraio. Rivolse la parola specialmente agli alunni del ginnasio superiore e del liceo. Raccomandò l'allegria. Stessero allegri essi, e a tal fine si mettessero bene in pace con Dio; chiamassero a parte della loro allegria le anime del Purgatorio, e perciò la dimane, essendo festa, facessero la santa comunione in loro suffragio; prolungassero l'allegria propria, pensando tutti nel comunicarsi alla loro vocazione, perchè quello era il modo di procurarsi allegrezza per tutta la vita. Disse infine che li voleva allegri non solo nell'anima, sì anche nel corpo; essersi egli per questo inteso col Direttore, affinchè a mensa avessero qualche contentino. Concluse: - Allegri così e buoni ora, vi preparerete un'allegria eterna, che io vi auguro di tutto cuore, pregando il Signore che ve ne faccia dono.
Trovò pure il tempo per fare una conferenza ai cooperatori salesiani del luogo, che riempirono la navata centrale della capace chiesa. Non era la prima conferenza di tal genere che si udisse in Alassio; infatti l'anno innanzi l'aveva tenuta monsignor Alimonda, vescovo di Albenga e cooperatore della prima ora. Egli amava grandemente il collegio e il suo Direttore, col quale conversava volentieri e a lungo; stimava moltissimo la Congregazione e riguardava in Don Bosco l'uomo della Provvidenza, al quale portava sincero affetto assai prima di essere Vescovo. Nella recente festa di san Francesco, celebratasi in collegio il 2 febbraio, sperando che Don Bosco fosse per allora già di ritorno dalla Francia, [53] era andato a fare il panegirico del santo Patrono e aveva pronunciate bellissime parole in onore di Doli Bosco. Del Salesio, creato nel 1877 Dottore della Chiesa, aveva pure tessuto l'elogio dinanzi a' suoi seminaristi il 29 gennaio; nella qual circostanza era uscito in queste enfatiche espressioni: “E dove ti lascio, o mio caro amico, venerando padre del clero, Giovanili Bosco! A te giovanetto il Sales si rivelò; e da lui prendesti il sapere amabile, la santità carezzevole, tutto il corredo delle dolci virtù cristiane, che tanto onore ti fanno. Prendesti da lui il concetto e lo spirito della tua benemerita Congregazione dei Salesiani. Io la vidi nascere e dilatarsi, la nuova Congregazione, come una pianta di paradiso trasferita in terra; simile in tutto al crescere e al dilatarsi dei bei monasteri della Visitazione. San Francesco di Sales rivive e moltiplica in te, e per te rivive e moltiplica nella comunanza civile. Questo tributo di lode io ti debbo per isfogo di gratitudine; imperocchè dell'opera solerte de' tuoi figli si giova e si allieta la mia dilettissima diocesi: ma più preziosi encomii e ringraziamenti più degni a te vengono dalla Chiesa Cattolica, a cui nell'Europa e nell'America per l'Apostolato dei Salesiani si feconda il grembo d'innumerabili fanciulli educati alla virtù, di barbari convertiti e di cristiani santificati”[32].
Appena saputo dell'arrivo di Don Bosco, mandò a chiedere quando e come gli sarebbe possibile intrattenersi familiarmente con lui. Don Bosco studiava la maniera di prevenirlo, recandosi ad Albenga; ma il Vescovo fece più presto e venne ad Alassio e si strinse per buona pezza a colloquio col Beato. Allorchè il Prelato partì, Don Bosco e tutti i Superiori lo accompagnarono alla stazione.
Prima che i Capitolari e i Direttori pigliassero il volo, Don Bosco fece radunare a conferenza tutti i confratelli della casa; ma sentendosi troppo stanco, diede a Don Rua l'incarico di parlare in sua vece: egli tuttavia presiedette, circondato [54] dai Superiori maggiori. Era la prima volta che in un'adunanza di tal fatta cedesse ad altri la parola.
A Don Rua, quando ripartì per Torino, diede due lettere e un biglietto da recapitare. Le lettere andavano al suo grande amico Don Vallauri e alla costui sorella inferma.
Le accludo questa lettera per la Sig. Teresa sua sorella. Se vede che non possa più leggerla da sè, favorisca di leggerla Ella stessa, l'assicuri delle nostre comuni e private preghiere. Ella poi, o caro D. Pietro, si abbia cura della sua sanità. lo pregherò sempre Dio per Lei. Sono in via per Roma richiesto dal S. Padre. Se di là posso servirla in qualche cosa, sarò tutto a' suoi ordini. Preghi per me e per i nostri poveri ragazzi (40.000) e mi creda sempre in G. C.
Benemerita Sig. Teresa Vallauri,
D. Rua mi portò sue notizie e mi rincresce assai, che i suoi malori abbiano aumentate le sue sofferenze. Dio sa quanto abbiamo pregato per la sua guarigione. Non fummo ascoltati, ma continueremo. Siamo però certi che le comuni preghiere nostre gioveranno al bene dell'anima. Abbia fede in Gesù e Maria Ausiliatrice.
Ella ci ha fatto molta carità e finchè durerà la Congregazione Salesiana si faranno mattino e sera preghiere per lei.
Dio la benedica, la consoli colla sua santa grazia e preghi per me che sarò sempre in G. C.
P. S. Appena giunto a Roma dimanderò una speciale benedizione al S. Padre per Lei
Il biglietto era per il chierico Eugenio Armelonghi, insegnante nel collegio di Borgo San Martino. Sopra una sua carta da visita il Servo di Dio vergò queste righe: “Armelonghi fili mi. Si diligis me, praecepta mea servabis. Praecepta mea sunt nostrae Constitutiones. Gratulor tibi eo quod valeas et adolescentuli tui in scientia et pietate concrescant. Deus te [55] benedicat. Ora pro me. Amicus tuus. Sac. GIOVANNI BOSCO. Alassio, 9 Febbraio 1879”[33].
Partito da Alassio e toccato Varazze, Don Bosco si portò a Sampierdarena, dove stette fino al 19. Da Alassio egli aveva spedito al Signor Rostand per la Beaujour una relazione della sua visita alla Navarre e a Saint-Cyr, informandolo bene sullo stato del personale e sul valore dei terreni. Le sue informazioni, comunicate dal presidente al consiglio amministrativo della Società, tornarono opportunissime per assicurare il buon esito della sottoscrizione che si era in procinto di aprire a favore della Società per le nuove opere; intanto quei soci badavano a compiere esattamente le formalità legali riguardo ai divisati apporti, affinchè tutti gli atti si compiessero in piena regola. In risposta il presidente gl'indirizzò a Sampierdarena una lunga e affettuosa lettera, nella quale salutava Don Bosco quale inviato della Provvidenza e si augurava che l'opera di Marsiglia prendesse tutto lo sviluppo di cui era suscettibile mercè la triplice creazione di un noviziato Salesiano, di scuole secondarie per la coltura delle vocazioni ecclesiastiche e di scuole professionali; i soci della Beaujour essere pronti a secondarne con entusiasmo lo zelo, aiutandolo a trovare i mezzi[34].
Don Bosco, dovendo scrivere proprio allora al curato Guiol, gli manifestò tutto il gradimento provato nel leggere quelle pagine riboccanti di sì nobili sensi. “In questi momenti, scrisse per sua ispirazione e in suo nome Don Rua, io ricevo una stupenda lettera del Sig. Rostand che io conserverò come preziosa memoria di un uomo tipo di carità, dì religione e di assennatezza. Spero potergli rispondere da Roma, ma se lo vede, cominci a dirgli che i suoi progetti sono quegli stessi che hanno sempre dominato e tuttora dominano [56] i miei pensieri. A Beaujour un noviziato, orfanotrofio, scuole per coltivare vocazioni; ecco le cose che con l'aiuto del Signore speriamo di effettuare. I tempi, i luoghi, le persone ci consigliano di camminare colla massima cautela, ma colla massima fermezza”[35].
Mentre dimorava a Sampierdarena, una sua benedizione produsse un effetto sorprendente. La signora Anna Chiesa aveva una figlia per nome Pia molto tribolata da ostinatissimo mal di capo. Inteso che nell'ospizio di San Vincenzo vi era Don Bosco, la condusse a lui, perchè gliela benedicesse; ma, essendo il Servo di Dio occupato in dare udienze, non gli si potè avvicinare. Non si perdette d'animo: aspettò quattro o cinque ore pazientissimamente. Più volte Don Bosco uscì di camera con qualche persona, senza mai volgere a lei lo sguardo. Una volta finalmente, passandole vicino, le disse: - E lei che cosa desidera, signora? - La buona madre gli espose in poche parole lo stato della figlia. - Oh! è cosa da poco, - rispose Don Bosco ponendo leggermente la mano sulla testa dell'inferma. Il male svanì all'istante, nè mai più tornò a molestarla.
Il ricordo di questo fatto diede più tardi origine a un altro che ebbe pure dello straordinario. Motto Don Bosco, la signora Casanova che soffriva a un piede, trascurò talmente il male, che, quando si mise nelle mani dei medici, non vi restava più alcuna via di scampo senza l'amputazione della gamba. La povera donna, desolata a quell'annunzio, non si dava pace, quando la signora Chiesa sua amica, memore della guarigione istantanea e perfetta della figlia, le andò a consigliare di raccomandarsi a Don Bosco, lasciandole una di quelle reliquie ex linteaminibus che erano tanto ricercate dopo la morte del Beato. Gradì colei il consiglio e pregò Don Bosco e si applicò alla gamba la reliquia. Venuto il giorno dell'operazione, i medici, preparati i ferri, le sfasciarono la [57] gamba; ma con istupore di tutti vi si riscontrò un evidente principio di guarigione, che progredì fino a sanità completa.
Alla partenza del Beato da Sampierdarena era cosa intesa che si dovesse trovare il conte Cays per accompagnarlo a Roma e là fargli da segretario insieme con Don Berto. Il nobile Conte, ormai umile Salesiano, aveva dichiarato di essere pronto a dividere con Don Berto la camera e financo a dormire, in mancanza di meglio, sur un letto acconciato con sedie, pur d'avere la bella fortuna di fare quel viaggio con Don Bosco. Questi adunque lo aveva rimandato da Alassio a Torino, perchè vi assestasse alcune faccende e dopo sette giorni lo raggiungesse a Sampierdarena.. Don Cays venne all'Oratorio, fece i suoi preparativi, salutò i numerosissimi amici, ricevette da loro commissioni e mancava appena un giorno a partire, quand'ecco un telegramma di Don Bosco significargli che si fermasse a Torino e che in sua vece partisse Don Bonetti. Il Conte disfece tranquillamente la sua valigia e con quanti s'incontrava, ripeteva: - Non vado più a Roma. Don Bosco mi ha mandato a dire che mi fermassi.
Il Beato col suo fido segretario, montato in treno a Sampierdarena, scese alla Spezia, dove passò due giorni parte scrivendo e parte facendo visite. Pernottò dal cavalier Bruschi, divenuto poi sacerdote Salesiano; avendo egli la cappella domestica, il Beato vi celebrò la santa Messa. Era sindaco della città un nipote del cavaliere, che abitava nella medesima casa. Egli vedeva i pretini come il fumo negli occhi; anzi in alcune occasioni aveva agito contro di essi da nemico dichiarato. Don Bosco gli fece visita. Trovatolo a letto alquanto indisposto, si trattenne un po' di tempo a conversare con lui. Dopo d'allora il sindaco fu tutt'altro da quel di prima. Confessò egli medesimo agli amici che Don Bosco gli era apparso ben differente da quello che egli si credeva, nè cessava di parlarne con lode.
Il Servo di Dio volle a pranzo nell'istituto l'abate parroco, il vicario foraneo, alcuni canonici e alcuni semplici preti, il [58] cavalier Bruschi e altri. Fu una vera disperazione per il povero Don Rocca, perchè aveva un cuoco per modo di dire e non aveva una stanza un po' conveniente dove apparecchiare la tavola. Ma l'onore e il piacere di stare a mensa con Don Bosco li fece tutti lieti e contenti, come se si fossero trovati col Re, ci scrive il medesimo Don Rocca.
Visitate le scuole e fatta una conferenza ai confratelli, la mattina del 22 salì a Sarzana per ossequiare il Vescovo, che lo tenne seco a mezzogiorno. La sera proseguì per Lucca[36]. A Pisa ecco il direttore Don Marenco e alcuni signori lucchesi, ansiosi di dargli il benvenuto. Alla stazione di Lucca, sebbene piovesse, lo aspettavano i giovani, che gli fecero un'ovazione, cosa non davvero frequente a quei tempi per un prete. Tre carrozze padronali portarono in città Don Bosco e il suo seguito. Fatta breve sosta alla casa Burlamacchi, si tirò diritto all'oratorio di Santa Croce. Ivi parecchi ragguardevoli cittadini complimentarono Don Bosco e tosto, data l'ora tarda, si ritirarono “lasciandoci soli, scrive Don Marenco, nella dolce conversazione col nostro Padre”.
La dimane, domenica, nella chiesa dell'oratorio la gente si stipava per vederlo e ascoltarne la Messa. Il suo soggiorno a Lucca andò segnalato per le molte richieste di benedizioni a infermi. La prima fu allo scoccare del mezzodì: la marchesa Burlamacchi lo pregava di recarsi a benedire il vecchio marchese. Aveva ottantotto anni, non articolava parola, ardeva dalla febbre e lo crucciava perpetua insonnia. Don Bosco gli diede la benedizione e, cosa del tutto inaspettata, il vegliardo cominciò a riposare e a sentirsi meglio e il lunedì si levò. Nel pomeriggio fu chiamato per lo stesso motivo al capezzale di altri infermi, finchè la sera impartì a tutti la benedizione col Santissimo. I giovani, benchè fosse notte e tempo cattivo, l'aspettarono per baciargli la mano e, come [59] si esprime il Direttore, “udire una parola dal nostro buono e portentoso Padre”.
Anche il marchese Massoni il dì seguente lo mandò a chiamare per essere da lui benedetto. Don Bosco lo trovò inchiodato dalla paralisi sopra un lettuccio. Da sei anni giaceva in quello stato. Allora non poteva più muovere un dito; anzi il male era tanto avanzato, elle al povero infermo bisognava rialzare ogni momento il capo, perchè non gli cadesse a piombo sul petto, trascinandogli la persona in terra. Lo imboccavano e gli nettavano il naso, come si fa con i bambini. La moglie, la figlia e un figlio piangevano dirottamente. - Me lo risani questo povero infelice! - supplicava singhiozzando la signora; e inginocchiataglisi davanti: - Oh Don Bosco, ripeteva, me lo risani! -Don Bosco si pose a sedere e prese a parlare; ma le sue parole miravano a infondere pazienza e rassegnazione, senza dare mai un filo di speranza. Calmatisi un po' gli animi, egli benedisse il marchese e gli ordinò di fare il segno della croce. Qual meraviglia! Alzò da sè la destra e si segnò. Gli disse quindi che ogni giorno ripetesse quell'atto, invocando i santissimi nomi di Gesù e di Maria.
A dispetto delle distrazioni carnevalesche, il nome di Don Bosco risonava per ogni dove nella città. Quand'egli camminava per via, chi si fermava a guardarlo rispettosamente, chi gli teneva dietro, chi gli rivolgeva supplici espressioni. Perfino le maschere, dimentiche delle loro leggerezze, gli passavano accanto con segni di riverenza. Non pochi rimandavano la comunione alle otto e mezzo per riceverla dalle sue mani. Quello poi che intervenisse fra lui e i tanti che gli andavano a parlare, non lo potè sapere nessuno; Don Marenco ne vide uscire di così impressionati che perdevano la tramontana e non ritrovavano più la porta che dava sulla strada. “Quali giorni di concorso! esclama il medesimo. La casa dei Salesiani era diventata la casa del comune”.
Il 25 le udienze, moltiplicatesi oltre misura, l'avevano così affaticato elle sul tardi, affranto e preso da forte mal di [60] capo, dovette troncarle e ritirarsi in camera. Fece in quei giorni un tempaccio con bufera e pioggia; all'alba del 26 fulminava orribilmente, poi cadde neve e ricominciò a piovere. Il Beato, con carrozza inviatagli da una buona signora di Lucca, visitò parecchie benemerite persone della città sofferenti nella salute. Andò fra gli altri dal conte Sardi, il quale in seguito narrava di un suo figlioletto che, vicino a morirgli e da lui raccomandato alle preghiere di Don Bosco, erasi improvvisamente riavuto e allora stava benissimo.
Verso le tre parlò ai Cooperatori nella chiesetta della Croce, osservando il solito cerimoniale. I presenti sommavano a un centinaio e mezzo; vi assistette l'Arcivescovo. Don Bosco, illustrò l'opera delle opere, gli oratori festivi, e spiegò che cosa fosse l'associazione dei Cooperatori salesiani. Gli uditori pendevano dal suo labbro con religiosa attenzione[37]. Dopo la cerimonia una moltitudine di persone invase la sacrestia e la casa, facendogli ressa intorno per dirgli una parola e udire da lui qualche cosa che rispondesse alle loro necessità spirituali o temporali.
Di un fatto specialmente corse in brev'ora la notizia per tutta la città. Don Bosco, avendo a fianco il Direttore e circondato da una corona di gentili signori, moveva alla volta della cattedrale per venerare il Volto Santo. t questa la denominazione popolare di un miracoloso Crocifisso, che si custodisce a Lucca dal secolo ottavo e che si vorrebbe fatto scolpire da San Nicodemo; raramente viene esposto alla pubblica venerazione, e in privato non si scopre se non a cospicui personaggi ed a porte chiuse. A Don Bosco non passò neppure per la mente di chiedere un tal privilegio. Facevano dunque la loro via piede innanzi piede, allorquando echeggiò nell'aria un grido: -La benedizione! - Erano un padre e una madre che conducevano a braccio un loro figliuolo ventenne, da tempo malato di spinite. Camminava a grande [61] stento e strascinando le gambe, nè si reggeva da solo. Ma, disse loro Don Bosco soffermandosi, dare la benedizione qui sulla strada? - Poi, alzando gli occhi al cielo, riprese: - Anche qui Dio può benedire. -Com'egli si pose in atto di dare la benedizione, tutti intorno a lui s'inginocchiarono. La folla si accalcava da ogni parte. Com'egli benedisse l'infermo, i genitori lo rialzarono di peso. - Non puoi fare qualche passo? gli domandò il Beato.
- No, mi mancano le forze, rispose.
- Su, fa' qualche passo, che ti vediamo.
Il giovane ci si provò e si moveva, da sè, ma Don Bosco: Là, gli disse, vienmi ad accompagnare. Io vado a vedere il Volto Santo. - E continuando a discorrere insieme, s'avviarono. Il giovanotto fece con Don Bosco un dugento passi senz'appoggio di sorta. Passato il primo stupore, la turba cominciò a rumoreggiare e i parenti, riavutisi dello stordimento, deviarono col figlio, seguiti da una coda di gente. Il giovane come trasognato filò verso casa, nè più si vide, proprio com'era successo a Marsiglia.
Alla cattedrale si parò dinanzi al Beato un colpo di scena: i canonici in cappa magna e quattro chierici con torce accese lo accolsero solennemente alla porta, lo condussero alla cappella del Volto Santo, gli scopersero il venerando simulacro e, favore insigne, gli procurarono la soddisfazione di potergli baciare il piede[38]. [62] Anche il demonio sperimentò a modo suo gli effetti della presenza di Don Bosco in Lucca. Una giovane sui trentacinque anni, abitante nella parrocchia di san Leonardo, era ossessa e pativa le più strane vessazioni diaboliche. Il parroco, certo Don Cianetti, come udì che Don Bosco stava per recarsi a Lucca, s'intese con chi di ragione per fargliela esorcizzare. Nulla trapelò di questa sua intenzione; eppure un giorno l'indemoniata, dando in ismanie, urlò: - Venga pure quel sacco di carbone, venga pure il protetto di quella... - E qui un'orribile bestemmia contro la Santissima Vergine. Ci volle del bello e del buono, ma pur finalmente si riuscì a trascinare l'infelice alla presenza del Servo di Dio, che, appena la vide, la benedisse; quando però egli fece per segnarla in fronte con un'immagine di Maria Santissima, non ci fu verso di tenerla ferma: quella povera creatura si divincolava come un serpente. Ciò avveniva la mattina del 25 febbraio. Don Bosco, ritirandosi, disse che sarebbe guarita il dì dell'Immacolata. Così accadde; poichè colei l'otto dicembre udì improvvisamente nella sua stanza come uno schianto di fulmine, e quello fu l'attimo della liberazione.
Consolarono assai Don Bosco il numero e il contegno degli oratoriani. In realtà molto si era ottenuto da quei giovanetti in men di un anno. Le bestemmie che prima essi avevano la sciagurata abitudine di proferire ad ogni piè sospinto, più non ferivano le orecchie; già così avversi ad andare in chiesa che al suono del campanello scavalcavano anche i muri per darsi alla fuga, allora, udito il primo tocco, smettevano i giuochi e correvano per mettersi in ordine. Nella frequenza ai sacramenti, nella compostezza durante le pratiche religiose, nell'affetto verso i pretini l'occhio esperto di Don Bosco ravvisò quella lieta spontaneità che fiorisce di leggieri dovunque si applichi fedelmente il metodo da lui insegnato e praticato. Egli si compiacque molto, vedendoseli una volta tutti intorno a cantare, declamare, recitare; fra essi notò con soddisfazione anche calzolai, ramai, sarti, falegnami, tintori baffuti, che [63] erano gli scolari della sera. Trovò inoltre la chiesa ben ufficiata dai Salesiani e frequentatissima dal pubblico. Insomma si disse arcicontento della casa di Lucca, tanto contento che lasciò ordine al Direttore di partecipare a Don Rua questa sua consolazione.
A Don Rua scrisse egli stesso da Lucca quattro giorni prima della partenza.
Burlamacchi[39] insiste sul bisogno di cangiar aria. I suoi parenti non lo vogliono a casa. Sarà caso di mandarlo ad Alassio? Pensaci, e dillo a D. Barberis.
Le Biografie dei nostri Salesiani, lette da te siano pure stampate; però quella di Arata e di D. Gamarra si possono annunziare in breve e poi stamparle a parte, ma con tutte quelle belle circostanze che D. Scappini, D. Albera, D. Notario, D. Barberis e D. Bosco ecc. possono aggiungere e formare due bei fascicoli delle Letture Cattoliche. Turia pure può dire qualche cosa. Per Cinelli concerta con D. Barberis. D. Bonetti attende i pacchi da Torino[40] ed io attendo pacchi e Bonetti qui a Lucca. Dimani conferenza dei Coop. Sales assistita da Mons. Arcivescovo. Dopo dimani mattina (27) partiremo alla volta di Roma. Di là manderemo notizie delle cose nostre. Fa un cordialissimo saluto a tutti i nostri giovani e di' loro che loro voglio tanto bene, che li amo nel Signore, li benedico e elle spero di mandare pei medesimi una speciale benedizione del S. Padre con annessavi una bella fetta di salame. Continuino ad essere buoni ed a pregare affinchè le cose nostre vadano tutte bene.
D. Bologna insiste perchè se gli mandi Grosso per la musica. Se tu lo giudichi e non disturbi tanto Lanzo credo si possa appagare...
Quasi a compimento della precedente vi accluse un foglio per Don Barberis. Come si vede elle egli, da buon padre, pensava al bene de' suoi figli non solo in generale, ma anche individualmente, secondo i bisogni o le condizioni di ognuno! [64]
Per diverse cose elle mi hai scritto, ho risposto a D. Rua, quindi parlane con lui.
Mi rallegro degli egregie che prenderanno gli ascritti nell'esarne semestrale. Lo stesso dirai da parte mia a tutti i chierici e nominatamente a Gresino ed ad Aime.
Per le passeggiate a S. Anna nessuna difficoltà; ma si facciano quando il tempo e la stagione siano normali e le strade praticabili. Abbi gran cura della loro sanità.
Dirai a D. Bertello che so come egli canta e porta la croce, ma per lui è cosa necessaria per introire in Regnum Dei. Dirai a D. Notario che gli voglio bene e elle conto molto sopra la sua dolcezza e fermezza, di cui continuerà certamente a dar saggio.
Farai un carissimo saluto ai miei cari amici Ghiglione, Pelazza, Bandino e Lisa.
Darai un pizzicone a D. Savio, perchè non mi ha ancora scritto una lunga lunga lettera.
Dio ti benedica, o caro D. Barberis, e con te benedica tutti i nostri cari ascritti, cui auguro sanità e santità in abbondanza per la vita presente e per la futura.
Continuate pregare per me elle sarò sempre in G. C.
Con le due precedenti accluse una terza lettera per un chierico Alessandro Mora, incaricato con altri della corrispondenza riguardante la piccola lotteria che aveva lanciata sul finire del 1878[41]. Don Bosco, benchè lontano e distratto da tante cose, non la perdeva di vista: chiedeva biglietti da distribuire a Roma e incoraggiava il segretario e i suoi aiutanti a lavorare di buona voglia per il felice successo.
So che lavori e Dio te ne rimeriti. Attendo i biglietti per Roma. Fa quello che puoi; ma cércati altri in aiuto. Da questa lotteria noi dobbiamo ricavare 100.000 franchi netti. Nota che tu non avrai alcuna giubilazione fino a elle la nostra impresa abbia raggiunto tale risultato. [65] Fa un cordialissimo saluto ai tuoi collaboratori. Saluta Valentini, Rossi Marcello, Palestrino, e D. Deppert per la bella lettera elle mi ha scritto. Dio ci conservi tutti nella sua santa grazia ed abbimi sempre in G. C.
L'atteso Don Bonetti arrivò da Sampierdarena la sera del 26, perchè Don Bosco aveva divisato precedentemente di partire per Roma il 27; ma era così spossato, che non si sentì di affrontare il viaggio e passò altri due giorni a Lucca, senza metter piede fuor di casa e sbrigando alcune pratiche per l'acquisto di un edifizio. Le notizie di Don Bosco, scritte da Don Berto e lette da Don Lazzero ai giovani dell'Oratorio, destarono un vero entusiasmo per l'amatissimo Padre[42].
ABBIAMO appreso poc'anzi da Don Bosco che egli si metteva in viaggio alla volta di Roma, perché “richiesto dal Santo Padre”. Da Roma Don Bonetti scriveva:
“Don Bosco ebbe già due udienze dal Cardinale Nina e da parecchi altri per cose di rilievo [ ... ]. Il Segretario di Stato assicurò Don Bosco che il Papa desidera di parlargli di cose, che ora qui non si possono dire”[43]. Fra queste cose che non si potevano dire, è lecito congetturare che entrasse precipuamente la questione dell'exequatur negato dal Ministero al cardinale Parocchi per la sede arcivescovile di Bologna; ne parleremo nel capo quinto.
Quali fossero poi i motivi dell'improvvisa sostituzione di Don Bonetti al conte Cays nell'accompagnare Don Bosco, si arguisce facilmente da ciò che proprio in quei giorni era occorso al primo. Il 12 febbraio un decreto arcivescovile l'aveva sospeso fino a tempo indeterminato dall'udire le confessioni in tutta l'archidiocesi, con l'ordine che a Chieri nell'Oratorio femminile di Salita Teresa gli venisse sostituito un altro sacerdote. Assentandosi, egli evitava che la cosa destasse ammirazione, e in Roma avrebbe potuto provvedere meglio alla propria difesa. [67] Otto giorni dopo queste disposizioni dell'autorità ecclesiastica si ebbe nell'Oratorio una visita inaspettata, che diede luogo a molteplici commenti e congetture e di cui giunsero a Don Bosco minuti ragguagli poco prima e poco dopo il suo arrivo a Roma[44]. Il 20 febbraio si doveva recitare un dramma sacro si il martirio di San Pancrazio. La mattina un servo dell'Arcivescovo, presentatosi in porteria e informatosi dell'ora precisa, avvertì il portiere che Monsignore intendeva assistervi. Fu uno stupore universale. Monsignore entrò nell'Oratorio con ritardo, per la qual cosa non potè la banda fargli onore all'ingresso, dovendo intrattenere il pubblico, tutto composto di esterni; lo ricevettero però i Superiori della casa e lo accompagnarono nel teatrino. Un giovane dal proscenio gli lesse con molto garbo un indirizzo, che parve tornare gradito a Sua Eccellenza. Nel corso della rappresentazione l'interessamento dimostrato, i ripetuti applausi e vari congratulamenti rassicuravano chi temeva che l'argomento portato sulla scena non gli dovesse andare a genio. Nè i giovani nè i chierici si fecero vedere, perchè, come si costumava durante le recite per le persone di fuori, erano andati a passeggio; mancavano anche i Superiori principali perchè assenti dall'Oratorio. Un'altra comparsa simile egli fece pochi giorni dopo a Valsalice. Don Bosco mandò a dire soltanto che si cercasse di scoprire la ragione di un avvenimento così inatteso; ma, fuori d'induzioni più o meno plausibili, non fu dato di raccogliere nulla di positivo.
Dal I° al 28 marzo, per il tempo cioè trascorso da Don Bosco a Roma, nel Diario di Don Berto non troviamo quasi altro che una lunga e monotona rassegna di nomi propri: nomi di persone che Don Bosco visitò o da cui fu visitato o incontrato; nomi di luoghi, dov'egli andò[45]. Numerosi vi compaiono i Cardinali e i Prelati, con i quali Don Bosco ebbe [68] conferenze di ore e ore; col Segretario di Stato furono parecchi questi abboccamenti così prolungati. Il Vescovo monsignor Carlo Laurenzi, Uditore di Stia Santità, e monsignor Marzolini, segretario particolare, entrambi venuti in Vaticano da Perugia col nuovo Pontefice, anelavano di conoscere il Servo di Dio. Un giorno, avutolo a sè, conversarono insieme due ore e mezzo; dopo di che il primo fu udito esclamare pieno di ammirazione: - Oh che uomo! Merita proprio di essere conosciuto!
Dignitari ecclesiastici che non erano ancora cooperatori salesiani, conosciuta l'associazione nei loro colloqui con lui, chiedevano di esservi ascritti. Dovunque andava, il Beato ritornava ordinariamente con nuovi nomi da inserire nell'elenco della pia Unione.
In Vaticano la presenza di Don Bosco, già abbastanza nota, produceva tale impressione, che Svizzeri e gendarmi gli facevano il saluto come se fosse prelato. Una volta nel cortile di San Damaso il comandante Lambertini lo colmò di gentilezze, baciandogli e ribaciandogli la mano e chiamandosi fortunato di vederlo e di conoscerlo, e gli diede il suo nome per essere fatto cooperatore salesiano.
Quanti inviti poi a mensa! Il 17 marzo festeggiò San Patrizio nel seminario irlandese, dove il rettore monsignor Kirby al solito gli fece trovare un'eletta corona di commensali. Accoglienze cordialissime incontrò presso i Benedettini di San Paolo fuori le mura il 21, festa del loro Patriarca. Gl'invitati erano una quarantina, fra cui il cardinal Bartolini protettore di quei monaci, il cardinal Chigi, buon numero di patrizi romani e di signori forestieri, il celebre archeologo Giovanni Battista de' Rossi e altri: in simili convegni Don Bosco non si smarriva, ma sapeva affiatarsi molto bene con tutti. Dopo il banchetto, mentr'egli discorreva a parte col cardinale Bartolini, in un gruppo di gentiluomini che lo osservavano taluno intese che si diceva: - Che aspetto venerabile! E' proprio un santo. [69]
I signori Sigismondi lo circondarono, come sempre, di affettuose premure; anch'essi lo vollero più volte a mensa con i suoi due segretari. Ivi narrò che una mattina del mese di dicembre 187& aveva osservato un giovane vicino al confessionale alzarsi notevolmente da terra e un altro in mezzo ai compagni parimente sollevato più d'un metro. Il segretario ne dice i nomi; ma non sembra che li abbia uditi allora dalla bocca del Servo di Dio.
Dicevamo delle udienze avute dal cardinale Segretario di Stato. Era questi il cardinal Nina, chiamato a quell'alto ufficio da Leone XIII sette mesi avanti per la morte del cardinal Franchi: a Don Bosco premeva di rendergli omaggio. Per due giorni consecutivi non gli fu possibile avvicinarlo; la terza volta, che fu il 5 marzo, dovette aspettare assai, perchè vi era gran gente prima di lui, ma alla fine venne il suo momento. - Mi rincresce, gli disse Sua Eminenza, che Ella abbia dovuto aspettare tanto, perchè so che ha molto da fare. - Lo accolse e lo trattò con l'amorevolezza che gli aveva sempre dimostrata in ogni occasione. Quella mattina faceva gli onori dell'anticamera un segretario che quarantacinque anni dopo, rammentando il fatto, scrisse una bellissima pagina. “L'anticamera, dice, era già piena di visitatori, quando vidi comparire insieme due ecclesiastici per avere udienza. Furono, come gli altri, invitati a sedere per aspettare il loro turno. Io, che di tutti i visitatori scrutavo un po' la fisonomia, rimasi subito colpito dall'aria di singolare modestia, serenità e raccoglimento che spirava dai loro volti, specialmente da quello del più maturo d'età, che era per l'appunto Don Bosco. Durante la lunga attesa del turno di udienza lo tenni d'occhio e rimasi ammirato della calma con la quale, senza dare alcun segno di preoccupazione, ora si mostrava assorto in gravi pensieri, ora intento a leggere e tracciare note sopra un taccuino. Intanto, il tempo fissato per le udienze si avvicinava al termine. Per la frequenza dei visitatori in quella mattina si prevedeva che molti sarebbero [70] partiti senza averla, e tra questi Don Bosco, arrivato piuttosto in ritardo. Egli però, senza farmi premure per essere ammesso, aspettava sempre al suo posto, egualmente tranquillo. Mai avevo veduto in simili circostanze tanta tranquillità in visitatori in attesa, sul finire delle udienze: e conchiusi dentro di me, che Don Bosco doveva essere un uomo di Dio, un'anima santa, perchè la sua calma singolare o era frutto di un'inalterabile quiete e dolcezza, o gli era ispirata dall'essere certo dell'udienza per lume superiore.
“Compreso così di venerazione e di ammirazione, decisi di fargli avere ad ogni costo l'udienza. E chiuse che furono queste, nel partirsi di altri visitatori non ricevuti, dissi a Don Bosco di attendere, andai dal Cardinale e caldamente lo pregai a dargli udienza, riferendo la grande impressione che mi aveva fatto di uomo santo. Il Cardinale acconsentì. Don Bosco andò all'udienza, e vi si trattenne discretamente. Quando uscì, capii che aveva ricevuto un'accoglienza favorevole, e mi fermai a domandargli quelle notizie che mi poteva dare sul suo conto. E Don Bosco amabilmente mi parlò del suo Istituto, che non conoscevo affatto, e dei suoi Cooperatori, tra i quali mi accettò con molto piacere.
“Ricordo un altro particolare. Don Bosco, licenziatosi da me, nel traversare la prima sala d'ingresso, lasciò una mancia ai servitori del Cardinale, che accettarono ben volentieri. A mio avviso, volle così compensarli dell'averli fatti aspettare oltre l'ora di chiusura delle udienze, e anche questo particolare mi rivelò in lui l'uomo di Dio, che usava per gli altri le più delicate attenzioni”[46].
Alla sua abitazione in via Tor de' Specchi ecclesiastici e laici si disputavano i suoi scarsi ritagli di tempo libero. Anche nobili signori o vennero da lui o lo ricevettero onorevolmente nei loro palazzi. Così furono a visitarlo insieme il conte Carlo [71] Conestabile e il marchese Vitelleschi, dai quali seppe che a loro il Papa aveva parlato di lui con vero trasporto. Il principe Gabrielli, giunto nel tempo che Don Bosco era a tavola, non permise che fosse disturbato, ma lasciò un biglietto di visita, dicendo che sarebbe ripassato di lì a mezz'ora, come fece. In casa della duchessa Salviati, che desiderava parlargli e presso cui lo attendeva anche il marchese Patrizi, conferì per oltre a tre ore.
Il Beato avvicinò anche persone del Governo come Ministri e alti impiegati. Di un solo affare noi abbiamo notizia, da lui trattato in quegli ambienti. Pendeva da cinque mesi sull'Oratorio una minaccia diretta a colpire quelle scuole ginnasiali. Fu veramente una grossa questione, di cui si svolgeva allora la fase preliminare. Noi ne tratteremo diffusamente in due distinti capi.
In sì molteplici e travagliose cure non perdeva di vista i bisogni dell'Oratorio, ma si studiava di raggranellare un po' di quattrini da mandare a Don Rua, che chiedeva, chiedeva... Gl'inviò una volta 1250 lire, un'altra volta 1900, una terza 600. Un giorno disse a Don Bonetti[47]: “Domani o posdomani arriverà notizia che piovve denaro nelle scarselle di Don Rua”. Avveratosi il pronostico, Don Bonetti gli domandò come avesse fatto a saperlo. Ed egli: “Ieri quando te lo dissi, mi parve di vedere mettersi del vino bianco nel bicchiere di Don Rua ed ho supposto che avesse fatto festa per la contentezza del soccorso ricevuto”. Pare si trattasse di cinquemila lire, piovute all'Oratorio non sappiamo donde.
Sempre per sopperire alle urgenti e ingenti necessità dell'Oratorio, il Beato distribuiva a larga mano in Roma biglietti della lotteria, propagandone la notizia con questa circolare.
Benemeriti Signori Cooperatori Salesiani,
e Signore Cooperatrici di Roma,
I giovanetti raccolti nell'Ospizio di S. Francesco di Sales in Torino stretti da grave bisogno si raccomandano ai Benemeriti Cooperatori [72] e Cooperatrici di questa Alma Città. Una lotteria fu iniziata in loro favore, ed a nome dei medesimi mi fo ardito di raccomandare alla….. biglietti….. n….. pregandola di volerli gradire o distribuire a persone di sua particolare conoscenza. Se però in fine del corrente mese rimanessero biglietti che Ella non giudicasse di ritenere può liberamente rimandarli.
E’ vero che la beneficenza è destinata ad un Istituto alquanto lontano da Roma; ma p osso assicurare che sarà a totale benefizio di parecchi giovanetti Romani colà ricoverati, e di altri che sono in condizioni di essere quanto prima mandati nel medesimo Istituto.
I fanciulli beneficati con l'umile scrivente pregano Dio che La conservi in buona salute, mentre con profonda gratitudine ho l'onore di potermi professare
A Roma l'associazione dei Cooperatori e delle Cooperatrici, già numerosa, era cresciuta ancora notevolmente dopo la conferenza del 1878 e aumentavano di giorno in giorno, perchè Don Bosco ne pescava un po' da pertutto. Il 17 marzo[48] nella chiesa delle nobili Oblate di Tor de' Specchi tenne la conferenza prescritta per la festa di san Francesco di Sales. Il cardinal Vicario Monaco La Valletta presiedette all'adunanza, che fu cospicua per numero e qualità d'intervenuti. Il Servo di Dio espose quanto la Congregazione Salesiana con l'aiuto di Dio e col sussidio dei Cooperatori aveva fatto nel corso dell'anno precedente a vantaggio in special modo dei giovanetti poveri e abbandonati nell'Italia, nella Francia e nell'America. Dicendo degl'Istituti d'Italia, rilevò quelli aperti in luoghi minacciati dall'eresia protestante, massime le scuole diurne e serali attivate alla Spezia mercè la liberalità di Pio IX e la carità del suo Successore: circa duecento ragazzi erano ivi sottratti all'influsso dei vicini eretici. Rispose quindi all'interrogazione rivoltagli da molti: perchè non fondare anche a Roma una scuola di arti e mestieri? A giovanetti [73] di Roma e dintorni si provvedeva, disse, inviandoli alla casa di Torino o in altri ospizi; contarsene già in tutto un centinaio; desiderare anch'egli quant'altri mai, di fare qualche cosa anche in Roma e sperare di riuscirvi con l'aiuto di Dio e dei Cooperatori. Prese quindi la parola il Cardinal Vicario confermando quanto aveva detto Don Bosco sul bisogno di stabilire una casa in Roma per poveri ragazzi. Descrisse poi le rovine apportate dagli ultimi avvenimenti alle benefiche istituzioni romane; spronò i Cooperatori a favorire opere nuove, richieste imperiosamente da nuove necessità e in particolare dal dovere di reagire contro l'azione dei protestanti, i quali nel centro del Cattolicismo, come lamentava già di certi stranieri il Papa san Silvestro, cercavano con ogni mezzo di sollevare i Corpi per insozzare le anime.
Per l'apertura di una casa in Roma qualche passo fu tentato anche quella volta. Il Cardinal Vicario ne era desiderosissimo, Ricevendo il Servo di Dio e facendolo sedere alla stia destra, gli aveva detto piacevolmente: - Don Bosco, voglio che si segga qui alla mia destra. Ciò ha un gran significato, sa? Significa che voglio che lei sia sempre la mia destra. - Il cardinal Oreglia pure incalzava, osservando che con una casa in Roma i Salesiani sarebbero più rispettati. Monsignor Jacobini, segretario dei Brevi, e il cavalier Silenzi, presidente del circolo di San Pietro, gli proposero un locale delle monache agostiniane ai santi Quattro Coronati. Don Bosco visitò l'edifizio, tutto in ottimo stato. Vi si sarebbero potuti albergare cinquecento artigiani, mediante un affitto annuo di lire tremila. Per intendersi comodamente sul come superare le difficoltà burocratiche, accettò volentieri un invito a pranzo dal cavalier Carosio, piemontese, consigliere della Prefettura. Questo medesimo signore gli aveva già promesso tutto il suo appoggio per conseguire l'intento; anzi l'aveva egli stesso presentato al Prefetto per una prima apertura che spianasse la via alle ulteriori trattative. S'intesero dunque per bene; ma all'atto pratico non si cavò un ragno dal buco. [74] Abbiamo detto altrove il perchè[49]. Se per altro alle amplissime profferte verbali avessero tenuto dietro sicure malleverie finanziarie, Don Bosco non sarebbe partito da Roma senza incamminare qualche cosa[50].
Un'altra grandiosa proposta gli fu fatta: il principe Gabrielli gli offerse nientemeno che l'Ospizio di san Michele a Ripa, della qual opera egli era presidente. Questo immenso Istituto di beneficenza, creato dai Papi e incamerato dal nuovo Governo, andava di male in peggio. La moralità vi lasciava troppo a desiderare[51] e i redditi finivano per due terzi nelle tasche di certi amministratori. Don Bosco, al solito, accettò in massima, ponendo però in primis et ante omnia tre condizioni preliminari: piena libertà in tutto che concernesse la disciplina interna o che a quella conducesse; sgombero totale degli estranei, essendosi annidate là entro numerose famiglie; mano libera sui due terzi delle rendite. Il Principe, elle era animato da ottimi intendimenti, disse, che avrebbe radunato subito la Commissione, e che, se si fosse deciso qualche cosa, gli avrebbe portato la risposta. Don Bosco gli fece spedire da Torino una copia del Regolamento interno dell'Oratorio. Era già trascorso un mese, e i signori dell'amministrazione discutevano ancora. Si poteva ben prevedere che la buona [75] volontà del Presidente non sarebbe riuscita a spuntarla; fatto è che risposta non venne.
Intanto Don Bosco lavorava a ultimare una relazione sullo stato morale e materiale della Società Salesiana da presentarsi alla Santa Sede; ma ora non ne diciamo nulla, perchè ne dovremo parlare a miglior agio in appresso.
Non pago di questa relazione generale informativa alla Santa Sede, egli ne presentò due particolari al Cardinale Segretario di Stato col fine dichiarato di averne sussidi. Nella prima enumerava gli sforzi messi in opera dai Salesiani specialmente a Torino, alla Spezia e a Vallecrosia per mandare a vuoto le mene dei protestanti; ma ad assicurare e ad accrescere il bene ivi cominciato occorrevano validi mezzi materiali e morali, tanto più che in tutt'e tre i luoghi si dovevano fabbricare chiese e ospizi. La propaganda protestante dava allora gran travaglio ai Vescovi italiani. La libertà concessa dalle leggi aveva scatenato sull'Italia un'invasione di emissari evangelici che non conoscevano più ritegno alcuno. Non per nulla Don Bosco fra le opere di carità assegnate nelle Regole alla Società Salesiana aveva messo l'opporre un argine all'eresia; egli vedeva purtroppo in quanti modi essa tentava d'insinuarsi fra i rozzi e gl'ignoranti. Nella città dei Papi attraverso la breccia di Porta Pia l'onda protestantica irruppe impetuosa e dilagò. Per poco i protestanti non si piantarono nella chiesa degli Spagnuoli a piazza Navona; fortunatamente si frapposero in tempo i Missionari belgi del Sacro Cuore. “Questi nemici della fede di Gesù Cristo, disse il Cardinal Vicario nella conferenza ai Cooperatori Salesiani, non solo hanno qui edificati templi e aperte scuole alla menzogna, ma fabbricati ospizi di carità, e adoprano ogni arte per fare proseliti specialmente tra il basso popolo e tra la inesperta e povera gioventù”. Il far conoscere l'apostolato dai Salesiani già compiuto in questo campo serviva a confermare l'opportunità di chiamarli a spiegare lo stesso zelo anche a Roma. [76] Nella seconda relazione Don Bosco esponeva i bisogni delle Missioni d'America, additando l'opera di Maria Ausiliatrice stabilita a Sampierdarena come una sorgente copiosa di vocazioni missionarie. Qui pure chiedeva sussidi in arredi sacri, in libri e in denaro[52]. Delle Missioni egli aveva già. trattato nella prima udienza col cardinal Nina, che gli aveva detto: - Il Santo Padre sa già che Ella è in Roma, e domani mattina, andando all'udienza, gli esporrò quanto Ella mi ha detto. Intanto vada a nome mio dal cardinale Simeoni, prefetto di Propaganda, e gli dica che ne parli con me e si studierà il modo di aiuto da somministrare a Don Bosco per le Missioni. - Dal Prefetto di Propaganda Don Bosco fu ricevuto la sera dell'8 marzo e trattenuto più di un'ora e mezza sull'argomento; fu poi due volte da monsignor Zitelli, minutante della stessa Congregazione: ma ignoriamo l'esito di queste conferenze. Sempre per il medesimo oggetto scrisse una supplica al Santo Padre, al quale, rappresentando l'Oratorio di Torino e l'Ospizio di Sampierdarena come due seminari per le Missioni estere, rivolgeva la preghiera che volesse dire una parola in suo favore alle direzioni delle Opere della Propagazione della Fede e della Santa Infanzia.
Al Santo Padre fece pervenire ancora tre suppliche per favori spirituali. Nella prima chiedeva che i sacerdoti salesiani approvati in qualche diocesi per le confessioni potessero dai Direttori delle case essere deputati a confessare gli allievi e altri ivi abitanti, e che i medesimi sacerdoti, viaggiando per terra o per mare nei luoghi di Missione avessero facoltà di ascoltare liberamente le confessioni dei fedeli. Nella seconda implorava che le indulgenze e grazie concesse il 9 maggio 1876 da Pio IX ai Cooperatori salesiani venissero estese a quanti vivevano nelle case salesiane. Con la terza risollevava la questione dei privilegi, supplicando per la rinnovazione dei due accordatigli da Pio IX il 21 aprile 1876, [77] l'anzidetto cioè delle confessioni e l'altro delle ordinazioni extra tempora. Lasciò quest'ultima supplica nelle mani dell'avvocato Leonori, quando partì da Roma,
Scrisse inoltre al Papa per ottenere onorificenze a quattro insigni benefattori, verso i quali sentiva il bisogno di mostrare pubblicamente la propria gratitudine: la commenda di san Gregorio Magno al signor Giulio Rostand, un grado prelatizio all'abate Guiol, il cavalierato di Spada e Cappa al barone Amato Héraud e una croce di cavaliere al signor Benedetto Pelà dì Este[53].
Furono concessi questi ultimi favori, meno il secondo. Quanto a indulgenze, un Rescritto del 22 aprile accordava: I° A tutti coloro che frequentassero gli oratori festivi e le case della Congregazione, indulgenza plenaria in articolo di morte, nel giorno del santo Natale, dell'Immacolata, di san Giuseppe, dei santi Apostoli Pietro e Paolo, di san Francesco di Sales, dì Pasqua. - 2° La stessa indulgenza plenaria a chi intervenisse almeno alla metà delle prediche degli esercizi spirituali, che si dettassero nelle nostre chiese od oratori privati. - 3° A coloro fra essi che recitassero la giaculatoria Maria, Auxilium Christianorum, ora pro nobis, trecento giorni di remissione delle penitenze, e cento giorni ogni volta che attendessero alla meditazione[54]. Quale esito sortissero tutte le altre suppliche, non ci consta. Conviene però tener ognora presente che Don Bosco mediante simili atti non mirava esclusivamente e nemmeno prevalentemente a conseguire favori o benefizi: egli se ne valeva soprattutto come dei mezzi i più semplici e naturali per richiamar l'attenzione del Papa e delle Congregazioni romane sulle sue opere, il che giovava al consolidamento della Società e a sventare erronee informazioni. Così appunto si spiega quell'introdurre nelle domande larghi ragguagli, che a prima vista sembrerebbero esorbitare dallo scopo inteso, come ognuno può facilmente [78] rendersi conto leggendo i documenti pubblicati in fondo al volume.
Il Beato fu una volta sola alla presenza del Papa. Non potè vederlo fino al 20 marzo, perchè le udienze erano sospese da due settimane; di circa cinquecento domande, quattro appena si diceva essere state esaudite[55]. Egli pure aveva chiesto fili dall'8 marzo, scrivendo a monsignor Macchi; ma inutilmente. Premendogli però la cosa, anche perchè pensava di andare a Magliano e poi partire, il giorno 20 si raccomandò a monsignor Boccali, cameriere segreto partecipante, perchè gli ottenesse un momento di udienza. Questo Prelato, perugino e confidente del Papa, conosceva Don Bosco dall'anno avanti[56]. N'ebbe risposta pressochè immediata di trovarsi la sera stessa nell'anticamera pontificia alle tre e un quarto. Così fece. Il Papa uscì all'ora precisa: era solo e in abito da passeggio, cioè con mantello e cappello rosso. Don Bosco che aspettava nella sala del trono, s'accorse che il Santo Padre lo udiva di buon grado. Gli chiese a Cardinale Protettore il Segretario di Stato, e il Papa gli rispose esser già cosa fatta; gli parlò delle Missioni e gli domandò benedizioni. Parlò anche di altre cose; ma questo soltanto seppero Don Bonetti e Don Berto, che attendevano a distanza. Adagio adagio Don Bosco accompagnò il Santo Padre fino alla lettiga, che stava pronta per portarlo alla passeggiata nei giardini. Il ricevimento tutto familiare e la non guari consueta familiarità di Leone XIII nel modo di trattare con lui, gli confermarono la verità di quanto aveva udito da vari Prelati sulle buone disposizioni del Papa a suo riguardo. Che se non ebbe in altra forma udienza privata, molte e lunghe conferenze ebbe col Segretario di Stato e con altri Capi di Congregazioni, per quali mai affari non si seppe allora e più non si saprà, almeno interamente, in avvenire.
Sei giorni dopo questa udienza con biglietto della Segreteria [79] di Stato, recante la firma di monsignor Serafino Cretoni, si notificava ufficialmente a Don Bosco la nomina del Protettore, in questi onorifici termini: “La Santità di Nostro Signore, volendo che la Congregazione Salesiana, la quale va, acquistando ogni giorno nuovi titoli alla speciale benevolenza della S. Sede per le opere dì carità e di fede impiantate -nelle varie parti del mondo, abbia uno speciale Protettore, si è benignamente degnata di conferire quest'officio al Sig. Cardinal Lorenzo Nina Suo Segretario di Stato”. Al tempo di Pio IX faceva da Protettore il cardinal Oreglia, ma solo a titolo officioso, avendo quel Pontefice riserbata a sè la protezione della Società, bisognosa di particolare e paterna assistenza ne' suoi primordi; ora invece si aveva il Protettore vero e proprio al pari delle altre Congregazioni religiose. Nè la scelta poteva cadere su Prelato più benevolo; chè, avendo conosciuto Don Bosco prima del Cardinalato, nutriva per lui altissima stima e gli portava sincera affezione. Pregato da Don Bosco a voler essere il Protettore dei Salesiani, vi si era mostrato dispostissimo, dicendogli: - Non potrei offrirmi per questo al Santo Padre; ma se il Santo Padre me lo dice, accetto subito. - Diede prova eloquente del suo buon volere quando il Beato gli propose che, avendo Sua Eminenza tanto da fare, gli assegnasse una persona con cui trattare la faccenda delle Missioni. Rispose il Cardinale: - No, no; voglio che la trattiamo noi direttamente; passi domani alle quattro e mezzo, e ci parleremo meglio. E’ un miracolo il vedere una Congregazione venir sii in questi tempi sulle rovine altrui, dove tutto si vorrebbe distruggere. - Il Beato sperimentò soventi volte quanto gli fosse giovevole una sì affettuosa protezione[57]. Ritornato a Torino e comunicata al Capitolo [80] Superiore la designazione pontificia del Protettore, inviò al Cardinale in nome di tutta la Congregazione una. lettera di ringraziamento, perchè egli si fosse degnato di accettare quell'ufficio, di cordialissimo omaggio e di preghiera per le Missioni e forse anche per i privilegi; tanto ci è dato argomentare dalla seguente risposta di Sua Eminenza.
Oltremodo gradite tornano al mio cuore le obbliganti maniere, colle quali ella a nome della sua congregazione esprime sentimenti di tanta amorevolezza e fiducia a mio riguardo. Sono poi lietissimo per l'impegno che hanno d'impetrarmi continuamente colle loro preghiere da Dio quel lumi e quegli aiuti, di cui abbisogno fra le mie gravi sollecitudini e l'assicuro che in modo migliore di questo non potrebbero meritarsi la mia gratitudine.
Le intenzioni che V. S. mi palesa per il consolidamento e l'incremento del suo istituto, pienamente confermo e non dubito che il suo zelo e la sua instancabile operosità col soccorso di Dio riuscirà a metterle prosperamente in effetto. In quanto a me, desideroso di concorrere a seconda di mie forze in questa opera del Signore, attendo da lei le occasioni di coadiuvarla nei suoi degni propositi. Bramerei frattanto che mi facesse distintamente conoscere di quali mezzi avrei a servirmi in ordine alla prima cosa da lei accennata delle missioni estere e dei nuovi rapporti a cui intende di legarle.
Non mancai di compiere subito presso il Santo Padre la parte di che ella mi richiedeva e sono lieto di assicurarle che fu accolta da S. S. col più vivo gradimento.
Con i sensi quindi di ogni stima e particolare considerazione ho il piacere di proferirmi di tutto cuore
Non abbiamo ancora detto nulla della salute di Don Bosco. Questa sarebbe stata abbastanza buona, se non era degli occhi; intorno a ciò niente di meglio che piluccare nella corrispondenza [81] de' suoi due segretari con Don Rua. Il 2 marzo Don Bonetti gli scriveva: “Siamo giunti ieri felicemente. D. Bosco sta bere, e il suo occhio non peggiora. Se stesse così sino al 1999, sarebbe già una bella grazia: tocca a voi santarelli dell'Oratorio ottenere da Maria Ausiliatrice questo favore”. E Don Berto il 7: “Gli occhi del nostro carissimo Padre lasciano sempre a desiderare. Pregate e fate pregare”. Il medesimo due giorni dopo: “La sua vista ieri e oggi va meglio. Fece qualche passeggiata e bastò. Di qui si vede che il suo migliore rimedio si è la disoccupazione, la quale non si può avere”. Sul medesimo giorno leggiamo nel Diario: “Addì 9 domenica festa di S. Francesca. Messa dalle Oblate di Tor de' Specchi. Vi vennero anche i cardinali Bilio e D'Avanzo. Il resto della giornata si passò in casa. Verso sera uscimmo e giunti alla salita del Campidoglio suonava l'Ave Maria[58]. Sereno era il Cielo, e noi fatta una passeggiata intorno al Campidoglio, ritornammo a casa”. Questa casa abitata da Don Bosco[59] è stata recentemente demolita. Sorgeva proprio di fronte al monastero delle Oblate, presso la pendice del Campidoglio e poco in qua dal punto, donde sporge la prominenza della. rupe Tarpea. Don Bonetti il io marzo: “Don Bosco sta abbastanza bene: sono due sere che i suoi occhi vanno meglio. Bisogna dire ai giovani che facciano bene questa novena di san Giuseppe, perchè doni e conservi la vista corporale al nostro carissimo D. Bosco, ed apra spiritualmente gli occhi ad alcuni disgraziati... Il povero D. Bosco prega per loro, e li raccomanda anche tanto alle preghiere dei loro buoni compagni. Si domanderà se questi sieno tra gli, studenti o tra gli artigiani; Don Bosco ha veduto che ve ne sono alcuni di qua e alcuni di là”. Finalmente Don Berto il 24: “Il Sig. Don Bosco sta abbastanza bene, ma gli occhi non migliorano. Oportet orare et semper orare. Lo dica ai [82] giovani”. Queste condizioni della sua vista affliggevano i suoi amici. L'Osservatore Romano del 18 marzo traduceva un lungo articolo della Semaine Liturgique su Don Bosco, nel quale si leggevano queste parole: “Il maraviglioso Don Bosco, stato sempre di salute cagionevole, è ora minacciato di perdere la vista; ormai un occhio è spento, e l'altro si va annebbiando. Il buon sacerdote ripete: - Sento che non tarderò ad essere chiamato per rendere i miei conti a Dio; vorrei dare l'ultima mano alla Congregazione Salesiana. - E intanto lavora con lo stesso ardore di vent'anni or sono”.
A Magliano, se non proprio necessario, era almeno opportuno che facesse una visita: certi screzi, nati da malintesi intorno al collegio, avevano causato fastidi a Don Daghero. Questi venne a Roma; ci vennero anche i tre deputati del seminario. Una conferenza col cardinal Bilio, alla quale partecipò Don Bosco, diradò le ombre, la presenza del Beato sul posto avrebbe accomodato tutto. Partito con Don Bonetti e Don Berto nel pomeriggio del 24, giunse colà a un'ora di notte. Alla stazione di Borghetto lo accolsero i chierici del seminario e i convittori del collegio, una quarantina fra tutti. Vi si trovò pure Don Guidazio, venuto appositamente da Montefiascone. Dedicato un giorno agli amici esterni, passò l'intero 26 in casa, per dare ai confratelli la comodità di parlargli; all'indomani, lasciato ivi Don Bonetti, tornò con Don Berto a Roma. Qui null'altro gli restava da fare che sbrigar in fretta le ultime faccende e preparare le valige.
Ad Albano questa volta non andò, ma vi supplì come non si poteva meglio. Ce lo narra Don Piccollo in una sua memoria, da cui stralciamo il racconto vivo dell'episodio. “In quell'ultimo anno della mia dimora ad Ariccia i confratelli di Albano e noi della piccola casa vicina abbiamo avuto una bella sorpresa ed una grandissima consolazione. D. Monateri ricevette una lettera di Don Bosco che gli annunziava trovarsi egli a Roma e che al più presto voleva i suoi figli delle due case e che andassimo quindi a trovarlo il più presto [83] possibile. Chi può immaginare la nostra gioia? Al primo giorno libero, su diversi carrozzoni ci siamo messi per alla volta dell'eterna città. Regnava in tutti noi una contentezza insolita e il nostro cuore batteva forte, quando, giunti alla modesta casetta in via Tor de' Specchi, eravamo vicini al tanto sospirato istante di rivedere il Padre amatissimo e baciargli la destra. Entrati nella stanza dov'egli ci attendeva, lo abbiamo scorto sorridente e quasi ringiovanito per il piacere che provava nel rivederci [ ... ]. La giornata si passò interamente con lui; sentì tutti, diede a tutti quei consigli che credeva opportuni e durante il modesto pranzo consumato con lui avevamo l'impressione di trovarci a far parte di una scena celestiale. Sorridente rivolgeva la parola or a questo or a quello dei suoi commensali, ed io mai altra volta l'ho veduto così allegro. Dopo pranzo incaricò Don Giovanni Rinaldi di portare un regalo al Cardinale Nina, allora nostro Protettore, ed io fui scelto per compagno. Si trattava di un regalo ben modesto: una bottiglia di vino di ottant'anni. Il Cardinale l'accettò con segni di molto gradimento, perchè col dono materiale scorgeva il cuore di Don Bosco e incaricò il messo di ringraziarlo. A sera Don Bosco rinnovò i suoi consigli, aggiunse i suoi incoraggiamenti, ci benedisse e noi perdemmo l'allegrezza di cui eravamo stati inondati tutta la giornata: dovevamo lasciare il Padre e questo distacco era da noi ben sentito e bisogna pur dire che anche il Beato nostro Padre benedicendoci sentiva gran pena a separarsi da noi”[60]. [84]
Tre lettere solamente abbiamo potuto rinvenire con la data dì Roma e la firma di Don Bosco; furono scritte tutte sotto dettato dai segretari a causa della vista. La prima è all'abate Guiol. Si apprende da questa che egli a Roma fece allora i primi passi per ottenere la facoltà di aprire un noviziato a Marsiglia. Sembra appartenere a quest'anno una lettera, composta in francese probabilmente dal conte Cays e diretta al Superiore Generale della Gran Certosa di Grenoble, per 'pregarlo di annoverate il futuro noviziato marsigliese fra le opere sussidiate dalla sua carità. La copia conservataci non è datata[61]. Ecco quella per il Curato marsigliese.
Ho ricevuto con vero piacere la cara sua lettera del 26 febbraio, che mi racchiudeva le testimoniali a, Monsig. Vescovo di Marsiglia riguardo al noviziato. Va benissimo. Presso alla Santa Sede non evvi, difficoltà. Questo è già un gran passo. Dio ci aiuterà pel resto. Per la piccola casa accanto al nostro Oratorio credo possiamo fare così: l'acquisto in capo alla Società Beaujour, il Sig. Abbé Constant ritarderà le sue esazioni, ma a nostro carico, di modo che, se lo giudica bene l'amministrazione della Società, pagherà i 13 mila franchi richiesti per questo contratto, e io a suo tempo le riverserò a chi di dovere.
Per sua norma alla metà del corrente marzo partirà il Sac. Cerruti Direttore del Collegio di Alassio alla volta della Francia in qualità d'Ispettore e procuratore generale. Egli visiterà tutte le nostre case e probabilmente con D. Ronchail prenderà tutte quelle deliberazioni che saranno a proposito.
Lodo ed approvo la pratica degli impresarii per l'ingrandimento del nostro Orfanotrofio. [85] Ringrazio Lei e gli altri che si occuparono della Notice sur les Salésiens. M farebbe assai piacere se a suo tempo me ne manderà alcune copie, tra cui due da presentare al Santo Padre a nome di Lei.
Io vedo ognor più la mano del Signore nella nostra fondazione di Marsiglia. Ci vuole un po' di pazienza e di sacrifizio nel suo principio. Ciò fa la Società Beaujour; io non rifiuterò di fare quanto posso, ma la quantità di case (21) aperte in questi mesi mi hanno fatto spendere attivo, passivo e neutro. Ciò nulla di meno ho in vendita una tenuta, che mi darà disponibili alcune centinaia di mila franchi, e così sarò in grado di regolarizzare i miei affari. Quanto però io mi sento portato alle imprese concertate dans la paroisse de Saint Joseph, altrettanto mi sento restio per l'Istituto Roussel, la cui cessione non è ancora assicurata.
Non ho ancora veduto il Santo Padre, perchè prima debbo preparare diverse cose, delle quali scriverò tosto a Lei dopo l'udienza.
Amato Sig. Curato, mi continui la sua affezione. Tutti i Salesiani pregheranno per Lei, per i Signori della Società Beaujour, e per tutti quelli che ci danno mano a promuovere la maggior gloria di Dio. Scriverò quanto prima a Monsig. Vescovo di Marsiglia.
La grazia di X. S. Gesù Cristo sia sempre con noi, e preghi per me che le sarò sempre nel Signore
Un'altra lettera va al cavalier Carlo Fava, vecchio amico e benefattore del Beato.
Rispettabile e carissimo sig. Cavaliere,
Da questa alma città godo assai di poterla ringraziare degli atti di benevolenza che in molte circostanze usò alla nostra casa, o meglio ai nostri poveri ragazzi.
Noi preghiamo tutti i giorni per la preziosa conservazione dì sua sanità, per quella della Signora di Lei consorte e pel genitore di Lei.
Prima che termini la settimana io spero di potermi presentare al S. Padre e chiedere soma di Lei e sopra tutte le persone raccomandate, nominatamente sopra la sua bambina, una speciale benedizione.
Dio ci benedica tutti e ci conservi nella sua santa grazia, mentre con gratitudine mi professo
Roma. 19 Marzo 1879] Obbl.mo servitore ed amico
L'ultima lettera contiene ringraziamenti, raccomandazioni e consigli a Don Marenco, per lui e per i suoi giovani di Lucca.
Ho ricevuta la tua lettera e quella de' tuoi allievi e ne provai vera consolazione. Vi ringrazio tutti di cuore dei figliali affetti che mi dimostrate. Assicura i tuoi allievi e miei cari figli, che io mi darò massima cura per corrispondere all'amore che hanno per me e pregherò per te e per loro.
Voglio domandare una benedizione speciale per voi al S. Padre.
Ma voi, amati figli, adoperatevi anche d'aiutarmi colla vostra buona condotta. Dio vi dà tempo e comodità di studiare e praticare la religione. Sappiatene approfittare.
Se poi volete darmi un grande segno di affezione, pregate assai per me e fate una volta la santa comunione secondo la mia intenzione. Fra breve a Dio piacendo ci rivedremo.
La grazia di N. S. G. C. sia sempre con noi. Credetemi sempre nei Cuori di Gesù e di Maria
P. S. Tu vero in omnibus labora, opus fac evangelistae, ministerium tuum viriliter imple et Dominus dabit tibi voluntatem et potentiam, sic transeundi per bona temporalia ut non amittas aeterna[62].
Dopo le udienze pontificie il Beato soleva far preparare dal segretario e firmare circolari manoscritte, con cui partecipava a certi benefattori una speciale benedizione del Santo Padre. Non occorreva che egli al Papa facesse espressamente il nome di tutti; si sa bene infatti che il Papa estende la sua benedizione a tutti coloro, per i quali si ha in animo di chiederla. Così fece anche questa volta. Ci sono in archivio risposte che attestano il fervido gradimento con cui erano accolte tali comunicazioni.
NELLA lunga e odiosa guerra mossa alle scuole dell'Oratorio le autorità Scolastiche agirono come strumenti più o meno consapevoli delle sètte, che, col passaggio del potere governativo nelle mani della sinistra parlamentare, moltiplicarono le congiure contro il fiorire ognor crescente delle scuole private, aperte e dirette da ecclesiastici o religiosi. Su tale argomento avremo forse occasione di ritornare più volte; qui esporremo solo i fatti che si svolsero ai danni della nostra Casa Madre. Ora pertanto, sospendendo il racconto del ritorno di Don Bosco a Torino, ci soffermeremo a narrare le prime avvisaglie contro il ginnasio di Valdocco e le difese opposte dal Servo di Dio durante la sua dimora a Roma.
Il primo documento, venuto come ad aprire il fuoco, data dal io ottobre 1878. In esso il Consiglio scolastico provinciale intimava a Don Bosco di non affidare le classi se non ad insegnanti forniti di regolari diplomi che li abilitassero all'insegnamento, comminando in caso contrario misure di rigore, non esclusa la chiusura delle scuole; si esigeva pertanto che fosse inviato al regio Provveditore agli studi l'elenco dei professori per l'anno scolastico 1878-79 con la indicazione dei rispettivi titoli legali. [88] Don Bosco a tale ingiunzione non diede risposta; il motivo si è che tentò invece di ottenere dal Ministero una tolleranza di tre anni, durante i quali potessero nelle scuole dell'Oratorio insegnare anche professori senza diploma. In questo senso indirizzò la seguente supplica all'onorevole Coppino, Ministro della Pubblica Istruzione.
La grande sollecitudine con cui la E. V. promuove e sostiene gli Istituti che hanno per fine l'istruzione e l'educazione dei figli del povero popolo, mi dà animo a supplicarla per un segnalatissimo favore appoggiato unicamente alla nota di Lei clemenza ed autorità. Questo favore riguarda l'Istituto detto Oratorio di S. Francesco di Sales eretto in Torino. Qui sono raccolti più centinaia di poveri fanciulli indirizzati dalle varie autorità dello Stato i quali con un'arte o mestiere, oppure colla scienza letteraria si preparano a potersi guadagnare a suo tempo il pane della vita. Questa istituzione non ha alcun reddito fisso e si sostiene di sola Provvidenza. Perciò l'autorità scolastica ci usò sempre benevolenza; e considerando queste classi come insegnamento paterno e caritatevole, siccome è di fatto, non pose mai difficoltà sui titoli legali degli insegnanti. Ora però il Sig. Regio Provveditore agli Studi mi ha prevenuto che vuole tutti i professori muniti delle rispettive legali patenti.
Il che sarebbe un vero disastro per questi poveretti, perciocchè numero notabile di costoro che sono di svegliato ingegno si troverebbero nella impossibilità di farsi una posizione onorata nel commercio, nella milizia, e nell'insegnamento.
In questo grave bisogno ricorro supplichevole alla E. V. affinchè in via di grazia conceda che gli attuali Maestri riconosciuti idonei mercè più anni d'insegnamento, siano autorizzati almeno per un triennio a continuare il loro gratuito uffizio nella rispettiva classe. In tale spazio di tempo i medesimi insegnanti raggiungeranno l'età prescritta pei pubblici esami e potranno munirsi dei prescritto diploma di abilitazione.
A nome dei poveri giovani di questo Istituto dimando questo segnalato favore, mentre prego Dio che renda felici i giorni della E. V.
Con profonda gratitudine ho l'alto onore di professarmi di V. E.
Un autografo di Don Bosco, la cui copia, scritta e firmata da Don Durando, fu unita alla supplica, contiene questa dichiarazione: “Il sottoscritto nella sua qualità di direttore [89] degli studi dell'Ospizio detto Oratorio di S. Francesco di Sales, dichiara di tutto buon grado e con piena conoscenza di cosa che i signori insegnanti (seguono i nomi e le classi) hanno prestato insegnamento nelle rispettive classi con zelo e con notabile profitto della scolaresca loro affidata, dando non dubbie prove dì capacità e di attitudine nei vari rami d'insegnamento. Attesa poi la loro abnegazione nell'insegnare gratuitamente ai poveri fanciulli di questo istituto, unisce la stia preghiera a S. E. il Sig. Ministro della pubblica istruzione, affinchè in via di grazia si degni di autorizzarli a continuare nella rispettiva classe quell'insegnamento che prestano da più anni, ecc. D. DURANDO”.
Per non lasciare nulla d'intentato che credesse utile a scongiurare il pericolo, invocò pure i buoni uffizi del suo amico israelita, segretario generale al Ministero degli Esteri, il commendator Malvano.
Onorevolissimo sig. Commendatore,
Mi trovo veramente in bisogno del suo appoggio. Ho innoltrata una domanda al Ministero della pubblica Istruzione, perchè le scuole di questo ospizio di poveri fanciulli siano considerate come scuole di carità rette da chi la le veci del genitore, perciò senza che i professori siano obbligati ad avere pubblica patente. Ciò devesi trattare forse lunedì o martedì. Si tratterebbe che gli attuali insegnanti siano autorizzati provvisoriamente, oppure ammessi a subire i prescritti esami, sebbene manchino dell'età prescritta da un ministeriale decreto.
Una sua parola in mio favore mi tornerà vantaggiosa assai; specialmente pel nuovo ministro che forse non conosce come questa casa è vero orfanotrofio e come la maggior parte degli allievi sono qui indirizzati dalle pubbliche autorità.
Mi confido nella sua bontà e noi avremo un motivo di più alla gratitudine verso di Lei, o benemerito Sig. Commendatore.
Voglia gradire gli ossequi del Prof. Pechenino e del Prof. Durando, ambedue qui in mia camera che desiderano di essere ricordati alla sua benevolenza.
Dio la conservi in buona salute e in vita felice e mi creda con verace riconoscenza.
Dal Ministero fu incaricato il Prefetto di significare a Don Bosco che, come già altra volta, così allora con rincrescimento non si poteva fare eccezione alla legge comune e che si confermava in tutto e per tutto la deliberazione del Consiglio scolastico provinciale. Nell'adempiere l'incarico il Prefetto per conto suo pregava Don Bosco di mandargli sollecitamente l'elenco e i diplomi degli insegnanti; essere volontà del Ministro che, qualora Don Bosco non ottemperasse all'invito, si provvedesse a norma di legge. Don Bosco il 15 novembre mandò i nomi di Don Rua, Don Durando, Don Bonetti, Don Bertello e Don Pechenino. All'elenco dei professori titolari volle aggiungere anche la nota dei maestri supplenti in ciascuna classe, non forniti di alcun diploma. Uomo delle imprese ardite, pare che tentasse con questo di ottenere un'approvazione implicita a favore dei non patentati. Egli intese sempre che l'Oratorio fosse riconosciuto come casa paterna. Un paio di settimane dopo il Provveditore Rho compiè una ispezione improvvisa in tutte le scuole e locali dell'Oratorio, avendo seco il Provveditore di Novara. Due dei titolari che stavano in casa, ebbero tempo di salire in cattedra; nelle altre classi furono trovati i supplenti. Il funzionario andandosene non celò la sua poca soddisfazione; tuttavia, essendo egli stato condiscepolo di Don Bosco, si sperava che a titolo di amicizia sarebbe proceduto con le buone. Era notorio però che egli vedeva piuttosto di mal occhio le case salesiane, quantunque sapesse generalmente fare buon viso e coprire così le sue reali intenzioni.
Quella visita era stata ordinata dal Consiglio scolastico di Torino nell'intento preciso di riconoscere se gl'insegnanti possedevano o no i titoli voltiti e fossero veramente quelli dati in nota. La relazione provveditoriale fu disastrosa; onde il medesimo Consiglio rincarò la dose, minacciando severi provvedimenti, se prima del 30 gennaio 1879 non fosse tutto in regola. Questa comunicazione fu seguita a brevissimo intervallo da un altro foglio ufficiale, con cui a nome del Prefetto [91] si pregava Don Bosco di voler ricoverare nel suo Oratorio un povero giovane[63].
Una seconda visita, fatta pure dal Provveditore il 7 marzo e finita peggio della prima, obbligò Don Bosco a occuparsi energicamente dell'affare. Intanto da fonte sicura potè venir in chiaro di due particolarità per lui importantissimo: il Ministero, scrivendo al Provveditore di Torino, aveva richiamato all'osservanza della legge, ma senza provocare a rigorose misure, e l'iniziativa della faccenda non era partita da Roma, sibbene dalle autorità locali, invocanti provvedimenti superiori[64]. Queste informazioni gli agevolarono la via. In casi di vessazioni da parte di autorità Don Bosco non si arrestava. a mezza costa, ma si spingeva su fino al sommo il 15 marzo domandò per iscritto udienza al ministro Depretis, presidente dei Consiglio; gli rispose il suo Capo di gabinetto commendator Celesia di Vegliasco, dicendogli che Sua Eccellenza l'avrebbe ricevuto quel giorno stesso dal tocco alle due nel Ministero degli Interni. Don Bosco fu puntuale. Attendeva da circa mezz'ora, quand'ecco entrare il Ministro. Si alzò in piedi al suo passaggio, e quegli lo salutò levandosi il cappello e lo ricevette immediatamente. Il ricordo di Lanzo aperse la conversazione, che durò tre quarti d'ora. Il Beato gli parlò anzitutto delle Missioni, che il Ministro disse di voler proteggere. Appressatosi poi egli all'argomento scottante con un accenno vago a difficoltà che gli attraversavano il passo, il Ministro gli osservò che, essendosi ormai formata un'opinione pubblica favorevole, non aveva nulla da temere. Al che il Servo di Dio replicò rammentando il mobile vulgus di Sallustio ed entrò a gonfie vele in materia. Il Depretis ascoltò con benevolenza e gli promise di raccomandare al Ministro della Pubblica Istruzione le sue scuole. Si navigava col vento in poppa. Allora Don Bosco fece un'ultima mossa. Con l'aiuto di, un suo amico, signor Ferdinando [92] Fiore, impiegato al Ministero, aveva steso un promemoria da presentare al Capo del Governo, affinchè avesse sotto mano gli elementi, sui quali appoggiarsi per accordargli la chiesta facoltà di mettere nelle classi dell'Oratorio docenti senza diploma. Don Bosco gli rappresentava la cosa in questo modo.
Col fine di beneficare una istituzione che tende a migliorare la classe più bisognosa della civile società, come appunto è la gioventù pericolante, e ritenuto che l'ospizio detto Oratorio di San Francesco di Sales in Torino:
I° Fu costantemente giudicato quale opera di carità dalle autorità civili e municipali e come tale proclamato dal Senato del Regno e dalla Camera dei deputati;
2° Che venne spesse fiate in aiuto alla autorità pubblica col dare ricovero a fanciulli abbandonati, e che perciò dalle prelodate autorità fu ognora favorito, commendato e sussidiato;
3° Le autorità scolastiche per oltre a 36 anni l'hanno lasciato prosciolto dall'obbligo di porre insegnanti legali nelle classi secondarie;
4° Che la spesa di legali insegnanti sarebbe di gravissimo danno all'Istituto, il quale è destituito di ogni sorta di mezzi pecuniarii, anzi tale spesa tornerebbe a danno degli stessi ricoverati, di cui dovrebbesi per necessità diminuire il numero;
5° Questo ministero da parte sua, volendo continuare l'appoggio che l'Oratorio di S. Francesco di Sales ha fruito sotto ai precedenti ministeri, come ospizio di carità o istituto paterno dove il Sac. Bosco per solo spirito di carità fa le veci di padre ai fanciulli ivi ricoverati;
6° Volendo benignamente applicare la legge sulla pubblica istruzione in modo che tomi utile e non dannosa alla, classe più bisognosa della società;
7° Desiderando in fine cooperare a diffondere l'Istruzione divenuta obbligatoria tra le classi povere e meno agiate;
Il Sac. Giovanni Bosco a dare o far dare l'Istruzione secondaria ai poveri fanciulli del suo pio istituto, senza obbligo di mettere nelle rispettive classi insegnanti legalmente riconosciuti.
Il foglio doveva essere accompagnato da una lettera, che servisse di presentazione e all'occorrenza anche di richiamo
Mi trovo nel bisogno di raccomandare alla E. V. la condizione dei poveri giovanetti raccolti nell'Ospizio di S. Francesco di Sales in [93] Torino. Pel passato questo istituto, come opera di beneficenza destinato a poveri ragazzi, non fu tenuto a rigore di legge nell'insegnamento. Il governo tenendo conto che la maggior parte dei nostri allievi sono indirizzati dalle varie Autorità dello Stato, non fece mai difficoltà intorno ai Maestri che prestavano gratuitamente l'opera loro. Adesso vuole elle gli stessi superiori che rappresenterebbero la classe siano stabilmente al loro uffizio, senza elle possano da altri farsi rappresentare. Io pertanto supplico umilmente la E. V. di voler dire una parola al Ministro della Pub. Istruzione affinchè voglia considerare i nostri ragazzi come sotto all'Autorità Patema e permettere che gli attuali insegnanti possano continuare nel loro caritatevole ammaestramento degli allievi, oppure siano ammessi ai relativi esami, sebbene non abbiano ancora compiuta l'età prescritta per essere legalmente abilitati.
Raccomando umilmente alla carità della Eccellenza V. questi poveri figli del popolo a cui mi sono totalmente dedicato e pieno di fiducia di una patema sua raccomandazione presso al Sig. Ministro della Pubb. Istruzione.
Ho l'alto onore di potermi professare della Eccellenza Vostra.
Il Ministro, per altro noli credette opportuno ricevere queste carte, perchè gli sembrava miglior partito non andare per via ufficiale e aggiunse coli effusione: - Quando vuole parlarmi, non occorre che domandi udienza; venga pure e si faccia solamente annunziare; voglio che ci trattiamo da amici. Alla prima spedizione di Missionari che farà, me lo dica e sarà aiutato dal Governo; almeno i passaggi glieli accorderemo. - Infine gli disse alcune cose da riferire al Papa; il che Don Bosco promise di fare. Uscendo dal palazzo Braschi, sede allora del Ministero degl'Interni, Don Bosco passò accanto a un crocchio di deputati, dai quali partì un saluto a lui rivolto in dialetto piemontese. Poco prima Don Berto aveva udito dire ad alta voce in una delle sale: - Pare un santo.
Quel tale signor Fiore aveva indicato a Don Bosco un “arcigno commendator Barberis” come colui che poteva moltissimo al Ministero, dov'era Direttore Generale delle [94] scuole secondarie. Lo consideravano tutti come uomo inaccessibile a raccomandazioni e passava anche per grande autocrate; ma Don Bosco, che l'aveva avuto a, compagno di scuola, andò a trovarlo, fidando nell'antica amicizia. Fu ricevuto subito e trattenuto circa due ore. Giacchè noi scriviamo principalmente per i nostri Confratelli, che sanno lo stile di Don Bosco nel descrivere incontri di qualsiasi genere, non rifuggiremo neanche qui dal riprodurre il punto culminante del colloquio nella forma dialogica di botte e risposte, in cui lo udirono Don Berto e altri dalle labbra di lui stesso, e ne presero memoria.
Da principio Don Bosco al Commendatore dava del lei, come pure il Commendatore a Don Bosco; ma, una volta rotto il ghiaccio, quegli scappò a dire: - Lasciamo un po' da parte le cerimonie! Ti ricordi bene che fummo compagni di scuola. Diamoci del tu; così ci parleremo con un po' più di confidenza... A questo posto, m'intendi bene, io non guardo a nessuno.
- Ma tu potresti aiutarmi, l'interruppe Don Bosco.
- C'è la legge, mio caro. Io non debbo guardare ad altro.
- Il Consiglio scolastico ha deciso ed è lui quindi che ha ragione.
- Ma fammi il favore... Vedi tu se potessi piegare il Ministro a sensi più benevoli...
- Ma intendi bene: io non vengo a te con pretensioni. Mi raccomando; intercedi, dammi qualche consiglio.
- Sottomettiti: ecco ciò che so dirti.
- Ma guarda, io ho una penna, gli disse Don Bosco in tono quasi faceto, e la storia dirà come sia stato trattato un povero uomo, che non aveva altra intenzione che fare del bene alla povera gioventù abbandonata.
- Scrivi quello che vuoi. Quando io non ci sarò più poco m'importa di ciò che gli altri diranno di me. [95]
- Guarda, caro Commendatore: adesso, è vero che hai questo posto, ma non ci starai sempre... e l'interpretare così le leggi ti procaccia molta odiosità... e quando non sarai più a questo posto, sarai esecrato.
A tali parole il signor Barberis stette un po' pensieroso e poi disse: -Ma bisogna che ci atteniamo alla legge.
- Va bene; ma le leggi sono suscettibili anche d'interpretazione benigna, e non solamente odiosa.
- Basta, da me non avrai mai nulla a temere. E' da Torino che strillano... è dal Consiglio scolastico... di là scrivono giù... Procura di metterti in relazione coi capi di quel Consiglio. - Poi passò a indicargli il modo di mettersi in regola. Infine concluse: Guarda in seguito se puoi anche parlare col ministro Coppino o almeno col Segretario Generale il commendator Bosio.
Da certe mezze parole del suo interlocutore Don Bosco attinse la certezza della cosa, della quale nutriva già forte dubbio. Tutti gli anni una trentina di alunni dell'Oratorio si presentavano agli esami di licenza ginnasiale, gareggiando con i candidati delle scuole governative e non di rado superandoli. Questa riuscita che dava sui nervi a certi pezzi grossi, destò invidie, fece nascere gelosie e creò nemici ira coloro, i quali non potevano tollerare che gl'istituti pubblici sfigurassero a quel modo di fronte alle scuole di Don Bosco. Una causa della guerra stava lì.
Don Bosco, appigliandosi al consiglio del Barberis, andò dal commendator Bosio, Segretario Generale al Ministero della Pubblica Istruzione: ogni tentativo presso il ministro Coppino sarebbe stato come fare un buco nell'acqua: l'esperienza del passato ne dimostrava l'inutilità. Il Commendatore fu lietissimo di ricevere nel suo ufficio Don Bosco, che aveva gran desiderio di conoscere; lo trattenne due ore e gli diede utili suggerimenti sul modo di regolarsi riguardo ai professori.
Mentre a Roma Don Bosco saliva e scendeva per tante [96] scale, a Torino il Provveditore addì 25 marzo presentò al Consiglio scolastico la relazione ufficiale stilla seconda visita da lui fatta alle scuole dell'Oratorio. “Ho trovato, diceva, gli alunni raccolti ed in perfetto ordine nelle scuole, ma, come si prevedeva, tutte le classi, ad eccezione della Ia erano dirette dai giovani chierici e sacerdoti Salesiani, che nella visita fatta precedentemente erano stati qualificati per supplenti dei Professori compresi nell'Elenco del personale insegnante dell'Istituto stesso. Era bensì nell'Istituto anche il Professore titolare della 4a classe, ma egli non comparve nella stia classe se non quando seppe che io passava da una classe all'altra per accertare chi desse realmente l'insegnamento. Un terzo insegnante fatto avvertire, a quanto pare, della visita che si stava facendo, vi giunse tutto ansante, quando io aveva già adempiuto al commessomi incarico ed era ormai trascorso il tempo della lezione”.
Il professore che “giunse tutto ansante” era Don Marco Pechenino, l'autore dei dizionari greci e delle ancora ricercate Forme verbali. Egli nell'uscire dall'Oratorio dopo quella visita commise l'imprudenza di dire a un tale, ch'ei credeva suo amico: - L'abbiamo fatta noi al Provveditore! - Piccola vanteria, che quel zelante volò a riferire, facendo andare in bestia il burbero funzionario.
Preso atto della relazione provveditoriale, il Consiglio scolastico deliberò di proporre al Ministero la chiusura del ginnasio annesso all'Oratorio di San Francesco di Sales. Don Bosco, assicuratosi che a Roma non c'era astio di sorta contro le sue scuole, prese il partito di Fabio Massimo: tener viva la questione temporeggiando. In questo modo si terminava l'anno scolastico, si chiudevano, se mai, le scuole, e poi si ricorreva a nuovi espedienti per il nuovo anno.
Non passeremo sotto silenzio che qualche voce onesta durante quei prodromi di temporale si levò a Torino in difesa di Don Bosco anche dal campo liberalesco. L'avvocato Giustina, che nel giornalismo si firmava con lo pseudonimo di [97] Ausonio Liberi, direttore della Cronaca dei Tribunali[65] pubblicò un articolo intitolato “Un po' di pietà... e di giustizia”, vibrante di ammirazione per Don Bosco. Lo chiamava “probo cittadino”, onore della città torinese, innanzi al quale egli s'inchinava rispettando nella sua persona “non il sacerdote, ma l'angelo della pubblica beneficenza, l'apostolo di Cristo”; facendo poi appello ai giornalisti, soggiungeva: “Non facciamo questioni di partito. Innanzi alla pubblica beneficenza scompaiono le fazioni, resta l'umanità compatta di volenterosi che intendono l'opere loro al pubblico interesse, alla pubblica moralità”. Si fosse mostrato poi sempre così equanime questo signor Giustina!
Nel bel mezzo di tali preoccupazioni, aggiuntesi ad altre che gli davano da fare a Roma, egli diceva tranquillamente ai suoi che anche questo in qualche maniera si sarebbe aggiustato. “Che calma da santo!”, commentava Don Bonetti, scrivendone a Torino[66].
Non si comprenderebbe di leggieri come mai Don Bosco potesse passare tranquillamente mesi e mesi lontano dall'Oratorio, se non si sapesse che egli aveva là il provvidenziale Don Rua, colui che tanto faceva e poco o nulla si scopriva. Se per un verso Don Rua fu il capolavoro di Don Bosco, per un altro va considerato quale vero adiutorium simile sibi datogli da Dio, affinchè niente ne inceppasse la libertà a svolgere intera la sua missione. Non intendiamo ripeterci; ma sur un punto vogliamo qui richiamare l'attenzione dei lettori. Nell'Esposizione alla Santa Sede, di cui abbiamo fatto cenno e. di cui renderemo conto, si legge appena un richiamo fugace alle condizioni finanziarie: “Esistono, vi si dice, alcuni debiti, ma si hanno stabili in vendita di valore sufficiente a pagarli”. Verissimo. C'erano infatti, ad esempio, le proprietà lasciate a Don Bosco per testamento dal barone Bianco di Barbana, valutate considerevolmente. Ma il gran guaio stava in questo, che nulla ancora si era venduto, nè si trovava come vendere a condizioni soddisfacenti, e intanto le strettezze si facevano sempre più gravi. Don Rua non nascondeva agli intimi che la Congregazione non erasi mai trovata in sì critiche circostanze. La lotteria fruttava oblazioni quotidiane, e Don Bosco aveva stabilito di non chiuderla finchè noti avesse reso centomila lire nette; ma queste somme giornaliere [99] bastavano solo a tappare momentaneamente qualcuno dei tanti buchi. In momenti così difficili senza un uomo della calma, abilità e autorevolezza di Don Rua il disagio economico avrebbe ingenerato, insieme con la perdita del credito al di fuori, il malessere morale nell'interno e le sue ordinarie conseguenze, che sono il dissesto e il dissolvimento. Invece il pensiero comune riposava sereno su Don Bosco lontano, senza che nemmeno i più addentro alle segrete cose avvertissero quanto del merito di si riposato vivere spettasse a Don Rua. Mentre infatti la sua prudenza gl'insegnava a trattar gli affari con saggezza, la sua virtù lo conduceva a raggiungere i voluti scopi in silenzio e senza darsi a vedere.
Premeva sempre a Don Bosco trovarsi nell'Oratorio per la settimana santa, che potevasi ormai dire imminente; era però lunghetto il giro che aveva divisato di fare nel suo, ritorno. Partì da Roma la mattina del 28 marzo per la via di Firenze, incontrandosi alla stazione di Orte con Don Bonetti, che aveva lasciato a Magliano. Nella capitale toscana son nomi che appartengono agli annali della cooperazione Salesiana i Nerli, gli Uguccioni, il domenicano padre Verda, men conosciuto, ma gran propagatore delle Letture Cattoliche e della Biblioteca dei classici italiani. Il Beato fu con i suoi due compagni di viaggio ospite della marchesa Nerli, che li mandò a prendere con la sua carrozza. Alla pietà della marchesa Uguccioni inferma soddisfece, andando a celebrare nella sua cappella domestica e visitandola e ragionandole di cose spirituali. Celebrò pure nel monastero di Santa Maria degli Angioli, dove si conserva il corpo di santa Maria Maddalena de' Pazzi, e dopo la Messa volle dire alcune parole di conforto alle povere monache, vittime delle spogliazioni settarie. In casa Nerli lo visitarono molte persone, fra cui la contessa Digny. Si diè premura di recarsi dall'Arcivescovo monsignor Cecconi, che lo ricevette con molto piacere e gli disse: - Io mi metto nelle sue mani riguardo alla casa per poveri ragazzi da aprirsi in Firenze. Mi dica che cosa debbo [100] fare, ed io farò tutto ciò che mi dice. - Parole che alludevano a incipienti trattative per un'opera da stabilirsi in quella città.
Da Firenze potè finalmente scrivere di proprio pugno una lettera, e questa fu per il canonico Guiol, che gli aveva spedito a Roma una succinta monografia compilata dal suo vicecurato Mendre intorno a Don Bosco e alla stia Congregazione[67].
Ho ricevuto l'opuscolo del Sig. D. Mendre. E' un lavoro classico di questo genere. Mi ha però fatto più volte coprire il volto per rossore pei grandi elogi che fa alla mia povera persona. Ma sia tutto a maggior gloria di Dio e a vantaggio dell'Opera che si vuole commendare. Ringrazio Lui e la S. V. Il S. Padre gradì assai le due copie presentate. Manda a tale uopo ad ambidue una speciale benedizione.
Sua Santità si trattenne a discorrere dell'Oratoire de St-Léon, disse più volte che ringraziava i promotori dell'Opera e li benediceva tutti di cuore. Ha poi commessa una immaginetta per Lei ed un'altra per il Sig. Rostand, ma prima di spedirle debbo attendere che sieno finite[68].
Sono in via per Torino, dove giunto completerò quanto occorre per Marsiglia e per le due colonie agricole di S. Cyr e di Navarre.
Quante cose occorrerebbero dirsi verbalmente! Spero lo faremo nel prossimo maggio.
Dovrò scrivere quanto prima alle Sig. Jacques e Prat e ad altri; ma prego Lei fin d'ora a voler partecipare a tutti una speciale benedizione del Sommo Pontefice. Se le copie del nostro opuscolo sono in vendita, abbia la bontà di spedirmene una decina a Torino. Quelle speditemi a Roma scomparvero come fumo.
Preghi per me, caro Sig. Curato, e con perfetta stima, affezione e gratitudine m creda sempre in G. C.
P. S. E' la prima lettera che scrivo dopo quattro mesi. [101] Diciamo qualche cosa di questo elegante opuscolo. Si divide in due parti. Nella prima l'autore rappresenta la missione di Don Bosco e il suo metodo educativo, movendo per quella dall'episodio di Bartolomeo Garelli e per questo dall'altro della Generala, tratteggiati entrambi con drammatica maestria. Missione di Don Bosco è aver cura della gioventù povera e abbandonata. Qui egli protesta di non voler fare il panegirico della sua persona. “La sua modestia, dice, non lo permetterebbe e poi tornerebbe troppo difficile parlarne degnamente. Noi ci rivolgiamo alle anime ardenti di zelo per le opere veramente cattoliche e senza parlare delle virtù di Don Bosco, ci basta farne conoscere le Opere”. Metodo di Don Bosco nel trattare con la gioventù è la carità di Nostro Signore Gesù Cristo; con essa egli ha conquistato “un posto assai distinto fra coloro che nella Chiesa hanno più di tutti fatta propria la parola del Divin Maestro: Lasciate che i piccoli vengano a me”. Mostrato il Servo di Dio all'opera nelle fortunose vicende del suo oratorio festivo, conchiude questa parte così: “Quando s'è visto un granello di senapa e poi si è chiamati a contemplare un'alta pianta, non si può non prorompere in questa esclamazione: Quante gocce d'acqua e quanti raggi di sole ha dovuto la Divina Provvidenza largire al tronco, per commisurargli sapientemente il calore diurno e il notturno frescore!”. Prosegue poi con la storia dell'ospizio e delle scuole professionali cristiane, che trasformarono l'Oratorio in un “immenso alveare, dove ognuno lavora con santo entusiasmo producendo opere di non minor pregio che il miele delle più assortite e solerti api”. Il passaggio alla seconda parte è segnato da un cenno sugli inizi della Congregazione, che, estesasi largamente in Italia e spintasi nella lontana America, ha valicato pure le Alpi occidentali, stabilendosi in Francia.
In questa seconda parte lo scrittore, messa in evidenza la necessità di curare cristianamente in Francia la gioventù operaia istituendo scuole professionali cristiane ed esposto [102] il molto già tentato a Marsiglia, ma con risultati insufficienti a motivo dei metodi introdotti, saluta l'avvento dei figli di Don Bosco, che creeranno ivi gli ateliers cristiani, come danno prova di saper fare a Nizza con le scuole di arti e mestieri e come si accingono a fare nei pressi della Crau d'Hyères con le scuole di agricoltura. Cita qui una recente raccomandazione di Leone XIII incoraggiante iniziative di tal genere[69].
L'autore finisce invitando tutti i veri cattolici a farsi Cooperatori salesiani e formulando questo voto: “Possano tutte le nostre città di Francia appoggiate con abbondanti limosine la formazione di questi ateliers cristiani. Gli Oratorii di San Leone, di San Pietro e di Sant'Isidoro ci daranno presto senza dubbio il confortante spettacolo delle meraviglie che si compiono del continuo nell'Oratorio di San Francesco di Sales a Torino. Favorire le opere di Don Bosco è fare atto di buon cattolico ed è per conseguenza saper comprendere e tutelare gl'interessi della patria. La nostra terra di Francia, dove tutte le opere ispirantisi alla carità cattolica hanno certezza d'incontrare generosi protettori, non si mostrerà, speriamolo, men propizia del suolo d'Italia verso le istituzioni di Don Bosco. Felici coloro che contempleranno il granello di senapa divenuto un bell'albero; ma ancor più felici quegli altri che potran dire a se stessi d'aver contribuito con copia di limosine ad aiutarne lo sviluppo ed a consolidarne le radici”[70].
Ricevute e rese visite in buon numero, il Servo di Dio lasciò Firenze per Bologna, il giorno 31. La contessa Maria Malvasia, ricevutolo alla stazione, lo condusse nel suo palazzo, dove a lui e a' suoi due sacerdoti assegnò un comodo appartamento, libero da ogni soggezione. Primo pensiero del Beato fu di rendere omaggio al cardinale arcivescovo Lucido Maria Parocchi, il quale gradì moltissimo la visita e invitò [103] tutti per la dimane. Sua Eminenza aveva ben ragione di prodigargli gentilezze, come fece; sapeva in fatti quanto egli d'accordo con Leone XIII e con il Segretario di Stato si fosse occupato a Roma e continuasse a occuparsi della sua penosa condizione. Promosso dalla sede di Pavia all'Arcivescovato di Bologna il 13 marzo 1877 e fatto già l'ingresso nella sua cattedrale, non riusciva a strappare l'exequatur. Il senatore Pépoli nella tornata del 23 gennaio 1879 aveva rinnovato all'alta Camera una sua interrogazione sul perchè di quel diniego. Il ministro Taiani rispose che, siccome spirava “un'aura più mite dal Vaticano”, si sarebbe anche potuto mitigare l'austerità dei rifiuti d'exequatur: ebbe però l'audacia di dire “non potersi presumere che colla discesa di Pio IX nel sepolcro” fossero “discese con lui tutte le ire ed i rancori!”. Venendo poi al caso, giustificò l'atteggiamento ministeriale verso l'Arcivescovo di Bologna con l'allegare l'opposizione delle autorità locali, come del Prefetto, della Questura, dei Magistrati. E' probabile che Leone XIII desiderasse a Roma Don Bosco per agevolare alla Segreteria di Stato le difficili e delicate pratiche. Con altri Vescovi il Governo venne realmente a più miti consigli; ma per quel di Bologna teneva duro. Il Beato sapendo che la rocca dell'opposizione era là, nelle fazioni politiche locali che gabellavano il Parocchi d'intransigente pericoloso, sperò dì poter espugnare la resistenza sul posto, avvicinando il Prefetto. Questo zelo gli guadagnò l'animo del Cardinale, che a tal vista depose certe sue prevenzioni sul conto di lui, come lo dimostrò il fatto. Il marchese Bevilacqua, fermo sempre nel suo proposito di procurare a Bologna un istituto di beneficenza per la gioventù più bisognosa, aveva condotte le cose a si buon punto, che. stava già per recarsi a Roma col fine di rimettere tutto nelle mani di Don Bosco; ma, parlatone al Cardinale, questi negò in un primo tempo il suo assenso e ricorse ad un'altra Congregazione, la quale però declinava l'offerta per mancanza di personale, Allora invece, udito dell'interessamento [104] di Don Bosco a Roma e a Bologna per la sua causa, aveva totalmente cambiato idea.
Il Servo di Dio adunque, risoluto di agire presso il Prefetto, andò per visitarlo. La prima volta gli fu detto che non e era; tornato il dì dopo, ve lo trovò e venne ricevuto. Il Prefetto mostrò di credere che Don Bosco si presentasse a lui per domandargli denari; onde, fatti i convenevoli d'uso: Già, gli disse, Don Bosco va sempre questuando per i suoi ragazzi.
- Sì, è vero, rispose, questo è mio mestiere; ma però adesso non sono qui per domandare limosina; son venuto unicamente per ossequio all'autorità.
- Come mai, se Ella è superiore ai Deputati e agli stessi Ministri?... Quando si parla di Lei, c'inchiniamo tutti.
Ci fosse o no un tantin d'ironia in queste parole o fosse la voglia di menare il can per l'aia, il fatto è che la conversazione durò Cosi per un bel pezzo. Se non che, quanto all'oggetto che importava più a Don Bosco, il risultato fu zero; poichè il livore settario non disarmò. Trascorsi inutilmente cinque anni, Leone XIII, per rimediare a quello stato violento di cose, chiamò il cardinal Parocchi a Roma, dove lo costituì suo Vicario. Là, come vedremo, egli s'incontrò di bel nuovo con Don Bosco in circostanze di gran momento per la Congregazione.
Il Beato celebrava nella cappella domestica della contessa, che gli era larga della sua ospitalità, e venivano ad assistere anche persone ragguardevoli, come la Zambeccari, che poi conferiva a lungo con lui sul modo di attuare presto le istituzioni da essa vagheggiate e da noi accennate altrove.
Nel pomeriggio del 2 aprile arrivò ad Este. Venne condotto difilato alla casa del suo grande benefattore Benedetto Pelà, perchè, festeggiandosene proprio in quel giorno il settantanovesimo compleanno, egli dava un solenne banchetto agli amici e volle ad ogni costo aspettare che Don Bosco ne onorasse la mensa. La contentezza provata dal degno uomo [105] nel vedete il Servo di Dio, fu cosa da non potersi ridire a parole. Ma egli era lungi le mille miglia dall'attendersi la sorpresa che gli toccò. Nel buono del convito Don Bosco, levatosi a parlare, fece un bellissimo brindisi, in cui lodò lo zelo e la benevolenza dei cittadini d'Este verso i poveri Salesiani e tutti ringraziò di cuore; ma poi diede una notizia che mandò in visibilio l'anfitrione. - Son lieto, disse, in sì bella occasione di poter salutare il signor Benedetto Pelà Cavaliere dell'Ordine di San Silvestro. Il Santo Padre lo ha insignito di quest'onore a fine di dargli un pegno del pontificio suo gradimento per quanto egli viene facendo in favore del nuovo collegio Salesiano e a bene della cristiana gioventù. I convitati erano vivamente commossi e il Pelà piangeva di consolazione. Festa più cordiale e più gioconda non sarebbe possibile immaginare[71].
Di là il Beato passò in collegio. Qui la carità del signor Benedetto aveva pensato a tutto, financo alle tendine delle camere destinategli, volendole scurette a motivo della vista. Il dì appresso con il suo amico Antonio Venturini venne a fargli visita e cavatasi dì tasca un'obbligazione di lire ottomila imprestate a Don Sala, lo pregò di gradirla come offerta che egli intendeva fargli di tutta intera la somma, professandosi ognora pronto a qualsiasi spesa, pur di vedere presto il locale in pieno assetto per le esigenze di un convitto salesiano. Il cavaliere fu sempre per il collegio Manfredini un vero padre.
- Vive a Este un nipote del mentovato signor Antonio Venturini, il dottor Francesco dello stesso cognome, alunno del collegio dal 1878 al 1886, il quale rende sicura testimonianza dì un fatto straordinario avvenuto allora nella sua casa. Sua madre era malata di metrorragia grave per vegetazione della mucosa uterina. Il medico curante Zannini e i chirurgi Morroni di Monselice e Sommariva di Este si trovarono concordi [106] nel giudicare grave lo stato dell'inferma. La famiglia richiese anche il parere del professor Vanzetti della regia Università di Padova, il quale opinò come gli altri, esprimendo chiaramente un giudizio infausto, avvalorato pure dal rilevante deperimento organico. Il padre del marito, nel secondo giorno della permanenza di Don Bosco a Esto, lo pregò di passare dalla sua casa. Il Beato accondiscese all'invito, Condotto alla presenza dell'ammalata, le domandò se avesse fiducia in Maria Ausiliatrice. Commossa, ella rispose di averne moltissima. Don Bosco le presentò quindi un'immagine di Maria Ausiliatrice, perchè se la riponesse sotto il guanciale e le fece recitare seco un'Avemmaria; dopo le impartì la benedizione e assicurandola che la Madonna le avrebbe ottenuta la grazia, si accomiatò. Infatti di lì a pochi giorni la signora tornava in mezzo a' suoi familiari sì perfettamente guarita da poter riprendere le sue, consuete occupazioni[72].
Un vento furioso con pioggia torrenziale obbligò Don Bosco a prolungare di un giorno la sua permanenza nel collegio, impedendogli di mettersi in viaggio per andare a riverire il vescovo di Padova, come aveva stabilito. Potè così tenere una conferenza ai Cooperatori salesiani estensi. Parlò in un salone dell'istituto dinanzi a un uditorio numeroso di ecclesiastici, dì nobili signori e signore. Alla fine si entrò in cappella per la benedizione, nè alcuno volle andar via senz'aver baciato la mano a Don Bosco, ricevuta una speciale benedizione o udita una parola di conforto. Tanti gli baciavano il mantello o la vesto.
Fin qui le conferenze salesiane erano state preparate e fatte sempre da Don Bosco stesso: come a Este, così a Roma due volto, a Torino, a Marsiglia, a Nizza, ad Alassio, a Lucca; allora ecco una relazione a stampa con la data del 25 marzo informarlo che i Cooperatori di Modena, radunatisi nelle forme stabilite, avevano tenuto la loro conferenza nella [107] chiesa della Beata Vergine del Paradiso. Il fatto è degno di memoria, per essere stata la prima volta che in un gran centro i Cooperatori facessero da sè; la qual cosa denota chiaramente quanto fosse ben avviata l'organizzazione in quella città; non bisogna dunque passarvi sopra di sfuggita.
L'arcivescovo monsignor Giuseppe Maria Guidelli dei conti Guidi, cooperatore Salesiano da parecchi anni, vi si fece rappresentare dal suo vicario generale monsignor Prospero Curti il priore, di Sant'Agnese Don Enrico Adami fu l'oratore designato. Descritti i pericoli nuovi che correva la gioventù, additò in Don Bosco l'uomo suscitato da Dio a salvarmela per mezzo della Congregazione Salesiana, di cui tessè brevemente la storia; disse poi dei Cooperatori Salesiani, che cosa fossero e che cosa facessero, e sciolse una difficoltà. Mancavano forse a Modena istituzioni giovanili di carattere popolare? Vi faceva forse difetto lo zelo dei privati in aiuto del clero? A che dunque una nuova unione? Rispose: “La Pia Società dei Cooperatori Salesiani non fa se non proporvi di unirvi in santa lega per rendere più efficace l'opera vostra, offrirvi spirituali vantaggi in ricompensa delle vostre fatiche, pregarvi a procacciare sempre più il bene dei giovanetti ed invogliare altri a darvi mano per sostenere, promuovere e favorire con tutte le forze, le istituzioni educative che noi abbiamo nella nostra città”. Un caldo invito rivolse infine al cuore degli astanti, perchè portasse ognuno la sua pietra, ma, sull'esempio di Don Bosco, unendo le forze e operando uniti. Un telegramma del cardinal Nina annunziò la benedizione del Papa a quella “prima adunanza, diceva, di Cooperatori Salesiani”.
Tutto questo piacque a Don Bosco; ma meritò un suo encomio speciale quello che si leggeva in fondo alla relazione, perchè ispirato da giusta comprensione dello spirito che deve animare i Cooperatori Salesiani. “Si parteciparono poi agli astanti le cariche, cioè che come Superiore sarebbesi, conforme al Regolamento, riguardato sempre Don Bosco, e con assenso [108] di Lui e dell'Ordinario come Presidente della Sezione modenese l'Ill.mo e Rev.mo Mons. Severino Roncati, il quale nominava a Vicepresidenti il M. R. P. Curato di S. Pietro e il M. R. Sig. Priore di S. Barnaba, a Segretario l'Ecc.mo Sig. Dott. Luigi Marchiò e a Cassiere l'Ecc.mo Sig. Marchese Dott. D. Giulio Campori. Il segretario lesse ancora un'appendice al Regolamento dei Cooperatori riguardante questa Sezione modenese, e si discusse brevemente sul modo con cui la medesima si sarebbe adoprata alla cristiana educazione della gioventù, e fu approvato che ogni anno almeno una volta si manderebbe in conformità al Regolamento un'offerta al Superiore di Torino a vantaggio delle case e delle missioni della Congregazione Salesiana, che i soci attivi si presterebbero ad insegnar la Dottrina Cristiana alle Parrocchie e all'Oratorio che colla cassa della Società si sarebbe aiutata l'Unione dei Figli di Maria, la Biblioteca gratuita popolare per la gioventù, divertimenti festivi, e la sala di convegno e intanto per raccoglier danaro si sarebbe promossa una lotteria, ad ogni seduta si sarebbe fatta una colletta e i soci benefattori avrebbero versato almeno 25 centesimi mensilmente”. Si pose termine con l'Iste Confessor e con la benedizione mediante la reliquia di san Francesco di Sales, che insieme con l'immagine del Santo stava esposta sull'altare.
A tarda sera, dopo la cena, Don Bosco partì pel Padova. Là il vescovo monsignor Manfredini, con i suoi ottantasei anni, stette alzato per dargli il benvenuto e offrirgli l'ospitalità nel palazzo. La mattina seguente andò con Don Bonetti e Don Berto a celebrare nella cattedrale. In città fece visita soltanto alla contessa Da Rio. Alle undici di notte giungeva a Milano, prendendo albergo in casa del suo grande amico avvocato Comaschi. In quel giorno 5 aprile erano tornati a Valdocco dal loro viaggio in Sicilia e per l'Italia Don Cagliero e Don Durando.
Nei quattro giorni che stette a Milano, consolò diverse persone inferme, recando loro la benedizione di Maria Ausiliatrice [109]. Il giovane Bonola, già allievo del collegio Valsalice, caduto dal tram, erasi fracassata una gamba e aveva dovuto sottoporsi all'amputazione. Allora versava in pericolo di vita. Don Bosco lo benedisse e gli diede una medaglia della Madonna, e tosto il malato prese a sentirsi meglio e la durò così fino al dimani sera, quando ricominciò a peggiorare[73].
Portatosi dal Parroco dell'Incoronata, Don Usuelli, non lo trovò, perchè assente; ma ne trovò la domestica, che da quattro anni era impossibilitata a muoversi senza chi la reggesse. Benedetta e invitata a rizzarsi in piedi senza l'aiuto di alcuno, la donna obbedì,? comandata di andare in cucina, vi andò, gongolante di gioia.
Don Bosco tornò il giorno seguente da Don Usuelli, che gli fece vedere tutto il suo collegio, sempre con la speranza che egli ne' assumesse la direzione, principiando dalla categoria degli artigiani. L'Arcivescovo, che fu cordialissimo col Servo di Dio e tirò avanti per due ore a discorrere con lui, vedeva bene l'andata dei Salesiani nella sua città. -Almeno, disse, avrò qui vicino degli amici! - Ma egli avrebbe preferito che si pensasse subito agli studenti. Così opinava pure Don Bosco; ma gli artigiani dovevano fare da paravento agli studenti di fronte alle autorità scolastiche, troppo arcigne con le scuole private. Fu stabilito che alla fine di maggio si [110] sarebbe firmato l'atto; ma altro è dire, altro è fare. Don Usuelli era uomo indeciso; venuto il tempo di conchiudere, egli continuava a voler trattare. Onde pulitamente gli si fece intendere che bisognava omai deporre il pensiero di avere colà i Salesiani.
Milano era l'ultima tappa. La notizia che il 9 a sera Don Bosco avrebbe rimesso piede nell'Oratorio, riempì di allegrezza tutta la casa. Non lo vedevano da tre mesi e mezzo. Quel giorno, dopo l'ufficio delle tenebre (era il mercoledì santo), l'impazienza generale la vinse su tutto che non fosse far preparativi o contare i minuti. Don Bosco arrivò all'ora di cena. Le grida dei giovani soffocavano le note della banda. Le due lunghe e dense file che al passaggio dovevano fargli ala, in un attimo si disordinarono, nè fu possibile contenere l'impeto, con cui tutti irruppero su Don Bosco e si assieparono intorno a lui. Avevano un bel agitarsi, Don Lazzero, Don Cagliero e Don Barberis! Ci volle una mezz'ora almeno perch'egli potesse attraversare il cortile, salire in camera e subito scendere in refettorio. Allora sottentrò quel senso di quiete che regna in una famiglia, allorchè si sa di avere nel proprio seno il padre. E questo scambio di affettuosi sentimenti che legano i figli al padre, vibrò in due momenti speciali, di mistico silenzio uno e di animazione gioconda l'altro. Il giovedì santo, sull'imbrunire, Don Bosco nella chiesa di Maria Ausiliatrice, davanti all'intera comunità, fece la lavanda dei piedi, una scena che, sebbene si rinnovasse ogni anno, pure ogni volta sembrava nuova e inteneriva soavemente i cuori. Indi nella domenica di Pasqua un trattenimento accademico, allestito con cura per festeggiare il sospirato ritorno, procurò a tutti fra canti, suoni e declamazioni un'ora della più schietta esultanza.
Il Beato, per le condizioni della sua vista, non potè augurare con lettera la buona Pasqua ai benefattori; tuttavia troviamo che dettò al segretario il seguente scritto per il cavalier Fava: [111]
Giungo da Roma e mi fo premura di comunicarle che il Santo Padre rinnova una speciale benedizione sopra di Lei, la signora consorte e sopra la loro bambina. Dio li conservi tutti in buona salute.
Gradisca eziandio l'augurio di Buone Feste e i sentimenti di gratitudine con cui ho l'onore di professarmi.
A quello che non poteva fare il Beato, supplì Don Rua, con una circolare d'invito all'accademia. Detto ivi che i giovani “desiderosi di festeggiare il felice ritorno del Sig. Don Giov. Bosco, loro amatissimo Rettore” avrebbero dato nella solennità di Pasqua un trattenimento letterario e musicale, approfittava dell'occasione “per augurare cordialmente da parte di tutta la famiglia” dell'Oratorio “ogni benedizione per le imminenti feste Pasquali”.
Perdurava nell'Oratorio la consuetudine di non deliberare mai cosa alcuna di qualche importanza senza parlarne prima con Don Bosco o senza scrivergliene. Aspettandosi allora di giorno in giorno il suo arrivo, non poche deliberazioni stavano in sospeso; onde, appena giunto dal suo lungo e operoso viaggio, egli si trovò in mezzo ad altri molteplici affari. Diciamone quel poco che ci fu dato di conoscere.
E anzitutto circa l'andamento della casa. Da Don Lazzero e da Don Barberis s'informò dei giovani e dei chierici; se vi fossero ammalati, chi avesse commesso notevoli mancanze, quali spiccassero per bontà, come si procedesse nel lavoro e nello studio. Il Direttore dell'Oratorio gli fece i nomi di tre giovani che nuocevano ai compagni con la loro cattiva condotta e gli chiese licenza di rimandarli a casa loro, secondochè era sembrato opportuno. Don Bosco domandò se fossero tra i grandicelli o tra i piccoli; udito che appartenevano alle classi superiori nè avevano mai dato speranza di riuscita, gli disse di eseguire immediatamente la sua sentenza. D'ordinario [112] egli sperava molto nel ravvedimento degli allievi più giovani e nei casi in cui, sebbene ci fosse una mancanza grave, come sarebbe stata una risposta arrogante o una disubbidienza pubblica, nondimeno restava quella un fatto isolato nel tenore di una condotta complessiva niente buona. Quando invece un giovane viveva da tempo nell'Oratorio e benchè non cattivo, pure si mostrava sempre tiepido e indifferente, allora non ne sperava gran che e permetteva che si prendessero sul conto suo le deliberazioni giudicate più a proposito.
Anche il Maestro dei novizi aveva i suoi due casi, per la cui soluzione attendeva i lumi di Don Bosco. C'era nel noviziato un suddiacono francese, già professo Certosino, accettato sii raccomandazione del Superiore Generale della Gran Certosa di Grenoble: pio, pronto a riconoscere i suoi torti e abile a molte cose, aveva per altro un'indole alquanto focosa, che durante l'assenza di Don Bosco gli era stata causa di due violente sfuriate e suon di man con elle. Persuaso che a motivo di queste malefatte dovesse venir mandato via, si presentò da sè a chiedere di far le valige e andarsene; ma si amò meglio aspettare Don Bosco. Il Servo di Dio, udita la relazione, volle che si soprassedesse, caso mai la buona volontà finisse con pigliare il sopravvento. Tanta longanimità faceva a volte stupire; ma egli seguiva in questo l'insegnamento del divin Maestro, che non si soffochi il lucignolo fumigante. Non transigeva, no, qualora ci fosse di mezzo lo scandalo; ma quanto ai chierici che avessero mediocre condotta, purchè non si prevedessero ragionevolmente cattive riuscite, pazientava. Così fece pure con un chierico di Lucca, il quale, lui assente, aveva dato seri motivi di lagnanze, sebbene in fondo in fondo non ci fosse proprio da disperare. Quella volta anzi espresse un suo modo di vedere sui soggetti di condotta mediocre. - Costoro, disse, si tengano. Di mediocri ve ne saranno sempre in qualunque Congregazione religiosa e in qualunque comunità. Se per rigore immoderato si volesse tagliar fuori ogni mediocrità, temo che diverrebbero [113] mediocri alcuni dei buoni, perchè sembra essere nell'ordine della Divina Provvidenza che la perfezione non sia di questo mondo, almeno nei più.
Chi aveva maggior bisogno di rivedere presto Don Bosco era Don Rua, tesoriere dell'Oratorio, ma purchè s'intenda per tesoriere uno che amministra, sì, ma ben sovente anche senza tesoro. La cronaca riproduce un gustoso dialoghetto svoltosi una delle prime sere fra loro alla presenza di Don Lemoyne, di Don Barberis e di qualche altro prete della casa. Don Bosco disse a Don Rua: - Senti, Don Rua; tutti domandano danaro, e mi dicono che li mansi via a mani vuote.
- Questo avviene, rispose Don Rua, per un semplice motivo: le casse sono vuote.
- Si vendano quelle cartelle che ci rimangono, e così si farà fronte ai più pressanti bisogni.
- Qualcuna si è già venduta; ma vendere ancora quel poco non mi sembra conveniente, perchè di giorno in giorno capitano casi gravi ed impreveduti, e non avremmo poi un soldo da poterne disporre.
- E pazienza, il Signore allora provvederà; ma intanto soddisfacciamo a quei debiti che sono più pressanti.
- Su quel poco danaro che tengo, ho già fatto i mie conti. Lo raduno per pagare Ila quindici giorni un debito di ventotto mila lire che scade; per questo appunto da alcuni giorni tutto il danaro che arriva lo metto in serbo per quella scadenza.
- Ma no: questa è una follia... lasciare insoluti i debiti che potremmo pagare oggi, per mettere da parte la somma che si deve pagare da qui a quindici giorni...
- Ma per i debiti d'oggi si possono differire i pagamenti; allora invece come faremo, dovendo pagare una somma così grossa?
Allora il Signore provvederà. Incominciamo a disfarci oggi di quanto dobbiamo... E' un chiudere la via alla Divina [114] Provvidenza il voler mettere in serbo danaro per i bisogni futuri.
- Ma la prudenza suggerisce di pensare all'avvenire. Non abbiamo visto in altre occasioni simili, fra quali impacci noi ci siam trovati? Fummo costretti a fare un secondo debito per pagare il primo. E questa è la via che mena diritto al fallimento.
- Ascoltami. Se vuoi che la Divina Provvidenza si prenda cura diretta di noi, va' in tua camera, domani metti fuori quanto hai, si soddisfino tutti quelli che si possono soddisfare, e ciò che accadrà in seguito, lasciamolo nelle mani del Signore. - Quindi, parlando a tutti i presenti, continuò: - Non mi è possibile trovare un economo che interamente mi secondi, che sappia cioè confidare in modo illimitato nella Divina Provvidenza e non cerchi di ammassare qualche cosa per provvedere al futuro. Io temo che, se ci troviamo così allo stretto di finanze, sia perchè si vogliono fare troppi calcoli. Quando in queste cose entra l'uomo, Dio si ritira.
Da tanta fiducia nella Provvidenza divina egli non disgiungeva le industrie dell'umana solerzia per la ricerca dei mezzi materiali; perciò una delle prime cose che fece appena tornato fu di adoprarsi, perchè la fonte tuttora aperta della lotteria gettasse con qualche copia. Onde ristampò la circolare del io gennaio, diramando con essa biglietti in quantità e mandandone pacchi ai Cooperatori, affinchè ne curassero la diffusione. Poi volle che, ad evitare facili sperperi pecuniari, si studiasse come costituire in casa un centro unico, da cui partissero tutte le deliberazioni concernenti spese. Prima, tutto si accentrava in Don Bosco; poi, quand'egli non potè più badare a tante cose disparate, provvedevano ai vari bisogni urgenti i singoli membri del Capitolo Superiore, secondochè ne venivano scoprendo, e indipendentemente l'uno dall'altro. Ma questo sistema danneggiava l'economia domestica. -Le cose, disse Don Bosco, andavano avanti alla buona; ma in affari d'importanza il dire che si va avanti alla [115] buona è quanto dire che si va avanti male. - Allora Don Leveratto prefetto dell'Oratorio, presentò un progetto per ben organizzare gli uffici e le dipendenze reciproche, sicchè ogni cosa facesse capo a chi avrebbe dovuto dar moto a tutto. Don Bosco disse di eleggere una commissione, a cui commettere l'incarico di esaminare quel progetto, e la commissione risultò composta di Don Rua, Don Lazzero, Don Sala e Don Leveratto.
Un'altra via per ristorare alquanto le finanze esauste fu di riprendere le sue visite a famiglie buone e facoltose, sempre disposte ad aiutarlo. Per lo più insinuava bellamente nel discorso l'argomento delle opere di carità, che attirano le benedizioni del Signore sulle case generose nel beneficare il prossimo, e ne apportava esempi; essere la limosina mezzo sicuro per ottenere da Dio le grazie desiderate; tra le opere da soccorrersi esservi l'Oratorio, posto sotto la protezione speciale di Maria Ausiliatrice, la quale con molti fatti dimostrava quanto gradisse di vedere beneficati i giovanetti. Don Barberis, testimonio auricolare, dice che egli faceva questi discorsi pacatamente, parlando di altre persone e rappresentando al vivo con novità di aspetti l'importanza di una castità corporale che abbia per ultimo fine quella Spirituale, sicchè si amava di udirlo continuare su questo tema.
Tornato di fresco da Roma era spesso interrogato sulle cose di là. Le notizie di Roma in quegli anni di transizione dai vecchi ai nuovi ordinamenti politici appassionavano i fedeli al Papa, che nell'aristocrazia piemontese contavansi numerosi; si badava non tanto alle notizie che correvano sii per i giornali, quanto a quelle che si trasmettevano di bocca in bocca per vie confidenziali e che si stimavano più rispondenti al vero. Avveniva quindi che Don Bosco, creduto molto addentro alle segrete cose, fosse dopo i suoi ritorni da Roma avidamente interrogato e talora con domande un po' imbarazzanti. Ciò accadde, per esempio, in casa De Maistre. Recatosi egli con Don Barberis a Borgo Cornalense per visitare [116] la duchessa di Montmorency e il conte Eugenio, che ivi si trovava con i suoi figli venuti in famiglia per le vacanze pasquali, ecco che s'intavolò un ragionamento di questo ,genere. La Duchessa e il Conte avevano parole di fuoco sulle condizioni fatte dall'Italia al Papa e alla religione; Don Bosco, al contrario, lasciando che i suoi interlocutori si accendessero, faceva calmo e tranquillo le sue osservazioni. Tanta pacatezza diede un po' sui nervi alla gentildonna che gli chiese come mai potesse mantenersi così freddo in una questione così vitale
- Veda, rispose; che vale rimpiangere tanto i mali? E’ meglio che ci adoperiamo con tutte le nostre forze ad alleviarli. E poi questa gente che ora governa, ha molto bisogno della nostra compassione: sono troppo seri i conti che aprono con Dio.
I rapporti dei due inviati, che n'avevano di poco preceduto il ritorno a Valdocco, gli furono causa di grande consolazione; essi mostravansi lieti d'aver compiuto in breve tempo un lungo viaggio, d'aver visitati molti luoghi e trattati molti affari. Noi ne riparleremo più innanzi. Notevoli sono due lunghe lettere di Don Cagliero dalla Sicilia. Ad Acireale, a Catania e a Randazzo furono ben sorpresi nel vedere come Vescovi e clero conoscessero bene Don Bosco e la Congregazione e quanta fiducia riponessero nell'opera dei Salesiani a vantaggio della gioventù maschile e femminile. Uno dei riflessi che più influirono sull'animo dei due negoziatori e li disposero a interpretare con qualche larghezza le istruzioni avute da Don Bosco fu questo, che i Salesiani erano “la prima Congregazione chiamata a riedificare nell'isola sulle rovine spaventose degli Ordini religiosi distrutti e dispersi nell'ultima soppressione”[74].
Uno de' primi pensieri di Don Bosco subito dopo il ritorno fu per Marsiglia. Dal 5 aprile trovavasi a San Leone Don Angelo [117] Savio, mandatovi appositamente per dirigere i lavori della nuova fabbrica e rendere abitabile la casa novellamente acquistata. Non bastando all'uopo le oblazioni dei Marsigliesi, egli invocava da Torino aiuti pecuniari. Ora Don Bosco aveva colà un vecchio condiscicele di Chieri, già suo intimo amico, quell'Annibale Strambio da Pinerolo, del quale egli parla nel primo de' suoi scritti che sia giunto fino a noi[75]; allora console generale italiano nella città, non avrebbe egli potuto porgergli una mano per ottenere da Roma un buon sussidio? Gliene scrisse dunque, pregandolo vivamente di pigliarsi a petto la cosa. Data la natura della sua richiesta, non deve fare specie che Don Bosco s'indugi alquanto a magnificare i vantaggi che agl'immigrati dall'Italia avrebbe arrecati l'opera Salesiana.
Prego V. E. a prendere in benevola considerazione un fatto di cui Ella ha certamente esatta notizia. In varie occasioni a motivo di affari privati ho percorso il littorale del Mediterraneo da Ventimiglia a Marsiglia ed ho dovuto con grande rincrescimento osservare una moltitudine di giovanetti appartenenti a famiglie italiane in un doloroso abbandono. Alcuni perchè rimasti orfani di genitori, altri perchè sono dai medesimi trascurati, in generale si danno al vagabondaggio, quindi vanno a finire nei riformatorii, o se ritornano in patria abituati al mal fare, per lo più sono condotti in luoghi di reclusione. Ad unico fine di provvedere almeno in parte a questi giovanetti, ho procurato di attivare un Patronato pei poveri fanciulli nella città di Nizza Marittima, una colonia agricola alla Navarra presso Frejus ed un'altra a S. Cyr presso Tolone. Ma la città di Marsiglia era degna di particolare attenzione. Come è ben noto alla E. V. in questa città e dintorni sonvi non meno di 80.000 italiani. che lasciano un'immensa moltitudine di ragazzi in balìa di se stessi. A fine di dare qualche provvedimento a questi sfortunati giovanetti d'accordo colla E. V. e coll'appoggio della carità di lei e di altri cittadini, si aprì l'ospizio di artigianelli in cotesta città via Beaujour n. g. Ma appena aperto rimase tosto pieno di poveri fanciulli, e presentemente vi sono già circa So artigianelli con altrettanti che vengono a scuola come esterni. In vista del crescente bisogno e del grande vantaggio che si può procacciare a questi miseri patrioti venne intrapreso l'ingrandimento della [118] casa attuale per renderla capace almeno di alcune centinaia dì fanciulli, Si diè tosto mano ai lavori che progrediscono alacremente, e la spesa non è inferiore ai 100.000 franchi.
Pel passato si appoggiò tutto alla carità cittadina, ma presentemente le spese di manutenzione dell'edificio, di vitto e vestito pei già ricoverati e per condurre a termine il cominciato edificio mancano assolutamente i mezzi necessarii. Egli è per condurre avanti quest'opera benefica che io mi rivolgo alla E. V. affinchè si degni di venirci in aiuto con quei mezzi che sono in suo potere. La supplico pertanto di volere informare il Governo italiano e far buoni uffici presso al medesimo, perchè venga in appoggio per condurre a termine quest'opera destinata alla classe più bisognosa e pericolante della civile società.
E' vero che questi istituti non sono esclusivamente per gli Italiani e ciò, come ella ben sa, per evitare le suscettibilità nazionali, ma il fatto è che tornano, si può dire, quasi ad esclusivo vantaggio dei medesimi. - Esposto così il fatto, invoco rispettosamente, ma caldamente la sua autorità presso il Governo italiano, affinchè mi presti il sussidio indispensabile per sostenere gli istituti incominciati, terminare le ampliazioni e provvedersi del voluto suppellettile.
Con tale piena fiducia mi reco ad onore di potermi professare con gratitudine e stima
Una lieta notizia venne a rallegrare in quegli stessi giorni il Servo di Dio; monsignor Gaetano Alimonda, che incontrammo così benevolo verso di lui ad Alassio, era stato promosso all'onore della Porpora. Belle prove d'affetto il grande Prelato aveva già date a Don Bosco; ma le più belle di tutte erano riserbate a quando la vita del Beato volgesse al tramonto[76].
Se il regno della carità fu il regno di Don Bosco, l'Oratorio di Valdocco era la sua reggia. Qui infatti egli fissò la sua dimora come in luogo di predilezione; qui per molti anni resse personalmente la casa; di qui irradiava la sua azione benefica, allargando ognor più gli orizzonti del proprio apostolato nel mondo. Ma questo dilatarsi della sua attività portò per conseguenza che egli si dovesse ritrarre a poco a poco dal regime interno, costituendo di mano in mano cariche e uffici responsabili per il disbrigo degli affari domestici, e noi siamo arrivati ora al punto in cui l'Oratorio riceve la sua autonomia amministrativa sotto l'alta direzione di Don Bosco.
La commissione della quale si è detto nel capo antecedente, non lavorò invano; le sue conclusioni più importanti vennero approvate, adottate e applicate. Erano le seguenti: un solo amministratore stesse a capo del movimento economico, professionale e commerciale della Casa Madre, e questo amministratore fosse il prefetto dell'Oratorio: a lui quindi spettasse la diretta vigilanza e il controllo della tipografia, della libreria e dei laboratori: l'Economo generale non ci avesse più nulla a vedere , se non in quanto l'Oratorio era una casa come tutte le altre; il Direttore fosse investito dei poteri ordinari che avevano tutti i Direttori; essere bene che egli [120] mettesse Don Bosco a parte di molte cose, desiderando il Servo di Dio che si procedesse in tutto d'intelligenza con lui, ma il Direttore non fosse legato da intromissioni dei membri del Capitolo Superiore: egli decidesse di lutti gli affari principali della casa, a lui in modo specialissimo spettassero tutte le accettazioni; il sottoprefetto degli esterni, che teneva. l'ufficio presso la porteria, ne fosse quale segretario e aiutante, nulla facendo senza di lui, e il cómpito suo consistesse in dare informazioni sull'Oratorio ai tanti che ne venivano a chiedere, fare le prime pratiche per le accettazioni dei giovani, esaminandone carte e requisiti, ma riserbandosi sempre dì parlarne col Direttore: presentandoglisi per essere accettato qualcuno privo delle condizioni richieste dal Regolamento, ma raccomandato da un Vescovo o da un'autorità civile influente, come per esempio dal Prefetto di Torino, che allora appunto raccomandava un fanciullo di appena otto anni, rimettesse senz'altro ogni pratica al Direttore, il quale accorderebbe qualsiasi eccezione, pur di non offendere chi stava in alto: in tali casi, essendovi difetto di età, mandare i ragazzi a Lanzo o altrove, benchè si trattasse di accettazioni gratuite; il sottoprefetto dunque della porteria agisse solo subordinatamente nelle sue registrazioni e nella tenuta dei libri e sempre a tenore del Regolamento; condoni o riduzioni di retta, sollecitare i saldi, accettare o espellere giovani, fossero cose dipendenti interamente dalla volontà del Direttore. In modo analogo si doveva procedere nelle case ispettoriali: l'Ispettore avesse l'alta sorveglianza di tutte le case dell'Ispettoria e tenesse le relazioni ufficiali col Capitolo Superiore conforme alle Regole, ma non s'immischiasse nell'ordinaria amministrazione locale. Il nuovo ordinamento dell'Oratorio fu accentuato dalla circostanza, che il Capitolo Superiore si separò anche di abitazione dal resto della casa. Prima i Capitolari tenevano l'ufficio nelle sale della direzione; allora si presero un appartamento intero nel secondo piano dell'edifizio centrale accanto alla chiesa di San Francesco, dove ognuno [121] disponeva di due camere; ivi pure venne trasferito il loro refettorio, che fino allora avevano avuto in comune coi professi al pian terreno.
Una cosa Don Bosco non dismise mai nell'Oratorio, il ministero delle confessioni. Moltissimi, quanti più potevano, sì confessavano da lui. Negli esercizi spirituali degli studenti, sul finir di aprile, sebbene vi fosse copia di confessori estranei, pure confessò tanto e tanti, che una sera dalla stanchezza non aveva più voglia di cenare, e il braccio destro a forza di star curvo sul gomito all'inginocchiatoio e d'impartire assoluzioni gli si era talmente intormentito, che, provatosi quattro volte a stringere il cucchiaio con la mano destra, non vi riuscì, ma lo dovette prendere con la sinistra. In tempo relativamente breve egli spicciava gran numero di penitenti, perchè era piuttosto sbrigativo negli ammonimenti[77]. Per renderci ragione dell'effetto prodotto dagli stringati suoi consigli, bisogna tener conto anche dell'unzione con cui li dava e che tutti decantano coloro che ne fecero l'esperienza.
A popolargli di giovani il confessionale contribuiva non poco l'opinione ch'ei leggesse nelle coscienze; che se non sempre, nè il più delle volte e nemmeno di frequente ciò avveniva, il semplice dubbio della possibilità aveva pure la sua forza a moltiplicargli i piccoli clienti. Il fatto però continuava a ripetersi di tempo in tempo e non tutto rimaneva tutte le volte segreto. Un giorno del 1879 il Servo di Dio, attorniato nel cortile da una ventina di giovani che un dopo l'altro gli baciavano la mano, ne fermò d'improvviso uno e in disparte dai compagni gli fece vedere la propria destra solcata da una profonda graffiatura rossastra. - Vedi quello che hai fatto? - gli disse. Il giovane, dato uno sguardo alla graffiatura, istintivamente si osservò le unghie, che proprio quella mattina si era tagliate. Don Bosco lo fissava e i loro [122] sguardi s'intesero presto senza parlare. Era una ferita nella carne viva. Quel giovane, di condotta buona, aveva udito discorsi poco morigerati, cedendo poi a una tentazione. Andò la mattina dopo a confessarsi da Don Bosco, persuasissimo elle il Servo di Dio sapesse tutto; e difatti così fu. Pieno di meraviglia e assai pentito, schivò da quel punto ogni pericolo, concepì un orrore sempre più forte per il peccato e divenuto sacerdote, si dichiarava pronto a confermare con giuramento la verità della cosa, avergli cioè Don Bosco letto distintamente nella coscienza.
Il mal d'occhi persisteva ostinato a dargli fastidio. Chi temeva la cateratta, chi dubitava non esservi più rimedio alla graduale cecità; il dottor Reynaud, oftalmico assai stimato, disse chiaro e netto che non c'era più da sperare. Per altro Don Bosco veniva facendo una sua cura, della quale aveva fatto cenno a Don Berto nell'andare da Firenze a Bologna. Il 31 marzo, quando stavano per arrivare a Pistoia, il Beato raccontò al segretario che alcune notti addietro una misteriosa signora gli era apparsa nel sonno, tenendo in mano la boccetta di un liquore verdescuro e gli aveva detto: - Ecco, se vuoi guarire del suo mal d'occhi, prendi tutte le mattine un po' di questo sugo di cicoria per cinquanta giorni, e ti passerà. - Don Bosco, giunto a Torino, si dimenticò del sogno, come pure se ne dimenticò Don Berto. Ma sul principio di maggio, una sera, nel refettorio, presenti Don Rua e Don Berto, interrogò a bruciapelo Don Lago, l'ex-farmacista: - Dimmi, Don Lago, il sugo di cicoria fa bene agli occhi?
- E' uno dei medicamenti consigliati, rispose quegli.
- Ebbene, preparamene un poco.
Don Lago obbedì coli la massima sollecitudine. Fin dalle prime volte che prese di quella medicina, il Beato avvertì un miglioramento. Il 22 maggio disse che i suoi occhi miglioravano in modo sensibile. Trascorsi i cinquanta giorni, sebbene egli facesse continuo uso della vista scrivendo di giorno [123] e di sera, il male, notevolmente diminuito, rimase stazionario; il che non impedì però che di lì a un par d'anni dall'occhio sinistro non ci vedesse più[78].
Checchè sia di questo sogno, il Beato un altro ne ebbe dei soliti, che raccontò il 9 maggio. Assistette in esso alle lotte accanite che si sarebbero dovute affrontare dai chiamati alla Congregazione, ricevendo una serie di utili avvisi per tutti i suoi ed alcuni salutari consigli per l'avvenire.
Grande e lunga battaglia di giovanetti contro guerrieri di vario aspetto, diverse forme, con armi strane. In fine rimasero pochissimi superstiti.
Altra più accanita ed orribile battaglia avvenne tra mostri di forma gigantesca contro ad uomini di alta statura bene armati e bene esercitati. Essi avevano uno stendardo assai alto e largo, nel centro del quale stavano dipinte in oro queste parole: Maria Auxilium Christianorum. La pugna fu lunga e sanguinosa. Ma quelli che seguivano lo stendardo, furono come invulnerabili e rimasero padroni di una vastissima pianura. A costoro si congiunsero i giovanetti superstiti alla antecedente battaglia e tra tutti formarono una specie d'esercito aventi ognuno per arma nella destra il Santissimo Crocifisso, nella sinistra un piccolo stendardo di Maria Ausiliatrice modellato come si è detto sopra.
I novelli soldati fecero molte manovre in quella vasta pianura, poi si divisero e partirono gli uni all'Oriente, alcuni pochi al Nord, molti al Mezzodì.
Scomparsi questi, si rinnovarono le stesse battaglie, le stesse manovre e partenze per le stesse direzioni.
Ho conosciuto alcuni delle prime zuffe: quelli che seguirono erano a me sconosciuti: ma essi davano a divedere che conoscevano me e mi facevano molte domande.
Succedette poco dopo una pioggia di fiammelle splendenti Che sembravano di fuoco di vario colore. Tuonò e poi si rasserenò il cielo e mi trovai in un giardino amenissimo. Un uomo che aveva la fisionomia. di S. Francesco di Sales, mi offrì un libretto senza dirmi parola. Chiesi chi fosse. - Leggi nel libro - rispose.
Aprii il libro, ma stentava a leggere. Potei però rilevare queste precise parole:
Ai Novizi: - Ubbidienza in ogni cosa. Coll'ubbidienza meriteranno le benedizioni del Signore e la benevolenza degli uomini. Colla diligenza combatteranno e vinceranno le insidie degli spirituali nemici. [124]
Ai professi: - Custodire gelosamente la virtù della castità. Amare il buon nome dei confratelli e promuovere il decoro della Congregazione.
Ai Direttori: - Ogni cura, ogni fatica per osservare e far osservare le regole con cui ognuno si è consecrato a Dio.
Al Superiore: - Olocausto assoluto per guadagnare sè e i suoi soggetti a Dio.
Molte altre cose erano stampate in quel libro, ma non potei più leggere, perchè la carta apparve azzurra come l'inchiostro.
- Chi siete voi? - ho di nuovo dimandato a quell'uomo, che con sereno sguardo mi stava rimirando.
- Il mio nome è noto a tutti i buoni e sono mandato per comunicarti alcune cose future.
- Quelle esposte e quelle che chiederai.
- Che debbo fare per promuovere le vocazioni?
- I Salesiani avranno molte vocazioni colla loro esemplare condotta, trattando con somma carità gli allievi, ed insistendo sulla frequente Comunione.
- Che devesi osservare nell'accettazione dei novizi?
- Escludere i pigri ed i golosi.
- Vegliare se avvi garanzia sulla castità.
- Come si potrà meglio conservare il buono spirito nelle nostre case?
- Scrivere, visitare, ricevere e trattare con benevolenza; e ciò con molta frequenza da parte dei Superiori.
- Come dobbiamo regolarci nelle Missioni?
- Mandare individui sicuri nella moralità; richiamare coloro che ne lasciassero travedere grave dubbio; studiare e coltivare le vocazioni indigene.
- Cammina bene la nostra Congregazione?
- Qui iustus est justificetur adhuc. Non progredi est regredi. Qui perseveraverit, salvus erit.
- Finchè i Superiori faranno la parte loro, crescerà e niuno potrà arrestarne la propagazione.
- La Congregazione vostra durerà fino a che i soci ameranno il lavoro e la temperanza. Mancando una di queste due colonne, il vostro edifizio ruina schiacciando Superiori ed inferiori e i loro seguaci.
In quel momento apparvero quattro individui portanti una bara mortuaria. Camminavano verso di me.
- Per chi è questo? - io dissi.
- Non dimandarlo: pensa solo che sei mortale.
- Che cosa mi volete significare con questa bara?
- Che devi far praticare in vita quello che desideri che i tuoi figli debbano praticare dopo di te. Questa è l'eredità, il testamento che devi lasciare ai tuoi figli; ma devi prepararlo e lasciarlo ben compiuto e ben praticato.
- Ci sovrastano fiori o spine?
- Sovrastano molte rose, molte consolazioni, ma sono imminenti spine pungentissime che cagioneranno in tutti profondissima amarezza e cordoglio. Bisogna pregare molto.
- Si, ma adagio, con la massima prudenza e con raffinate cautele. Sarà imminente il fine della mia vita mortale?
- Non ti curare di questo. Hai le regole, hai i libri, fa' quello che insegni agli altri. Vigila.
Volevo fare altre domande, ma scoppiò cupo il tuono con lampi e fulmini, mentre alcuni uomini, o dirò meglio orridi mostri, si avventarono contro di me per isbranarmi. In quell'istante una tetra oscurità mi tolse la vista di tutto. Mi credevo morto e mi son posto a gridare come frenetico. Mi svegliai e mi trovai ancor vivo, ed erano le quattro e tre quarti del mattino.
Se c'è qualche cosa che possa essere vantaggioso, accettiamolo.
In ogni cosa poi sia onore e gloria a Dio per tutti i secoli dei secoli.
Sull'argomento della vocazione ritornò nel mese di giugno, indirizzando un'importante lettera agli alunni del ginnasio superiore di Borgo San Martino.
Ai miei amati figli di 4ª e 5ª ginnasiale di Borgo S. Martino,
Prima d'ora avrei desiderato di rispondere ad alcune letterine scrittemi dal caro vostro Professore e da parecchi di voi. Non potendo ciò fare a ciascuno in particolare, scrivo una lettera per tutti riserbandomi di parlate a ciascuno privatamente nella prossima festa di S. Luigi.
Ritenete adunque che in questo inondo gli uomini devono camminare per la via del Cielo in uno dei due stati: Ecclesiastico o secolare. Per lo stato secolare ciascuno deve scegliere quegli studi, quegli impieghi quelle professioni, che gli permettono l'adempimento dei doveri del buon cristiano e che sono dì gradimento a' proprii genitori. Per lo stato ecclesiastico poi, si devono seguire le norme stabilite dal nostro Divin Salvatore: Rinunziare alle agiatezze, alla gloria del mondo, ai godimenti della terra per darsi al servizio di Dio e così vie meglio assicurarsi i gaudii del cielo, che non avranno più fine. [126] Nel fare questa scelta ciascuno ascolti il parere del proprio Confessore e poi senza badare nè a Superiori nè ad inferiori, nè a parenti nè ad amici risolva quello che gli facilita la strada della salvezza e lo consoli al punto della morte. Quel giovanetto che entra nello stato ecclesiastico con questa intenzione, egli ha morale certezza di fare gran bene all'anima propria ed all'anima del prossimo.
Nello stato ecclesiastico inoltre Vi sono molte diramazioni che devono tutte partire da un punto e tendere al medesimo centro che è Dio. Prete nel secolo, prete nella religione, prete nelle missioni estere sono i tre campi in cui gli evangelici operai sono chiamati a lavorare ed a promuovere la gloria di Dio. Ognuno può scegliere quello che gli sta più a cuore. più adattato alle sue forze fisiche e morali, prendendo consiglio da persona pia, dotta e prudente. A questo punto io dovrei sciogliervi molte difficoltà che si riferiscono al mondo, che vorrebbe tutta la gioventù al suo servizio, mentre Dio la vorrebbe tutta per sè Tuttavia procurerò verbalmente di rispondere, o meglio spiegare le difficoltà che a ciascuno possono occorrere nel prendere qualcuna di queste importanti deliberazioni.
La base poi della vita felice di un giovanetto è la frequente comunione e leggere ogni sabato la preghiera a Maria SS. sulla scelta dello stato, come sta descritta nel Giovane Provveduto.
La grazia di N. S. G. C. sia sempre con voi tutti e vi conceda il prezioso dono della perseveranza nel bene. lo vi raccomanderò ogni giorno al Signore e voi pregate anche per me che vi sarò sempre in G. C.
In su quel principiare di maggio Don Bosco potè vedere una volta di più quali buoni frutti producesse la sua carità evangelica verso gli uomini traviati dalla politica. Il senatore cagliaritano Giovanni Siotto-Pintòr, magistrato di vaglia, militava nelle file del più acceso liberalismo; ancora nel 1871 aveva dato alla luce un suo libro riboccante di anticlericalismo ereticale[79]. Ma nel 1879, “tribolato d'anima e di corpo”[80], mise il cervello a partito e si ripresentò a Don Bosco per pregarlo di ottenergli una speciale benedizione [127] dal Santo Padre. Don Bosco scrisse a Roma e ottenne. Quest'atto di bontà da parte del Papa lo indusse a riandare le opinioni da lui messe innanzi, in libri di vario argomento, intorno alla costituzione della Chiesa e a' suoi reggitori, e le riprovò. Tornò pertanto all'Oratorio il 4 maggio in compagnia del professor Allievo della regia Università di Torino per ringraziare cordialmente il Beato e, visitata minutamente la casa, partì con l'animo pieno di soddisfazione. Da allora in poi, cioè fino al 24 gennaio del 1882 quando morì, diede prove di vero affetto al Servo di Dio, come vedremo.
Quattro particolarità segnalarono in quel maggio la novena di Maria Ausiliatrice: tiri pellegrinaggio, due conferenze e fra l'una e l'altra di queste un'abiura.
Duecento Francesi vennero a chiudere in Torino il loro pellegrinaggio di Roma. Si rinnovò nell'Oratorio la scena del 1877. La sera del 15, primo giorno della novena, appena arrivati, entrarono nel santuario , dove presero parte coi giovani e coi fedeli alle pie pratiche mariane, udirono nella loro lingua infocate parole di monsignor Stanislao Schiapparelli, canonico del Corpus Domini, e si riversarono nell'Istituto, accolti a suon di banda, incontrati da Don Bosco e serviti di un rinfresco dai soci della Gioventù Cattolica torinese con a capo il conte Balbo. Il ricevimento si fece sotto i portici parati a festa, in mezzo alla folla dei giovani e degli esterni plaudenti. Parecchi si levarono a parlare; per Don Bosco parlò il conte Cays. Ultimo si avanzò il padre Picard, secondo Superiore Generale degli Assunzionisti. Con facondia e affetto egli rese grazie. a tutti, disse belle cose del Papa e poi, ritornando su gli encomi tributati da precedenti oratori ai pellegrini, li rivolse a Don Bosco esclamando: Voici le roi des Pèlerins! E spiegò: -Don Bosco non solo si può dire in continuo pellegrinaggio per le frequenti visite che fa alle sue case d'Italia e di Francia; ma, moltiplicando se stesso, là dove non gli è dato di recarsi in persona, spedisce i suoi figli. E noi vediamo questi suoi pellegrini andare per il mondo e, [128] attraversato l'Oceano, penetrare sino alle inospiti regioni della Pampa e della Patagonia. Ora io chiudo il mio discorso col fare due voti a nome anche de' miei compagni. Fo voto ardente che l'Opera dei Pellegrinaggi si sostenga, aumenti, si dilati. Molte e venerande memorie, preziose reliquie, taumaturghi santuari sono seminati pure nella nostra Francia. Perciò invito la Società torinese della Gioventù Cattolica a promuovere i pellegrinaggi anche sulla nostra terra. Noi vi, attendiamo, o fratelli, a Parigi, in quella Parigi che, sebbene sia detta la moderna Babilonia, pure come l'antica racchiude nel suo seno zelanti segnaci del vero Dio, adoratori coraggiosi di Gesù Cristo, figli devotissimi di Maria. Si, colà noi vi attendiamo per darvi un qualche contraccambio della carità e gentilezza, con cui ci trattate qui in questa vostra divota Torino. Il secondo voto qual è? Oh! voglia il Cielo far sì che presto uno stuolo di Salesiani, capitanati da Don Bosco, venga ad impiantare nella nostra Parigi un ospizio emulo di questo. Dal canto nostro noi gli prepareremo la strada con la parola e con la preghiera. - Uscirono dall'Oratorio a notte avanzata, dirigendosi in gruppi agli alberghi, dove li guidavano i soci della Gioventù Cattolica[81]. In una corrispondenza del 16 maggio da Torino all'Univers di Parigi si chiamava “ammirabile festa”l'accoglienza fatta ai pellegrini “nell'Oratorio di D. Bosco”.
Esistono alcuni documenti, da cui risulta quale impressione quei buoni cattolici riportarono della loro visita all'Oratorio; sono tre lettere, delle quali due furono scritte l'anno dopo e la terza nel 1883. Un signore di Bordeaux e un sacerdote di Lille, ringraziando il Beato di averli inscritti fra i Cooperatori salesiani, ricordano con effusione l'incontro del 15 maggio. Il primo dice a Don Bosco: “Non ho dimenticato la fraterna e affettuosa accoglienza fattaci dalla stia benedetta casa di Torino e serbo la più dolce rimembranza della [129] sera deliziosa trascorsa in mezzo a' suoi cari giovani e ai loro amatissimi Superiori. Non ho parole per ringraziare il Signore della grazia concessami di godere per alcuni felici istanti della presenza del suo grati servo, il quale ha fatto tante belle cose per la stia gloria”. E il prete scrive: “Pellegrino da Roma, vidi e ammirai le opere magnifiche da Dio per mezzo di Lei compiute e liti sento onoratissimo di essere annoverato fra i Cooperatori Salesiani”. Nella terza lettera la viscontessa De Lagrégeolière, nata De Beauregard, rammentandogli d'aver raccomandato allora alle sue preghiere un patronage che le stava molto a cuore, ma che incontrava difficoltà e ostacoli, ora gli fa sapere che da quel punto le cose hanno pigliato una buona piega[82].
Nel caloroso voto finale dell'abate Picard vibra l'eco dell'aspettazione che si aveva dei Salesiani a Parigi; altri echi di cose francesi a noi già note si ripercuotono in questa lettera di Don Bosco al parroco di Sali Giuseppe.
Nello scorso inverno Ella mi lasciò qualche speranza di una sua visita alla festa di Maria Ausiliatrice. Avremo questo piacere? Noi tutti la aspettiamo di cuore. Sa che Mons. Vescovo di Marsiglia o quello di Fréjus effettuino il loro pellegrinaggio a Roma con probabilità che vengano a farei una breve visita?
Ho sovente notizie del nostro Oratorio; amerei però di conoscere che cosa Ella osservi in bene o mediocre o male. Ella sa che ho piena fiducia in Lei e desidero di seguire i suoi prudenti consigli. Ancora un mese e mezzo e poi si compie l'anno dacchè abbiamo cominciata la nostra pia impresa, e vorrei che a quell'epoca se ne vedesse già la consolidazione almeno in qualche cosa.
La casa di Auteuil presenta troppe difficoltà per noi; perciò seguendo il suo consiglio me ne sono definitivamente svincolato. Mi fanno altre proposte da Parigi, ma per ora non vengo ad alcuna conclusione. Navarra e S. Cyr sono in questo momento oggetto di organizzazione. Per andare però a S. Cyr non abbiamo ancora alcun documento nelle mani; ciò sarebbe necessario per metterci al possesso. Tuttavia nella prossima settimana cominceranno andarvi alcuni nostri [130] preti per mettersi in grado di esaminare e cominciare le cose di maggior premura.
Se ha occasione di parlare coi Signori della Società Beaujour, favorisca dir loro che sabato faremo all'altare di Maria Ausiliatrice delle preghiere particolari, perchè Dio conservi tutti in buona sanità essi e le loro famiglie. Le offro gli omaggi di tutti i Salesiani, prego Dio che La conservi ed Ella mi raccomandi al Signore, mentre con gran piacere posso professarmi con vera stima ed affezione
Alla prima delle due conferenze che dicevamo poc'anzi, convennero i Cooperatori Salesiani, non in gran numero purtroppo, una quarantina in tutto, a motivo del pessimo tempo. Il discorso di Don Bosco si svolse sopra uno schema che sostanzialmente era sempre il medesimo: nuove fondazioni dell'anno in Italia, in Francia e nell'America la parte avuta dai Cooperatori; invito a proseguire nella cooperazione. Raccomandò specialmente la chiesa e l'Ospizio di Sali Giovanni Evangelista, mostrandone il benefico scopo.
Nel di dell'Ascensione poi vi fu l'abiura di un valdese. Il giovanetto Coucourda era stato dai genitori cattolici collocato in un istituto dei Valdesi presso Ventimiglia. D'ingegno svegliato, progrediva rapidamente negli studi, bevendo insieme all'istruzione profana il veleno dell'eresia, talchè i ministri protestanti si ripromettevano da lui grandi cose. Ma egli, portato dalla sua naturale riflessione, cominciò col crescere dell'età a provare forti dubbi, nati e alimentati dall'udire le tante invettive e ingiurie che abitualmente si scagliavano là entro contro la Chiesa cattolica e contro la Madre di Dio. Un giorno, trovandosi egli a conversazione col direttore, con la moglie di costui e con alcuni maestri e compagni, il discorso cadde sulla verginità della Madonna. Per un po' lasciò che dicessero; ma alla fine osservò: - Voi mi sostenete che Maria non fu vergine; ma allora perchè nel Simbolo degli Apostoli ci fate dire che Gesù Cristo nacque da Maria Vergine? - Uno [131] scapaccione, che egli mandò a vuoto, fu la risposta della signora. - Oh, questa non è una ragione, - aveva esclamato, scansando il colpo. Diceva benissimo; infatti i suoi dubbi aumentarono a segno che già ruminava di rendersi cattolico. Ma come sottrarsi agli artigli de' suoi istitutori? e poi dove trovar ricovero? I genitori erano morti, nè aveva parenti che non fossero eretici. La Provvidenza gli porse aiuto. Un buon cattolico, avuto sentore del suo stato d'animo, gli agevolò l'uscita e lo consegnò a Don Bosco. Toccava i quindici anni. Fu istruito per bene e la sera del 22 maggio prima della funzione solita fece pubblicamente l'abiura e ricevette il battesimo sub conditione nel santuario di Maria Ausiliatrice gremito di popolo. Compiè la cerimonia monsignor Tammi, vicario generale di Piacenza, che in quei giorni era ospite dell'Oratorio; fungevano da padrino e da madrina il marchese Scarampi e la marchesa Fassati. Al neofito venne imposto il nome di Leone, in ossequio al regnante Pontefice. Monsignor Belasio montò quindi in pulpito e dal fatto prese lo spunto per celebrare in quella solennità le glorie dell'apostolato cattolico dal dì dell'Ascensione giù giù fino all'attività apostolica dei Salesiani: doppio ordine di idee che appresso sviluppò più largamente, formandone un volumetto per le Letture Cattoliche, e dedicandolo alle due nobili persone testè mentovate a perpetua memoria del rito compiuto[83].
I Valdesi non portarono in pace, lo smacco sofferto. Il pastore evangelico e il direttore dell'asilo Valdese che aveva dato per cinque anni ospitalità al giovane, pubblicarono un libercolo, in cui asserivano che i superiori della casa di Maria Ausiliatrice, approfittando della sua miseria, l'avevano pervertito come avevano pur tentato di fare con tre altri del medesimo ospizio. Inoltre i protestanti nel loro periodico Le Témoin si scagliarono contro il convertito con un'acrimonia [132] e con villanie tali da disgradarne le ciane, quando montano in furia. Leone in una lettera aperta, che Don Bonetti l'aveva aiutato a preparare, rimise le cose a posto[84].
Una novità fu la conferenza per le Cooperatrici salesiane, tenutasi alta vigilia della solennità di Maria Ausiliatrice. Se ne adunarono duecento, con il cerimoniale consueto, tranne che, invece di illi tratto della vita dì Sali Francesco, si lessero due capi sulla Salita di Chantal, cioè la Tragico fine dello sposo e l'eroica pazienza della vedova, dedicatasi per tutto il rimanente de' suoi giorni al servizio dì Dio e alle opere di carità. Anche a loro parlò Don Bosco. Esordì narrando com'egli da principio nello stabilire l'Associazione dei Cooperatori avesse in mente elle vi prendessero parte soli uomini; ma che Pio IX di moto proprio aveva voluto estendere i celesti favori anche alle donne, aggiungendo di sua mano nel decreto di concessione le parole: “A tutti i fedeli dell'uno e dell'altro sesso, omnibus utriusque sexus Christi fidelibus
In seguito diede notizia di quello che, mercè l'aiuto delle Cooperatrici, facevano le Suore sotto l'alta direzione dei Salesiani a pro delle fanciulle, scendendo a minuti particolari. Accennati in fine i grandi pericoli, a cui stanno esposte le povere giovanette nei nostri paesi e, specialmente nell'America le esortò a soccorrere Salesiani e Suore per estendere sempre più a vantaggio di quelle i benefizi dell'istruzione e dell'educazione cristiana. Ma con quali mezzi potevano le Cooperatrici prestare la loro cooperazione?
Eccone alcuni, disse Don Bosco. Anzitutto fatevi uno studio di in stillare in bel modo l'amore della virtù e l'orrore del vizio nel cuore dei fanciulli e delle fanciulle delle vostre famiglie, vicini, parenti, conoscenti ed amici. Se mai venite a conoscere che qualche giovanetta inesperta corre pericolo dell'onestà, voi datevi sollecitudine di allontanarnela e strapparla per tempo dagli artigli dei lupi rapaci. Quando aveste, o sapeste che qualche famiglia ha giovanetti, o giovanette da mettere in educazione o al lavoro, aprite bene gli occhi e fate, suggerite, consigliate, esortate che sieno collocati in collegi, in educatorii, [133] in botteghe, in laboratori, dove con la scienza e con l'arte s'insegna anche il timor di Dio e dove sono in fiore i buoni costumi. Fate penetrare nelle vostre case libri e fogli cattolici, e dopo averli fatti leggere in famiglia, fateli correre nelle mani di quanti più potete, regalandoli come per premio ai ragazzi e alle ragazze più assidui al Catechismo. Soprattutto poi quando venite a conoscere elle qualche giovinetta non si può altrimenti salvare dai pericoli se non collocandola in qualche ritiro, voi datevi premura di mettervela al sicuro.
Ma quelli elle maggiormente vi raccomando, sono i giovanetti di buona indole, amanti delle pratiche di pietà, e che lasciano qualche speranza di essere chiamati allo stato ecclesiastico. Sì, rispettabili Signore, prendetevi a cuore queste speranze della Chiesa; fate il possibile e, direi, persino l'impossibile per coltivare in quei teneri cuori e far germogliare il prezioso seme della vocazione; indirizzateli in qualche luogo dove possano compiere i loro studi, e se sono poverelli, aiutateli anche con quei mezzi elle la divina Provvidenza vi ha posti nelle mani e che la vostra pietà e l'amore delle anime vi sapranno suggerire. Voi fortunate, se potrete riuscire a dare qualche sacerdote alla Chiesa in questi tempi, nei quali scarseggiano talmente i sacri ministri, che in alcuni paesi della stessa nostra Italia nei giorni festivi non si dice neanco più messa, nè si compiono le funzioni religiose per mancanza di sacerdoti. Dio, gli Angeli, la Religione, le anime vi sapranno grado di un'opera così esimia, e voi ne avrete fin di quaggiù il centuplo nelle benedizioni elle ne riceverete in premio da Dio, oltre alla bella corona elle egli vi tiene riserbata in cielo.
Ma qui qualcuna di voi potrebbe dire: - Per fare questo bene sono necessarie spese, e io non mi trovo in grado di farne. - Rispondo brevemente che una donna pia, amante di Dio, della Chiesa, delle anime sa industriarsi a fine di poter concorrere in qualche modo alle opere di carità; io so che voi lo fate, e me ne date prova ogni giorno. Ma lasciate che io lamenti, anzi lamentiamo insieme una grande cecità di molte persone dei giorni nostri. Esse trovano sempre il mezzo d'intraprendere un viaggio di piacere; il modo di provvedersi un ricco abbigliamento, di fare una bella comparsa in una festa; il mezzo di comperare non una, ma due e più coppie di superbi cavalli e magnifiche carrozze; ma se si tratta poi di fare una limosina, un'offerta per innalzare od abbellire la casa di Dio, per fabbricare un rifugio all'orfano e al derelitto, per provvedere vitto e vestito a un povero ragazzo, per dare alla Chiesa un sacerdote di più, oh! allora ecco in pronto le mille scuse: hanno spese, hanno impegni, hanno qui, hanno là, e finiscono per fare poco o nulla a pro della Religione e a sollievo delle umane miserie.
Tempo fa un cotale diede in Torino una soirée; chi me ne parlò, la disse stupenda, magnifica, regale. - Quanto avrà costato? - dimandai io - Costò settantamila lire. - Settantamila lire in una [134] veglia! Oh cecità umana! Con settantamila lire si sarebbero potuti raccogliere settanta giovanetti, farli studiare, e forse regalare alla Chiesa settanta sacerdoti, che col divino aiuto avrebbero col tempo guadagnato a Dio migliaia di anime. E badate che quel signore poche settimane prima era stato pregato che volesse pagare per tre mesi la pensione a un povero giovane da ricoverarsi in mi istituto, e vi si era rifiutato! Certamente Iddio a suo tempo domanderà conto a colui di quella serata; ma intanto voi vedete come si faccia oggidì per rendersi inabili alle opere di beneficenza.
Quello che dico dello spreco dei doni di Dio in grande, si dica di molti altri di minor rilievo, ma che ripetuti sbilanciano nondimeno le famiglie e le rendono incapaci a sostenere le istituzioni, le opere più utili per la Religione e per la società.
Benemerite Cooperatrici, io non intendo di mettervi scrupoli e insegnare che non sia lecito vivere secondo il vostro stato, secondo la condizione vostra; voglio solamente dire ed inculcare che. non lasciate entrar nel vostro cuore e nelle vostre case la gran piaga, il gran flagello del lusso nè in grande nè in piccolo. Allora sì, voi sarete in grado sempre di concorrere anche materialmente alle opere di beneficenza, a tergere con mano pietosa le lacrime di tante povere famiglie, a salvare tanti giovanetti raccolti nei nostri istituti, mantenuti dalla vostra carità...
E’ verissimo che le Cooperatrici concorrevano efficacemente alle opere di carità intraprese da Don Bosco; prove numerose lo dimostrano. Ogni novella casa, come in antico l'Oratorio, trovava in qualche buona signora la stia madre affettuosa che le porgeva assistenza; ecco infatti il caso recente della signora Jacques per l'oratorio di San Leone a Marsiglia. Nè queste pie benefattrici limitavano le loro sollecitudini alla casa vicina, ma le estendevano anche alla Casa Madre. Si hanno di questa bontà materna documenti toccanti, che bisogna tramandare ai posteri. Si è fatta più volte menzione della Signora Susanna, come la chiamavano i confratelli di Varazze. Nativa di Celle e sposata e abitante in Albissola, quanto non fece per quella casa fin dalle origini! Essa godeva tanta influenza a Genova presso le autorità civili, che talora impedì atti di ostilità già preparati contro il suo prediletto collegio. Or ecco una sua lettera a Don Rua nell'approssimarsi della festa di Maria Ausiliatrice. [135]
Stimatissimo S. D. Rua, carissimo come Prediletto nipote,
Domani mattina con la prima corsa elle parte dal Capo d'Albissola per San Pier d'Arena mi procurerò la gratissima soddisfazione di far spedire all'indirizzo di V. S. un cesto di frutta per il carissimo, portentoso, benefico sig. D. Bosco, loro amoroso Papà. Troverà nel fondo del cesto un involto con 4 fazzoletti; 3 di tela battista che costano lire 10 ognuno, l'altro con il ricamo del mio nome. Io non voglio usarli, nè lasciarli. D. Bosco prelodato li impiegherà bene. Sono nuovi, non me ne sono mai servita. Spero troveranno dolci le pesche e gli aranci che mi hanno mandati ieri da Finale; e buoni i pomi carli che mi è riuscito di conservare per queste consolanti loro feste.
Facciano la carità di ricordarsi di me e pregare Maria -SS. che mi ottenga una buona e santa morte.
Il sig. Angelo Riello, prete della Missione nel nobile Collegio di Savona, mi ha scritto che non gli hanno spedito il Bollettino di questo mese di maggio. Io gli ho mandato il mio. Loro raccomando, di non dimenticarlo: è uno dei migliori cooperatori per le prime spedizioni dei loro Missionarii. Mi raccolse più di una somma che diedi a Don Bosco.
A Lui, a V. S., a D. Cagliero, a D. Durando, a D. Lazzero, al Rev.do Pechenino presento i miei più affettuosi rispetti e mi rinnovo di V. S. stimatissima
Dev.ma obbl.ma serva come Nonna
SUSANNA PRATO Vedova SAETTONE[85].
L'annuale solennità fu molto disturbata dal cattivo tempo: da mane a sera piovve a dirotto. Nullameno la piena del popolo durò tutto il giorno alla chiesa. Con il permesso dell'Ordinario pontificò monsignor Garga, ausiliare del Vescovo di Novara. Alla vigilia vi aveva celebrato pontificalmente, con il permesso dell'Ordinario, monsignor Berengo, trasferito dodici giorni prima dalla sede Vescovile di Adria a quella di Mantova. Due frasi cadute dalla penna al Beato nello scrivere a Don Bologna dicono tutta la sua contentezza per l'esito della festa.
Ti mando qui alcune lettere, cui completando indirizzo colla busta le manderai a destinazione. [136] Se tu sarai da tanto di condur teco il Sig. Curato di S. Giuseppe per la festa di S. Gio. sarà proprio una solennità di prima classe. Digli che la sua lettera ultima va benissimo; di tutto gli scriverò.
A Madame Jacques, che si faccia coraggio nella stia sanità: le Suore si preparano e saranno all'ordine a semplice richiesta.. Che spettacolo la festa di M. A.! più di 6 mila comunioni nel solo giorno della festa.
L'abate Guiol noti venne per San Giovanni. La ricorrenza onomastica riportò ai figli la bramata occasione di dire al Padre il loro affetto coli lettere private[86], con doni collettivi[87] C Con manifestazioni pubbliche. L'inno di Don Lemoyne, musicato dal giovane maestro Dogliani, rappresentava drammaticamente le quattro Ispettorie testè istituite e cantava le quattro principali Opere di Don Bosco, cioè la pia Società Salesiana, l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, l'opera dei Figli di Maria e la pia Unione dei Cooperatori. Il festeggiato nell'ultima parlata che rivolse al pubblico fece vibrare di entusiasmo i cuori dei giovani e dei forestieri, annunziando con accento commosso di aver ricevuto quella mattina una lettera da Don Costamagna elle dal mezzo della Pampa gli dava buone nuove sull'evangelizzazione degli infedeli. Dalla serenità di Don Bosco chi mai avrebbe potuto lontanamente immaginare elle alla vigilia di si bel giorno un delegato di pubblica sicurezza gli aveva recato il decreto di chiusura delle sue scuole?
La musica di Dogliani era piaciuta moltissimo. Per l'effetto il maestro aveva saputo trarre partito e dalla geniale varietà dell'inno che importava una fantastica messa in scena e da ottime voci di cui disponeva.. Anche il pubblico esterno [137] aveva gustato assai la composizione. Venuta l'ora della cena, Dogliani, com'era suo ufficio, servì alla mensa dei Superiori, che stavano ancora nel refettorio comune. Uscita poi la comunità e finito di sparecchiare, egli si avvicinò a Don Bosco e gli baciò la mano per andarsene .. Ma Don Bosco, tenendogli stretta la destra, gli disse di fermarsi. Arrivava il caffè per Don Bosco: segno che il capo gli doleva forte. C'erano due tazze. - Ecco, Dogliani, gli disse, prendi anche tu il caffè!
- Dogliani guardava a Don Cagliero lì presente come per dire che a Don Cagliero, non a lui spettava quell'onore. Don Bosco Versò e gli porse; egli bevve e ringraziatolo di cuore uscì. Ancora oggi il ricordo della bontà che vide accompagnare quell'atto, lo intenerisce.
Per la festa il barone Héraud di Nizza Marittima aveva mandato a Don Bosco dei confetti che servirono a onorare la mensa in quel giorno, e li aveva accompagnati pure con una generosa offerta. Il Beato affettuosamente lo ringraziò.
Suo Sig. Fratello o meglio suo grande amico Felice Barone Amaud va a Nizza ed io ne approfitto per darle nostre notizie. La nota pratica è sempre data per compiuta, ma non ricevo mai l'ultima conclusione. Vedremo[88].
I suoi confetti furono eccellenti e ho verificato che la dolcezza e la bontà del donatore vennero infuse in quella dei doni che fecero ottima e maestosa comparsa a mensa.
Come l'e scrissi, i suoi f. 1000 furono ricevuti e tosto spesi; e furono spesi pel Sacerdote Fagnano Gius. che al principio di agosto partirà da Buenos Aires e si recherà a fondare la prima parrocchia nel Paraguay d'ordine del S. Padre.
Altre cose altra volta. Sono nei pasticci. Ho molto bisogno di sue preghiere.
Dio benedica Lei la sig. Baronessa, e li conservi ambidue in buona salute.
Mi creda con gratitudine e stima grande
Nell'Oratorio si era sperato di avere per San Giovanni l'avvocato Comaschi di Milano, la cui venerazione per Don Bosco è nota ai lettori. Non avendolo veduto comparire, il Beato si diè premura di scrivergli.
Nei giorni passati credeva di riceverla tra noi ad ogni momento, secondo la lettera che mi aveva scritto, ma finora niente. Sarà forse malato o qualche disturbo in famiglia? Non lo voglio supporre e prego Dio che non sia.
Ad ogni modo Ella sa che noi siamo tutti suoi e perciò venendo qui tra noi viene a casa sua.
Dio la benedica e con Lei benedica la sua famiglia, e mi voglia sempre credere con gratitudine
Parte degli apparati che avevano messo a festa l'Oratorio in questa lieta circostanza, servi per fare onore a monsignor Gerlando Maria Genuardi, primo vescovo di Acireale. Don Cagliero e Don Durando nel loro viaggio per la Sicilia erano stati da lui accolti “con rara finezza e bontà”. Egli, radunato il suo clero nell'episcopio, li aveva presentati solennemente al senato della diocesi, elogiando col cuore alla mano Don Bosco e i Salesiani, dei quali si diceva “confratello”[89]. Don Bosco ci teneva a farlo pontificare nella chiesa di Maria Ausiliatrice per il giorno di San Pietro; ma l'Ordinario pose condizioni tali che equivalevano a un rifiuto, sicchè Monsignore, nonchè pontificare, non potè nemmeno assistere pontificalmente alla messa solenne.
Come si vede, il succedersi di ospiti illustri nell'Oratorio non finiva mai, ed è sempre bello conoscere le impressioni che ne riportavano. Alle testimonianze già recate altrove ne aggiungeremo una pervenuta a Don Bosco sulla fine di maggio. Il [139] Padre Leonardo Maria Guerra dei Minimi gli scriveva: “Ricordo sempre con gioia e gratitudine quei giorni che per la bontà della S. V. Rev.ma passai così bene in cotesto ostello vero tipo di virtù e di ospitalità la più caritatevole e cortese. Tornando dalla mia missione dell'Africa Algerina, io aveva veramente bisogno di riposo e per la sua gran carità trovai anche da edificarmi e raccogliermi nello Spirito”.
In relazione con la festa di Don Bosco era il tradizionale ricevimento agli ex-allievi; l'invito si faceva in quell'occasione, ma ordinariamente l'adunanza si teneva nelle ultime settimane dell'anno scolastico. Nel 1879 fu scelto il 17 agosto, All'agape fraterna sedevano più di sessanta, che, affratellati senza distinzione di grado, di casta o di merito, inneggiavano tutti egualmente a Don Bosco. Nei loro brindisi chi ritesseva la storia dei primi tempi, chi magnificava i progressi raggiunti, chi divinava il futuro, chi rievocava episodi del Beato. il buon Padre con parole dettategli dal cuore ringraziò Iddio d'avergli data la consolazione di vedersi circondato da quella corona de' suoi più anziani discepoli, che esortò a perseverare nel bene, invitandoli a rinnovare per almeno cent'anni si care riunioni. E' un fatto che gli ex-allievi di Don Bosco ritornavano con gaudio a rivedere l'Oratorio e all'Oratorio con gaudio ripensavano. “Per me dico il vero, scriveva uno dei lontani a un suo compagno[90]: fu realmente una bella fortuna l'aver passata parte della mia gioventù sotto la tutela di Don Bosco nell'Oratorio […]. Nell'Oratorio vi ha un non so che di speciale, una maniera d'educare la gioventù tutto affatto propria, che non si trova in altri collegi, i quali non sieno sotto la tutela del gran Don Bosco”.
Alla dimane dell'onomastico ebbe termine un concorso che pendeva da due anni e del quale Don Bosco fu pars [140] magna. L'occasione di esso venne dall'Unità Cattolica. Nel 1877 questo giornale, chiudendo un concorso a premio per un libro sii San Giuseppe, faceva voti che se ne aprisse tosto un altro simile per un libro sopra Sali Pietro. Monsignor Pietro Ceccarelli, il parroco di San Nicolas nell'Argentina, trovandosi allora in Torino al seguito del suo Arcivescovo, lesse l'articolo e ricordando d'aver celebrato la sua prima Messa nel centenario del Principe degli Apostoli, del quale anche portava il nome, aderì alla proposta. Offerse dunque un premio di lire mille a chi avesse scritto in forma semplice e popolare il miglior libro sopra San Pietro; la semplicità però e la popolarità non dovevano essere tali da non permettere che entrassero o nel corpo dell'opera o in apposite appendici due trattazioni, una sulla venuta di San Pietro a Roma e l'altra sull'infallibilità pontificia. Monsignore rimise la cosa nelle mani del teologo Margotti, direttore del giornale suddetto, ma a patto che venisse incaricato Don Bosco di nominare e presiedere una Commissione di competenti Salesiani per l'esame dei lavori. Le modalità dovevano essere quelle consuete in questo genere di concorsi: motti di riconoscimento sui manoscritti, nomi degli autori in buste suggellate, apertura delle buste dopo fatta la designazione del vincitore.
Poco dopo ecco un buon cattolico di Mantova, rimasto sempre anonimo, fare al suo Vescovo una proposta analoga per un libro sii San Paolo, consegnandogli la medesima somma da assegnarsi al miglior concorrente. Il Vescovo, che era a giorno della proposta precedente, si rivolse egli pure al Margotti, perchè volesse unire i due concorsi, affidando anche il secondo alla Commissione che si sarebbe costituita a Torino. La cosa tornò di sommo gradimento al teologo, che ne divulgò sul suo foglio la notizia.
I manoscritti noli tardarono molto a. giungere. Il termine utile per la presentazione spirava il 29 giugno 1878, secondochè erasi fissato. Don Bosco nominò la Commissione il I° agosto [141] di quell'anno[91], e si diede principio all'esame La data stabilita per la pubblicazione dei risultati scadeva il 18 gennaio 1879; ma il numero dei lavori pervenuti e la mole di alcuni richiesero maggior tempo; onde la Commissione deliberò di protrarre alquanto il suo giudizio definitivo, non però oltre il 29 giugno successivo.
Per il concorso sopra San Paolo la Commissione ebbe a occuparsi di soli quattro manoscritti e a cose fatte si pronunziò sul lavoro del sacerdote Giacomo Murena, prete della Missione, piacentino di nascita e abitante a Ferrara.
Per l'altro concorso invece ci volle più lungo spazio e all'ultimo non potè continuare a svolgersi tanto speditamente. I manoscritti erano dieci. La Commissione, dopo un accurato studio sopra ciascuno, deliberò di escludere anzitutto i lavori meno rispondenti al programma, riducendo così a tre soli quelli che giudicava i migliori. Qui l'esame comparativo sollevò difficoltà e dubbi, sicchè le opinioni si divisero. Don Bosco, accortosi quale fosse il manoscritto, a cui il favore della maggioranza inclinava, ordinò che si sospendesse il giudizio definitivo e che tutt'e tre si mandassero a monsignor Rota, non più vescovo di Mantova, ma arcivescovo [142] titolare di Cartagine prelato autorevolissimo per dignità di grado, per dottrina eminente e per virtù; a lui si rimettesse la sentenza. La Commissione adottò unanime quella misura, sacrificando il suo amor proprio al desiderio di ottenere scrupolosa giustizia, secondo il volere di Don Bosco.
Monsignor Rota accettò l'arbitrato propostogli e il 13 maggio 1879 scrisse al segretario della Commissione: “Ho esaminato e, poco fidandomi del mio giudizio, ho fatto esaminare da persone competenti le tre Vite di San Pietro... Quella da scegliere è sembrata la scritta in cinque fascicoli e che porta per epigrafe: Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam (MATTH., XVI, 18) ed il testo di Origene: Nec adversus Petram, super quam Christus Ecclesiam aedificavit, nec adversus Ecclesiam portae inferi praevalebunt (ORIG. in Matth.)...”. Gli esaminatori vescovili dal canto loro formularono così il loro parere: “A noi sommessamente sembra che l'autore della Vita di San Pietro dettata in cinque fascicoli, abbia raggiunto lo scopo del programma; la chiarezza, la semplicità, l'evidenza la faranno leggere volentieri e con frutto al popolo, a cui servizio doveva dettarsi”. Quindi, notate alcune mende di lingua e di stile, soggiungevano: “Del resto, non dubitiamo asserire che le gesta di San Pietro vi sono rappresentate nel modo che può tornare utile alla maggioranza dei leggitori appartenenti alla classe del popolo”. Con questo giudizio accettato dalla Commissione il premio fissato da monsignor Ceccarelli restava definitivamente attribuito all'autore del lavoro recante in fronte i due sopra indicati testi.
La Commissione pertanto fu convocata il 25 giugno per procedete all'apertura delle schede che portavano le epigrafi corrispondenti ai due scritti su San Pietro e su San Paolo giudicati meritevoli del premio. Assisteva alla seduta anche il teologo Margotti, che fu pregato di aprire le schede. Aperta quella corrispondente ai due testi di San Matteo e di Origene, [143] trovò che portava il nome: SAC. GIOVANNI BOSCO. Non appena fatto noto questo risultato; Don Bosco si affrettò a dichiarare non essere stata sua intenzione di aspirare al premio; ma che, trattandosi di glorificare il Principe degli Apostoli, non aveva resistito al desiderio di concorrere a celebrarne le lodi. Con l'unire segretamente il suo lavoro a quelli affidati alla Commissione, aver egli avuto per fine di assicurarsi se il suo lavoro fosse per riuscire di quel maggiore vantaggio per il popolo, che era nelle viste del promotore di quel concorso. Dopo tale protesta, dichiarò che, declinando fin d'allora l'acquisto del premio, ne faceva cessione a quell'Opera e destinazione, che sarebbe più tardi indicata dallo stesso promotore monsignor Pìetro Ceccarelli[92].
Le condizioni del concorso non esigevano lavori interamente inediti; perciò Don Bosco aveva semplicemente rimaneggiato la sua Vita di San Pietro uscita nel centenario dell'Apostolo, togliendo, aggiungendo, modificando[93]. Il libro non vide la luce che nel 1884[94].
Parecchie volte si è affacciata in queste pagine la menzione della piccola Lotteria aperta verso il termine del 1878. La necessità di ricavarne il maggior utile possibile consigliò di tirare in lungo per l'estrazione, finchè vi fosse speranza di smerciare biglietti. Con la data del 24 maggio Don Bosco spedì una nuova circolare. E’ mirabile la costanza, con cui egli spingeva avanti un impegno, dopochè aveva creduto bene di addossarselo. [144]
Mi trovo al termine di una piccola lotteria iniziata a favore de' miei poveri giovanetti di questo istituto e rimanendo inesitati un numero notabile di biglietti, mi prendo la libertà, a nome dei medesimi, di raccomandarne N. ... alla carità di V. S. B.
Spero che li vorrà gradire; se però al 30 di giugno le rimanessero biglietti che Ella non giudicasse di ritenere può liberamente rimandarli.
Iddio misericordioso che promette larga mercede per un bicchier d'acqua fresca data in suo onore, voglia copiosamente rimeritare l'opera sua benefica, mentre con profonda gratitudine ho l'onore di professarmi.
Nel frattempo erano avvenute due cose. Essendosi dal Servo di Dio spediti biglietti anche in Francia, tanti Francesi avevano raddoppiato il benefizio col pagare il valsente e restituire i biglietti. Inoltre molti nuovi oggetti offerti nel corso della Lotteria avevano reso legittimo l'aumentare il numero dei biglietti in ragione dei valori aggiunti. Ora Don Bosco mandò in Francia una circolare, nella quale diceva essere egli venuto nel proposito di devolvere il profitto di tutti questi biglietti a vantaggio dei giovani raccolti negli oratori e nelle case di Nizza, Marsiglia, Navarra e Saint-Cyr, “che, dipendendo egualmente dai Salesiani, avevano egual diritto di godere i frutti della Lotteria”[95]. Fiducioso elle questa avrebbe incontrato favore in Francia come in Italia, inviò a persone determinate biglietti individuali o, pacchi da distribuire.
Il Bollettino teneva a bada coloro elle primi avevano risposto all'appello di Don Bosco nella stia lettera del capo d'anno ai Cooperatori, insistendo sempre sulla propaganda e pregando di restituite i biglietti non smaltiti[96]. In un supplemento [145] al numero di agosto pubblicò l'elenco degli oggetti, che avevano raggiunto la bella cifra di 501 e la cui parte più cospicua era costituita dalla collezione dei dipinti avuti per via dell'eredità dal barone Bianco di Barbanìa. In vista di queste opere d'arte Don Bosco offriva biglietti anche a personaggi altolocati, come ai Sovrani d'Italia e al conte di Chambord. La casa reale ne ritenne cinquecento; invece il conte e la contessa di Chambord feceno esprimere il loro rammarico, perchè la necessità di soccorrere tante opere francesi togliesse loro il modo di largheggiare quanto avrebbero voluto per l'Oratorio di Torino. Tuttavia nel mese di ottobre, forse per effetto della circolare destinata alla Francia, il Conte fece tenere a Don Bosco la somma di cinquecento franchi, facendogli pure intendere com'ei desiderasse di coadiuvare le tante sue opere buone, e che, non avendo potuto accettare i biglietti della Lotteria, voleva pur dimostrargli la stima e venerazione che per lui nutriva, raccomandandosi in pari tempo caldamente alle sue preghiere[97]. Don Bosco poi distribuì biglietti quanti più potè a Cardinali e a Vescovi. Le loro numerose lettere di risposta sono tanti documenti della carità che animava l'Episcopato italiano, benchè ridotto dalla rivoluzione in gravi angustie finanziarie, e sono insieme prova tangibile della stima che i sacri Pastori nutrivano per Don Bosco; fra le altre ne son rimaste anche due dei Vescovi di Angouléme e di Grerioble. Cinque decine di biglietti erano stati acquistati dal gran Magistero dell'Ordine Mauriziano[98].
Per aver maggiori mezzi con cui sostenere le case di Francia Don Bosco aveva escogitato anche di pubblicare sul Figaro di Parigi notizie dell'Opera sua: per tal via persone benefiche e disposte a soccorrere chi lavorava a bene della gioventù povera, ma non informate, o informate male delle istituzioni cattoliche, avrebbero saputo dove estendere la loro generosità. Il conte Cays fu incaricato di venirne a capo. [146] Questi ne interessò l'abate Paulin, che aveva conosciuto a Auteuil come aiutante maggiore dell'abate Roussel. Il redattore capo del giornale accolse favorevolmente la proposta di pubblicare qualche articolo; richiese però che gli si fornissero maggiori spiegazioni intorno alla natura della cosa. Avute le spiegazioni, il direttore rispose che l'obbligo di limitarsi a favorire istituzioni francesi per non abusare della carità e generosità dei lettori, metteva il giornale nell'impossibilità di raccomandarne altre[99]. Diremo qui, precorrendo gli anni, che, quando i primi Salesiani andarono a Menilmontant, un redattore del Figaro parlò a Don Bellamy di aprire una sottoscrizione, del cui provento il cinquanta per cento fosse per il giornale, ma Don Bellamy ricusò, dicendo che Don Bosco non usava ricorrere in quella forma alla carità del pubblico.
L'estrazione della Lotteria fu fatta il 30 agosto. A chi aveva acquistato biglietti erasi risposto individualmente con uno stampato recante la firma di Don Bosco e così concepito: “Con animo altamente riconoscente il sottoscritto le accusa ricevuta dell'importo dei biglietti della Lotteria che V. S. Benemerita ebbe la bontà di ritenere e unitamente ai giovanetti beneficati le prega dal celeste Rimuneratore ogni benedizione”. Ma quando tutto fu terminato, Don Bosco stimò suo dovere indirizzare una lettera di ringraziamento a quanti l'avevano aiutato nell'impresa.
Benemeriti Cooperatori e benemerite Cooperatrici,
Come già vi fu annunziato, la Lotteria, che fin dal principio dell'anno corrente io raccomandava alla vostra carità, è felicemente terminata.
Per la qual cosa io sento il dovere di ringraziarvi dell'aiuto che mi avete prestato per il suo buon esito, sia coll'inviare doni, sia col ricevere e smerciare biglietti, e colla presente ve ne ringrazio di tutto cuore.
Era certamente impossibile che tutti quelli i quali vi presero parte, venissero favoriti dalla sorte; ma chi non vinse alcun premio, ha nondimeno [147] da consolarsi nel pensiero di avere colla sua limosina concorso ad un'opera buona; ha da consolarsi soprattutto nella speranza di riceverne da Dio il centuplo in questa vita e un premio imperituro nell'altra.
Dal canto mio vi assicuro l'aiuto delle povere mie preghiere, e di tutte le persone che vivono nelle nostre case; soprattutto pregheranno per voi tanti poveri giovanetti, ai quali Iddio per mezzo vostro provvede vitto e vestito, mentre noi ci occupiamo per dar loro quell'istruzione e quella educazione, che li ha da rendere buoni cristiani e probi cittadini.
Intanto ho il bene di farvi sapere che il 19 del corrente mese, giorno consecrato alla Purissima Vergine, si farà un servizio religioso nella chiesa di Maria Ausiliatrice in Torino, per implorare le benedi-zioni del Cielo sopra di voi, sopra le vostre famiglie e sopra i vostri interessi spirituali e temporali, Si celebrerà una messa assistita da tutti i nostri giovanetti tanto studenti quanto artigiani, con una Co-munione generale e con altre speciali preghiere.
In fine nella speranza che, nel sostenere le nostre opere di beneficenza a pro di tanta povera gioventù abbandonata, il valido vostro appoggio non mi verrà meno neppure per l'avvenire, colgo questa propizia occasione per professarmi con alta stima e profonda gratitudine
Vostro obbligatissimo Servitore
Fra la seconda metà di settembre e la prima di ottobre Don Bosco visitò le case della Liguria, probabilmente nell'occasione degli esercizi spirituali che si facevano a Sampierdarena; ma di quel giro non sapremmo nulla, se non fosse di un cenno che si riscontra in questa bella lettera di condoglianza al conte Eugenio De Maistre, vedovato della consorte
Non so come cominciare questa lettera! Giunto dalla visita delle case della Liguria mi è data la tristissima notizia che la Signora Contessa di Lei moglie non è più tra i vivi. Io mi immagino il dolore e la costernazione che tale disgrazia avrà cagionato in Lei, in tutta la sua famiglia! Mi rincresce di non saper che fare se non delle preghiere. Questo abbiamo fatto e facciamo per Lei e per la compianta Defunta. Quando Ella era gravemente ammalata la Sig. Duchessa ce lo fè sapere chiedendo preghiere. Si fecero in tutte le nostre case, ma Dio non giudicò di esaudirci o meglio giudicò che quella rosa fosse pervenuta a tal segno di bellezza agli occhi di Dio Creatore da meritare di essere [148] svelta dal giardino terrestre per venire trapiantata nel giardino dei godimenti imperituri del cielo. Adoriamo i Decreti divini e diciamo Fiat voluntas tua.
Ella però, Sig. Eugenio, ha più cose da consolarsi in questa afflizione. Di aver perduta una vera madre di famiglia in terra, ma ha guadagnato una celeste protettrice. Di poterla raggiungere un giorno, e può essere presto, in uno stato assai migliore che non era quello della vita mortale, che fino a tanto che vivremo potremo colla preghiera e colle buone opere suffragarla se è ancora necessario, od almeno accrescerle la gloria accidentale del Paradiso qualora si trovasse già colà accolta.
Dio la benedica, o sempre caro Sig. Eugenio, e con Lei benedica tutta la sua famiglia, e tutti li illumini e li diriga con sicurezza per la via del cielo. Amen.
Con tutta venerazione ed affezione ho il piacere di potermi professare in G. C.
Abbiamo dovuto staccare da questo capo la storia di una lotta, che Don Bosco nel 1879 sostenne dall'Oratorio e per l'Oratorio, ma che bisogna poter seguire senza interruzioni e per non breve tratto nelle sue varie fasi. Ne vedemmo già i prodromi nella vertenza per gl'insegnanti; ma la tempesta più grossa si scatenò dopo. Il Servo di Dio disse che l'Oratorio era nato e cresciuto sotto le bastonate; ma sotto le bastonate continuava pur sempre a vivere.
LA tattica temporeggiatrice che vedemmo scelta da Don Bosco nella sua vertenza con il Consiglio Scolastico di Torino per gl'insegnanti dell'Oratorio, non che ad arrestare la lotta, non valse nemmeno a rallentarne il corso. Per ovviare al pericolo che si abbia da taluno a fraintendere l'atteggiamento assunto e mantenuto con fermezza incrollabile da Don Bosco in questa guerra, è necessario conoscere bene lo stato della legislazione scolastica italiana d'allora nella parte che si riferiva all'insegnamento secondario non governativo nè pareggiato.
La pubblica e privata istruzione in Italia era sempre governata dalla legge 13 novembre 1859, detta legge Casati, dal nome di Gabrio Casati che ne fu l'autore. Lo spirito di quella legge era di libertà. Essa riconosceva accanto all'insegnamento ufficiale anche quello libero sotto varie forme, dite sole delle quali hanno per noi particolare importanza. L'articolo 246 diceva: “E’ fatta facoltà ad ogni cittadino, che abbia l'età di venticinque anni compiti ed in cui concorrano i requisiti morali necessari, di aprire al pubblico tino stabilimento d'istruzione secondaria, con o senza convitto”. Seguivano tre condizioni, fra cui principalissima quella che i diversi insegnamenti fossero impartiti da istitutori legalmente abilitati. Si avevano così gl’istituti privati propriamente detti, [150] che, a tenor di legge, il Ministero doveva sorvegliare, ma non governare; la qual sorveglianza governativa aveva per oggetto la tutela della morale, dell'igiene, dell'ordine pubblico e delle istituzioni.
Un'altra forma d'istruzione secondaria privata riposava sugli articoli 250 e 251, ed era quella che si dava “nell'interno delle famiglie sotto la vigilanza dei padri o di chi ne faceva legalmente le veci, ai figli della famiglia ed ai figli dei congiunti della medesima”; come pure “quella che più padri di famiglia associati a questo intento” facessero “dare sotto l'effettiva loro vigilanza o sotto la loro responsabilità in comune ai propri figli”. Era la così detta scuola paterna che la legge dichiarava “prosciolta da. ogni vincolo d'ispezione per parte dello Stato” Di tal fatta potevasi considerare anche l'istruzione secondaria data in ospizi, dove generosi benefattori dell'umanità raccoglievano poveri e derelitti giovani, per adempiere verso di essi il ministero paterno. A ben vero che circolari di Ministri, interpretazioni di Provveditori, disposizioni di Consigli Scolastici andavan riducendo in pratica a una mera lustra il principio legale del libero insegnamento secondario; ma indubbiamente nessun potere esecutivo ha il diritto di sostituirsi alla legge, e un cittadino che cerchi di mandare a vuoto ingerenze e imposizioni arbitrarie non incorre certo la taccia di disobbedienza alle leggi dello Stato.
Ora che conosciamo una legge statutaria, facciamo la conoscenza dei preposti alla. sua esecuzione in Torino, e primieramente del Prefetto, che si mostrò il più zelante di tutti nella campagna contro l'Oratorio. Reggeva la provincia di Torino un tal Minghelli Vaini, del quale l'allora celebre consigliere municipale Dupraz descrisse la vita in una lunga lettera confidenziale per Don Bosco , che noi possiamo riassumere così: attivissimo rivoluzionario a Modena nel 1848, membro del Governo provvisorio di quel ducato e dopo l'annessione chiamato al Ministero; nel 1849 Direttore del nuovo penitenziario di Oneglia, ma dimostratosi privo dei requisiti, [151] voluti sia per organizzare elle per dirigere quello stabilimento; dopo un'ispezione e un'inchiesta trasferito alla direzione della casa di pena delle donne e dell'ospizio celtico in Torino; Deputato al parlamento; Ispettore delle carceri, Prefetto a Cagliari e a Torino. Un altro dell'ex-ducato modenese, Nicomede Bianchi, di Reggio Emilia, Assessore per la Pubblica Istruzione a Torino, fu veramente il factotum in quest'affare, portandovi lo spirito settario di cui diede tante prove ne' suoi lavori storici. Il provveditore Rho era spalleggiato dal suo fratello prete, semplice maestro elementare, ma abusivamente in funzione d'ispettore scolastico. Entrambi erano stati condiscepoli di Don Bosco alle scuole di Chieli. Covava in essi un vecchio rancore contro il Beato, da quando un loro nipote era stato licenziato dal collegio di Mirabello. Il focoso teologo aveva minacciato che si sarebbe fatto rendere conto dello sfregio, com'ei lo chiamava; nel 1879 blaterava contro l'Oratorio e annunziava qua e là come certa la chiusura delle sue scuole, senza dimostrare in alcun modo che questo severo provvedimento fosse per dispiacergli. Al Provveditore Don Bosco, tornato da Roma, fece visita e, alludendo alle sue ispezioni, disse: - Spero che tu almeno mi tratterai bene! - Ma l'altro rispose che egli stava in tutto per la legge. Don Bosco insistette ricordandogli l'antica amicizia e allegando le sue ragioni; ma non ne strappò altra risposta che: - Mettiti in regola! Mettiti in regola! - Un motivo di tanta durezza se l'era lasciato sfuggire di bocca, parlando con qualcuno nel cortile stesso dell'Oratorio: temeva, facendo altrimenti, di andar Provveditore a Palermo od anche di perdere il pane.
Ed ora narriamo i fatti. Nella novena di Maria Ausiliatrice, il segretario del Consiglio Scolastico Provinciale mandò al Beato copia conforme di un decreto ministeriale del 16 maggio, ordinante la chiusura del ginnasio annesso all'Oratorio di San Francesco di Sales: incaricato dell'esecuzione, il Prefetto, quale Presidente del Consiglio Scolastico di Torino. Il provvedimento draconiano si fondava sopra due motivi: [152] la contravvenzione alle disposizioni vigenti rispetto all'idoneità legale degli insegnanti e l'inganno ripetutamente teso da Don Bosco all'autorità scolastica torinese col mandare una lista d'insegnanti abilitati, mentre in realtà si serviva di altri non abilitati. Si noti però che questa comunicazione del decreto non era ancora fatta in forma ufficiale, ma a modo di semplice avviso, affinchè si prendessero le debite misure. Il Prefetto agì in tal maniera, perchè la maggioranza del Consiglio Scolastico essendo favorevole a Don Bosco, aveva deliberato che la comunicazione ufficiale del decreto si facesse solo il giorno prima che gli alunni partissero per le vacanze autunnali.
Bisognava profittare del tempo per iscongiurare il disastro. Don Bosco andò a trovare il Prefetto per ringraziarlo del riguardo usatogli, per esporgli le sue considerazioni e per rimettergli il seguente foglio che gli servisse di promemoria.
Prego V. S. Ill.ma a volere ascoltare l'esposizione di alcune cose elle si riferiscono ai poveri giovanetti raccolti nell'ospizio detto Oratorio di S. Francesco di Sales.
Schiarimenti sopra il decreto con cui il Sig. Ministro della pubblica istruzione ordinava la chiusura delle scuole Ginnasiali del Ritiro ossia ospizio, noto col nome di Oratorio di S. Francesco di Sales.
Mosso dal vivo desiderio di provvedere in qualche modo a tanti sfortunati giovanetti, elle pel loro abbandono, si vanno preparando un tristo avvenire, fin dall'anno 1841 mi sono dato cura di raccoglierne il maggior numero possibile in appositi giardini di ricreazione. Nel 1846 pei più abbandonati e pericolanti si aprì un caritatevole ospizio cui le autorità. civili e governative solevano inviare cotale sorta di miserabili fanciulli. Scopo principale era di far loro apprendere un'arte o mestiere per renderli capaci di guadagnarsi un giorno onesto sostentamento. Tra i ricoverati poi ve n'erano alcuni elle avevano sortito dalla natura attitudine speciale per la scienza; ed altri, perchè appartenenti a famiglie nobili o di civile condizione, ma decadute, parve opportuno elle venissero destinati allo studio delle classi secondarie Se ne ottenne un buon risultato, mentre non pochi di loro giunsero a fare onorati carriera nel commercio, nella milizia, nell'insegnamento [153], e taluni anche a coprire delle prime cattedre nelle Università dello Stato. Parecchi eziandio desiderosi di appigliarsi all'arte tipografica divennero allievi della Tipografia di questo medesimo Istituto. Queste scuole furono dall'autorità scolastica in ogni tempo considerate come opera caritatevole, casa di ricovero, scuole paterne in conformità della legge Casati sulla pubblica istruzione, articoli 251 così espressi: L'Istruzione ecc... Anzi i Regi Provveditori delle scuole, i Ministri della pubblica istruzione e lo stesso regnante Umberto I furono sempre i nostri più insigni benefattori col consiglio e coll'aiuto pecuniario. Solamente nel passato anno scolastico 1877-78 il Sig. Regio provveditore ci ordinò di porre in classe insegnanti titolati, sotto pena di non più permettere l'apertura delle nostre classi ginnasiali a favore di questi nostri poveri giovani.
Considerando che questo sarebbe stato un infortunio per tanti figli del popolo che verrebbero così privati di un mezzo con cui campare la vita e forse taluni non potendosi applicare a faticoso mestiere, dovrebbero ritornare nel tristo abbandono in cui giacevano;
Desideroso d'altro canto di obbedire per quanto è possibile alle autorità dello Stato, ho procurato di mettere in classe insegnanti col loro rispettivo titolo; e, poichè alcuni di essi sono applicati all'amministrazione materiale dell'istituto, mettevano supplenti idonei, elle hanno titoli equipollenti, e costoro assistevano e dirigevamo le classi in quelle ore in cui quelli non potevano trovarsi in classe. Le cose erano così avviate, ed io era assente da Torino, quando il Regio Sig. Provveditore (Lettera di esso, 2 Genn. anno corrente) venne improvvisamente a fare novella visita alle nostre scuole. Egli dichiarò elle per la pulizia, igiene, disciplina e moralità si lasciava niente a desiderare, ma notò che tre insegnanti titolari erano in quelle ore occupati nei rispettivi uffizii amministrativi, e in loro vece trovò i supplenti; per questo solo motivo, come sta scritto nella mentovata lettera, minacciò la chiusura dell'istituto se noli stavano permanenti al loro posto i professori dati in nota. Credo bene di osservare elle l'anno scolastico dura in questo ospizio dai 15 di Ottobre ai 15 di Settembre, e che l'orario delle scuole potendo essere ordinato secondo la maggior comodità degli insegnanti, quantunque in alcune ore ed in alcuni giorni i singoli professori titolari non si trovino in classe, essi noli abbandonano punto il regolare insegnamento; poichè se in certe ore e giorni sono impediti dalle molte loro occupazioni di tenersi all'orario legale, compensano con esuberanza l'insegnamento nelle ore libere dalla rispettiva amministrazione.
Devesi pure osservare elle non esiste legge alcuna che obblighi gli Istituti privati ad osservare gli orarii scolastici governativi. Ignoro se vi siano leggi le quali proibiscano ai titolari di farsi supplire, quando essi noli possono trovarsi nella rispettiva classe, tanto più servendosi di insegnanti coli titoli equipollenti. Vi sono molti fatti elle militano [154] in contrario, ed in questa nostra Torino vi è un pubblico Insegnante che supplisce da più mesi in Liceo di primo grado senza titolo di sorta, se non vogliamo chiamare titolo equipollente, l'approvazione del Sig. R. Provveditore.
Nulladimeno volendomi non solamente tenere sottomesso, ma eziandio ossequente all'autorità scolastica, chiedo che per via di favore mi si voglia dare un lasso di tempo, affinchè io possa provvedere non solamente quanto prescrivono le leggi ma quanto desiderava lo stesso Sig. Provveditore aggiungendo queste parole: ecc. ecc.
Supplico pertanto la S. V. Ill.ma come padre dei poveri figli del popolo, a voler interporre i suoi buoni uffizi, sia presso il Consiglio Scolastico della Provincia di Torino, e sia, se occorre, anche presso il ministro della Pubblica Istruzione, affinchè non a me, ma a questi miei giovani ricoverati sia concesso lo spazio di tempo implorato.
Spero di ottenere il favore che imploro, ma qualora poi non potessi conseguire l'implorato favore, per non danneggiare l'avvenire dei miei poveri giovani e gettarli in mezzo ad una strada, mi sottoporrei al grave sacrifizio di modificare l'Amministrazione dell'Istituto, affinchè ogni professore possa trovarsi nella propria classe, a quell'orario che si volesse prescrivere.
Ho l'onore di potermi professare
Il Beato mirava a far ritirare il decreto; perciò scrisse e inviò copia di questa esposizione a persone influenti di Torino e di Roma, come al commendator Barberis, al presidente dei ministri Depretis, al ministro della guerra generale De la Roche, amico di Don Dalmazzo, e ad altri pezzi grossi. Egli disse in Capitolo l'8 giugno: - Il ministro Coppino intenda almeno, che abbiamo alti sostenitori e come, nonostante la sua malignità, il Signore disponga che possiamo anche umanamente resistere. Scrivere a lui non mi conviene, perchè, avendogli io scritto e parlato varie volte negli anni scorsi, mi prometteva sempre mari e monti a parole, mentre invece co' fatti si studiava poi d'imbrogliarmi in ogni maniera.
Persuaso che non vi fosse nulla d'imminente da temere, credette bene di passare da Nicomede Bianchi, che tanta influenza [155] esercitava nel Consiglio Scolastico e Municipale di Torino. Si conoscevano da un pezzo. Don Bosco nella suddetta adunanza capitolare, in cui espose ai Superiori lo stato della questione, riferì sul punto più essenziale il dialogo avuto con lui e che troviamo riportato nei verbali. Il Bianchi, appena lo vide, senza lasciargli aprir bocca, incominciò ex abrupto:
- Oh Don Bosco! Ella viene per parlarmi di quel decreto.
- Oh veda! non tema; si è deciso in Consiglio di non mandarglielo, se non la vigilia della partenza dei giovani per le vacanze.
- Questo è bene; ringrazio cordialmente tutti coloro che presero parte a quest'atto di benignità. Ma Vostra Signoria capisce che questo decreto è un atto di biasimo e di sfiducia inflitto a me. Io credo di non meritarmelo.
- Che cosa mi consiglierebbe lei? Io vorrei farlo ritirare, presentando documenti opportuni.
- Io ho studiato la cosa e credo che avrebbe in mano ragioni sufficienti per ottenere questo legalmente; ma non glielo consiglio per due motivi. Primo, perchè, se fossero costretti a ritirarlo, farebbero dopo tante malignità, che per lei sarebbe peggio; secondo, sebbene Ella abbia ragioni da recare, altri ne addurrebbero altre in contrario, e di riffa di raffa, il decreto starebbe sempre. Veda, in questo decreto è interessato il Consiglio Scolastico di Torino, il municipio e il ministero dell'Istruzione Pubblica.
- Ma dunque devo tenermi questo atto di sfiducia?
- Senta: Ella per quest'anno va avanti e per un altr'anno si provveda di professori titolati che facciano scuola essi stessi.
- I professori titolati vi sono e fanno scuola... Siamo forse obbligati all'orario governativo? Questo, certamente no. [156]
- Dalla relazione fatta al Consiglio Scolastico risulta che non vi siano nell'Oratorio questi professori titolati.
- Allora Ella mandi subito una nota di essi al Prefetto, facendo risultare che questi professori vi sono, ne declini i nomi e unisca i rispettivi titoli. Urla cosa poi che io, non come consigliere municipale nè come membro del Consiglio Scolastico, ma come amico posso dirle è che Ella non solo non è tenuto a seguire l'orario governativo, ma a fine di evitare ogni vessazione o visita importuna, indichi per altri anni, in caso di bisogno, che per maggior comodità dei suoi professori ed allievi non sèguita l'orario comune, ma fa scuola al mattino di buon'ora e alla sera tardi; od anche con un metodo esclusivo si fa di mattino alla tal ora o di sera alla tal altra così, se viene il Provveditore al mattino senza avvisare, si dice che i giovani fanno studio e che la scuola è alla sera; se il Provveditore viene alla sera, si può dire che la scuola è stata fatta al mattino,
- Io la ringrazio tanto della grande benevolenza che mi usa, dicendomi tali cose; tuttavia si persuada che io noli ho mai cercato nè cerco di eludere la legge nè di contravvenirle; che ho ferma intenzione di uniformarmi ad essa; solamente devo dire che nella moltiplicità delle cose, alcune volte non si può seguire l'orario e altre volte è necessario lasciare il supplente.
Volendo poi informarsi meglio della sua posizione di fronte al Consiglio Scolastico e al municipio di Torino, gli fece molte interrogazioni, caso mai vi fosse qualche punto nero ch'egli non sapeva. Fu assicurato di no; anzi l'Assessore gli disse che nel Consiglio Scolastico si era parlato a lungo e con alti elogi dell'istituto di Don Bosco, delle sue opere e dei giovanetti poveri da lui ricoverati; essersi però detto che Don Bosco voleva eludere la legge e ingannare le autorità, mettendo a far scuola maestri non patentati (esistevano ancora le scuole elementari per ragazzi esterni) e facendo figurare [157] come professori, insegnanti senza diploma. - Questo è l'unico punto nero, disse Nicomede Bianchi. Andò il Provveditore e non trovò i professori a posto. Andò una seconda volta, e le cose erano come prima; anzi qualche suo maestro o chi altro fosse non sappiamo, dopo questa seconda visita ebbe a dire a qualcuno: Glie l'abbiamo fatta! l'abbiamo corbellato bene! E questo fu detto perchè nell'Oratorio avevano avuto tempo a far entrare in classe, prima del Provveditore, uno o due maestri patentati. Queste cose venute a notizia del Provveditore e comunicate in Consiglio provocarono l'atto di sfiducia e fecero proporre al ministero il decreto di chiusura.
Don Bosco fece notare con quanta leggerezza ed anzi ingiustizia si fosse provocato un atto Cosi odioso. Tutto perchè qualcuno, che non si sapeva chi fosse, a qualchedun altro pure ignoto aveva detto parole sconvenienti verso il Provveditore! Tuttavia egli fu molto contento di quel colloquio, durato molto a lungo. - Esteriormente, notò Dori Bosco, Nicomede Bianchi mi si mostrò benevolo e mi palesò varie cose a nostro riguardo, che importava grandemente di conoscere. Egli senza dubbio è uno dei più pericolosi nel Consiglio Scolastico e sarà probabilmente lui che ci ha dato il colpo di grazia; ma a volte il Signore parla anche per bocca dell'asina di Balaam.
Tutte queste cose Don Bosco portò a conoscenza dei Superiori principali; ma in casa non se ne sapeva nulla. Egli sperava di poter almeno ottenere la dilazione di due anni, concessa dalle leggi; e in due anni c'era tempo di far molto. Per questo si raccomandò caldamente al teologo Baricco, consigliere municipale e suo zelante amico, che però gli rispose[100]: “Io ho tutta la buona intenzione di favorire l'Oratorio di San Francesco di Sales dalla S. Vostra fondato, e sostenuto con tanto utile pubblico; vedo però troppo difficile, [158] per non dire impossibile, che l'autorità scolastica le conceda lo spazio di due anni per ordinarlo in conformità delle leggi. Già da parecchi anni il ministro inculca ai consigli provinciali di chiamare tutti gli istituti privati alla osservanza della legge; epperò a quest'ora un'indulgenza eccezionale non può più avere luogo. L'Oratorio di San Francesco di Sales è un istituto di grande considerazione per il numero degli alunni che contiene, ed una eccezione fatta per esso sarebbe da altri minori invocata. Io che veggo come vanno le cose credo di dare alla S. V. un salutare consiglio persuadendola a fare ogni sforzo per provvedere idonei e stabili insegnanti a tutte le scuole. In questo modo la vita dell'istituto sarà tranquilla, e niuno potrà turbarne il pacifico andamento. La Provvidenza in cui la S. V. confida le darà i mezzi per fare tutto e bene”. Allora il Servo di Dio scrisse al Prefetto questa lettera giustificativa:
Sebbene io abbia già declinato verbalmente il nome degli insegnanti nelle Classi Ginnasiali ai nostri poveri ricoverati, tuttavia giudico opportuno di darli qui scritti per norma dell'autorità scolastica cui Ella così degnamente presiede.
I professori pertanto che al presente somministrano l'insegnamento per queste poche settimane dell'anno scolastico, sono i seguenti:
5ª |
Ginnasiale Sac. |
Durando Celestino |
4ª |
„ „ |
Rua Michele |
3ª |
„ „ |
Bonetti Giovanni |
2ª |
„ „ |
Pechenino Marco |
Iª |
„ „ |
Bertello Giuseppe |
I loro titoli esistono nell'ufficio del R. Provveditore e se occorre ne manderò copia anche a V. S. Ill.ma.
Nell'anno prossimo 1879-80 avrà luogo qualche cangiamento; ma a suo tempo se ne darà regolare comunicazione, assicurando elle tutti saranno muniti dei titoli legali.
Mi permetta l'onore di professarmi
Firmato: Sac. Gio. Bosco. [159]
Ma altro che due anni di tempo!. Il ministro, conosciuta la deliberazione di proporgli che fosse ritardata fino al termine dell'anno scolastico la intimazione del decreto di chiusura, non solo non accondiscese, ma perentoriamente ingiunse al provveditore di far chiudere non più in là del 30 giugno. Il Rho gliene diede preavviso all'amichevole, soggiungendo[101]: “L'amicizia personale che mi lega a te da tanti anni, mi obbliga a consigliarti di accogliere con rassegnazione il Decreto e di eseguirlo con verità e sincerità. Ciò fatto potrai mandare al Ministro un ricorso, nel quale, premessa la dichiarazione che, da buon cittadino, hai obbedito alle disposizioni dell'Autorità Governativa, chiederai che ti sia concesso di riaprire il Ginnasio per l'anno scolastico 1879-80, promettendo di valerti nell'opera di insegnanti muniti di titoli legali e di disporre che questi attendano personalmente ed abitualmente all'ufficio loro. Questa domanda, appoggiata presso il Ministero da qualche persona autorevole, potrà, io penso, essere favorevolmente accolta, mentre quella, che fu già respinta due volte, e che tu ripetesti al Prefetto, di essere autorizzato a servirti di insegnanti sprovvisti di titoli almeno per due o tre anni, non sarebbe, a mio giudizio, favorevolmente accolta”.
Dopo il lampo, il tuono. Era la vigilia della Natività di San Giovanni Battista, festa in cui si celebrava l'onomastico di Don Bosco, quando un delegato di pubblica sicurezza comparve nell'Oratorio alle ore dieci col decreto, che consegnò in mano a Don Bosco, dando e ricevendo atto della consegna[102]. Sotto la medesima data la posta gli recava la mattina seguente un biglietto coli la preghiera per il collocamento di un giovane Gabbero Michele; glie lo inviava il signor Angelo Boggiani, che faceva parte del Consiglio di Stato, una sezione del quale aveva dato parere favorevole al decreto di chiusura. [160] Come pensare che Don Bosco potesse accettar il consiglio di “accogliere con rassegnazione” un decreto che lo obbligava a sì precipitosa chiusura delle sue scuole? L'Oratorio non era un collegetto che vivacchiasse di contrabbando in un angolo remoto della penisola; il nome di colui che ne reggeva le sorti, volava onorato e venerato per le bocche di mezzo mondo in Italia e all'estero; nè tanti ragazzi si buttavano così da un giorno all'altro sul lastrico. Credette dunque utile quello che prima aveva ricusato di fare, scrivere cioè immediatamente al ministro Coppino. Stese la lettera[103], ma non si decideva a spedirla; finalmente la spedì dopo tre giorni, un po' ritoccata.
Mi venne comunicata copia del Decreto Ministeriale di chiusura del Ginnasio da me tenuto in questo Oratorio Salesiano. Mi permetta di osservare che la proposta di chiusura fatta da questo Consiglio Scolastico, alla quale si appoggia esso Decreto, non ha fondamento legale (come apparisce dal qui unito Documento) sia perchè i diversi insegnamenti nel mio istituto sono affidati a professori muniti dei Titoli legali, secondochè prescrive l'art.° 246 della legge, citato senza fondamento contro di me nel Decreto, sia perchè non esiste nessuna delle gravi cagioni citate dall'art. 247 per la chiusura di un Istituto. Che poi i Professori titolati di questo Ginnasio, quando sono impediti dal far lezioni, si facciano supplire da altri insegnanti, è questo un fatto elle non può autorizzare la chiusura di un Ginnasio, sia perchè non contraddice a nessun articolo della legge, sia perchè si verifica in qualunque Istituto e pubblico e privato.
Perciò invoco dalla giustizia di V. E. la revoca del Decreto di chiusura, ed attendo dalla sua gentilezza due righe di risposta, affinchè se mai questa fosse sfavorevole (ciò che non credo) io possa per la tutela de' miei poveri alunni ricorrere a que' mezzi, che le leggi mi consentono.
Ho l'onore di professarmi di V. S.
In questo ricorso Don Bosco vedeva, se non altro, una ragione per guadagnare tempo, il che era pur qualche [161] cosa in tale frangente; onde scrisse al Prefetto della provincia:
Ho ricevuta la pregiatissima sua lettera che accompagnava il decreto ministeriale, con cui ordinava la chiusura delle nostre scuole Ginnasiali.
Tornandomi impossibile nel breve spazio di quattro giorni [feriali] fare esecuzione a tale decreto, e per altro lato i motivi sui quali esso si appoggia mancando di fondamento legale, ho deliberato di fare ricorso all'Autorità Superiore.
Tanto le partecipo, affinchè si compiaccia di sospendere l'esecuzione del mentovato decreto fino a nuovo avviso che certamente le verrà comunicato.
Ho l'onore di professarmi di V. S. Ill.ma
Don Bosco, dovendosi assentare da Torino, incaricò Don Rua di recarsi con Don Durando dal Prefetto per sentire dalle sue labbra quali fossero i suoi voleri relativamente al decreto di chiusura. Di male in peggio! Nel colloquio appresero elle egli intendeva dover essere i giovani allontanati dall'Oratorio; e poichè la sua risolutezza non ammetteva replica, lo pregarono di voler almeno concedere una proroga sia per terminare gli esami, elle era impossibile finire nel breve lasso di tempo fra l'intimazione del decreto e la data dello sfratto, sia per aver agio di recapitare quelli fra i giovani che non avevano più genitori. In questo parve disposto ad accondiscendere, sicchè si ritenne di poter andare avanti qualche giorno oltre il 30 giugno senza tenia di disturbi[104].
Ma fu un'illusione beli presto dissipata. Il giorno stesso di quella visita il Prefetto rispose alla lettera di Don Bosco, dicendogli di non potere in verun modo sospendere l'esecuzione del decreto ministeriale; se quindi entro il 30 del mese non si fosse ottemperato all'ordine di chiudere l'istituto, egli [162] minacciava di ricorrere ai mezzi somministratigli dalla legge, perchè venisse rispettata l'autorità del Governo, da cui il decreto emanava. “Per l'esecuzione, rinfacciavagli pure il funzionario, Ella ebbe non quattro, come erroneamente asserisse, ma bensì otto giorni di tempo, essendogliene stata fatta l'intimazione il 23 corrente”. Ma Don Bosco non aveva a buon diritto calcolato due giorni festivi, il 24 San Giovanni e il 29 domenica, e i due giorni dell'intimazione e della chiusura. Tranquillo, sereno e franco gli rispose:
Per gravi e legali motivi avendo fatto ricorso all'autorità Superiore, credeva venisse protratta l'esecuzione del decreto di chiusura delle scuole dei nostri poveri giovani fino a che la competente autorità si fosse pronunciata. Ora dalla nota prefettizia ricevuta ieri, rilevo che V. S. ne vuole perentoriamente l'attuazione entro quest'oggi 30 giugno.
A tale intimazione io debbo sottomettermi illimitatamente. Perciò le partecipo che oggi stesso l'insegnamento Ginnasiale è cessato in questo Ospizio; mi studierò di applicare gli allievi in qualche mestiere compatibile colla loro età e condizione; quelli che hanno ancora genitori verranno possibilmente consegnati ai medesimi.
In ultimo alcuni allievi della quinta Ginnasiale, dovendo presentarsi all'esame dì Licenza, dovranno dimorare nell'Ospizio fino all'epoca dei pubblici loro esami.
Il Prefetto scambiò qualche parola col Pretore, per vedere se questi gli avrebbe prestato mano e imposto lo sgombero con la forza; ma il Pretore non volle saperne d'infierire contro tanti poveri ragazzi. Giovani orfani o poverissimi si presentavano in prefettura a chiedere che si provvedesse a ricoverarli. Finalmente il 2 luglio furono concessi alcuni giorni per ultimare gli esami. Che era intervenuto a calmare gli spiriti? Il ministero vacillava e ne sembrava certa la caduta. In tali momenti i funzionari avveduti si rammentano spesso di [163] Talleyrand e del suo: Surtout, pas de zèIe. Lo zelo invece non lasciava posa a Don Bosco, che, dato nuovamente di piglio alla penna, mise in carta una difesa da mandare al ministro dell'Istruzione Pubblica, prospettando meglio il carattere di paterne che avevano le sue scuole e appellandosi alle disposizioni della legge Casati. Uno scatto eloquente di santa indignazione gli esce dal cuore là dove confuta l'accusa d'aver voluto trarre in inganno le autorità scolastiche.
Schiarimenti sopra il decreto con cui il signor Ministro della pubblica istruzione ordinava la chiusura delle scuole Ginnasiali del Ritiro, ossia Ospizio, col nome di Oratorio di S. Francesco di Sales in Torino.
Alla E. V. è certamente noto come pel vivo desiderio di provvedere in qualche modo a tanti sfortunati giovanetti, che pel loro abbandono vanno preparandosi un tristo avvenire fin dall'anno 1841 mi sono dato cura di raccogliere il maggior numero possibile in appositi giardini di ricreazione.
Nel 1846 pei più abbandonati e pericolanti si aprì un caritatevole ospizio, cui le autorità civili e governative solevano inviare tale sorta di miserabili fanciulli.
Scopo principale era di far loro apprendere un'arte o mestiere per renderli capaci di guadagnarsi un giorno onesto sostentamento. Fra i ricoverati poi ve ne erano alcuni che avevano sortito dalla natura attitudine speciale per la scienza, ed altri, perchè appartenenti a famiglie nobili o di civile condizione ma decadute, venivano destinati allo studio delle classi secondarie. Se ne ottenne buon risultato, mentre non pochi di loro giunsero a fare onorata carriera nel commercio, nella milizia, nell'insegnamento e taluni anche a coprire delle prime cattedre nelle università dello Stato. Parecchi eziandio desiderosi di applicarsi all'arte tipografica, divennero allievi della Tipografia di questo medesimo Istituto.
Queste scuole furono dall'autorità scolastica in ogni tempo considerate come opera caritatevole, casa di ricovero, a guisa di numerosa famiglia di cui lo scrivente sotto ad ogni rapporto fa le veci di padre. Ciò tutto in conformità della legge Casati sulla Pubblica Istruzione articoli 251-252.
Articolo 251. - “L'Istruzione secondaria elle si dà nell'interno delle famiglie sotto la vigilanza dei padri o di chi ne fa legalmente le veci, ai figli di famiglia ed ai figli dei congiunti della medesima, sarà prosciolta da ogni vincolo d'ispezione per parte dello Stato”.
Articolo 252. - “All'istruzione, di cui nell'articolo precedente, [164] sarà eguagliata quella che più padri di famiglia, associati a questo intento, faranno dare sotto l'effettiva loro vigilanza e sotto la loro responsabilità in comune ai propri figli”.
Anzi i Regi Provveditori delle scuole, i Ministri della Pubblica Istruzione si resero sempre benemeriti col favore della loro autorità, coll'aiuto pecuniario ed indirizzandovi anche poveri giovanetti che la sventura avesse gettati dall'agiatezza nella miseria. I Reali nostri sovrani, e lo stesso regnante Umberto I furono sempre i nostri più insigni benefattori.
Solamente nel passato anno scolastico 1877-78 il sig. Regio Provveditore di questa Provincia Torinese ci ordinò di porre in classe insegnanti titolati, sotto pena di non più permettere l'apertura delle nostre classi Ginnasiali. Tale esigenza cagionava non leggiero disturbo e spesa; tuttavia:
Considerando che questo sarebbe stato un infortunio per tanti figli del popolo che forse non potendosi applicare a faticoso mestiere, dovrebbero ritornare nel tristo abbandono in cui giacevano;
Desideroso d'altro canto di obbedire per quanto è possibile alle autorità dello Stato, ho procurato di mettere in classe insegnanti col loro rispettivo titolo; e poiché alcuni di essi sono applicati all'amministrazione materiale dell'istituto, mettevano supplenti idonei, che hanno titoli equipollenti, e costoro assistevano e dirigevano le classi nelle ore in cui quelli non potevano trovarsi.
Le cose erano così avviate quando in tempo di mia assenza il Regio Sig. Prov. (lettera di esso, 2 Gennaio anno corrente) venne improvvisamente a far novella visita alle nostre scuole. Egli dichiarò che per la pulizia, igiene, disciplina e moralità si lasciava niente a desiderare; ma notò che tre insegnanti titolari erano in quelle ore occupati nei loro uffizi amministrativi e in loro vece trovò i supplenti. Per questo solo motivo, come sta scritto nella mentovata lettera, minacciò la chiusura dell'Istituto se non stavano permanenti al loro posto i Professori dati in nota.
Credo bene di osservare che l'anno scolastico dura in questo Ospizio dai 15 di Ottobre ai 15 di Settembre, e che l'orario delle scuole potendo essere ordinato secondo la maggior comodità degli insegnanti, quantunque in alcune ore e in alcuni giorni i singoli Professori titolati non si trovino in classe, essi non abbandonano punto il regolare insegnamento; perchè se in certi giorni e in certe ore sono impediti dalle loro molte occupazioni di tenersi all'orario legale, compensano con esuberanza l'insegnamento nelle ore libere della rispettiva Amministrazione.
Devesi pure osservare che non esiste legge alcuna che obblighi gli istituti privati ad osservare gli orarii scolastici Governativi. Ignoro pure se vi siano leggi le quali proibiscano ai titolari di farsi supplire quando essi non possono trovarsi nella rispettiva classe; avendone [165] in questa nostra Torino dei pubblici insegnanti che suppliscono in Licei di primo grado senza titolo di sorta, se noti vogliamo chiamare titolo equipollente l'approvazione del Sig. R. Provveditore.
Nulla di meno volendomi non solamente tenere sottomesso ma eziandio ossequioso all'autorità scolastica, chiedeva che per via di favore mi si volesse dare un lasso di tempo, affinchè io potessi provvedere non solamente quanto prescrivono le leggi, ma quanto desiderava lo stesso signor Provveditore. Nella istanza presentata al signor Presidente scolastico aggiungeva queste parole:
“Supplico pertanto la S. V. Ill.ma come padre di poveri figli del popolo, a voler interporre i suoi buoni uffizi sia presso il Consiglio Scolastico della Provincia di Torino, e sia, se occorre, presso il signor Ministro della Pubblica Istruzione, affinchè non a me, ma a questi miei ricoverati sia concesso lo spazio di tempo implorato.
“Qualora poi non potessi conseguire l'implorato favore, per non danneggiare l'avvenire dei miei poveri giovani e gettarli in mezzo ad una strada, mi sottoporrei al grave sacrifizio di modificare l'amministrazione dell'Istituto, affinchè ogni professore possa trovarsi nella propria classe a quell'orario che si volesse stabilire”.
Ho atteso molto tempo un favorevole riscontro o almeno una tolleranza fino alla fine dell'anno scolastico, ma invece il 23 corrente mese di giugno mi viene comunicato il decreto di chiusura delle nostre scuole.
ALCUNE OSSERVAZIONI SOPRA QUESTO DECRETO.
Finora in tutti i miei rapporti coll'autorità civile ho sempre tenuto quale rigoroso dovere di seguire la volontà di chi comandava, senza mai servirmi delle leggi. Nel caso presente io prego mi sia concesso di fare alcune rispettose osservazioni.
Dal giorno 23 al 30 Giugno, tolti i giorni festivi, rimangono quattro giorni per dare gli esami a quasi 300 allievi, prevenire i loro parenti o tutori, di cui molti abitano Città lontane, ed altri in assai remote Nazioni. Tali sono Francia, Inghilterra, Polonia, ecc.
Inoltre molti di questi allievi sono stati inviati dalle Autorità Governative o Municipali; mi ripugna il doverli loro rinviare; neppure queste Autorità potrebbero tosto trovare ai loro protetti un nuovo collocamento. Ciò dimanda certamente più di quattro giorni. Per questo lato il decreto tornava di impossibile esecuzione.
Si noti eziandio che molti di questi giovanetti sono orfani e assolutamente privi di mezzi di fortuna. Che farne? Gittarli nel primiero abbandono? Non ho cuore di farlo se non costretto dall'autorità, che credo non verrà a questo estremo.
Prima di venire alla proposta di chiusura sarebbesi dovuto eseguire l'articolo 248 e dar tempo al capo dell'Istituto di fare le sue [166] osservazioni. Se tale articolo fosse stato osservato si sarebbero dati i necessarii schiarimenti mettendo in grado il Consiglio Provinciale superiore per le scuole di proferire fondato giudizio.
La legge poi sulla pubblica istruzione proferisce (art.° 247) le cause di chiusura come segue: “Non può essere chiuso un Istituto se non per cause gravi in cui sarà impegnata la conservazione dell'ordine morale e la tutela dei principii che governano l'ordine sociale pubblico dello Stato, o la salute degli allievi”.
ERRORE DEL CONSIGLIO SCOLASTICO DI TORINO.
Il signor Ministro appoggia il suo Decreto sopra il Consiglio Scolastico di Torino e motivato dalla mancanza di idoneità legale degli insegnanti, e l'inganno in cui il Sac. Gio. Bosco volle trarre l'autorità scolastica, mandando una lista di insegnanti abilitati, mentre in realtà si serviva di altri non abilitati.
La prima parte di tale asserzione è priva di fondamento, poichè il medesimo sig. R. Provveditore in data 2 Gennaio asserisce di aver ricevuta il 15 Novembre 1878 la nota dei professori coi loro titoli legali intorno a cui non ebbe mai occasione di fare reclami. Dunque la proposta di chiusura è basata sopra l'errore. Riguardo la seconda parte dell'asserto che lo scrivente abbia voluto ripetutamente trarre in inganno l'autorità scolastica, mi fa vergogna dover rispondere.
Sono 38 anni che vivo in Torino servendo il Governo senza interesse di sorta, unicamente guidato dalla carità cristiana; ho costantemente impegnato sostanze, sollecitudini e vita, pei poveri figli del popolo, ed ho la coscienza di poter dire che: Qualsiasi giudice severo metta pure a rigoroso esame quanto ho pubblicato colla stampa, detto verbalmente, operato nei varii tempi; non ho timore che si possa imputarmi d'aver voluto trarre le autorità in inganno, Ben lungi dal cercare la evasione della legge, mi sono sempre messo di fronte colla più scrupolosa osservanza nel predicarla, osservarla, e farla osservare. Se talvolta ho chiesto benigna applicazione delle leggi alle supreme autorità, dalle quali fui sempre bene accolto e favorito, ciò sempre ho fatto non per me, ma sempre in favore dei miei poveri ed abbandonati fanciulli.
In quanto al sostituire insegnanti a quelli dati in nota al R. Provveditore, si è già sopra risposto. Qui ripeto soltanto.
I° Non vi è alcuna legge che proibisca un professore titolare che in caso di bisogno possa farsi supplire, restando egli tuttora responsabile della classe a lui affidata in un Istituto privato, tanto più quando il supplente ha titoli equipollenti.
2° Qui poi si deve nuovamente notare che negli istituti privati vi è piena libertà di stabilire l'orario che torna a comodità degli insegnanti perciò gli insegnanti titolari delle nostre classi potevano dichiarare come in realtà hanno dichiarato per iscritto all'autorità scolastica [167] che essi non di nome ma di fatto erano gli insegnanti della classe loro affidata (art. 246).
Il giorno 25 dello stesso mese si fece appello al Sig. Ministro perchè si degni di leggere gli schiarimenti notando che la brevità del tempo rendeva impossibile l'esecuzione del Decreto.
Il 26 si pregava il Sig. Prefetto di Torino a voler sospendere gli effetti del Decreto fino alla risposta del Sig. Ministro.
Il Sig. Prefetto risponde che se pel 30 non erasi dato esecuzione al Decreto, egli l'avrebbe fatto eseguire con quei mezzi che le leggi gli concedono.
Il 30 Giugno si dà comunicazione al Sig. Prefetto che sono chiuse le scuole, e che in ossequio alle leggi si studierà di dare collocamento agli allievi nel più breve termine possibile. Ed alcuni sono inviati alla propria famiglia.
Il giorno 2 Luglio il Sig. Prefetto concede alcuni giorni per dare sollecitamente gli esami dopo cui siano immediatamente allontanati dall'Istituto.
Ma dove inviarli mentre non pochi sono assolutamente orfani ed abbandonati, altri provengono da lontani paesi ed anche da rimote nazioni?
Quando questa apologia giunse a Roma, era avvenuto il crollo del ministero. Depretis, presentata alla Camera alta la legge per l'abolizione della tassa sul macinato, non seppe indurre i Senatori ad approvarla così come stava. Il Senato la rimandò alla Camera dei Deputati sostanzialmente rifatta, onde, nato un conflitto di poteri fra le due assemblee, la votazione riuscì contraria e portò alle dimissioni del gabinetto. L'Unità Cattolica in un bell'articolo qualificò allora il famoso decreto di chiusura delle scuole di Don Bosco “ultima gloriosa impresa del ministero”[105].
Queste preoccupazioni non diminuivano l'abituale tranquillità di Don Bosco. Infatti il 5 luglio inaugurò nel collegio di Valsalice un museo ornitologico, chiamandovi a presiedere la cerimonia il senatore Siotto-Pintòr. Quella collezione, non copiosa ma ordinata e in ottimo stato, era opera paziente. del canonico Giambattista Giordano, ammirato dai Torinesi non meno per valentia oratoria che per virtù sacerdotali. [168] Cultore appassionato e intelligente della natura, egli consacrava le ore libere nel suo ritiro di Rivalta a far ricerca di uccelli rari, a imbalsamarli e a classificarli, riducendo una sala della sua villa a museo e ordinandovi in vetrine un bel saggio di ornitologia nostrana e straniera. Morto lo studioso nel 1871, gli eredi offersero la raccolta a Don Bosco, che ne fece acquisto per il liceo di Valsalice. Così Don Bosco rispondeva all'insulto di chi gli chiudeva le scuole, col promuovere cioè gl'incrementi della cultura.
Il Siotto-Pintòr, che pigliava parte vivissima alle peripezie dell'Oratorio, nel suo discorso ebbe spunti e allusioni, intesi solo da chi era al corrente dei fatti, ma abbastanza pepati. C'è ancora chi rammenta il contrasto mirabile fra la calma di Don Bosco e la veemenza con cui il senatore sardo, ragionando col Servo di Dio nell'Oratorio, si scagliava contro chi era causa di quelle molestie. Nè stette contento a rumorose e vane querele, ma fino a Roma levò la voce in difesa dell'“impareggiabile” Don Bosco. Dovendo partire per Cagliari, non volle lasciar Torino senza scrivere al ministro dell'Istruzione Pubblica dimissionario, il quale si limitò a rispondergli che se l'Ospizio Salesiano si trovava veramente nelle condizioni legali asserite da lui, il Direttore presentasse al Consiglio scolastico regolare istanza, perchè com'era di sua competenza, volesse revocare l'ordine di chiusura[106].
Ma ben poco si poteva sperare dalle autorità locali; onde il Beato, la dimane dell'inaugurazione valsalicese, aveva scritto al Re Umberto I, supplicando la Maestà Sua di prendere sotto il suo patrocinio i giovani dell'Oratorio.
Un Istituto molte volte beneficato e si può dire fondato dai vostri Maggiori e dalla carità di V. M. generosamente sussidiato è ora colle più umili e calde parole raccomandato alla Clemenza Sovrana. Parlo dell'Oratorio di S. Francesco di Sales che ha per iscopo di raccogliere i più poveri e pericolanti figli del popolo, Un Decreto Ministeriale comunicato [169] il 23 dello scaduto giugno ordinava la chiusura delle scuole che da 35 anni sono m esso esercitate. Ciò mi obbligherebbe a gettare nel tristo abbandono circa 300 giovanetti, che mercè ancora pochi anni di educazione, sarebbero ridonati alla Società capaci di guadagnare onestamente il pane della vita.
Il cuore ripugna di farlo: soltanto la Maestà Vostra può venirci in aiuto e salvare dalla rovina questi poverelli.
La supplico pertanto di far leggere gli uniti schiarimenti con cui espongo fedelmente lo stato delle cose. Io non intendo biasimare, nemmeno disapprovare l'autorità, chiedo solamente che V. M. se non giudica d'annullare il mentovato decreto, ne faccia almeno sospendere gli effetti, fino a che siasi in qualche modo provveduto all'avvenire di questi sfortunati fanciulli. Essi tutti protendono le tremanti loro mani al paterno cuore di V. M. invocando la Clemenza Sovrana.
Tutti unanimi preghiamo Dio che si degni di conservare V. S. R. M.
Poichè il tempo incalzava, il giorno 8 telegrafò al conte Visone, ministro della Casa Reale: “Sono costretto mettere per le vie 300 poveri ragazzi. Urge. Supplico pronto provvedimento „. Nello stesso giorno il Conte spedì da Roma questo telegramma al cavalier Crodara Visconti, Direttore della Real Casa in Torino: “Prego avvisare sacerdote Don Bosco, Direttore Oratorio S. Francesco di Sales, che sua istanza diretta a S. M. trovasi per ordine Sovrano in corso presso Ministero Istruzione Pubblica”. E Don Bosco rispose subito telegraficamente al conte Visone: “Nostri giovanetti, loro Superiori riconoscenti porgono cordialissimi ringraziamenti, assicurando incancellabile gratitudine generoso atto clemenza Sovrana”.
Per questo insieme di circostanze sembrò rimandata sine die la dispersione dei giovani studenti, che però non avevano scuola, ma andavano a passeggio in luoghi lontani della campagna e là, fatto circolo intorno al maestro, sedevano con lui e ricevevano così lezioni all'aperto. Naturalmente le varie classi pigliavano direzioni diverse. Pare che i giovani non sapessero nulla della chiusura, Don Bosco dunque fu tanto [170] persuaso della tregua, che ne diede l'annunzio al Cardinale Protettore il quale se ne congratulò scrivendogli l'II luglio: “Il vivo dispiacere da me provato all'annunzio di chiusura di coteste scuole, ha dato luogo a vera soddisfazione dopo .il ricevimento del foglio di V. S. Ill.ma dell'8 corrente. Formando ora voti perchè alla sospensione dell'ordine di detta chiusura succeda la cessazione totale delle molestie che le hanno recato, mi congratulo intanto con Lei e co' suoi poveri e numerosi alunni di ciò elle è di già conseguito”.
Ma era una via crucis di guai che non doveva finire tanto presto. Don Bosco presentò al Prefetto il telegramma comunicatogli dal cavalier Crodara; ma il Prefetto fece orecchio di mercante, nè volle sospendere gli effetti del decreto nemmeno finchè l'istanza al Re avesse avuto corso: soltanto gli accordò la dilazione di dieci giorni per i giovani che non sapessero dove rifugiarsi. Il Beato non si diede per vinto: voleva ottenere a ogni costo un differimento, e quindi scrisse al ministro della Casa Reale, sollecitando la protezione sovrana.
La E. V. non può certamente immaginarsi la grande consolazione che apportò a me ed ai nostri giovanetti il telegramma diretto al Sig. Cav. Crodara intorno alle nostre scuole. Ma siamo ricaduti nella primiera costernazione quando lo presentai al Sig. Prefetto di Torino pregandolo di sospendere gli effetti del Decreto Ministeriale. Ei mi rispose tosto che non potea prendere norma da nissuno in questi affari, che perciò si dovesse procedere allo sgombro dei nostri poverelli. ,Concede unicamente una decina di giorni per coloro che avevano fatto reclami di non sapere ove rifugiarsi. Gli altri devono tostamente disperdersi per le vie e per le piazze. Le persone oneste dicono tutte elle non vi sono motivi di chiusura; e qualora ci fossero si potrebbero far cessare le scuole ginnasiali; ma non cacciare gli orfanelli dalla casa altrui, come ne fu ripetuta la minaccia con lettera prefettizia nella giornata di ieri sera.
In questo stato di cose non mi rimane più altro appoggio che la protezione sua e quella di S. S. R. M., supplicando che si possa almeno lasciare in pace questa casa fino a elle sia letta la mia istanza e siasi dato pronunciamento in merito della medesima. [171] I giovanetti pieni dì riconoscenza si abbandonano nelle benefiche di Lei mani, mentre con profonda gratitudine ho l'onore di potermi professare
Dopo l'Unità Cattolica, anche un periodico scolastico torinese Il Baretti, diretto dal professor Perosino, si occupò della disgustosa faccenda con questa nota[107]: “Il ministro Coppino, cadendo, ha voluto lasciare memoria di sè in Torino, dove ha fatto chiudere le scuole di D. Bosco in Valdocco. Ne parleremo nel prossimo numero”. Intanto l'Unità Cattolica tornò alla carica con un articolo che in sostanza era la relazione inviata da Don Bosco al ministro, ridotta però a stile giornalistico. “Ma avvi ancora, vi si diceva sul finire, un Torinese di alta autorità, che ha carità ed umanità in cuore: è questi Umberto I”. Al che seguiva l'appello di Don Bosco al Re e la risposta avutane[108]. Un terzo foglio Lo Spettatore, giornale cattolico, politico e amministrativo di Milano, scese in lizza con due articoli vivacemente polemici, nel secondo dei quali è degna di particolare rilievo questa considerazione[109]: “Si vogliono tutelare gli studi di tutti questi poveri giovani; e per por rimedio ai difetti che si sono immaginati, si fanno mandare tutti sul lastrico delle piazze, ove non avranno non solo più ombra d'istruzione, ma parecchi di essi, mancando del tozzo di pane per vivere, saranno costretti ad imparare un'altra scienza, quella cioè del vizio e del libertinaggio. E questo dovrà dirsi un provvedimento consentaneo allo scopo della legge? Supposto che non si possa loro dare quell'insegnamento così stranamente vagheggiato, che solo acquista valore da una ministeriale patente, perché obbligarne lo sfratto? Ma dunque il difetto dell'insegnamento [172] dovrà essere d'impedimento ad un'opera così filantropica, qual è quella di raccogliere dalle vie e di provvedere del pane quotidiano ai giovani meschini abbandonati?”.
Ad avvocato difensore del Rho s'impancò il fratello prete, scrivendo a Don Bosco una lunghissima lettera, della quale giova riferire l'esordio e il poscritto[110]. Non esordiva troppo male. “Devo dire, cominciava egli, che io ho sempre avuto per te una grande stima, come ne hanno quanti sanno e conoscono il tuo buon carattere e il molto bene che fai, massime alla classe povera; ma devo dirti sinceramente che nel fatto della chiusura di tue scuole hai molto torto. Io credo (scusarmi se ti parlo da buon amico e col cuore alla mano e senza reticenze), io credo che l'amore che nutri pel tuo istituto ti chiuda un tantino gli occhi e non ti lasci vedere il male che vi si trova; come un buon padre di famiglia cui l'affetto alla medesima, forse troppo spinto, non lascia più gran fatto temere i difetti dei figli „. La requisitoria che viene dopo è tutta impostata sul non volere o non sapere distinguere fra ginnasio privato e scuola paterna; tutto il gran male lamentato là nel proemio si riduce all'insegnamento impartito da maestri senza diploma. Il sugo della prolissa orazione sta raccolto nell'appendice sotto la firma, combinato con le lacrime del coccodrillo. “Ti assicuro, ripiglia il nostro patrono, che a mio fratello rincresceva moltissimo fare quello che il suo dovere e la legge gli imponevano, e gli duole assai che tu non volessi capirla per uniformarti una santa volta alla legge; ma il dovere e la legge anzitutto. Non si poteva più in modo alcuno tollerare; e se altri ha pel passato tollerato, egli in coscienza più non poteva e tu puoi forse dargli torto? Don Bosco è abbastanza onesto senza dubbio per non condannare gli operati del suo antico amico, e se ci pensa bene sopra, deve confessare che ha fatto nè più nè meno che il suo dovere e che egli vorrà mettersi in regola per non avere più [173] per l'avvenire osservazione di sorta, e così non compromettere gli altri. Gli è certo che il tuo istituto è ben diretto per la moralità, come tu dici; ma basta forse questo? no, no e sempre no. Conviene che l'insegnamento sia sempre regolare e secondo la legge, cui nessuno deve eludere nè tenersi sopra o farei contro, ed allora tutto andrà bene. Ti pare così? Caro amico, credi pure me schietto, certi consiglieri ti consigliano, ma per fini non sempre giusti e onesti”. Questa insinuazione colpiva specialmente il teologo Margotti e il professor Allievo. Nel resto si vede purtroppo che. cosa possa toccare alla mentalità anche di un buon prete, quando la si lasci contaminare da “dicasterica peste”[111], o più prosaicamente dal mal dell'impiegato.
Il teologo Rho ribadì i medesimi concetti in un'acre lettera al Margotti[112]. Questi non giudicò di rispondergli, ma passò lo scritto al suo “veneratissimo Don Bosco”, dicendogli che avrebbe fatto cosa forse utile alla causa e certo grata a lui, se rispondesse “privatamente” al fratello del provveditore. Don Bosco ne ascoltò il consiglio.
Il Teologo Margotti mi dà comunicazione della lettera che gli hai scritto dicendomi poter rispondere a quella parte che mi riguarda.
Ciò fo volontieri perchè il nostro argomento abbisogna di schiarimenti senza cui ogni cosa è travisata.
Se tu fossi passato all'Oratorio ti avrei detto essere un falso supposto l'affermare che i nostri Maestri non son patentati.
Lo stesso tuo fratello Provveditore nel suo uffizio ha la nota del nome, cognome e titoli legali dei medesimi, che sono: Rua Michele, Durando Celestino, Bertello Giuseppe, Bonetti Giovanni, Pechenino Marco, tutti muniti del loro diploma. Quindi appoggia sull'errore il decreto di chiusura quando adduce per motivo di quella disposizione il difetto di Professori muniti di idoneità legale.
Tu dici che mi servo di allievi anziani per fare scuola etc.
Tu vorrai chiamare anziani i mentovati Professori che realmente furono miei anziani allievi. [174] Tali pure sono il Prof. Rinando, all'Università di Torino, Marco, a quella di Roma, ed altri altrove. Non potrei servirmi di costoro nelle nostre classi? Siccome poi gli istituti privati hanno libertà di orario, niuno può pretendere che l'insegnamento non si faccia quando e come torna possibile e comodo agli Insegnanti. Poi la legge dice chiaro che un Istituto non può essere chiuso, se non quando è gravemente turbato l'ordine sociale, l'ordine morale, o la salute degli allievi. Nessuno di questi motivi si può addurre contro le scuole dei nostri poveri giovanetti, anzi il medesimo Provveditore nella relazione fatta al Consiglio Scolastico Provinciale dopo la sua visita dichiara che per la pulizia, disciplina, moralità e profitto eravi niente a desiderare.
Inoltre esistendo uno di questi abusi, la legge dice che prima di venirsi alla chiusura di un Istituto qualunque, devono attendersi le osservazioni del Capo di quello da presentarsi al Consiglio Scolastico Provinciale. Di questo nulla si fece. Il signor Provveditore venne in tempo di mia assenza, andò di volo nelle scuole, e trovò che l'igiene, la moralità, la pulizia, il profitto, lasciavano niente a desiderare.
Al mio ritorno in Torino ho trovato lettera del Provveditore che insisteva si dovessero rimanere in classe permanentemente i Professori titolati secondo l'orario pubblico. La legge non voleva questo; ma per compiacere all'autorità ho supplicato che mi si desse tempo a provvedere per non turbare l'Amministrazione di questa casa, e conchiudeva: Se questo favore non mi è concesso, prego volermelo significare, che io modificherò l'Amministrazione dell'Istituto e farò in modo che gli Insegnanti titolari possano trovarsi in classe a quell'orario che l'autorità scolastica giudicasse di stabilire. Non ricevetti risposta alcuna se non il 23 di Giugno passato, quando mi era comunicata la chiusura del Ginnasio. Tu ti appelli alla legge che è superiore a tutti e a tutto. Io direi che la giustizia deve regolare tutte le leggi.
Quale articolo di legge fu violato? Ho sempre chiesto e atteso invano una risposta. E poi il Provveditore od altri può ordinare lo sfratto dei poveri giovanetti raccolti in un ospizio, come si pretende sul caso presente?
Tu aggiungi che sono tre anni che il Sig. Provveditore insiste che io mi uniformi alla legge. lo risposi che tutti i provveditori, tutti i ministri di Pubblica Istruzione sempre hanno lodato, approvato, aiutato e sussidiato questo Istituto per oltre a trent'anni. Ci voleva un amico, un compagno di scuola a proporre la chiusura, e proporre la chiusura allora che con non leggero disturbo io mi era messo in tutta regola in faccia alla legge. Come tu vedi, ho scritto col cuore alla mano e mi farai un vero favore se tu leggendo la legge Casati mi dirai quali articoli siano stati violati. Quanto qui ti scrivo è in tutela dei poveri giovanetti raccolti in questo Ospizio; fuori di questo io ti assicuro [175] che con te e con tuo fratello desidero di essere in buone relazioni, e proverò gran piacere ogni qualvolta vi potessi rendere qualche servizio.
Credimi sempre colla dovuta stima
Il teologo si piccò. Aspettava un riscontro alla sua di otto facciate e che cominciava con un “mio caro e buon amico D. Bosco”, e niente; scrive al Margotti, il Margotti comunica la lettera a Don Bosco pregandolo di rispondere, e Don Bosco per cortesia verso il Margotti risponde e quasi apostrofandolo cominciò con quel “Teologo Rho!”Il teologo Rho, di temperamento nervoso, dovette fargli pervenire le sue rimostranze. Ed ecco la sobria e dignitosa dichiarazione del Beato.
L'uomo onesto, quando non è creduto, deve porsi in rigoroso silenzio. Non mi hai inteso e non rispondi ad una delle cose esposte nella mia lettera. Lo sprezzo poi con cui tu parli dei preti di questa casa mi impedisce di spiegarmi coi dovuti vocaboli. Perciò in questo fatto è inutile di parlare, come io vivamente desiderava. Nelle altre cose saremo sempre buoni amici. Io conterò ognora sopra la tua benevolenza e sopra quella di tutti i tuoi fratelli, specialmente del Cav. Provveditore. Ed io sarò sempre felice ove a te o a' tuoi possa prestare qualche servizio. Amami in G. C. e credimi inalterabilmente
Il teologo riscrisse, rifrisse, esortò a cercare un mezzo termine che servisse di base a una conciliazione[113]; Don Bosco tacque. Dalla corrispondenza surriferita è lecito arguire che la macchina era stata montata dal Provveditore, ma non misurandone affatto le conseguenze; onde pare che cercasse un espediente per cavarsela con decoro. D'altra parte questi [176] non voleva male a Don Bosco; è dunque probabile che c'entrassero pressioni estranee e relativo timore di perdere l'impiego. Ma un'altra ovvia osservazione si affaccia a chi legge le due lettere del fratello. Come nella prima, così nella seconda esalta la virtù di Don Bosco. “Nessuno, dice in questa, pone in dubbio la tua onestà di carattere; sarei io il primo a difenderti (come ti accerto elle lo feci e non una sola volta), che anzi tutti riconoscono il bene immenso che fai e che facesti; anzi, mi permetti di dirti, che vuoi farne troppo; ed è allora (perdonami, caro mio) che si può compromettere; e dirti che fai troppo bene è forse farti torto? nol credo”. Ora, come conciliare un sì alto concetto di Don Bosco e crederlo consciamente ostinato in una linea di condotta contraria, al dovere e alla giustizia? Non c'era invece nel teologo un grosso equivoco, e in altri uno zelo degno di miglior causa?
Formatosi il nuovo ministero Cairoli, l'Istruzione Pubblica fu affidata a Francesco Perez, siciliano. Subito l'Unità Cattolica accolse un articolo intitolato “Una domanda di giustizia” e scritto da “un chiarissimo personaggio... nè chierico nè chiericale”[114], che dimostrava come la chiusura del ginnasio dell'Oratorio fosse contraria alla legge. Il “chiarissimo”anonimo” era il professor Giuseppe Allievo, ordinario di pedagogia nella regia Università di Torino. Per conto suo il direttore del giornale vi premetteva un cappello, in cui si diceva: “Noi pubblichiamo l'articolo mandandolo al nuovo ministro dell'Istruzione, il quale comincerebbe egregiamente il suo Ministero se per prima cosa riparasse una enorme ingiustizia e non permettesse che fosse consumato tanto strazio della morale e della legge. Son pochi giorni e noi abbiamo avuto l'onore di baciar la mano in Torino ad un illustre Prelato della Sicilia, venuto espressamente tra noi per chiedere a Don Bosco i suoi Salesiani che andassero ad aprire istituti [177] di educazione nell'isola[115]. Poco dopo ci toccò di vedere nella stessa Torino perseguitato l'Istituto Salesiano e le sue scuole. Quanto sarebbe bello se un ministro nativo della Sicilia riparasse questo danno, cagionato agli studi ed alla buona gioventù in Torino da un antico ministro piemontese”. L'articolista professore, dimostrata l'illegalità del decreto, stigmatizzava pure l'arbitrio nell'eseguirlo, ponendo un quesito al Prefetto: “Il ministro, vi era detto, aveva decretato la chiusura del ginnasio privato; e siccome un ginnasio è un luogo dove s'insegna, così legalmente è chiuso quando vi è cessato l'insegnamento, come cessava di fatto il 30 giugno nelle scuole Salesiane. Ma il Prefetto si arbitrò di colpire in quel ginnasio anche il pio Ospizio, ordinando lo sfratto a tutti gli alunni e figli del popolo, che attendevano pacificamente agli studi in quelle scuole ginnasiali. Ci dica il signor Prefetto in nome di che legge o di che altra autorità superiore può egli strappare dal seno di un Ospizio di carità tanti poveri figli per gettarli sul lastrico od alla mala ventura!”. Infine si levava fieramente a difesa dell'onore di Don Bosco: “In tutta questa triste vicenda di illegalità e di arbitrii anche il modo offende. Don Bosco volle (sono parole del Provveditore e del Prefetto ripetute nel decreto ministeriale) trarre in inganno ripetutamente l'autorità scolastica di Torino. Dunque quel buon sacerdote del Signore, la cui carità cristiana veglia su tanti figli del popolo, non solo ingannò, ma volle, ingannare l'autorità! A' suoi nemici non bastava colpirlo in ciò che ha di più caro, le scuole de' suoi giovanetti; bisognava farla da inquisitori, penetrando nelle sue intenzioni, e tacciarlo di mala fede, di volontà subdola ed ingannevole!”.
Ora si entra in piena polemica giornalistica. Trascuriamo le volgarità di fogli irreligiosi; veniamo piuttosto all'articolo promesso dal Baretti. Quell'articolo comparve nel numero del 17 luglio. E’ notevole in esso la ritorsione dell'accusa. [178] “Noi chiediamo, scrive l'autore, a chi ha consigliato, a chi ha ordinato e a chi ha fatto eseguire la chiusura delle scuole sopradette per la mancanza di patente legale in chi fu trovate un giorno ad insegnarvi, noi chiediamo a tutti costoro se in questa stessa Torino tutti gli insegnanti governativi che presentemente insegnano siano muniti di laurea o patente che li autorizzi all'insegnamento. E si noti che questi, che altri chiamerebbero insegnanti illegali al par di quelli delle scuole di D. Bosco, ricevono, come è giusto, stipendio, mentre gli altri insegnano per puro e lodevole spirito di carità, come fanno tutti quelli che appartengono a quel pio Istituto. Potremmo ancora aggiungere che da queste scuole illegali di D. Bosco uscirono dotti insegnanti, autori di opere e libri pregiati, insigni professori liceali ed universitarii; e che ancora presentemente esse danno allievi, i quali ai pubblici esami di licenza sono quasi sempre tutti promossi; e nei corsi universitari sono sempre tra i più segnalati, ma ce la passiamo. Diremo invece, che trattandosi di un Coppino che giudica e sentenzia in fatto di Legalità, noi per i troppi esempi che ce ne diede e ce ne dà, non possiamo sempre ammettere la competenza del giudice”.
Da lontano per chartam et atramentum certe controversie non si risolvono nè presto nè bene; inoltre il mutamento di ministro consigliava di studiare da vicino il terreno. Fu dunque ben avvisato Don Bosco nel mandar a Roma Don Durando e il professor Allievo con la missione di ottenere dal Governo che fosse differita l'esecuzione del decreto di chiusura, massime per ciò che riguardava lo sgombero dei giovani. Si indirizzò all'avvocato Aluffi, segretario al ministero dell'Interno, con questa lettera di presentazione.
Il Cav. Allievo prof. alla R. Università di Torino e il Professore Don Durando vanno a Roma per affare delle nostre scuole. Hanno sommo bisogno di avere un momento di udienza dal Comm. Villa Ministro dell'Interno, che fu sempre nostro benefattore. [179] Io li dirigo a Lei affinchè suggerisca ai medesimi la via più breve per essere appagati.
Se poi ha conoscenti al Ministero della P. I. lo chiederebbero del medesimo favore.
Spero che Ella goda buona salute e pregando Dio che La conservi mi professo con gratitudine
L'onorevole Villa, deputato di Castelnuovo d'Asti, era ministro dell'Interno, succeduto a Depretis nel rimpasto ministeriale. Egli conosceva personalmente Don Bosco fino dal 1859, dal qual anno erano stati frequenti e cordiali i loro reciproci rapporti. I due inviati dovevano rimettergli la seguente raccomandazione.
Ricordo sempre con gratitudine l'appoggio caritatevole che la E. V. in varie occasioni porse ai poveri giovinetti di questo ospizio; e questo appunto mi dà fidanza a ricorrere eziandio nel caso presente.
Un decreto del ministro della pubblica istruzione, firmato il 16 Maggio e comunicato il 23 Giugno, anno corrente, ordinava la chiusura delle nostre classi pel solo motivo che non vi sono in esse maestri patentati. Ciò è privo affatto di fondamento poichè lo stesso Sig. Provveditore dichiarò che la nota degli insegnanti titolari eragli stata consegnata nel suo uffizio il 13 novembre 1878.
Tuttavia si ubbidì al decreto e l'insegnamento secondario cessò al tempo fissato 30 giugno ultimo passato. Ma ciò che mise questo povero Istituto nella costernazione è il vero ordine dato dal Sig. Prefetto di questa città, in forza di cui gli stessi allievi devono essere tostamente licenziati dall'ospizio e quindi messi in mezzo ad una strada, nel tristo abbandono in cui giacevano prima di essere accolti tra noi.
Io supplico la E. V. come ministro dell'Interno, come benemerito nostro cittadino e come deputato della mia patria Castelnuovo d'Asti, di voler dare ordini in proposito, affinchè questi poveri giovanetti possano continuare l'attuale loro dimora per occuparsi in quelle cose che ai medesimi potranno giovare a procacciarsi un giorno onesto sostentamento; così cesserà l'agitazione dei giovanetti, lo sconcerto dei loro parenti, mentre tutti con animo riconoscente si uniranno meco ad invocare sopra la E. V. le benedizioni del Cielo.
Il professore D. Durando, direttore delle nostre scuole, e il [180] Cav. Allievo, professore alla R. Università di Torino, che presta l'opera sua caritatevole in favore dei nostri giovanetti, sono portatori dì questo mio piego, e saranno lieti di poter dare ulteriori schiarimenti, se le molte occupazioni di V. E. lo permettessero. Ho l'alto onore di professarmi di V. E.
Per il ministro dell'Istruzione Pubblica Don Bosco ave compilato una sommaria relazione dell'accaduto.
Un decreto Ministeriale, firmato il 16 Maggio e comunicato il 23 Giugno, anno corrente, ordinò la chiusura delle scuole secondarie che da 35 anni si fanno caritatevolmente a benefizio dei poveri fanciulli ricoverati in questo Ospizio detto Oratorio di S. Francesco di Sales.
Questo decreto poggia sulla mancanza di idoneità legale negli insegnanti, il che è privo d'ogni fondamento, poichè nel 15 novembre 1878 fu consegnata nota formale dei maestri coi rispettivi titoli loro legali al Sig. Provveditore, come segue:
5ª |
Ginnasiale Professore |
Durando Celestino. |
4ª |
” ” |
Rua Michele. |
3ª |
” ” |
Bonetti Giovanni |
2ª |
” Teologo |
Pechenino Marco |
Iª |
” Sacerdote |
Bertello Giuseppe |
Quindi vi sono i Professori muniti di Patenti in conformità della legge Casati art.° 246.
La stessa legge descrive i motivi per cui si può chiudere un Istituto e sono: Grave turbazione dell'ordine sociale, dell'ordine morale, della sanità degli allievi, art.° 247.
Niuno di questi motivi è accennato; anzi in una sua visita il Sig. Prov.re riferisce formalmente che per igiene, disciplina, moralità e profitto avvi niente a desiderare.
Il Decreto aggiugne che furono messi supplenti in classe in luogo dei professori titolari. Al elle si risponde che nella sua visita il Sig. Prov.re trovò tutto in regola. ma notò che di cinque professori, due soltanto erano in classe, i quali però davano le loro lezioni nelle ore loro possibili.
Non vi è alcuna legge che proibisca un professore titolare di farsi supplire in caso di bisogno come si pratica generalmente.
Inoltre la mentovata legge lascia liberi gli Istituti privati di stabilire quell'orario che torna più comodo agli insegnanti. [181] Per questi motivi il sottoscritto supplica la E. V. di voler riconoscere la benemerenza degli insegnanti che prestano l'opera loro affatto gratuita, e fare un segnalato benefizio a questi poveri figli del popolo togliendo gli effetti legali al mentovato Decreto, e lasciandoli dimorare tranquilli nel loro Ospizio, e non obbligandoli a disperdersi, come fu ordinato, con evidente pericolo della loro rovina sociale, materiale e morale.
Ho l'onore di potermi professare
Nel giorno della partenza di Don Durando e del suo illustre compagno per Roma un quotidiano cattolico, l'Emporio Popolare, rivolgendosi ai padri di famiglia, additava loro nella chiusura delle scuole di Don Bosco uno dei peggiori arbitrii commessi per odio di partito dai sinistri, saliti al potere nel 1876. Dinanzi a sì mostruoso sopruso tre considerazioni si facevano: i sedicenti liberali gridare a squarciagola di voler l'istruzione delle classi del popolo, ma poi osteggiarla grossolanamente appunto nelle classi medesime col chiudere le scuole popolari di Don Bosco; non quindi amore di giustizia, ma rabbiosa e cieca invidia guidare le autorità nel loro modo di agire verso Don Bosco, le cui scuole, come da tutti si sapeva, facevano assai miglior prova che tante altre governative; far pessima figura il ministro Piemontese Coppino, che per odio alla religione non aveva badato a sciabolare uno degli istituti che a detta di tutti formava una delle più belle glorie del suo Piemonte[116].
I due professori ebbero a Roma un incontro tanto più incoraggiante quanto meno aspettato. Recatisi in Vaticano a visitare monsignor Ciccolini, cameriere segreto partecipante e custode generale dell'Arcadia, furono senz'altro per opera di lui favoriti dell'udienza pontificia. Leone XIII, che passeggiava in una sala vicina, condiscese a riceverli subito. [182] Egli, sebbene già informato dal cardinal Nina di quanto accadeva a Valdocco, volle sentir meglio come realmente stessero le cose. - Non perdete tempo, disse quindi a Don Durando. Presentatevi al ministro dell'Istruzione Pubblica e a quello degl'Interni, cercatevi appoggi presso il Re, interessate persone influenti! - Era proprio quello che Don Bosco veniva facendo; udita la qual cosa, il Papa ne fu contento.
Da entrambi i ministri ebbero pronto ricevimento e buone parole[117], confermate poi anche per iscritto dall'onorevole Perez, il quale, in data 24 luglio si espresse a questo modo: “Rispondo al biglietto che mi ha indirizzato con la data del 15 luglio del corrente[118], facendo voti perchè il suo istituto possa prosperare ogni dì più in benefizio dei poveri. E’ questo effetto non verrà impedito, ne son certo, dall'ultimo atto compito dal Ministero della Pubblica Istruzione; perocchè l'Amministrazione del Collegio preponendo alle sue scuole ginnasiali insegnanti patentati, oltre a conformarsi alla legge, che è quel che vuole il Ministero, avrà meglio assicurato la bontà degli studi e il profitto dei suoi giovani”. Laonde il Beato potè scrivere all'avvocato Aluffi:
Umili ringraziamenti per l'appoggio dato a' miei inviati. Stamattina ho ricevuto lettera dal Ministro di pubblica istruzione che mi assicura la cessazione degli effetti del Decreto di chiusura delle nostre scuole; ma pesa sempre l'ordine del Prefetto che ordina lo sgombro degli allievi dall'Istituto. Niuno sa trovare ragione di tale misura. Il Decreto si riferisce sostanzialmente all'insegnamento e non allo sfratto dei ricoverati nell'Ospizio. A tale effetto imploro un provvedimento dal Ministro di cui unisco lettera, che prego voler consegnare nel modo più sicuro.
Quando l'affare sia finito Le farò novelli ringraziamenti. Mi creda con gratitudine suo umile
Il provveditore Rho aveva nel frattempo commesso una vera imprudenza, scendendo nel campo giornalistico a spezza re pubblicamente una lancia contro l'Oratorio; un'autorità scolastica che si mette così allo scoperto, chiama il pubblico a dar giudizio sul suo operato. Ben ci spieghiamo per questo come l'Unità Cattolica, invitata ai termini di legge a stampare una lettera di lui, dichiarava non senza spirito che lo faceva “assai di buon grado”. Il suo cavallo di battaglia era sempre che quello di Don Bosco fosse “un istituto di istruzione privata, non già una Casa d'istruzione paterna”. E poichè Don Bosco nella riapertura delle scuole per l'anno 1877-78 aveva chiesto direttamente al ministero dell'Istruzione Pubblica di essere autorizzato almeno per un triennio a valersi dell'opera d'insegnanti senza regolare diploma, ecco che il Provveditore si credette di coglierlo in aperta contraddizione, provando ad evidenza, diceva lui, questa sua domanda che egli stesso riconosceva l'indole privata e punto paterna del suo istituto. In secondo luogo il Provveditore accusava Don Bosco di falsità, perchè, messo alle strette, aveva mandato un elenco di professori, i quali non insegnavano nè punto nè poco[119].
Al Provveditore rispose sul medesimo giornale con due articoli Doli Giuseppe Bertello, che dirigeva le scuole dell'Oratorio[120] Nel primo dimostrava essere istituto Paterno quello di Don Bosco e perciò non andar soggetto alle leggi che governavano gl'istituti privati. Non esserci padri di famiglia associati, come voleva la legge; ma esserci i senza padre e chi li raccoglieva in casa sua con amore e sollecitudine paterna. Per trenta e più anni, cioè fino al 1876, averlo il Governo lasciato fare come gli consentivano i suoi mezzi e gli dettava la sua carità. Per aprire un ginnasio privato Don Bosco, secondo l'articolo 247 della legge Casati, avrebbe dovuto far conoscere con una dichiarazione scritta la sua intenzione al Provveditore della provincia; non essersi mai [184] compiuta questa formalità, nè esserne venuto mai richiamo di sorta. Fatto ben singolare, per scuole di contrabbando, un trentennio di vita indisturbata! Si obiettava aver Don Bosco chiesta l'autorizzazione temporanea di tenere insegnanti non legalmente approvati. Sì, ma quando l'autorità scolastica gli aveva intimato improvvisamente l'aut aut: o consegnare la nota dei professori approvati o chiudere l'istituto. Allora Don Bosco per estremo rimedio aver supplicato per un triennio di tolleranza, in cui formarsi i professori o provvedere altrimenti all'avvenire dei suoi giovani. Il secondo articolo voleva sostenere non potersi dal Provveditore dimostrare che i professori dati in nota, invece di compiere essi il loro ufficio, si facessero sostituire da giovani chierici e da giovani sacerdoti, com'egli aveva asserito nella sua relazione al Consiglio Scolastico. Dobbiamo confessare che qui il ragionamento si fa cavilloso; bastava su questo punto rispondere con un provisum in primo. Là era l'Achille degli argomenti e qui soltanto il suo tallone, che infatti al Provveditore offerse ottima presa per una replica[121] Don Bertello controbattè, sviscerando appunto l'argomento degli argomenti, sul quale invece aveva sorvolato bravamente il Provveditore, dicendo che quel primo articolo nulla conteneva di notevole[122].
Un periodico umoristico, scherzando su “Don Bosco in un grande imbroglio”, con parecchie sciocchezze istituiva fra il Margotti e Don Bosco un parallelo che ci apre uno spiraglio per iscorgere i segreti pensieri che dovettero dar origine a questa guerra[123]. Diceva l'articolista: “Fa maggior [185] danno all'Italia D. Bosco (rispetto pur sempre la buona fede) che cento Margotti. Margotti almeno è conosciuto. Porta bandiera spiegata. Ha franchezza, ha carattere. Non ha paura nemmeno del diavolo. Dice addirittura a squarciagola: - Vogliamo il Papa-Re, fuori da Roma i ladri, gli scomunicati e fa voti che venga un altro Sisto V che dia polenta e forca in abbondanza ai Romani. Don Bosco invece, parmi d'averlo detto un'altra volta, è un'acqua morta, che scava sordamente la sponda. Quatto quatto insegna il suo bravo catechismo, insinua quatto quatto idee di Papa-re (però senza nominarlo direttamente); e prepara da un anno soldatini al Papa. Dunque io penso, che sia più dannoso all'Italia Don Bosco che il trombettiere Margotti, che si fa sentire da tutti. Cento volte meglio un avversario manifesto, che uno coperto col manto. In conclusione: sotto questo aspetto la chiusura dell'Istituto sta benissimo, ed io la vorrei perpetua”.
Era opportuno che anche Don Bosco parlasse. Egli uscì dal suo silenzio con una lettera alla Gazzetta del Popolo, che la pubblicò nel suo numero del 4 agosto.
Più volte nel suo giornale e segnatamente nel numero 211 Si è parlato della chiusura delle scuole dell'Ospizio noto col nome di Oratorio di S. Francesco di Sales.
Siccome per onore della verità e per vantaggio dei poveri giovanetti qua ricoverati non poche cose devono rettificarsi, così a titolo di cortesia, la prego di voler inserire la seguente verace narrazione dei fatti.
In ogni tempo questa Casa fu sempre reputata Ospizio di Carità, Ricovero di poveri fanciulli e non mai Ginnasio privato.
Gran numero di essi sono avviati alle arti e mestieri, mentre altri, o perchè di svegliato ingegno, o perchè appartenenti a civili famiglie decadute, fanno il corso ginnasiale, affinchè non vada fallita la loro vocazione agli studi, e non siano violentate le loro propensioni. [186] La legge Boncompagni nel 1848 e la legge Casati nel 1859 favorirono queste scuole, e per trentacinque anni i regi Provveditori e i Ministri della pubblica istruzione hanno cooperato al bene di questo Ospizio, considerandolo qual ricovero di poveri fanciulli, quale istituto paterno, il cui Superiore fa veramente le veci di padre, secondo la legge Casati, articoli 251, 252 e 253. Si noti eziandio che questo Istituto vive di provvidenza, gli allievi ricevono totalmente gratuita l'istruzione, come pure gratuita prestano gli insegnanti l'opera loro. Ciò nulladimeno il signor Provveditore volle sottoporre questo Ospizio alle leggi dei ginnasi privati, e quindi obbligare il Superiore con non leggeri sacrifizi a mettere in classe dei professori patentati,
Dal canto mio volendo fare ossequio non alla legge, che ciò non comandava, ma all'Autorità che così esigeva, vennero scelti cinque professori patentati, cui furono affidati i diversi insegnamenti voluti dalla legge. Articolo 246.
Non sembrò pago di questo il signor Provveditore, ma pretese che gli insegnanti titolari si trovassero in classe secondo l'orario di suo gradimento! Il che è contro alle leggi, che lasciano ai ginnasii privati la facoltà di stabilire l'orario che torna a maggior comodità dei medesimi.
Egli fu per l'inosservanza del pubblico orario e perchè alcuni titolari si fecero talvolta supplire, che il Consiglio scolastico della Provincia di Torino, dietro relazione del signor Provveditore, propose la chiusura di queste scuole.
Il signor Ministro della pubblica istruzione credette tale proposta fondata sul vero ed emanò il decreto di chiusura il 16 maggio, che ritardò a comunicare fino al 23 giugno.
La legalità di quest'atto sarà da altri giudicata. Io dico soltanto che questa è storica esposizione, che niuno potrà nè cambiare, nè altrimenti interpretare.
Una cosa poi in questo fatto deve amareggiare gli amatori della giustizia, ed è che non fu udita la parte interessata. Le leggi scolastiche e civili d'Italia e dell'estero concedono all'imputato di fare le sue ragioni; ciò a me non fu concesso, e non fu concesso a danno di quei poveri figli del popolo, che tutti gli uomini onesti dovrebbero proteggere ed occuparsi seriamente per migliorarne la condizione.
Vivo però nella ferma speranza che il novello Ministro della pubblica istruzione riparerà ad un atto sì dannoso al publico bene e lo riparerà conformemente a quella libertà d'insegnamento che le vigenti leggi concedono.
La ringrazio anticipatamente, signor Direttore, della cortesia, che spero mi vorrà usare, ed ho l'onore di professarmi colla dovuta stima
Il professor Allievo, sempre più convinto del buon diritto di Don Bosco, tornato che fu da Roma, diede alle stampe un opuscolo intitolato: La legge Casati e l'insegnamento privato secondario. Per Don Bosco fu veramente il cacio sui maccheroni. L'autore non lo nominava; ma somministrava ottimi argomenti per la si-la causa. Il Beato se ne valse tosto, spedendo la pubblicazioncella al ministro Perez con la seguente lettera.
Alla F. V. è certamente noto come un Decreto del Sig. ex-Ministro Coppino ordinava la chiusura delle scuole secondarie, che da trentacinque anni si facevano a benefizio dei poveri giovani raccolti in questo Ospizio. Il Decreto era firmato il 16 maggio e veniva comunicato il 23 giugno con effetto di esecuzione pel 30 dello stesso mese ed anno corrente.
Come Direttore di questo Pio Istituto io sono obbligato d'impedire la rovina de' miei giovanetti e cercare quei mezzi che possono tornare ai medesimi di vantaggio presente e futuro. Lasciando a parte elle l'esecuzione del Decreto era impossibile in così breve tratto di tempo, la prego permettermi alcune osservazioni che parmi lo debbano rendere illegale e senza effetto.
I° Il Consiglio Provinciale, quale è costituito. (Vedi documenti).
2° Non si è ascoltata la parte interessata. Ogni legislazione, ogni tribunale non dà mai sentenza senza prima ascoltare le ragioni dell'imputato.
Nel caso nostro vi fu un'ispezione del Sig. Provveditore che travisò la sua relazione e la fece pervenire al Consiglio scolastico, senza fame parola al Direttore dell'Ospizio elle avrebbe certamente avuto gravi cose da riprovare.
3° Niuna legge sulla Pubblica Istruzione colpisce i Ricoveri di Carità, per la ragione che non vi sono interessi nè pubblici nè privati da tutelare. In questo Ospizio i Maestri prestano il loro insegnamento gratuito, come gratuite sono le lezioni per parte degli Allievi ricoverati
Al più gli Istituti di beneficenza dovranno considerarsi come Istituti patemi in cui il superiore fa veramente le veci di padre, giacchè deve somministrare ai medesimi alloggio, vestito, pane ed istruzione. Non fa costui, effettivamente le veci da padre? Vedasi Opuscolo annesso del Professore Gius. Allievo.
4° La legge sulla pubblica Istruzione art. 356 dice: “Le persone che insegnano a titolo gratuito nelle scuole festive per i fanciulli poveri, o nelle scuole elementari per gli adulti, od in quelle dove si [188] fanno corsi speciali tecnici per gli artieri, sono dispensate dal far constare la loro idoneità”. Se la legge tanto permette in pubblico, non permetterà anche i corsi secondarii nell'interno di una famiglia adottiva quale appunto è quella di cui parliamo? Vedi articolo 252.
La ragione di chiusura si basa sull'assenza dei professori legali al tempo dell'insegnamento. Si nota elle nessuna legge prescrive alcun regolamento agli Istituti privati, perciò ciascheduno è libero di fissare quell'orario che torna più facile agli insegnanti. Difatto questi nostri professori dovendosi occupare ad ore determinate nell'amministrazione del Pio Istituto, scelgono il tempo loro possibile di mattino o di sera per compartire le loro lezioni. Dunque nè il cangiamento di orario, nè l'assenza dei Professori può costituire alcun titolo legale di chiusura di un Istituto.
5° E’ da ritenersi che nella visita ispezionale fatta improvvisamente dal Sig. Prov.re propriamente parlando trovò un solo Professore assente e che aveva un supplente. La supplenza di un Professore può costituire un titolo legale di chiusura di un Istituto? Credo che niuno vorrà essere di questo parere.
6° Questo Istituto non fu mai considerato come Ginnasio privato, ma come Ricovero di poveri giovanetti. Così giudicarono i Provveditori delle scuole secondarie, così il giudicò lo stesso ministero della Pubblica Istruzione per lo spazio di oltre a 35 anni.
Ciò esposto e per i titoli sopraindicati, e pel bene dei poveri miei giovanetti e pel vantaggio della medesima civile società, supplico V. E. a voler riconoscere l'illegalità del citato Decreto e lasciare che questo Istituto continui a procacciare un mezzo di vivere a tanti poveri figli del popolo, che altrimenti sarebbero esposti ad un tristo avvenire.
Qualora poi la E. V. nell'alta sua saviezza giudicasse di non poter favorire questa mia istanza, la pregherei umilmente di volerla trasmettere al Consiglio di Stato per avere il relativo parere. Pieno di fiducia nella voce pubblica elle proclama la E. V. padre dei figli del popolo, ho l'alto onore di potermi professare
La polemica nei giornali dilagò. Dal 5 al 9 agosto quattro quotidiani interloquirono, e uno a doppia ripresa. L'Unità Cattolica del 5 riprodusse la lettera di Don Bosco alla Gazzetta del Popolo con questo cappello: “Don Bosco è l'uomo della carità che vivifica; i suoi nemici sono gli uomini della lettera che uccide. Contro Don Bosco si ripete il grido che fu già lanciato contro lo stesso Gesù Cristo: Nos legem habemus et [189] secundum legem debet mori. Ma la legge è tanto male applicata contro Don Bosco, quanto lo fu contro il Divin Redentore. Ad ogni modo, noi mettiamo termine a questa polemica. L'uomo della `carità non ama di accendere liti”. La Gazzetta del Popolo del medesimo giorno aveva due lettere di due sacerdoti, ma quanto diverse! Una era di Don Rua per un brevissimo chiarimento; l'altra di un abate Mongini. Questo prete, liberale di tre cotte, ebbe per noi il merito di cantare fin, troppo chiaro, scoprendoci sempre meglio le batterie degli avversari. La questione legale era il pretesto; il lato vero della contesa era politico. Scriveva il prete liberale: “Don Bosco, che ha istituti in Italia e fuori, e perfino in America, ha una importanza politica coperta col manto dell'umanitarismo, cioè collo scopo della beneficenza. Questa importanza consiste nel genere del suo insegnamento, che è tutto informato ai principii del Sillabo; di guisa che prepara generazioni infeste all'Italia, ed alla civiltà in generale. Don Bosco, che pare avere il privilegio della ubiquità, si può chiamare il Sillabo ambulante col miele sulle labbra per farlo digerire a piccole dosi ai suoi giovani, come fanno le madri colle pillole verso i proprii ragazzi. In Don Bosco l'arte di innamorare al Papato è tutto, e si può dire che in ciò vale mille maestri clericali, e mille giornalisti così detti cattolici coi loro eccessi. Guai se le cento città d'Italia avessero per ciascuna un Don Bosco! Se non altro gl'imbarazzi crescerebbero a dismisura, e se ne vedrebbero gli effetti all'occasione. Con tutto questo vorrei dire che, se la legge non può rimediare a tutti i mali dell'istruzione secondaria, ad istituti di siffatta natura essa deve essere severamente applicata ed ispezionata, ed all'uopo chiudersene le porte”. Intanto qui abbiamo la grammatica “applicata” con criteri ultraliberali. Don Rua il giorno 6 rispose ad alcuni quesiti della Gazzetta Piemontese, che imparzialmente ne pubblicò la lettera[124]. Don Bertello confutò [190] nell'Unità Cattolica del 7 alcune affermazioni secondarie, che aveva lasciate da parte nella precedente risposta del 3 al Provveditore; son cose che per noi nulla contengono di nuovo. Finalmente l'Osservatore Romano del 9 con due colonne intitolate “Una difesa troppo leale”raffrontava il caso di Don Bosco con quello del padre Ferrari. Morto nel 1878 il celebre gesuita Secchi, astronomo e matematico di fama mondiale, il Governo italiano, incamerato il Collegio Romano, aveva per un resto di pudore lasciato tranquillo il grande scienziato nell'angolo dell'edifizio dov'era situato l'Osservatorio, sua creatura e per tanti anni sua cura. Scomparso il genius loci, il suo confratello e assistente padre Ferrari, che tutte le ragioni di diritto e di convenienza volevano mantenuto a quel posto, ne fu espulso: il signor Coppino senza tanto investigare, visto che tale arbitrio giovava agl'interessi del suo partito, andò difilato al proprio scopo. Per le medesime convenienze settarie, a detta dell'organo vaticano, lo stesso signor Coppino aveva deliberato “la capricciosa chiusura di un egregio e benemerito istituto cattolico, come quello del ginnasio di Don Bosco”. Questo era proprio mettere il dito sulla piaga.
In mezzo al battagliare della stampa si fece nuovamente udire la voce di Don Bosco con una lettera al Margotti: lettera “degna proprio di lui”, diceva il giornale che fu ben lieto di renderla pubblica. “E se taluno, soggiungeva la redazione, vuole ancora dubitare che le scuole di Don Bosco appartengano ad un Istituto paterno, nessuno vorrà disconoscere ch'egli abbia un cuore veramente di padre”.
La benevolenza che V. S. chiarissima si compiacque di usare a me ed a questi miei giovanetti mi obbliga a professarle i più cordiali rendimenti di grazie anche per parte dei fanciulli beneficati. Ora le chiedo un favore di altro genere sulla vertenza di questo Oratorio col regio signor Provveditore agli studi della provincia di Torino. [191] Il punto legale è stato ad esuberanza discusso, e pare che già si cominci a passare alle personalità.
Avendo pertanto questo Istituto bisogno di tutti e di tutto, d'altro canto desiderando nella mia pochezza di cooperare colle Autorità al pubblico bene, mi fo a pregarla di voler soprassedere da ulteriori questioni sopra tale materia, per far luogo a quella carità operosa che deve regnare in ogni classe di cittadini.
Giudico però opportuno di notarle l'errore da cui derivò tutta questa disgustosa vertenza. Si volle che esistesse un ginnasio privato annesso a questo Ospizio. Ciò non fu mai. Se gli abitanti di Torino, quelli stessi che dimorano nel nostro Ospizio, fossero richiesti dove si trovi tale ginnasio, niuno il saprebbe indicare, perchè non esiste.
Esistono invece delle scuole gratuite, che si fanno caritatevolmente ad una scelta di fanciulli dell'Ospizio, che per ingegno o per condizione di famiglia decaduta sono ammaestrati negli studii secondarii.
Malgrado questa mancanza di fondamento nella proferita sentenza, e sebbene il decreto di chiusura non dovesse estendersi allo sfratto degli allievi, tuttavia, come in passato, non solamente ho ubbidito alla legge, ma eziandio all'autorità. Perciò, uniformandomi interamente al decreto ministeriale, il giorno fissato venne sospeso l'insegnamento secondario, e poco dopo gli allievi furono inviati ai loro parenti, amici o benefattori, che almeno temporaneamente diedero ricetto caritatevole.
Ella, signor Teologo, può difficilmente immaginarsi quanto sia stato amareggiato il mio cuore nel vedere precipitosamente troncarsi il corso degli studi a circa trecento de' miei figli adottivi, i quali sono da più anni oggetto di incessanti sollecitudini e di non leggeri sacrifizi materiali, e, quello che più monta, doverli disperdere non senza pericolo di un tristo avvenire!
Ho però piena fiducia che l'Autorità scolastica, riconosciuta la posizione in cui questo Istituto si trova in faccia alla legge ed alla civile società, mi permetterà di poter quanto prima raccogliere i miei allievi, per continuar loro quella educazione, che valga a metterli in grado di vivere la vita dell'onesto cittadino e nel tempo stesso guadagnarsi onesto sostentamento.
Intanto ben di cuore continuo ad offerire questo ospizio a quei fanciulli abbandonati che le pubbliche Autorità giudicassero di indirizzare ad imparare arti o mestieri. Conchiudo col rinnovarle i sentimenti della profonda mia gratitudine con cui ho l'onore di potermi professare
Torino, 9 Agosto 1879] Obbl,mo ed umile servitore
Nello stesso giorno io agosto un altro foglio liberale torinese, il Risorgimento, senza voler addentrarsi nel merito della questione, ebbe la franchezza di scrivere: “Ci sembra pure che il summum ius sia summa iniuria, quando si ha di fronte un Istituto, non solo educativo, ma caritativo, che provvede il pane del corpo e dell'anima a centinaia di poveri fanciulli
Fatte quindi le solite riserve del liberalismo sullo spirito elle dominava i numerosi istituti di Don Bosco, proseguiva: “Con tutto ciò non possiamo non rimanere stupefatti davanti a cotesti miracoli della fede e della carità, elle nessuno seppe, non che superare, raggiungere”. Con questo preambolo il giornale dava ai lettori la ragione dell'ospitalità accordata a un ampio articolo, in cui, prescindendosi dal pulito di vista legale, veniva prospettata la vera natura del tanto discusso Ospizio, cosa indispensabile “per potersi fare tiri giusto criterio sulla illegalità della chiusura e sulla gravità delle sue conseguenze”. Descritto il sorgere e l'ampliarsi di esso e i suoi costanti rapporti con le autorità governative, si paragonava il recente atto dell'autorità scolastica coli la strage degli innocenti ordinata da Erode e si esprimeva la fiducia nelle migliori disposizioni del nuovo ministero[125].
La polemica giornalistica varcò le Alpi. Un giornale parigino che non era farina da far ostie, il Figaro, intrattenne briosamente i suoi numerosi lettori sulla chiusura delle scuole di Don Bosco. Nel numero del 13 agosto una corrispondenza da Torino, presentati due attori principali del dramma, il Coppino e il Rho, delineava in iscorcio la benefica figura della loro vittima e poi batteva in breccia il malaugurato provvedimento, dimostrandone la puerile assurdità[126]. [193] A Torino, nel giorno in cui vi arrivò il numero del Figaro contenente una così solenne strigliata, accadde una di quelle coincidenze che verrebbe voglia di chiamare scherzi della Provvidenza per confondere la malignità degli uomini. Il famigerato Fischietto si sbizzarrì quel giorno con una caricatura, dove si vedeva un brutto ceffo vestito da prete, assiso sulle nubi, stringendo nella destra uno spegnitoio e sotto il braccio un volumone e un fagottino e portando sulla spalla sinistra un bastone recante in cima un secondo fagotto e un cartello con questa scritta: “Bel modo di proteggere le industrie. A Torino il Taumaturgo Dominus Lignus fabbricava nemici d'Italia con macchine non patentate dal ministero della Pubblica Istruzione: gli fecero chiudere la fabbrica! Dovremo forse vederlo emigrare per l'America in groppa ad una nube ed ingrandire colà le sue succursali!”Passi per l'idea fissa di veder Don Bosco emigrare da Torino[127]; ma quello spegnitoio fu proprio un infortunio sul lavoro. Mentre i lettori del foglio umoristico ridevano del nemico dei lumi costretto a portar lontano il suo oscurantismo, i lettori del Baretti apprendevano diverse cose interessanti. Apprendevano elle, presentatisi dall'Oratorio 32 candidati per la licenza ginnasiale nel regio ginnasio Monviso, 22 avevano conseguito la licenza, mentre degli interni solamente 7 su :16 erano stati approvati; apprendevano che i ventidue delle scuole illegali avevano ottenuto i migliori voti e elle anzi uno di essi era riuscito il primo di tutti gli 82 candidati, superando di dieci punti il migliore degli altri; apprendevano che i nove ritenuti in qualche materia avrebbero riparato agevolmente l'esame nella sessione di ottobre. Commentava il periodico: [194] “E questo esito favorevole si ottenne nonostante i disturbi che cagionò alle scuole il decreto di chiusura”. Sii questi risultati naturalmente i giornali cittadini ebbero la prudenza di serbare il silenzio.
Le ferie sopirono il conflitto e fecero sospendere gli assalti; ma Don Bosco non interruppe le pratiche per ottenere che l'Oratorio fosse riconosciuto come casa paterna e quindi esente dall'obbligo di sottostare alle esigenze degli istituti privati. In settembre scrisse al ministro dell'Istruzione Pubblica, prospettandogli il ginnasio dell'Oratorio come provvidenziale rifugio a tanti giovani forniti d'ingegno, ma diseredati dalla fortuna.
La pubblica voce che proclama la E. V. protettore dei figli del povero popolo, mi fa sperare la continuazione della sua benevolenza verso quei giovanetti dell'Ospizio detto Oratorio di S. Francesco di Sales, che desiderano di percorrere la via del sapere e della virtù. Questo Ospizio raccoglie circa 900 poveri ragazzi, ai quali colla scienza o coi mestieri si procura un mezzo con cui a suo tempo guadagnarsi il pane della vita.
Quelli di più svegliato ingegno sono avviati alla carriera degli studii secondarii.
Per lo spazio di 36 anni i Ministri della Pubblica Istruzione ed i Regi Provveditori hanno costantemente incoraggiato e sussidiato queste scuole, senza mai richiedere insegnanti legali: soltanto quest'anno 1878-79 il Sig. Provveditore di Torino, volendo sottoporre questo Istituto a leggi più strette che non sono quelle relative agli Istituti privati, cagionò disturbo e non lieve danno agli allievi, siccome ebbi già l'alto onore di esporre alla E. V.
Ora supplico la E. V. che si degni considerare l'Oratorio di San Francesco di Sales quale casa di beneficenza, ricovero di poveri ed abbandonati fanciulli e permettere elle lo scrivente, mentre fa da padre nel provvedere il pane e quanto occorre per l'educazione materiale, possa eziandio dare per sè o per altri l'istruzione necessaria per prepararsi onesta maniera di campare la vita.
L'esito felice degli allievi nei pubblici esami e il decoro, con cui molti di loro coprono dei primi posti come insegnanti nelle stesse Università dello Stato, fanno testimonianza intorno alla idoneità dei maestri.
Intanto a nome proprio e da parte di tutti i giovanetti beneficati, [195] professo la più profonda gratitudine, mentre ho l'onore di potermi professare della E. V.
Contemporaneamente ritentò la prova con il ministro degli interni. L'una e l'altra lettera egli corredò di opportuni allegati.
A fine di assicurare ai giovanetti di questo Ospizio un mezzo valevole col tempo a guadagnare da vivere onoratamente, ho presentata una memoria al Sig. Ministro della Pubblica Istruzione. In essa io chiedo che questo Istituto continui ad essere tenuto quale opera di beneficenza, e elle il Superiore di esso possa loro far dare l'istruzione secondaria, come da circa trentacinque anni ha praticato.
Nel 1865 il R. Provveditore, ignaro della natura tutta speciale di questo Istituto, voleva sottoporlo alle leggi dei Ginnasii privati, quindi con insegnanti titolari; ma una dichiarazione del Ministro dell'Interno, ed un'altra del Sindaco di Torino, dirette al Ministro della Pubblica Istruzione, tolsero ogni difficoltà.
Presentemente trovandomi in caso identico, mi fo' animo di supplicare V. E. a voler dire una parola in favore dei nostri giovanetti presso al prelodato Sig. Ministro della Pubblica Istruzione. La gratitudine mia e dei giovanetti verso la E. V. sarà grande ed incancellabile, e tutti pregheremo Dio che la conservi, mentre ho l'alto onore di potermi professare
Da Roma non veniva nulla, e l'anno scolastico stava per ricominciare. Fece allora di bel nuovo appello alla giustizia e alla carità del ministro Perez.
Si avvicina il tempo di cominciare le scuole, ed io mi trovo tuttora nella incertezza per quello elle debbo fare a favore dei giovanetti abbandonati che la Divina Provvidenza fa recapitare a questo Istituto di carità. Io pertanto La supplico umilmente e caldamente a prendere in benigna considerazione questi ragazzi elle a Lei protendono la mano dimandando protezione. Mentre poi attendo la benefica autorizzazione per dare l'istruzione secondaria ai giovanetti ricoverati in questo [196] ospizio, la prego a permettermi elle, in rapporto al sofferto disturbo, faccia rispettosamente osservare:
I° Che la legge Casati non obbliga il Direttore di un Istituto privato a presentare veruno orario scolastico all'Autorità locale, nè questa lo può pretendere.
2° Che i miei insegnanti fecero scuola, e che la legge non dà il diritto al Consiglio Scolastico di determinare il numero delle lezioni annuali, necessarie all'osservanza delle leggi;
3° Che il Provveditore di Torino essendo due sole volte venuto ad ispezionare quest'Oratorio, non poteva di qui logicamente arguire che i maestri titolari non insegnassero quasi mai; perciocchè sebbene alcuni di loro fossero occupati lungo il giorno nell'amministrazione dell'Istituto, tuttavia studiavano le ore libere per dare le volute lezioni ai loro allievi;
4° Che io mi sono provveduto di Professori titolari non già perchè credessi questo Istituto essere Ginnasio privato, giacchè per 35 anni le autorità civili, scolastiche, municipali hanno sempre considerato questo Istituto come opera di carità; ma ho preposti alle nostre classi insegnanti legali per cedere alla insistenza e minaccie dell'autorità scolastica.
La giustizia e la carità elle proclamano la S. V. Protettore dei figli del povero popolo, mi fanno sperare di essere liberato da una vessazione che ritorna a datino pubblico e specialmente di tanti poveri fanciulli che, senza questo mezzo di educazione, corrono grave rischio di seguire la inala via e forse anche di finire nelle carceri dello Stato.
Pieno di fiducia nella nota sua bontà io con profonda gratitudine mi professo
Questa volta il ministro si fece vivo. Il 28 ottobre gli scrisse: “Dal pregiato foglio di V. S. Rev.ma in data del 19 corrente ho con piacere sentito che Ella ha trovati per le classi ginnasiali del suo Collegio professori muniti di regolare diploma. Ciò farà sì che Ella potrà senza ritardo riaprire le classi suddette, al quale effetto si dovrà rivolgere al Consiglio Scolastico: di che dandole avviso, per fine me le rassegno pieno di stima e di considerazione ecc.”. S. E. volle salvare capra e cavoli. Il Beato capi che su questo terreno non avrebbe [197] guadagnato nulla più che la facoltà di riaprire le sue scuole, previa la presentazione dei titoli. Si attenne dunque alle istruzioni ministeriali e mandò l'elenco degli insegnanti al Provveditore, che ne scartò due: Bartolomeo Fascie, studente del secondo anno di lettere, e Gallo Besso, studente del secondo anno di matematica; provvedesse quindi che la prima ginnasiale e l'insegnamento dell'aritmetica in tutte le classi fossero affidati a insegnanti forniti di regolari diplomi; ciò fatto egli avrebbe proposto al Consiglio Scolastico Provinciale di autorizzare la riapertura dell'istituto. Don Bosco provvide.
Allo studente Bartolomeo Fascie del 2° anno di lettere sottentrerà il Prof. D. Marco Pechenino nell'insegnamento della Ia ginnasiale pei poveri fanciulli di questa casa.
Al eh. Gallo Besso studente del 20 corso di matematica non si avrebbe altri da sostituire, perciò il corso di aritmetica resta per ora sospeso fino a che se ne possa avere uno coi titoli legali. Questo è conforme alla legge che non prescrive il numero nè le qualità degli insegnamenti da darsi negli istituti privati.
Il sottoscritto poi, fermo nell'idea che il suo sia un istituto di beneficenza, e non un ginnasio privato, e perciò non soggetto all'articolo 246 della legge Casati riguardo ai titoli degli insegnanti, presenta i maestri patentati solo per condiscendere all'autorità locale, aspettando una decisione dall'Autorità superiore.
Ma Don Bosco non poteva tollerare che il decreto ministeriale di chiusura pendesse in ogni tempo quale spada di Damocle sul suo Oratorio: volle ottenerne la revoca. In sostanza riusciva a questo effetto il tentativo a cui si accingeva di strappare per le sue scuole il riconoscimento ufficiale che erano paterne. Ed ecco che si venne ingaggiando una nuova battaglia.
Erano giorni, in cui nei Parlamenti dei principali Stati europei si duellava per la libertà d'insegnamento: sembrava che dappertutto spirasse un'aura di reazione contro il tirannico [198] monopolio della scuola; sicchè l'opinione pubblica si appassionava in vario senso al problema. In Italia il Congresso cattolico nazionale di Modena, tenutosi nell'ultima settimana di ottobre, affrontò la questione. L'ingegnere Buffa di Torino presentò uno schema di petizione da inviarsi, coperto di firme, alle due Camere, per chiedere che l'insegnamento fosse libero. ““Come padri, vi si diceva, abbiamo diritto di educare ed istruire secondo la nostra coscienza i figli che Dio ci ha dato. Come Italiani, abbiamo diritto di crescere una generazione che non d'ignominia, ma di onore e di gloria riesca alla patria. Come cittadini abbiamo diritto che le leggi scolastiche s'informino al primo articolo dello Statuto, e al principio di libertà nell'insegnamento, che decretato dal Parlamento subalpino nel 1857, voluto applicarsi nella legge organica 13 novembre 1859, venne, per abuso di chi doveva la legge stessa applicare, disconosciuto e reso lettera morta”. Nel corso della discussione avendo il Buffa nominato Don Bosco e accennato ai suoi istituti di carità, scoppiò una salva di vivissimi applausi.
Il ministro Perez aveva idee larghe circa la libertà d'insegnamento. E semplice aver richiamato da Torino e assunto a suo Segretario particolare l'Allievo, convinto e pubblico assertore di questa libertà, è sufficiente a far conoscere le tendenze ministeriali, confermate pure da altri fatti[128]. Ma questa propensione fu non ultima causa della sua breve permanenza al ministero[129]. Diede le sue dimissioni il 19 novembre, seguite per intestine discordie da quelle dell'intero Gabinetto Cairoli. Il Cairoli, incaricato della ricomposizione, offerse al Perez l'agricoltura; ma quegli ricusò, ponendo il dilemma: o l'istruzione o niente! Gli succedette il letterato Francesco De Sanctis.
Don Bosco era risoluto di portare la sua questione dinanzi al Consiglio di Stato, chiedendo l'annullamento del decreto [199] Coppino siccome illegale per essere l'Istituto Salesiano opera di carità. Per questo si preparò convenientemente il terreno. Cominciò a comporre un memoriale sotto forma di ragguaglio storico indirizzato al nuovo ministro della Pubblica Istruzione, con cinque appendici di documenti che andavano dal 1850 al 1866: egli dava in esso una giusta idea dell'Oratorio di Valdocco. Perchè poi le autorità dello Stato potessero venir informate a dovere, fece stampare il suo scritto a mo' di opuscolo[130], che con o senza l'altro sopra mentovato dell'Allievo mandò a quanti poteva essere utile illuminare intorno alla faccenda. Orti bisognava imbroccare la via buona per giungere al Consiglio di Stato.
Il Consiglio di Stato, secondo il prescritto della legge, non riceveva nè deliberazioni nè documenti se non dai ministeri; onde qualsiasi istanza doveva andare per la via gerarchica. Nel caso nostro faceva d'uopo rimettere la petizione al Presidente del Consiglio Scolastico Provinciale, che l'avrebbe presentata al Consiglio stesso, e il Consiglio con sua relazione al ministro dell'Istruzione Pubblica; il ministro poi, esaminata la questione, avrebbe trasmesso tutto l'incartamento al Consiglio di Stato. Ma il Consiglio Scolastico di Torino che fiducia poteva ispirare a Don Bosco? Non avrebbe cercato con ogni mezzo di trarre l'acqua al suo mulino? Se non altro, avrebbe potuto con burocratici ritardi tentar di mandare la cosa alle calende greche. Un'altra via si apriva più sicura e più spedita: ricorrere al Re. La legge glie ne dava il diritto ed egli se ne valse. E' vero che allora il Gabinetto di Sua Maestà, passata l'istanza al protocollo generale, l'avrebbe trasmessa al ministero dell'Istruzione Pubblica e questo si sarebbe rivolto anzitutto al Consiglio Scolastico di Torino per ischiarimenti; ma non era più possibile far arenare la pratica, nè per l'ordinario sottoporla a soverchi indugi; inoltre Don [200] Bosco aveva a Roma tanto presso il Ministero elle presso il Consiglio di Stato, amici fidati, i quali l'avrebbero tenuta d'occhio, rimovendo remore e cattivando influenze.
Il Beato compilò dunque un ricorso al Re, ampliando il memoriale già spedito al ministro e unendovi una larga documentazione sulla vertenza. Uno degli amici suddetti, il signor Benedetto Viale, torinese, vecchio impiegato nella segreteria del Consiglio di Stato, scrivendo a Don Rua di quel ricorso, giudicò che “non poteva essere meglio redatto”; portatolo poi a un suo intimo, che copriva un posto molto elevato presso il ministero dell'Interno, n'ebbe in risposta .che era “molto ben scritto e assai stringente pel ministero dell'Istruzione Pubblica”, il quale aveva ordinato la chiusura; che se non ricevesse giustizia, Don Bosco avrebbe potuto benissimo rivolgersi al Parlamento e financo procedere per via giudiziaria. Il signor Viale dal canto suo assicurò Don Rua dicendo: “Non dubiti che vigilerò, raccomanderò, consiglierò per un esito favorevole, che non è altro che la giustizia”[131]. Anche l'istanza al Re fu poi da Don Bosco data alle stampe[132], e avuto dal signor Viale l'elenco dei componenti la sezione del Consiglio di Stato, che trattava gli affari della pubblica istruzione, ne mandò copia a ciascuno, insieme con l'altro suo opuscolo e con quello dell'Allievo.
La petizione di Don Bosco fu dal Gabinetto reale trasmessa al Ministero dell'Istruzione Pubblica l'II dicembre. Nella vigilia di Natale il Ministero presentò al Consiglio di Stato, l'incartamento relativo coli una lettera ministeriale, che risente dell'acredine, la quale dovette condire le informazioni [201] di provenienza torinese[133]. A relatore era già stato designato il commendator De Filippo, elle sembrava favorevole, quando per mutamenti introdotti nel Consiglio di Stato le questioni attinenti al Ministero dell'Istruzione Pubblica dovevano essere trattate dalla sezione dell'Interno, e perciò la relazione sarebbe dovuta passare ad altri; invece per alte raccomandazioni, a cui non fu estranea l'opera del Viale, venne lasciata al De Filippo. Anche il senatore Siotto-Pintòr favorì Don Bosco, interponendo i suoi buoni uffici presso il ministro, presso il Presidente del Consiglio di Stato Cadorna e presso i consiglieri suoi amici; “la violazione della legge è manifesta”, esclamava l'energico sardo[134].
Ma non era così manifesta ai signori di Torino. Come se nulla fosse, il Prefetto volle conoscere programmi e orario delle scuole. Don Bosco gli rispose:
In ossequiosa risposta alla lettera di V. S. Ill.ma in data 24 dicembre 1879 mi fo dovere di rispondere che i programmi usati nelle nostre scuole non sono uniformi, perchè è diverso il grado di istruzione che occorre compartire ai nostri ricoverati.
In quanto all'orario, sebbene non prescritto dalla legge, le dico di buon grado che per lo più le lezioni si danno dalle 9 alle II ½ del mattino e dalle 2 alle 4 ½ pomeridiane.
Ma siccome i nostri insegnanti hanno eziandio degli impegni nell'amministrazione di questo Istituto, così non di rado devono variare l'orario comune. Hanno però agio a compiere il corso affidato essendo tra noi l'anno scolastico dal 15 ottobre al 9 settembre.
Ed anche Don Bosco, come se nulla fosse, si rivolse al ministro degli Interni Depretis per averne un sussidio, rappresentandogli i suoi bisogni con tanti giovanetti raccolti nell'Oratorio da alimentare. Il ministro incaricò il Prefetto di partecipargli il suo rincrescimento per non poter elargire il chiesto sussidio, mancando nel suo bilancio i fondi a simili spese ed essendo state già le tenui risorse disponibili impiegate a sollievo di tanti infortunii che si lamentavano in ogni parte del Regno durante quella stagione invernale[135].
Il Presidente del Consiglio di Stato aveva nominato la commissione speciale per l'esame dell'affare. Si componeva di otto consiglieri, che si radunarono il 26 febbraio 1880. La conclusione fu che, non risultando abbastanza chiara l'indole ed il carattere delle scuole in questione, si riservasse l'avviso della commissione a quando le fossero comunicati schiarimenti da chiedersi. Don Bosco, informatone confidenzialmente, indirizzò al Ministero la seguente memoria.
In data 13 novembre 1879, ho umiliato all'E. V. un ricorso perchè fosse rivocato il decreto di chiusura delle scuole annesse all'Oratorio di S. Francesco di Sales, ove sono ricoverati ed educati cristianamente molti poveri giovanetti abbandonati. Non avendo ricevuto risposta alcuna alla mia preghiera e non sapendo se al Consiglio di Stato o al Ministero sia rimasta arenata la pratica, mi rivolgo alla E. V. perchè voglia essermi di tanto cortese da dirmi se fu pigliata in considerazione la mia supplica, e se furono esaminati i documenti che la appoggiavano e che mostravano ad evidenza l'indole ed il carattere dell'Istituto di beneficenza da me eretto. E mi preme tanto più insistere in questo momento in cui mi viene partecipato correre voce a Torino che il R. Provveditore agli studii di questa città e provincia abbia testè riscritto al Ministero sulla questione in corso.
Mi giova credere vadano altamente errati quelli che mi insinuarono tal cosa; ma se avessero qualche fondamento le voci corse a danno di questo povero Istituto io sarei in dovere di provare coi fatti che quelle asserzioni sono al tutto contrarie alla verità. Si vuole, se son vere le cose esposte, che il R. Provv. abbia voluto presentare alla E. V. le nostre scuole come un vero privato ginnasio, nel quale gli alunni mediante una rata mensile hanno l'insegnamento secondo le varie [203] scuole cui appartengono. Gli è questo un grande errore, giacchè l'Oratorio di S. Francesco di Sales essendo destinato a favore di poveri ragazzi, non avvi neppure uno dei ricoverati che paghi un centesimo per avere quest'insegnamento, neppure uno degli insegnanti che percepisca il benchè minimo stipendio, e quindi gratuitamente i ragazzi ricevono le lezioni e gratuitamente l'impartono gli insegnanti. Basterebbe a mio credere questa sola osservazione per mostrare la natura dell'Istituto e per presentarlo quale opera pia, giusta quanto ha determinato il Consiglio di Stato nel dicembre dello scorso anno 1879. Dirò tuttavia che a prova del mio asserto potrei numerare e citare parecchie accettazioni gratuite di giovani, raccomandati da vari passati ministri, dalla questura, e dallo stesso prefetto Minghelli Vaini pochi dì prima del decreto di chiusura delle nostre scuole. Qualcuno vi ha, è vero, che offre o mensilmente o annualmente qualche piccola somma e forse avvene uno ogni centinaio che potendo paga L. 24 mensili, ma questo piccolo aiuto come può bastare pel vitto, pel vestito e riparazioni che richiede ciascun individuo? Questo non può certamente mutare l'indole dell'opera pia a favore dei poveri giovanetti che vivono dei mezzi che la D. Provvidenza ci manda; il che può chiaramente vedersi dal regolamento dell'Istituto che richiede le seguenti condizioni per l'accettazione.
I° 12 anni compiuti e non più di 18.
2° Orfani di padre e di madre, salvo che particolari motivi richiedessero qualche eccezione.
3° Poveri ed abbandonati. Quelli che hanno qualche cosa la porteranno seco a vantaggio dell'Istituto.
Si vorrebbe in secondo luogo che i ragazzi raccolti nell'istituto siano destinati allo stato ecclesiastico o religioso.
Per aver una risposta a questa osservazione basterebbe visitare oltre l'oratorio di Torino, gli ospizii della città di Lucca, di Sampierdarena, e si vedrebbero centinaia, e possiam dire migliaia di poveri ragazzi applicati ad arti e mestieri e che in nessun modo aspirano allo stato ecclesiastico. Molti tra i giovani raccolti hanno percorsa più o meno splendida carriera e nessuno è rimasto spostato in società come si vorrebbe far supporre, poichè il sottoscritto si è fatto un dovere di collocare sempre convenientemente i giovani affidati alle sue cure quando, o per difetto d'intelligenza, di mezzi o di volontà, non intendevano percorrere la carriera degli studii e abbandonavano l'Istituto.
E a conferma di quanto asserisco potrei citare migliaia di giovani che tolti dall'ozio e dalla miseria si guadagnano ora onestamente il pane in società, come potrei nominare parecchi dei nostri giovani alunni che collo studio giunsero a coprire cariche luminose nella magistratura, nella milizia, nei varii ministeri e non pochi sono quelli i quali laureati in lettere e filosofia insegnano con plauso in varie città d'Italia, non solo nei licei e ginnasii ma nelle stesse regie università. [204] E’ vero tuttavia che sul numero considerevole di giovanetti alcuni mostrano inclinazione allo stato ecclesiastico e religioso, e questi trovano nelle nostre scuole quei mezzi e quegli aiuti di cui abbisognano per corrispondere alle divine chiamate e questi ci sono indispensabili per prestare istruzione, vigilanza, e direzione agli allievi dell'Ospizio e nei molti giardini di ricreazione destinati a trattenerli nei giorni festivi.
Dalle cose fin qua esposte mi giova sperare che l'E. V. sarà sufficientemente edotta sul vero stato della questione e quand'occorresse sono pronto a presentare i documenti e le prove prima che vengasi ad una deliberazione, la quale inspirata solamente a relazioni prive di fondamento, tornerebbe dannosa a tanti poveri figli del popolo che raccolti in mezzo alle vie, mentre stavano per divenire un manifesto pericolo per la società, attendono ora a migliorar se stessi, e mediante una buona educazione lasciano fondata speranza di poter riuscire probi e onesti cittadini, onore della società, speranze di più lieto avvenire.
Tengo fiducia nella illuminata saggezza e bontà dell'E. V, e spero che avrà la bontà di far pervenire queste mie osservazioni al Consiglio di Stato, affinchè gli eminenti personaggi chiamati a pronunziare un giudizio definitivo su questa dolorosa vertenza, abbiano chiara idea del vero stato delle cose in questione.
Si vede che le cose andavano a rilento; infatti soltanto ai 7 di aprile il provveditore Rho spedì al ministero la chiesta relazione sulla natura dell'Oratorio di Don Bosco. Confrontando questa relazione con la memoria surriferita appare che il Servo di Dio aveva subodorato molto bene quello che bolliva in pentola, quali idee cioè avrebbero informato il rapporto provveditoriale, quando fosse chiesto da Roma. il Provveditore asseriva che pochissimi alunni potevano ottenere di esservi tenuti gratuitamente e che i due terzi, uscendo per avere interrotti gli studi o per averli finiti, si riversavano nella società privi di mezzi di fortuna, non più atti ai lavori manuali, a cui attendevano prima, e non abbastanza istruiti per poter intraprendere una carriera civile. Per questi due motivi l'Oratorio non essere istituto di beneficenza. Ora a questi due appunti Don Bosco rispondeva preventivamente, senz'averne l'aria, nella sua memoria al ministro[136]. [205] Allorchè il Provveditore fornì al ministro tali informazioni, Don Bosco si trovava a Roma. Avrà certo brigato la parte sua; ma non sappiamo più nulla dell'affare fino al 28 aprile, quando la commissione si radunò per la seconda volta. Si voleva formulare lì per lì il parere, basandolo puramente e semplicemente sui ragguagli del Ministero, vale a dire del Provveditore. Ma il buon consigliere barone Celesia scattò e presa la parola, si oppose dicendo: - Ecchè? si vorrebbe venire ad una sentenza definitiva senza neppur udire la parte interessata? Signori, non siamo in Turchia! - La franca osservazione produsse l'effetto desiderato; infatti il Presidente incaricò il consigliere commendator Gerra di redigere parere sospensivo[137] che nella parte sostanziale risultò in questi termini: “Ritenuto elle sulle notizie raccolte e precisate dal Regio Provveditore degli studi in Torino circa il carattere dell'Istituto scolastico nell'Oratorio di San Francesco di Sales in quella città, non fu interrogato il Sac. Giovanni Bosco ricorrente contro il decreto elle ne ordinò la chiusura; che lo interrogare il Sac. Giovanni Bosco è conveniente e può giovare alla più completa e sicura istruzione dell'affare; che l'incarico di interrogare il Sac. Giovanni Bosco potrà essere adempito dal Prefetto della Provincia nel modo che egli stimerà migliore; il qual Prefetto avrà così opportunità di stabilire ed esporre tutti gli elementi di fatto necessarii a conoscere se l'Istituto del quale si tratta sia di beneficenza o di istruzione, e se essendo d'istruzione appartenga a quelli contemplati nell'articolo 260 o a quelli contemplati negli articoli 251 e 252 della legge 13 novembre 1859: che sulle risultanze così completate sarà bene che il Ministero esprima de terminatamente il proprio avviso, LA COMMISSIONE è di parere che, prima di pronunciarsi sul merito, l'affare debba essere ulteriormente istruito in 'Conformità delle avvertenze premesse”. [206] Intanto a Torino erano avvenute parecchie novità negli uffici governativi, Così un nuovo Prefetto Casalis aveva preso il posto dell'altro. Egli, per eseguire gli ordini del Consiglio di Stato, formulò a Don Bosco per iscritto i cinque seguenti quesiti: I° Quale fosse l'indole dell'Oratorio in generale, e quale particolarmente lo scopo che egli si proponeva nel mantenervi le scuole ginnasiali. 2° Quanti fossero i giovani dell'Oratorio addetti ad arti o mestieri, e quanti quelli che frequentavano le classi del ginnasio, e quanti i chierici che attendevano agli studi filosofici e teologici. 3° Se i giovani tutti dell'Oratorio e più specialmente quelli che attendevano agli studi ginnasiali fossero tenuti nell'istituto gratuitamente, ed in caso negativo quanti fossero quelli che godevano di un posto intieramente gratuito, e quanti d'un posto semigratuito. 4° Quanti alunni solessero presentarsi annualmente all'esame di licenza ginnasiale e quanti quelli che nell'anno precedente lo avevano superato. 5° Quanti fossero gli alunni che negli ultimi cinque anni avevano compito la quinta classe ginnasiale e quanti fra questi erano passati nell'istituto al corso filosofico, per dedicarsi quindi al ministero ecclesiastico ed ascriversi al Sodalizio Salesiano da lui fondato. Don Bosco gli rispose così
Mi fo un dovere di rispondere ai varii Quesiti che V. S. Ill.ma si compiacque di propormi per incarico del Ministero della Pubblica Istruzione sopra l'Oratorio di S. Francesco di Sales.
Il I° Quesito domanda: qual sia l'indole dell'Oratorio in generale e quale particolarmente lo scopo che il Direttore si propone col mantenere in esso le Scuole Ginnasiali.
Rispondo alla prima parte del Quesito.
Un Parere emesso dal Consiglio di Stato nel 1879 stabilisce che il carattere di una fondazione è determinato dal fine che si propone e dalle qualità delle persone a cui vantaggio essa è diretta. - Ora ecco il fine che io mi proposi nel fondare l'Oratorio di S. Francesco di Sales in Torino. Non credo poterlo meglio esporre che colle parole da me usate quando per la prima volta ne formolai il Regolamento, e che furono consegnate alla Autorità governativa e pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale: “Si incontrano talora giovani orfani e privi dell'assistenza patema, perchè [207] i genitori non possono o non vogliono curarsi di loro, senza professione, senza istruzione. Costoro sono esposti ai più gravi pericoli spirituali e corporali, nè si sa come impedirne la rovina, se non si stende loro una benefica mano, che li accolga, li avvii al lavoro, all'ordine, alla religione. La Casa dell'Oratorio di S. Francesco di Sales ha per iscopo di dar ricetto ai giovani di questa categoria.
“Affinchè un giovane sia accettato nella Casa detta: Oratorio di S. Francesco di Sales in Valdocco, sono necessarie le seguenti condizioni:
I° Che il giovane abbia dodici anni compiuti, e che non oltrepassi i diciotto;
2° Sia orfano di padre e di madre, nè abbia fratelli o sorelle, od altri parenti, che possano averne cura;
3° Totalmente povero ed abbandonato. Qualora, avverandosi le altre condizioni, il giovane possedesse qualche cosa, egli dovrà portarla seco alla Casa, e sarà impiegata in suo favore, perchè non è giusto, che goda la carità altrui chi può vivere del suo;
4° Che sia sano e robusto, non abbia alcuna deformità nella persona, nè sia affetto da malore schifoso o attaccaticcio;
5° Saranno di preferenza accolti quelli che frequentano l'Oratorio festivo di San Luigi, del Santo Angelo Custode e di San Francesco di Sales; perchè questa Casa è specialmente destinata ad accogliere quei giovani assolutamente poveri ed abbandonati che intervengono a qualcuno degli Oratori summentovati”.
Questo è il fine col quale fu aperto l'Oratorio Salesiano, ed io restando fedele ad esso in ogni tempo, mi impegnai di attuarlo con quei mezzi che la Provvidenza mi somministrava. Ciò posto, apparisce chiaro essere l'Oratorio Salesiano nella sua indole un Istituto di Beneficenza a pro della Gioventù abbandonata. E che sia tale fu riconosciuto sempre dai Municipii, dalle Questure, dalle Prefetture, e dagli stessi Ministeri dello Stato che gli raccomandarono centinaia di giovanetti abbandonati: per tale fu proclamato nel Parlamento Nazionale e nel Senato del Regno; e per tale infine lo ebbero le persone dabbene e caritatevoli, che lo giovarono della loro benevolenza e di copiosi sussidii, tanto che da piccoli principii potè crescere fino a ricoverare un migliaio di persone, e fondare officine, laboratori e scuole, dove i più utili ritrovati delle scienze e delle arti sono comunicati ai figliuoli del popolo, e per essi riversati sulla civil società.
In conferma di tutto questo viene il fatto che una innumerevole quantità di giovani, di cui sarei pronto a declinare i nomi, usciti da questo Oratorio coprono oggidì nella Società ufficii più o meno cospicui sia nei Licei e nelle Università, sia nell'Esercito e nelle pubbliche Amministrazioni. E mi è grato poter affermare che nessuno di quelli, che si mostrarono docili allievi di questo Istituto, ne uscì sfornito dei mezzi necessarii a guadagnarsi onorevolmente il pane, come nessuno [208] vi ha di mia saputa, che nelle sue relazioni o colla Società o col Governo non si mostri uomo dabbene e buon cittadino; anzi vi hanno esempi di tali che in alcune gravi contingenze spiegarono atti di vero eroismo.
Venendo alla seconda parte del medesimo Quesito io, rispondo che lo scopo speciale, elle mi propongo nel mantenere le scuole in questo Oratorio si è di compiere un importante ramo di educazione e soddisfare ai bisogni ed alle vocazioni molteplici e varie dei giovanetti in esso ricoverati. Dei quali alcuni, inclinati per natura all'esercizio di certe arti e mestieri più nobili ed elevati (tipografia, calcografia, fonderia, fotografia, stereotipia, ecc.) noli sarebbero in grado di impararli bene ed esercitarli con frutto se non fossero un poco istruiti nel Latino, nel Greco, nel Francese, nella Geografia e nell'Aritmetica, ecc.
Altri mostrando lui ingegno assai sveglio ed una speciale attitudine al culto delle scienze si credette giovare grandemente alla Società coltivando questi eletti ingegni ed avviandoli alla carriera delle scienze superiori. Di questi molti o cogli aiuti dell'Istituto o concorrendo ai posti gratuiti del Collegio delle Provincie, o di altre benefiche istituzioni, poterono pigliare l'iscrizione nelle Università muniti di tutti i titoli dalla legge richiesti e compiervi i loro studi, ed ora fanno buona prova o sulle cattedre o cogli scritti; e qui solo per brevità se ne tace il nome potendosi manifestare ad ogni richiesta della pubblica Autorità.
Sonvi poi altri noli pochi di casato cospicuo ma caduti in bassa fortuna, i quali non potendo per ragione di convenienza confondersi con quelli della prima categoria, vengono avviati ad una carriera più confacente alla loro condizione. Per rispondere alle esigenze di queste due ultime categorie di alunni si fu nella necessità di dare alle scuole dell'Oratorio la forma d'insegnamento Ginnasiale. Questo scopo speciale, come si vede, non solo non contraria, ma adempie vie più lo scopo generale di beneficenza, a cui mira questo Ospizio.
Risposta al 2° Quesito. - I giovani dell'Oratorio addetti ad arti o mestieri od a lavori diversi dell'Istituto sono in numero di 510. Quelli che frequentano le classi del Ginnasio, come apparisce dalla nota già consegnata al Sig. Provveditore, sono circa 300. E' forse superfluo il notare che in questi numeri vi ha sempre una certa fluttuazione, essendovi quasi ogni settimana dei giovani che per diversi motivi si allontanano dall'Istituto, ed altri che vi entrano. Nell'autunno e nell'inverno, per ragioni elle è facile capire, il numero dei ricoverati è maggiore, mentre diminuisce nei tempi estivi.
Rispetto ai chierici conviene avvertire due cose: I° Che nell'Oratorio non c'è un corso regolare di studi filosofici, ma a que' giovani che occupati nell'Uffizio di assistenti od in altri lavori dentro l'Istituto, intendono consacrarsi allo stato Ecclesiastico, si dà, nel tempo e nel [209] modo elle la condizione dell'Istituto permette, quell'insegnamento che è necessario a ben assistere nei laboratorii, dormitorii, ecc., a catechizzare i fanciulli, a fare scuole serali di letteratura e di musica vocale ed istrumentale, ed a compiere altri somiglianti Uffizi necessarii all'Istituto e richiesti dalla loro vocazione.
2° Che non tutti i chierici, i quali dimorano presentemente nell'Oratorio o negli altri Istituti fondati da D. Bosco, uscirono dalle scuole dell'Oratorio di Torino; ma i più furono allievi di altri Collegi o Seminari, i quali, desiderosi di associarsi a D. Bosco nelle varie opere di beneficenza che ha alle mani, vennero a sottoporsi all'ubbidienza di lui. Il che apparisce chiaro dalla tavola seguente, colla quale si risponde al proposto Quesito.
Chierici, che nel senso esposto attendono allo studio della Filosofia nell'Oratorio Salesiano, venticinque; dei quali diciassette compierono il Ginnasio in altri Istituti, e soltanto otto furono allievi dell'Oratorio. Studenti di Teologia dodici, dei quali cinque provenienti da altri Istituti.
Venendo ora al 3° Quesito, un articolo del Regolamento di questo Istituto dice: “Se il postulante possiede qualche cosa, la porterà seco nella sua entrata nello Stabilimento, e sarà impiegata a suo favore, perchè non è giusto elle viva di carità, chi noli è in assoluto bisogno”. - In forza di questo articolo avviene elle non tutti i ricoverati nell'Oratorio Salesiano vi stiano gratuitamente, ma taluni vi paghino una piccola pensione mensuale od annua, secondo la possibilità loro, o dei parenti. Il che tuttavia, avuto riguardo alla qualità delle persone, elle si accolgono in questo Oratorio, non toglie elle la massima parte delle spese restino a carico del medesimo come appare dalla tavola seguente:
Giovani ricoverati 810. Posti tenuti gratuitamente 450.
Studenti tenuti gratuitamente nell'Istituto centosei (106). Uno solo per ogni cento paga la pensione di lire 24 mensuali. Gli altri ne pagano cinque, quale otto, quale dieci, ecc. Tenuto poi conto de' posti occupati gratuitamente e delle molte quote inesigibili, si può stabilire che la pensione media degli studenti è di circa lire sei mensuali per testa. Le quali, come ognun -vede, non bastano a gran pezza a provvedere il vitto; onde l'istruzione rimane totalmente gratuita per parte degli alunni elle la ricevono, come è intieramente gratuita per parte di coloro che la dànno, non essendovi fra le tante persone, che sono necessarie all'istruzione, all'assistenza ed agli altri uffizi dell'Istituto neppur uno, che riscuota un soldo di stipendio.
A compimento di questa risposta credo necessario avvertire che D. Bosco tiene altri Istituti di educazione in varie parti d'Italia, i quali essendo destinati alle classi mediocremente agiate, vi si paga la pensione regolare di L. 24, mensuali od anche più, e vi dànno l'insegnamento Professori muniti dei Titoli legali. Con questi evidentemente [210] non è da confondere, come taluno ha fatto, l'Oratorio di Torino diverso al tutto per indole e per condizione.
Risposta al Quesito 4°. Gli allievi dell'Oratorio suddetto che annualmente sogliono presentarsi all'esame di licenza Ginnasiale sono in media una ventina. Nell'anno passato si presentarono 31, lo superarono 26. Parecchi di questi ottennero i più bei voti nel R. Ginnasio Monviso di Torino, ed uno riuscì il primo con dieci punti sopra tutti gli altri, ed ebbe l'attestato di onore.
Rispetto al Quesito 5° credo necessario di notare che non esiste tra noi alcun sodalizio, ma solo una pia Associazione detta di S. Francesco di Sales, la quale ha per iscopo di occuparsi della educazione della gioventù specialmente povera ed 'abbandonata. L'esponente e tutti quelli che vi appartengono sono liberi cittadini e in ogni cosa dipendono dalle leggi dello Stato.
Gli alunni che negli ultimi cinque anni compirono la 5ª classe Ginnasiale in questo Oratorio furono 210. Quelli tra questi, che passarono nell'Istituto agli Studi Superiori per dedicarsi al Ministero Ecclesiastico ed ascriversi alla pia Società di S. Francesco di Sales, sono 31.
Pare non tornare a biasimo dell'Istituto che parecchi dei suoi allievi di loro spontanea volontà si associno a D. Bosco per recare ad altri quei benefizi, che essi hanno ricevuto; ma insieme da questo confronto apparisce come sarebbe erroneo il credere che si tengano aperte le scuole dell'Oratorio specialmente per benefizio della pia Associazione Salesiana.
Con questo io credo di avere, per quanto mi fu possibile, soddisfatto ai cinque Quesiti proposti dalla S. V. Ill.ma, pronto a dare ogni altro schiarimento quando ne fossi richiesto. Ma nel medesimo tempo oso supplicare il Consiglio di Stato che qualunque sia per essere la decisione riguardo alla prima dimanda del mio Ricorso, Esso favorisca di pronunciare altresì il suo esplicito parere intorno alla seconda domanda, che si riferisce alla legalità del Decreto Ministeriale in forza di cui furono chiuse le scuole dell'Oratorio Salesiano.
In ogni evento intendo mettere questo Pio Istituto sotto la benevola protezione di V. S. Ill.ma della quale sarò sempre colla massima venerazione
I primi a cui mandò copia di questa esposizione, gliene dissero ogni bene. Al signor Viale parve che lo scritto rispondesse nel modo più categorico e vittorioso a tutti i quesiti e che non potesse più dubitarsi dell'indole eminentemente benefica dell'Oratorio, e soggiungeva: “Alle buone ragioni in [211] merito fa degno confronto la temperanza e la nobiltà del linguaggio e tutto spira il convincimento della verità e la purezza della coscienza che non sa mentire nè a sè nè agli altri”. Esprimeva poi l'augurio che il Prefetto trasmettesse tal quale la risposta al ministero e che il ministero si convincesse della giustizia e riparasse l'errore commesso[138]. Anche il barone Celesia lesse e scrisse al Beato: “Di passaggio in questa città mi vien rimessa la preziosa lettera di V. S. Rev.ma del 17 corrente, coll'annessa copia di osservazioni. Rendo grazie alla S. V. Rev.ma della fattami comunicazione e desidero che le cose siano chiarite a vantaggio della beneficenza e della educazione, cui tanto Ella si dedica. Spiacente di non poterla riverire in persona, la prego di gradire gli atti di alta stima del suo, ecc. ecc.”[139]. Ma interessa soprattutto conoscere il sentimento del Prefetto. Accusando ricevuta[140], si espresse così: “Ho visto la difesa che fa del suo istituto. Per me sono già persuaso e spero che se ne persuaderanno anche gli altri”. Erano buone parole, che aspettavano di essere chiarite e confermate dai fatti; ma intanto Don Bosco aveva già un elemento per arguir l'umore dell'uomo, con cui aveva da fare e da cui dipendeva tutto l'esito della controversia. Noi sappiamo come il Servo di Dio, ricevendo da persone amiche doni geniali, fosse solito farne presente a benefattori o ad autorità. Gli avevano regalato un leprotto vivo, e pensò di offrirlo al nuovo Prefetto, forse nell'atto di complimentarlo per la sua nomina. Questi nella medesima lettera dei Quesiti lo ringraziava in una forma un po' singolare dicendo: “Ho l'obbligo di ringraziarla della lepre, a cui procacciai un avvenire più degno di me, di Lei e di chi l'ha creata, dandole la libertà”.
Parrebbe incredibile! Il Prefetto Casalis indugiò tanto a trasmettere, le dichiarazioni fornite da Don Bosco il 7 Luglio [212] 1880, che solamente il 7 giugno 1881 l'incartamento per il tramite del Ministero pervenne al Consiglio di Stato. Il ritardo permise al nuovo Provveditore commendator Denicotti di esaminare per conto suo la questione, e il Prefetto non fece che riassumere e far sue le osservazioni sfavorevoli di lui, traendone la conseguenza che il decreto di chiusura non poteva essere revocato se non quando Don Bosco si dichiarasse disposto, come ogni altro cittadino, ad eseguire le prescrizioni della legge.
Il Presidente della sezione che trattava nel Consiglio di Stato gli affari spettanti al Ministero dell'Istruzione Pubblica, nominò una commissione speciale di nove membri per il nuovo esame del ricorso. Don Bosco, avvertito segretamente di ogni cosa, fece stampare in gran fretta la lettera prefettizia dei cinque Quesiti e la sua risposta, premettendovi a mo' di preambolo questo indirizzo:
Al ricorso da me rassegnato a Sua Maestà contro il Decreto ministeriale di chiusura dell'Istituto educativo di giovani stabilito in Torino nell'Oratorio detto di S. Francesco di Sales mi vennero fatte dal Ministero di P. I. le seguenti dimande di schiarimenti intorno alla natura dell'Istituto, alle quali mi feci premura di dare analoga risposta fin dal luglio dell'anno scorso, risposta che ora qui riproduco.
A tale uopo reputo opportuno di ricordare in via sommaria (come apparisce dimostrato dai documenti già presentati a questo Eccell.mo Consiglio di Stato):
I° che l'Istituto predetto si deve considerare [che] sia come vero Istituto paterno e come Istituito di beneficenza;
2° che, dato e noli concesso elle sia un Istituto privato, e quindi soggetto alla legge vigente, esso non poteva essere chiuso, perchè i Professori dati in nota come abilitati insegnarono essi medesimi effettivamente, facendosi solo sostituire in caso di necessità; sicchè è un errore di fatto che siansi affidate le scuole ad altri insegnanti non abilitati;
3° che tutto il passato depone in favore del ricorrente, al quale noti furono mai domandate note di Professori abilitati dalle autorità scolastiche precedenti, e elle mandò esse note solo quando gli furono richieste, invocando in suo favore gli articoli 251, 25 della legge, soltanto allora che fu contestata la natura del suo Istituto. [213] Dovendo il mio ricorso essere deferito all'esame del Consiglio di Stato, mi pregio di rassegnare alla S. V. I. una copia sia dei Quesiti, sia delle risposte nel caso che le possa tornare di qualche utilità alla maggior cognizione della questione.
Senza lasciar trapelare che egli conoscesse il tenore della relazione prefettizia e i nomi dei Commissari, mandò lo stampato a questi e ad altri membri del Consiglio di Stato. Don Bosco sapeva benissimo che i documenti annessi alle pratiche sono poco letti e meno ancora esaminati e, che per lo più in simili Commissioni i relatori danno ragione al Governo e i commissari ai relatori; sottoponendo invece ai singoli componenti la stia Commissione quelle due lettere, egli li metteva in grado d'informarsi sommariamente e di prendere in adunanza la parola, confutare gli argomenti del relatore e sapersi poi regolare nella votazione.
Sembrava tutto disposto perchè l'adunanza si tenesse verso la metà di luglio; invece fu differita a novembre, perchè la maggior parte dei Commissari erano andati in ferie. La si tenne dunque ai 29 di quel mese. La causa di Don Bosco ebbe la peggio, specialmente per le maligne insinuazioni di Abignente. Due membri della Commissione presero le sue difese e il barone Celesia lottò a spada tratta in favore di lui, ma tutto fu inutile[141]. Il parere dopo una lunga serie di ritenuto che e di considerato che, ultimo dei quali era che il decreto ministeriale non impediva a Don Bosco di riaprire le sue scuole, quando si conformasse alla legge, finiva sentenziando che il ricorso contro il decreto di chiusura non meritava di essere accolto. Ai 22 di dicembre il Re firmò il decreto per il rigetto del ricorso, e così ebbe termine la laboriosa controversia.
Ma non ebbero fortuna gli uomini che la sollevarono. L'onorevole Coppino uscì quasi subito dal Ministero. Il Minghelli [214] Vaini, Prefetto di prima classe a Torino, fu traslocato Prefetto di terza classe a Catania, poi a Lecce e quindi messo a riposo; Nicomede Bianchi, che maneggiò tutto l'affare, venne in bel modo rimosso dall'ufficio; il provveditore Rho che aveva tanta paura di andare in Sicilia, ricevette nel 1880 l'ordine di raggiungere la residenza di Palermo. Supplicò, non andò, ma di lì a poco fu esonerato dall'ufficio e sospeso dallo stipendio, sicchè, divenuto come insensato, si ritirò nel nativo paesello. Suo fratello prete, colpito da apoplessia, stette a lungo inchiodato in un letto. Per chiudere la dolorosa, storia aggiungeremo che durante le misure vessatorie un certo professor Castelli si presentò a Don Bosco con tali proposte e documenti da gettare il povero Provveditore nel fango; ma Don Bosco sdegnò siffatti mezzi, dicendoli indegni di un'anima cristiana. Nè personalmente il signor Rho, anche quando compiè quegli atti, ebbe mai a lagnarsi di Don Bosco, dopo la cui morte ricordava “l'ardente carità cristiana da cui era animato e amava dirsi “vecchio amico di quell'uomo a cui il nostro paese e l'intiero mondo cristiano debbono eterna gratitudine”[142].
A dir vero, il provveditore Rho non era alle sue prime armi, Egli non solo aveva già negato di riconoscere il carattere di vescovile al piccolo seminario di Borgo San Martino, succedaneo a quel, di Mirabello, ma aveva anche cercato di togliere il pareggiamento al collegio dei Barnabiti a Moncalieri. Il Rho, insomma, fosse debolezza o partito preso, serviva la consorteria che combatteva la libertà d'insegnamento per scristianeggiare la scuola e la nazione. Il ministro dell'Istruzione Pubblica Ruggero Bonghi nel 1875 aveva proclamato in piena camera non potersi sperare compiuta la rigenerazione e la ristaurazione morale d'Italia, finchè non fosse esclusa dall'educazione ed istruzione della gioventù l'influenza del clero. [215]
Ecco dunque dove paravano i rigorosi provvedimenti, con cui Per fas et nefas si attraversava l'istituzione delle scuole paterne, così conformi alla legge 13 novembre 1859. Il Bonghi stesso nel gennaio del 1875 con una circolare s'arrogò il diritto d'interpretare, mutilare, applicare a modo suo quella legge; alle teoriche poi e deduzioni bonghiane si appigliarono i Consigli Scolastici e il Consiglio di Stato per rifiutare la facoltà di aprire scuole paterne, sotto il pretesto che lo spirito della legge non comportava di estendere fino a cento il numero di più padri di famiglia che potevano associarsi per far istruire e far educare in comune i loro figli sotto la propria vigilanza, e che parimente ripugnava alla legge il potersi dai padri di famiglia delegare ad altri il loro diritto e la loro autorità sopra siffatte scuole[143]. Si voleva a ogni costo rendere impossibile una scuola, un collegio, un convitto chiuso all'ateismo ufficiale, che si soleva far passare sotto la maschera apparentemente non odiosa della così detta laicità.
Con questo preciso obbiettivo la Massoneria ognora imperante alla Minerva fece alla chetichella man bassa della sempre vigente legge Casati. Per via di decreti ministeriali od anche per mezzo di semplici circolari dei ministeri l'arbitrio si venne sovrapponendo ora alla lettera ora allo spirito della legge. Anzi bastarono spesso le rimostranze di un Carneade qualunque, perchè il ministero dell'Istruzione Pubblica imponesse con la forza quello che la legge non imponeva, e vi si ostinasse a dispetto di tutto e di tutti; una volta poi ingaggiata la lite e giunta al Consiglio di Stato, questo dava ragione al ministro e torto a chi con la legge era perfettamente in ordine.
Don Bosco che vide chiaramente e vide molto presto quali fossero i segreti intendimenti dei settari e che volle senza rumore elevar un argine contro l'irrompere del male, fu anche dei primi a sperimentare gli effetti del tirannico monopolio statale negli ordinamenti scolastici d'Italia.
MENTRE questi e altri non meno grossi fastidi che vedremo nei capi seguenti, avrebbero potuto far perdere la bussola a chi non possedesse la santa imperturbabilità di Don Bosco, egli dovette anche applicare la niente a trarsi da una situazione imbarazzante in cui erasi venuto inopinatamente a trovare di fronte alla Santa Sede per un atto del suo ufficio di Superiore Generale.
Nel mese di marzo del 1879, stando a Roma, aveva compilato una relazione sullo stato morale e materiale della Società Salesiana, che fece dare alle stampe (I) e umiliò alla Santa Sede, distribuendone copia anche ai Direttori delle case. Ne faceva così la presentazione: “Le Costituzioni di questa Società al capo VI prescrivono che ogni tre anni debbasi fare alla S. Sede una relazione sullo stato materiale, morale e progresso della medesima. Ciò si è solo fatto approssimativamente in passato, perciocchè l'apertura di nuove case, e le modificazioni cui la nascente Congregazione dovette piegarsi per le speciali circostanze dei tempi e de' luoghi, impedirono di fare una completa ed esatta esposizione quale [217] si doveva. Il Rettore Maggiore di questa Congregazione desideroso di prestare in ogni cosa il dovuto ossequio alla Santa Sede, con piena fiducia di avere quelle osservazioni e quei consigli che possono contribuire alla maggior gloria di Dio, compie ora questo suo dovere, esponendo umilmente lo stato in cui si trova codesta pia Società nei vari paesi ne' quali esercita qualche atto di sacro ministero o prende parte all'educazione scientifica o artistica della gioventù”. Segue poi un limpido riassunto storico delle origini e degli sviluppi della Pia Società dal 1841 al 1879 con un'idea sommaria del suo regime. Scrive il nostro Beato Padre:
Questa Congregazione nel 1841 non era che un Catechismo, un giardino di ricreazione festiva, cui nel 1846 si aggiunse un Ospizio pei poveri artigianelli, formando un Istituto privato a guisa di numerosa famiglia. Diversi sacerdoti e parecchi signori prestarono l'opera loro come esterni cooperatori alla pia impresa. Nel 1852 l'Arcivescovo di Torino approvò l'Istituto accordando di moto proprio tutte le facoltà necessarie ed opportune al Sacerdote Bosco Giovanni, costituendolo Superiore e capo dell'opera degli Oratorii. Da quest'anno al 1858 cominciò la vita comune; scuola, educazione di chierici, di cui parecchi divenuti preti si fermarono nell'Istituto. Nel 1858 Pio IX, di santa memoria, consigliava il Sacerdote Bosco a costituire una pia Società al fine di conservare lo spirito dell'opera degli Oratorii. Egli stesso benevolmente ne tracciava le Costituzioni, che furono ridotte in pratica per la vita comune ad uso di Congregazione ecclesiastica di voti semplici.
Dopo sei anni la Santa Sede con apposito decreto lodava, commendava l'Istituto e le sue Costituzioni e ne stabiliva il Superiore.
Nel 1870 l'Istituto con le sue Costituzioni veniva definitivamente approvato con facoltà di rilasciare le dimissorie ai Chierici Salesiani , che fossero entrati nelle case della Congregazione prima dei 14 anni di età.
Nel 1874 le Costituzioni erano definitivamente approvate nei singoli articoli, con facoltà di rilasciare indistintamente le dimissorie ad decennium. Di poi la Santa Sede in diversi tempi arricchì questa pia Società dei privilegi più necessari ad ma Congregazione Ecclesiastica di voti semplici. Frattanto si fondarono parecchie case di mano in mano che la Divina Provvidenza ne porgeva l'opportunità ed i mezzi: e crescendo esse in numero assai notevole, si divisero in Ispettorie e Province.
I confratelli ripartiti nelle diverse case della Congregazione sono dipendenti dal Direttore della rispettiva comunità; i Direttori sono [218] soggetti ad un Ispettore che presiede ad un numero determinato di case formanti la sua Ispettoria o Provincia. Gli Ispettori dipendono dal Rettor Maggiore. Questi col suo Capitolo Superiore amministra tutta la Congregazione, con dipendenza diretta ed assoluta dalla Santa Sede.
Sebbene questa Congregazione abbia per iscopo di occuparsi in modo particolare della gioventù pericolante, tuttavia i suoi membri si prestano volentieri in aiuto delle parrocchie e degli Istituti di beneficenza colla predicazione in occasione di tridui, novene, esercizi spirituali, missioni, dando comodità colla celebrazione della S. Messa, e coll'ascoltare le confessioni dei fedeli. Inoltre si adoprano a comporre, pubblicare, diffondere buoni libri, spacciandone ogni anno oltre ad un milione.
La memoria si chiude con una rapida notizia sullo stato morale, dove sono singolarmente degni di nota,. anche per il modo in cui sono espressi, due accenni, uno sui rapporti con l'Ordinario torinese e l'altro sull'annosa questione dei privilegi. Riportiamo il passo.
Esposto lo stato e l'incremento materiale che la Divina bontà ha concesso all'umile Congregazione Salesiana si dà qui un breve cenno dello stato morale della medesima.
1. L'ossevanza delle Costituzioni, grazie a Dio, è mantenuta in tutte le Case, e finora non vi fu alcun Salesiano che dimenticando se stesso abbia dato qualche scandalo. Il lavoro supera le forze e il numero degli individui; ma niuno si sgomenta, e pare elle la fatica sia lui secondo nutrimento dopo l'alimento materiale. E' vero che alcuni rimasero vittima del loro zelo tanto in Europa quanto nelle Missioni estere; ma questo non fece altro elle accrescere l'ardore di lavorare negli altri religiosi Salesiani. Si è però provveduto che niuno lavori oltre le sue forze con nocumento della sanità.
2. Le dimande degli aspiranti Salesiani sono assai numerose, ma si è provato che molti hanno vocazione ad altri ordini religiosi od allo stato di preti secolari, non ad ascriversi alla pia Società di S. Francesco di Sales. Le dimande annue sono di circa trecento, di cui centocinquanta sono ammessi al Noviziato; e coloro elle in fine di esso professano sono in media centoventi.
3. Coi Parroci e cogli Ordinarii Diocesani siamo in ottima relazione; e possiamo dire che ci fanno da padri e da benefattori. Con un solo Ordinario si incontrano delle difficoltà, di cui non si potè mai sapere la vera cagione. Colla pazienza, coll'aiuto del Signore e lavorando sottomessi nella sua Diocesi si spera di acquistare quella benevolenza che godiamo in tutte le altre Diocesi. [219]
4. Altra grande difficoltà fu incontrata nei Privilegi. Si crede che i Salesiani abbiano i Privilegi di cui comunemente godono tutti gli Ordini religiosi e le altre Congregazioni Ecclesiastiche, ciò che finora la Santa Sede non giudicò di concedere. L'andamento materiale e morale sarebbe reso assai più facile mercè la Comunicazione dei Privilegi, di cui si fa umile ma calda preghiera.
5. Si è tenuto il primo Capitolo Generale nel settembre 1877. Si trattarono più cose assai importanti per la pratica delle nostre Costituzioni, ma prima di mandare le prese deliberazioni alla Santa Sede si giudicò opportuno di metterle per alcun tempo in pratica, introdurvi le modificazioni per conoscere le correzioni a farsi, e sottoporle ad altro Capitolo Generale, che a Dio piacendo si terrà nel settembre del 1880.
6. Tutti i Soci della Congregazione si uniscono al loro Rettore Maggiore per fare omaggio alla S. Sede e professarle “inviolabile attaccamento, e supplicano che questa suprema Autorità della Chiesa loro continui la paterna sua assistenza, mentre essi con tutto l'impegno possibile non cesseranno di sostenere la fede e l'ubbidienza al Vicario di Gesù Cristo in tutti i paesi dove hanno case sia in Europa che in America.
Non nobis, Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam.
La parte più ampia della relazione verte intorno allo stato materiale. Don Bosco annette importanza ad ogni forma di attività da lui voluta e dai suoi esercitata, per ristretto che ne sia il campo; nulla perciò gli sfugge di quanto fanno i Salesiani e le Figlie di Maria Ausiliatrice. Ne vien fuori così un'esposizione analitica, nella quale il molto e il vario dovettero allora produrre nei Soci un misto di sorpresa e di compiacimento da farli esclamare: Digitus Dei est hic, qui c'è il dito di Dio[144].
Alla Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari questa prima relazione triennale di Don Bosco fu minutamente esaminata in ogni sua parte; dal qual esame risultarono sette “rilievi”, che dal cardinale Ferrieri Prefetto gli vennero [220] comunicati in data 5 aprile, sicchè egli li trovò sullo scrittoio quando fece ritorno all'Oratorio quattro giorni dopo. Il Servo di Dio non ebbe la menoma difficoltà a rispondere con opportuni schiarimenti; sol che la risposta andò per le lunghe. Troppe brighe lo incalzavano in quei mesi, come abbiamo veduto e vedremo, perchè potesse studiarvi sopra e ponderare bene le sue espressioni. Fece un abbozzo che diede a copiare; poi nella copia introdusse notevoli aggiunte e modificazioni, fors'anche ebbe d'uopo di consultare persone pratiche e benevoli; cosicchè la lettera non partì da Torino se non il 3 agosto. Essa è molto interessante. Noi stamperemo in corsivo i rilievi citati testualmente da Don Bosco.
Ho ricevuto copia delle osservazioni che l'autorevole Congregazione dei Vescovi e Regolari si degnò di fare sulla esposizione dello stato morale e materiale della Pia Società di S. Francesco di Sales.
Prima di tutto ringrazio umilmente la E. V., assicurandola elle di tali rilievi ne farò tesoro a vantaggio dei Soci Salesiani, e serviranno di norma per le future relazioni che ogni triennio devonsi fare alla Santa Sede.
Intanto mi fo dovere di dare qui gli schiarimenti richiesti secondo l'ordine numerico con cui furono fatte le osservazioni.
I° Nulla si dice nella succitata Esposizione sullo stato economico dell'Istituto, nè sul Noviziato, il quale deve farsi a norma di quanto viene stabilito dai Sacri Canoni e dalle Apostoliche Costituzioni.
La Pia Società non esiste legalmente, perciò non può possedere nè contrarre debiti, nè crediti. Le Case della Congregazione (come a pag. 13 della mentovata Esposizione) sono di proprietà dei membri della medesima; esistono debiti, ma un Socio ha in vendita uno stabile di valore sufficiente a pagarli. Ma la Congregazione sia come ente morale sia come ente legale non possiede e non può possedere cosa alcuna.
Una Casa di Noviziato è qui in Torino approvata e regolata dalla stessa Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari e se ne seguono tutte le norme stabilite ed approvate come nel Capo XIV delle nostre Costituzioni; colle medesime norme, e con Decreto di approvazione della Congregazione di Propaganda Fide fu aperta altra Casa di Noviziato [221] in Buenos Ayres, capitale della Repubblica Argentina. Con autorizzazione della prelodata Cong. dei Vescovi e Regolari è attivato quello di Marsiglia, dove si sta compiendo un edifizio adattato ed opportuno per tutte le osservanze prescritte a quest'uopo. Si dovrà presto aprire un nuovo Noviziato nella Spagna nella Diocesi di Siviglia, di che a suo tempo si farà formale preghiera alla Santa Sede per la dovuta autorizzazione. Si era pure fatta dimanda di attivare un Noviziato in Parigi; ma alcune difficoltà insorte ne rendono improbabile l'attivazione, perciò resta sospesa ogni pratica relativa.
Un Sacerdote di scienza e di pietà esperimentata è il Direttore dei Novizi. Due altri Sacerdoti lo coadiuvano. Fanno regolarmente ogni giorno la meditazione, lettura spirituale, visita al SS. Sacramento, recitano il Rosario della Beata Vergine. Ogni sera si raccolgono in chiesa a ricevere la benedizione col Venerabile, Ogni settimana fanno la loro Confessione, quasi ogni giorno si accostano alla S. Comunione. In ciascuna settimana hanno luogo due Conferenze, una istruzione sopra le Costituzioni. Finora l'osservanza religiosa è mantenuta.
2° La Pia Società non può essere divisa in Ispettorati, che è cosa insolita, ma in Province, per l'erezione delle quali in ciascun caso deve ottenersi la facoltà della S. Sede.
R. La Pia Società venne divisa in Ispettorie a norma dell'art. 17 Capo IX delle nostre Costituzioni così espresso: “Si opus fuerit, Rector Maior, Capitulo Superiore adprobante, constituet visitatores, eisdemque curam quamdam demandabit certum Domorum numerum inspiciendi, ubi earum distantia et numerus id postulaverit. Huiusmodi visitatores, sive inspectores, vel cognitores, Rectoris Maioris vices gerent in domibus et in negotiis eisdem demandatis”.
Sua Santità Pio IX, di sempre venerata memoria, nel primo organismo dell'umile Società Salesiana raccomandava di eliminare quelle denominazioni, che potessero urtare contro lo spirito del secolo. Pertanto invece di appellare Convento, proponeva si dicesse Casa, Collegio, Ospizio, Orfanotrofio; in luogo di Generale si appelli Rettor Maggiore; al nome di Priore o Guardiano si sostituisca Direttore; a Provinciale o Provincia qualche vocabolo equivalente. Sarà opportuno dire che la divisione in Ispettorie non è ancora attivata, ma è solamente proposta ad esperimento, e qualora se ne conosca possibile l'effettuazione si farà il dovuto ricorso alla S. Sede. Ma nella tristezza dei tempi nostri e le continue e gravi difficoltà che ogni giorno dobbiamo appianare non lasciano ravvisare altra divisione tollerabile in mezzo al secolo, perciò si prega a volerla temporaneamente ammettere.
3° All'articolo Ispettoria Piemontese si dice, che al sacro Ministero dei Salesiani sono confidati alcuni ricoveri di donne. Una tale commissione non può darsi, che dall'Autorità Vescovile rispettiva, e doveva [222] esprimersi, se essa eravi intervenuta, ed in che consiste il detto Sacro Ministero.
R. Nell'aprire Istituti femminili e nell'assumerne la direzione spirituale furono seguite tutte le norme descritte nel Capitolo X delle nostre Costituzioni. Sono questi Istituti mancanti affatto di mezzi materiali, cui i Salesiani a richiesta degli Ordinarii prestano caritatevolmente il religioso servizio. Questo sacro ministero è sempre concertato e limitato dall'Ordinario Diocesano in tutto ciò che si riferisce ai SS. Sacramenti della Confessione, Comunione, alla celebrazione della S. Messa, alla parola di Dio, catechismi e simili.
4° Dalla detta Esposizione risulta, che i Salesiani hanno Collegi, Scuole, ecc. e nulla si dice, se col permesso dei rispettivi Ordinarii, e se nell'insegnamento dipendono da essi a forma dei Sacri Canoni, e specialmente del S. Concilio di Trento.
R. Furono seguite le Regole approvate dalla S. Sede come sono descritte nel Capo X delle nostre Costituzioni per l'apertura di novelle Case, quindi furono premesse le dovute pratiche cogli Ordinarii Diocesani quali sono prescritte dai Sacri Canoni e dal Sacro Concilio di Trento.
5° Nella medesima Esposizione si aggiunge una relazione sopra un Istituto di donne sotto la denominazione di Maria Ausiliatrice, e nulla si dice, se questo Istituto abbia un Superiore Generale da cui dipendano le Suore, e se esso sia del tutto indipendente, come dev'essere, dall'Istituto dei Salesiani.
R. Quando furono approvate le Costituzioni Salesiane si trattò e si discusse quanto riguardava l'Istituto delle Figlie di Maria SS.ma Ausiliatrice.
L'Istituto di Maria Ausiliatrice dipende dal Superiore Generale della Pia Società Salesiana nelle cose temporali, ma in ciò che concerne all'esercizio del culto religioso e all'amministrazione dei Sacramenti sono totalmente suggette alla giurisdizione dell'Ordinario. Il Superiore dei Salesiani somministra i mezzi materiali alle Suore e col consenso del Vescovo stabilisce un Sacerdote col titolo di Direttore Spirituale per ogni Casa di Suore.
Parecchi Vescovi hanno già approvato questo Istituto femminile, ed ora si sta facendo il dovuto esperimento per conoscere praticamente le modificazioni da introdursi prima di umiliarle alla S.Sede per l'opportuna approvazione.
Siccome poi in vari punti delle loro regole è notato il limite della dipendenza delle Suore dal Superiore dei Salesiani, così viene unita una copia delle loro regole per chi desiderasse maggiore schiarimento sulle medesime. [223] Si nota eziandio che la Casa Madre di queste Suore è in Mornese, Diocesi di Acqui, il cui Ordinario ha sempre regolata l'origine, il progresso e la dilatazione dell'Istituto.
6° Si aggiunge, che le dette Suore fanno la cucina, ed hanno cura della biancheria, e del vestiario nei Seminari, e negli Ospizi dei maschi, lo che è stato sempre riprovato dalla S. Sede.
R. In ogni cosa si ebbero previe intelligenze cogli Ordinarii Diocesani, anzi le dimande furono fatte da loro medesimi, e si seguono tutte le regole che i Sacri Canoni prescrivono e che la prudenza suggerisce.
7° Questa Sacra Congregazione non può a meno di riconoscere come cosa singolare, ed inopportuna, che la ripetuta Esposizione sia stata data alle stampe, mentre la relazione triennale da darsi dai Superiori Generali degli Istituti non è per altro ordinata, che per fare conoscere alla S. Sede lo stato disciplinare, personale, materiale, economico di ciascun pio Istituto, e l'andamento del Noviziato.
R. Ho poi fatto stampare tale Esposizione ad unico fine di facilitarne la lettura. Essendo questa la prima volta che io inviava relazione di questa fatta alla S. Sede ho seguito il consiglio del Superiore di un altro Istituto che mi disse: La S. Sede preferisce l'esposizione stampata. Altra volta mi farò dovere di inviarla manoscritta.
Dati così i richiesti schiarimenti prego la E. V. a conservare questa povera Società in benevola considerazione.
I tempi, le autorità, le leggi civili, gli sforzi che si fanno per annientare gli Istituti ecclesiastici mi spingono a chiedere dalla E. V. tutto l'appoggio e tutta la indulgenza compatibili colle prescrizioni di Santa Chiesa.
Questi schiarimenti dovevano essere spediti alla E. V. nel mese di maggio ultimo scorso, ma per gravi disturbi cui soggiacque questa Casa ho dovuto differire al presente giorno.
Colla massima venerazione reputo sempre ad alta gloria il potermi sottoscrivere
Gli schiarimenti forniti da Don Bosco diedero luogo a nuove osservazioni in data 3 ottobre, trasmessegli dall'avvocato Leonori il giorno 6. Questi nella lettera di accompagnamento diceva a Don Bosco: “Bisogna (perdoni la mia audacia) fare una risposta piena, concludente e soddisfacente, per [224] guisa elle da parte della Congregazione noli possa esservi replica”. Egli potè replicare solamente il 12 gennaio 1880, quando partiva per la Francia e inviava a Roma Don Dalmazzo come Procuratore Generale della Congregazione. Nella sua replica noli cita più le parole della lettera cardinalizia; ma noi per rendere più agevole la lettura ve le andremo inserendo fra parentesi quadre e in carattere corsivo.
Io sono addolorato che malgrado il mio buon volere non sia riuscito a dare i voluti schiarimenti sopra l'esposizione triennale alla S. Sede intorno alla nostra umile Congregazione. Affinchè questo ed altro affare possa essere spiegato nel senso compatibile con questa Congregazione e nel tempo stesso nel senso voluto dai Sacri Canoni, mando il Sacerdote Dottore Francesco Dalmazzo in qualità di nostro Procuratore con incarico di porsi agli ordini di V. E. o di chi Ella giudicherà indicare al medesimo.
Intanto io espongo qui alcuni miei pensieri in ossequiosa risposta alla lettera che la E. V. degnavasi indirizzarmi il 3 ottobre 1879.
Il mentovato Sacerdote Dalmazzo può dare spiegazioni in proposito ove ne sia d'uopo.
[Collo schiarimento dato sull'Osservazione N° I Ella dice che la pia Società non esiste legalmente, perciò non può possedere nè contrarre debiti. Prosiegue poi, che le Case della Congregazione sono proprietà di alcuni socii; esistono debiti, ma un socio ha in vendita uno stabile per pagarli. Conchiude, che la Congregazione sia come Ente morale, sia come ente legale, non possiede, nè può possedere. Si ritiene da questa S. Cong.ne, che tutte dette espressioni di non legale esistenza, vogliansi da V. S. intendere in riguardo alla legge civile ostile ai Pii Istituti; Poichè in riguardo alle leggi della Chiesa, avanti la quale non hanno alcun vigore le leggi civili, tutti i pii Istituti, così anche quello dei Salesiani, hanno la loro legale esistenza secondo i Sacri Canoni. É Perciò che sono soggetti alla S. Sede pei beni, che hanno sotto qualunque titolo, e sotto qualunque nome siano stati acquistati, e si posseggano. Tutti i pii Istituti nella loro relazione triennale, non attendendo alle leggi civili di qualunque governo, fanno la loro esposizione sullo stato economico, esponendo in succinto, quali beni Posseggono sotto qualunque nome, quali rendite, di qualunque provenienza esse siano, percepiscono, e come sono erogate; e se devono vender beni anche posseduti a nome di terze persone, crear debiti, questa S. Cong.ne ha loro sempre inculcato la necessità del beneplacito Apostolico, e si sono mostrati obbedienti solamente V. S. ha allegato la legge civile per esimersi da tali [225] obblighi. Rifletta, che le Costituzioni Salesiane furono dalla S. Sede approvate con i detti obblighi risultanti dall'Art. 2° del Cap. VI e dall'Art. 3° del Cap. VII, ancorchè fossero state emanate le dette leggi civili all'epoca dell'approvazione succitata].
I° Riguardo alla proprietà. - Questa nostra Pia Società nè in faccia alla Civile Società nè in faccia alla Chiesa è ente morale da poter possedere.
Nel Capitolo IV delle nostre Costituzioni si legge: “Ideoque qui sunt professi in hac Societate dominium radicale, ut aiunt, suorum bonorum retinere poterunt”. Nel medesimo Capitolo n. 2 è come segue: “Poterunt vero sodales de dominio sive per testamentum, sive (permissu tamen Rectoris Maioris) per acta inter vivos libere disponere”.
Siccome per la tristezza dei tempi questo punto era per noi fondamentale, io chiedeva nell'approvazione delle nostre Costituzioni, come dovessero intendersi le parole del Capitolo VII articolo 3 così espresso: “In bonorum alienationibus Societatis, et aere alieno conflando, serventur quae sunt de iure servanda iuxta Sacros Canones et Constitutiones Apostolicas”.
Per mezzo di Monsignore, poi Cardinale Vitelleschi, allora Segretario della S. Congregazione dei Vescovi e Regolari gli Em.mi fecero dire: La risposta è nell'articolo medesimo, cioè in alienationibus bonorum Societatis: e ciò si dovrà intendere elle quando i tempi o i luoghi permettano di possedere qualche cosa in comune o a nome della Pia Società, si dovrà osservare questo articolo come lo osservano tutte le, Congregazioni religiose ed ecclesiastiche. Ciò pare conforme al n. 2 del sopradetto Capitolo VII, dove si dice del Rettor Maggiore: “Nulla, quod ad res immobiles attinet, emendi vel vendendi ei fuerit facultas, absque Superioris Capituli consensu”.
Questo è il senso elle ho sempre dato io alle nostre Costituzioni fin dal principio della esistenza di questa Pia Società. Così le intese sempre il Sommo Pontefice Pio IX di sempre gloriosa memoria, come pure gli Eminentissimi Cardinali scelti per l'esame e per l'approvazione delle nostre Costituzioni.
Il considerare poi soggetti alle prescrizioni dei Sacri Canoni gli stabili posseduti personalmente dai Soci quali beni ecclesiastici, metterebbe nella confusione l'andamento delle cose nostre; perciocchè tutti i Salesiani fecero la loro professione religiosa appoggiati sopra il primo articolo del Capo IV De voto paupertatis, elle comincia così: “Votum paupertatis, de quo hic loquimur, respicit tantummodo cuiuscumque rei administrationem, non vero possessionem”.
[Nello stesso schiarimento sull'Osservazione N. I V. S. asserisce che con autorizzazione della S. Cong.ne de' VV. e RR. è attivato il Noviziato di Marsiglia. Non constando alla prelodata S. Cong.ne di avere [226] dato la della autorizzazione, si vede nella necessità d'invitarla a trasmettere copia del relativo rescritto, da cui risulti la facoltà di aprire il Noviziato in Marsiglia].
2° Noviziato di Marsiglia. - Riguardo all'autorizzazione del Noviziato di Marsiglia, che si desidera erigere, ho preso un equivoco, perocchè codesta Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari in data 5 febbraio 1879 avendone chiesto il parere al Vescovo di quella città, egli in data 23 febbraio 1879 rispose favorevolmente, perciò si giudicava questa pratica terminata, mentre è. tuttora in corso. Si uniscono i relativi documenti e rinnovo la preghiera per la concessione del favore.
[Nella risposta che V. S. dà all'Osservazione N° 2 dice che la Pia Società venne divisa in Ispettorie a norma dell'Art. 17 Cap, IX delle Costituzioni. Ora nel succitato Art. 17 si parla, di Visitatori da costituirsi dal Rettore Maggiore si opus fuerit, Capitulo Superiore approbante e non già d'Ispettori. Tutti gli altri Istituti in qualunque parte del mondo essi esistono sono divisi in Province, previa l'approvazione della S. Sede, la quale mai ha ammesso che la divisione si faccia sotto altro nome. Ella dovrà attenersi alla regola generale].
3° - Nella divisione in Ispettorie invece di Province ho giudicato che questa fosse l'applicazione pratica dell'articolo 17 Capo IX delle nostre Costituzioni: “Si opus fuerit, Rector Maior, Capitulo Superiore adprobante, costituet visitatores, eisdemque curam quamdam demandabit certum domorum numerum inspiciendi”.
Il nome di Provincia e Provinciale in questi calamitosi tempi ci getterebbe in mezzo ai lupi, da cui saremmo o divorati o dispersi. Questa nomenclatura fu proposta dallo stesso Pio IX di sempre cara e grata memoria. Qualora poi si volessero assolutamente gli antichi nomi, supplico elle tale obbligazione sia almeno limitata nel trattare colla Santa Sede, con libertà di usare nel secolo quei modi e quei vocaboli che sono possibili in questi tempi.
[Nello schiarimento che la S. V. dà all'Osservazione No 3 così si esprime: Nell'aprire Istituti femminili, e nell'assumere la direzione spirituale di essi furono seguite tutte le norme descritte nel Cap. X delle Costituzioni. In questo Capitolo si parla dell'apertura delle case per Chierici, per giovani, e per fanciulli da educarsi dai Salesiani; non parlasi affatto dell'apertura di case di donne da dirigersi da essi. Nè può dirsi essere stata mente della S. Sede di permettere l'apertura e la direzione di tali case ai Salesiani nell'approvare le Costituzioni, perchè è ciò contrario alle sue massime fondate sopra ben ragionevoli motivi. Potranno i Salesiani avere la direzione spirituale nelle case di donne, qualora venga loro affidala dai rispettivi Ordinarii, e questa direzione [227] spirituale deve consistere nell'amministrazione dei Sacramenti, e nella predicazione della Parola di Dio, se, e come loro viene commesso dai detti Ordinarii].
4° - Nelle cose relative alle Suore di Maria Ausiliatrice i Salesiani non hanno nelle loro Case altra ingerenza se non la spirituale nei limiti e nel modo che permettono e prescrivono gli Ordinarii nella cui Diocesi esiste qualche Casa delle medesime.
[Alla Osservazione N° 5 così risponde la S, V.: Quando furono approvate le Costituzioni Salesiane si trattò, e si discusse quanto riguarda l'Istituto delle Figlie di Maria SS. Ausiliatrice. L'Istituto di Maria Ausiliatrice dipende dal Superiore Generale della Pia Società Salesiana. Riscontrata la ben voluminosa posizione del' Salesiani, e specialmente la parte che riguarda l'approvazione delle Costituzioni, si è osservato, che mai si trattò, e molto meno si discusse ciò che riguarda le Figlie di Maria Ausiliatrice. Se ciò fosse vero, certamente questa S. Congregazione avrebbe ordinato la divisione dei due Istituti. Non fu mai suo solito di approvare, specialmente nei tempi più a noi vicini, che gl'Istituti di donne dipendano dagl'Istituti di uomini: e se mai è, occorso qualche caso di tale dipendenza, ne ha costantemente ordinato la cessazione immediata. Ella vuole introdurre una massima contraria, che questa Cong.ne non può fare a meno di riprovare].
5° - In ciò che si riferisce all'Istituto di Maria Ausiliatrice, se sia stato o no proposto nell'approvazione delle Costituzioni posso rispondere che nel Sommario stampato per cura di codesta Sacra Congregazione nell'esame per la definitiva approvazione delle nostre Costituzioni nel numerare le case in quel tempo già aperte a pag. lo, n. 16 si legge quanto segue: “Come appendice e dipendentemente dalla Congregazione Salesiana è la Casa di Maria Ausiliatrice fondata con approvazione dell'Autorità Ecclesiastica in Mornese, Diocesi di Acqui. Lo scopo si è di fare per le povere fanciulle quanto i Salesiani fanno pei ragazzi. Le religiose sono già in numero di quaranta ed hanno cura di 200 fanciulle”.
Gli Em.mi Cardinali sopralodati fecero alcune dimande sopra la natura e scopo di questa Istituzione e mostrandosi soddisfatti delle mie verbali dichiarazioni conchiusero che sarebbesi poi trattata la cosa più accuratamente quando venissero presentate le loro Costituzioni per l'opportuna approvazione alla S. Sede.
[Quando questa S. Cong.ne nell'Osservazione N° 5 sulla relazione triennale di V. S. scrisse sul regime dell'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, fecesi a dimandare, se questo avea la sua Superiora Generale, e non il Superiore Generale, come V. S. erroneamente scrive, riportando l'osservazione suindicata]. [228]
6° - Negli schiarimenti richiesti il 5 aprile 1879 si dimandava: “Se questo Istituto delle Suore di Maria Ausiliatrice abbia un Superiore Generale da cui dipendano le Suore, e se esso sia del tutto indipendente, come dev'essere, dall'Istituto dei Salesiani”. Fu risposto affermativamente aggiungendo quale ne fosse l'autorità in conformità delle Costituzioni di quelle religiose. Ora la F.. V. chiede se le mentovate Suore abbiano una Superiora Generale. Rispondo affermativamente che esse hanno la Superiora Generale ed il proprio Capitolo Superiore conformemente al titolo III delle loro Costituzioni.
Esposto quanto sopra prego la E. V. a voler con patema bontà considerare che la pia Società Salesiana senza mezzi materiali, in tempi calamitosi cominciò e si sostenne in mezzo a crescenti difficoltà e in mille modi osteggiata. Perciò ha bisogno di tutta la benevolenza e di tutta la indulgenza che è compatibile coll'Autorità di S. Madre Chiesa.
Si contano fino a cento le Case aperte, e in cui si porge cristiana educazione a circa cinquantamila fanciulli, di cui oltre a seicento annualmente entrano nel Chiericato. D'altro canto credo poter assicurare la Eminenza Vostra che i Salesiani non hanno altro fine che di lavorare alla maggior gloria di Dio, a vantaggio di Santa Chiesa, dilatare il Vangelo di Gesù Cristo fra gli iridi Pampas e nella Patagonia.
Prostrato davanti all'E. V. chiedo venia se involontariamente avessi scritto parola non conveniente, mentre ho l'alto onore di potermi professare
Nella lettera di Roma vi era ancora questo tratto: “Sull'Osservazione N. 60 ossia che le Suore di Maria Ausiliatrice hanno cura della biancheria e del vestiario nei Seminari, e vi fanno la cucina, cosa ch'è stata sempre riprovata dalla S. Sede, si risponde che in ogni cosa si ebbero previe intelligenze cogli Ordinari Diocesani, anzi le dimande furono fatte da loro medesimi. Questa S. Congregazione quando è giunta a conoscere, che gli Istituti di donne prestano simili opere nei Seminari, e negli Ospizi di maschi, ancorchè vi sia stato il consenso dei rispettivi Vescovi, anzi abbiano questi stessi chiamate le Suore a prestarli, lo ha costantemente interdetto”. Su questo punto Don Bosco non replicò, probabilmente [229] perchè non era egli solo in causa, ma vi erano, e anche più di lui, alcuni Vescovi, come quelli di Casale e di Biella.
Dalla Sacra Congregazione non ricevette altre osservazioni dopo questa replica; ma l'affare ebbe strascichi penosi', come vedremo a tempo e luogo.
Nelle molteplici traversie del periodo che ci si svolge dinanzi, quello che alla luce dei fatti emerge sopra tutto è la santità dell'uomo di Dio, che senza mai nè rallentare la propria attività a causa di ostacoli nè mendicare dall'attività stessa giustificazioni a bruschi procedimenti, va costantemente dritto e calmo per la sua strada. Gran virtù ci vuole di certo in simili contingenze a non iscantinare da una parte per debolezza d'animo o dall'altra per atteggiamenti arditi. “Non posso nascondere, scriveva appunto per questi affari[145], la mia amara afflizione nel non potermi far capire. Lavoro e intendo che tutti i Salesiani lavorino per la Chiesa fino all'ultimo respiro. Non dimando aiuto materiale, ma domando soltanto quella indulgenza e quella carità che è compatibile coll'Autorità della Chiesa”. “Tutte le volte che ci frappongono imbarazzi, scriveva ancora[146], io rispondo sempre coll'apertura di una casa”. In queste due citazioni palpita lo spirito del nostro Beato Padre; e che non fossero nella seconda sole parole, ne vedremo la prova nella relazione triennale del 1882. Insomma nei santi non si dà mai il caso che l'azione impedisca la santità; piuttosto è da dire che dalla santità piglia in essi origine e incremento l'azione.
A Chieri, contro il fiorente oratorio femminile tenuto dalle Figlie di Maria Ausiliatrice, scoppiò nel 1879 una grossa guerra, prolungatasi per inaudite vicende fino al 1883. Essa, pur riguardando personalmente il Direttore Don Bonetti, coinvolse nondimeno anche il Beato Don Bosco, che era il centro come di ogni attività salesiana così di tutte le eventuali contrarietà in Torino e nei dintorni. Riannoderemo il filo della narrazione nel punto dove l'abbiamo interrotto[147], per interromperlo ancora e riprenderlo nel volume quindicesimo.
L'anno nuovo si aperse con brutti auspici per l'oratorio dì Salita Teresa. Intorno ad esso aveva Don Bosco nel 1878 fatto sorgere un convitto per fanciulle di condizione civile, una scuola gratuita per ragazzette povere e una scuola festiva per ragazze più grandi; ma il pomo della discordia era sempre l'oratorio. L'Arcivescovo, malamente informato da alcuni preti del luogo, fra cui in prima linea il curato del duomo Don Oddenino, piombò il 12 gennaio a Chieri, radunò i canonici e tenne loro un discorso tutt'altro che adatto a illuminare rasserenare gli spiriti. Il bene che si faceva dai Salesiani nell'oratorio femminile disse essere un belle che non era bene; [231] i Salesiani fare generosamente del bene, ma somigliare essi a locomotive, alle quali occorrono robusti freni per trattenerle ed anche opportune valvole di sicurezza. Nonostante quella requisitoria, quando si venne al trar dei conti, la maggioranza dei presenti non fu di parere che l'oratorio si dovesse chiudere; onde Monsignore deliberò di tollerarlo ancora.
Essendo lontano Don Bosco, il suo vicario Don Rua, avuta contezza della conferenza arcivescovile e mosso da desiderio di chiarir le cose per mettere fine ai litigi, scrisse a Monsignore una lettera che è un capolavoro di finezza diplomatica.
Mi venne riferito che ieri la F. V. Rev.ma ebbe occasione d'intrattenersi in Chieri con varii membri di quel rispettabile Capitolo intorno all'Oratorio di S.ta Teresa appartenente alla Congregazione Salesiana e intorno a quello che vi si fa nei giorni festivi a prò delle giovinette della città. Mi venne eziandio fatto sapere che la E. V. avendo conosciuto che vi si f a del bene ne mostrò soddisfazione, e a quei pochi che si mostrarono contrarii diede a divedere quale fosse l'animo suo in proposito. Nella fiducia elle la E. V. voglia usarci l'alta sua benevolenza, credo bene di qui presentare copia di un Breve del Santo Padre Pio IX di f. m. sopra cui appoggiati noi facciamo le funzioni religiose in detto Oratorio come in tutte le altre Chiese elle ci appartengono in Italia, Francia ed America. A nome di D. Bosco che si trova presentemente a Marsiglia io presento alla E. V. la qui unita copia all'unico scopo che Ella abbia un argomento di più onde persuadere i dissenzienti che i Salesiani sono in regola, e non solamente sono da Lei autorizzati ma ancora dalla Santa Sede, e perciò per un vano timore non ci si mettano incagli nella via del bene.
E poichè mi si porge propizia l'occasione, Le notifico elle dopo il privato colloquio tenuto colla E. V. verso la metà dello scorso mese abbiamo presentato al M. Rev. Sig. Canonico Lione Vic. Foraneo di Chieri il seguente piano d'accordo che ci pareva ragionevole e elle non avrebbe impedito lo scopo dell'Oratorio:
I. Se le funzioni si terranno contemporaneamente all'istruzione parrocchiale saranno escluse dall'Oratorio le donne maritate e le altre attempate:
II Le altre giovani si lasceranno in libertà di assistere alle funzioni dove meglio loro aggrada.
Questa proposta contro la nostra aspettazione fu rigettata come inaccettabile. [232] Nel ringraziar la E. V. del favore con cui ci conforta a lavorare secondo il nostro scopo nella sua arcidiocesi io La prego a continuarci la sua benevolenza.
Raccomando alla carità di sue preghiere la povera mia persona, tutta questa Casa e specialmente l'amato Sig. D. Bosco.
Gradisca gli atti della profonda venerazione ed altissima stima con cui baciandole riverentemente il sacro anello mi professo
Ma gli avversari dell'oratorio c'erano e non si davano pace e menavano le lingue senza ritegno. Don Bonetti, afflitto delle continue maldicenze, pregò per lettera il curato che desistesse dal suo atteggiamento ostile, il quale tanto danno recava alle anime e porgeva ansa a dicerie punto edificanti. Gli chiedeva intanto perdono se in qualche maniera lo avesse offeso e lo invitava a visitare in segno di pace l'oratorio, confessandogli che a ogni modo le vessazioni non lo avvilivano, anzi gl'infondevano coraggio. La vivacità del tono e alcune frasi un po' acri urtarono il destinatario, che, mal interpretando i sentimenti del Direttore e consultatosi con i suoi aiutanti, denunziò la lettera all'Arcivescovo, quasi fosse una provocazione. L'Arcivescovo, impegnato allora in una grossa bega giornalistica con monsignor Balan, continuatore del Rohrbacher, a proposito del Rosmini[148], lasciò trascorrere tre settimane senza rispondergli; indi, sollecitato a viva voce da Don Oddenino perchè intervenisse, il 12 febbraio senza far precedere ammonizione canonica e senza interpellare Don Bosco, tolse a Don Bonetti la facoltà di ascoltare le confessioni, finchè non avesse domandato venia al curato della “mancanza di rispetto commessa nella sua lettera”.
A Don Bonetti parve di sognare. Corse subito all'arcivescovado per chiedere quali fossero nella lettera incriminata [233] le espressioni da giudicarsi irriverenti; ma gli fu negata udienza. Premeva per altro levar via ogni motivo d'ammirazione e di scandalo nel popolo, col far cessare la censura prima che giungesse il sabato, nel qual giorno Don Bonetti Soleva recarsi a Chieri; onde il 13 febbraio giovedì, stimò miglior partito piegare il capo e sottostare alla imposta condizione. Per quanto dunque gli sapesse amaro, scrisse al curato, chiedendo perdono; ma poichè dall'altra sua esulava la benchè minima intenzione di recar offesa, gli sembrò giusto e ragionevole porre in rilievo tale circostanza. Spedita la lettera di scusa, ne diè ragguaglio a Monsignore, esprimendo fiducia che la sospensione fosse per cessare issofatto e insieme insinuando che in caso contrario egli per sua giustificazione e per onore della Congregazione a cui apparteneva, non sarebbe stato alieno dall'appigliarsi a mezzi spiacenti, quale un ricorso a Roma. Parole queste ultime non necessarie, a dir vero, nè opportune al raggiungimento dello scopo. Monsignore se ne adontò e trascese, poichè senza nemmeno attendere di conoscere se il curato si dichiarasse o no soddisfatto, ripetè a Don Bonetti la sospensione, aggravando per giunta la mano con l'infliggergliela assolutamente e indefinitamente, cioè senza veruna condizione e a beneplacito di Sua Eccellenza.
Ora è da sapere che una decisione della Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, emanata il 20 novembre 1615 ed esumata per Don Bonetti dal padre Rostagno, vietava procedure così sommarie con i religiosi; diceva infatti: “Gli illustrissimi Cardinali, a nome e per autorità della Santa Sede, stabiliscono e dichiarano che ai Vescovi ed agli Arcivescovi non è lecito di sospendere dalla confessione i confessori Regolari, eccettochè per causa spettante alla confessione”. Questa disposizione che tornava così a capello, animò Don Bonetti a tentare il ricorso; giacchè per lui causa del castigo era una lettera, non la confessione. E poi restava anche a vedere se la lettera costituisse reato. A parer suo nella pena [234] andavano qui di mezzo la liceità e la giustizia. Tuttavia hic et nunc bisognava ritener valida la sospensione; perciò la domenica seguente :16 febbraio a Chieri per confessare le ragazze si recò di buon mattino Don Leveratto, prefetto dell'Oratorio; il Direttore vi si trovò alla sera per fare il catechismo e predicare. Questi poi, volendo coprire bellamente il ripetersi delle sue assenze nelle domeniche successive, annunziò che doveva accompagnare Don Bosco a Roma e sbrigare colà anche faccende che interessavano l'oratorio di Santa Teresa; raccomandava quindi che si pregasse per il buon esito. Ecco perchè improvvisamente Don Bonetti prese il posto del conte Cays nell'accompagnare a Roma Don Bosco.
Partì, come abbiamo già narrato. Allora fu che Monsignore fece quelle tali comparse improvvise all'Oratorio di Valdocco e al collegio di Valsalice per assistere a rappresentazioni drammatiche. Sappiamo quanta sorpresa destassero quelle novità e come fossero variamente interpretate. Piacque invece a tutti l'inaspettata condiscendenza, con cui nelle ordinazioni di quaresima ammise a ricevere i minori, il suddiaconato e il diaconato un gruppo di Salesiani. Ragioni per negarle non vi sarebbero state; tuttavia si era tanto avvezzi a difficoltà e dinieghi dell'ultima ora, che ordinandi e non ordinandi a quella cedevolezza gioirono. Vi ha di più: terminata la cerimonia, rimise perfino graziosamente agli ordinati le loro candele. Non basta. Essendo andato il giovane Scaloni, il futuro Ispettore salesiano, a riportare i sacri paramenti nella sacrestia, Monsignore, come lo vide, lo fece chiamare e gli disse: - Tu sei colui che ha fatto la parte di san Pancrazio... Bene! - E gli regalò un'immagine. Corse insomma la voce ch'ei volesse finalmente rappattumarsi con l'Oratorio.
Don Bonetti, giunto a Roma il 2 marzo, umiliò nel giorno 6 al Santo Padre per mezzo della Congregazione del Concilio formale ricorso contro l'operato dell'Arcivescovo a suo riguardo [235]. Sull'incidente Don Bosco aveva già nel febbraio riferito per sommi capi al cardinal Ferrieri, Prefetto della Congregazione dei Vescovi e Regolari. Non ci consta che ne ricevesse risposta; può darsi che per effetto di quella relazione venisse l'avviso doversi quell'affare rimettere per ragioni di competenza alla Congregazione del Concilio.
Mi rincresce di cagionate disturbi a V. Em. Reverendissima cotanto occupata pel bene universale di S. Chiesa. Ma mi trovo in dovere di scrivere questa lettera perchè mi sembra impedita la maggior gloria di Dio e il bene delle anime. E' già la terza volta che l'Arcivescovo di Torino sospende sacerdoti Salesiani dall'ascoltare le confessioni dei fedeli senza osservare le forme canoniche. Sospese lo scrivente non firmando la patente di confessione senza darne avvisi di sorta. Sospese il Sac. G. Lazzero, Direttore della casa madre di Torino senza avvisarne il Superiore, senza preavviso e senza che mai se ne sia saputa la cagione.
Testè fu sospeso il Sacerdote Giovanni Bonetti cui era stata affidata la direzione di un Oratorio festivo nella Città di Chieri dove faceva assai bene.
Il Curato di quella Parrocchia e l'Arcivescovo credettero che questo Sacerdote avesse scritto all'uno e all'altro lettere mancanti del dovuto rispetto; ma posto anche che queste lettere fossero tali, la qual cosa è tuttavia da esaminarsi, ciò sarebbesi immediatamente accomodato se ne fosse stato avvisato il superiore della Congregazione. Invece fu tolta al medesimo ogni facoltà di confessare in tutta la diocesi di Torino. Ma pare che, secondo le prescrizioni di S. Chiesa più volte rinnovate da cotesta autorevole Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, sospensioni di tal genere devono essere precedute da alcune ammonizioni con darne comunicazione al Superiore, e per motivi spettanti al Sacramento della Confessione.
Pertanto prego la E. V. ad invitare il Rev.mo Nostro Arcivescovo di Torino ad usare le regole prescritte dalla S. Sede per simili provvedimenti e avanti di infliggere così gravi pene Ecclesiastiche si degni di esaminare se i fatti lo meritano e per quanto è possibile siano evitati i pubblici scandali, come appunto avvenne nel caso del Sacerdote Giovanni Bonetti a cui è tuttora sospesa la facoltà di ascoltare le confessioni dei fedeli. Così colui che predicava con tutto zelo nella città di Chieri ha dovuto abbandonare il confessionale intorniato da una moltitudine di penitenti e allontanarsi da questa archidiocesi per non essere fatto segno alla pubblica ammirazione.
Esposto così umilmente e rispettosamente quanto sopra mi rimetto [236] senza riserbo a tutto quello che la Em. V. sarà per ordinare o semplicemente consigliare a questo riguardo.
Mi permetta l'alto onore di poter baciarle la sacra porpora e professarmi con profonda gratitudine
(Manca la data)[149].
Che le lodi tributate da Don Bosco a Don Bonetti non fossero immeritate, ce lo conferma una dichiarazione del A febbraio 1879, firmata da cinque canonici chieresi[150], i quali testificarono che egli, dirigendo da sei mesi l'oratorio festivo di Santa Teresa, vi aveva “fatto veramente gran bene, con soddisfazione di tutte le persone oneste e timorate di Dio, specialmente dei padri e delle madri di famiglia”. Di rincalzo abbiamo una testimonianza del canonico Calosso, che il 12 febbraio aveva scritto per conto suo a Don Bosco ringraziandolo con espansione di cuore, perchè mandava ogni settimana a Chieri “quel buon Salesiano”, che era “proprio il più adatto ad istruire e correggere i cattivi costumi di tante figlie ignoranti e di riprovevole condotta”[151]. Interinalmente e in attesa degli eventi Don Leveratto aveva assunto la direzione dell'Oratorio, facendovi molto bene; “ma è sempre vero, scriveva a Don Bonetti il canonico Sona[152], che l'oratorio di Chieri resterebbe ingiustamente infamato e ne soffrirebbe anche nell'onore la stessa Congregazione Salesiana se la S. V. non viene reintegrata nel suo onore e libertà di esercizio del sacro ministero”.
É di prammatica che copie dei ricorsi vengano dalle Congregazioni romane inviate agli Ordinari dei ricorrenti pro informatione et voto e ai loro Superiori, se i ricorrenti sono regolari. Quel documento fece aprire gli occhi a monsignor [237] Gastaldi sul suo mal passo; onde s'impegnò di muovere ai ripari, senza però rispondere a Roma. Fece chiamare quindi Don Rua, lo accolse amichevolmente e lo incaricò di partecipare a Don Bonetti che gli restituiva la facoltà di confessare “dove e quando” volesse. Ma nel colloquio aggiunse: Don Bonetti è un buon sacerdote, ma non conviene più che vada a Chieri. Che mai? Non può farsela con quel clero. Io fui là, radunai il clero, e l'arciprete, il parroco e varii canonici, eccetto il canonico Sona, erano d'accordo nel dire che non conviene più che Don Bonetti vada a Chieri[153]. - Qui Don Bonetti, come si arguisce da una postilla alla lettera, ritenne che o Don Rua non avesse inteso bene le parole dell'Arcivescovo o che l'Arcivescovo avesse errato nel valutare i giudizi canonicali. Comunque si fosse, a Don Bonetti quella condizione di non mettere più piede a Chieri non gli andò giù. Era pur sempre una misura che sapeva di punizione e che agli occhi della gente lo faceva apparire colpevole di chi sa quale mancanza.
A questo punto era il contrasto, quando capitò un intermezzo disgustoso, che ci richiama il noto proverbio: Dagli amici mi guardi Dio, dai nemici mi guardo io. Don Bonetti aveva per lettera narrato in succinto e senza reticenze a una persona intima di Chieri la storia della stia vicenda fino a quel dì 24 marzo. L'amico, invece di tenere per sè lo scritto confidenziale, ebbe l'infelice idea di rendergli un servizio, che l'altro non si sarebbe mai potuto immaginare. Trasformò addirittura la lettera, sostituendo al lei il voi, quasi fosse una circolare dal Direttore indirizzata alle sue oratoriane, e accodandovi alcune aggiunte di sua invenzione, e poi la fece leggere pubblicamente nell'Oratorio, non sappiamo bene in che giorno e in che ora; Don Leveratto al certo non ne fu prevenuto nè ebbe sentore della cosa. Dopo la lettura il foglio andò in giro e venne anche copiato. Fu una vera disgrazia [238] che solo troppo tardi si riuscisse a ritirare dalle mani del pubblico le copie di quella malaugurata contraffazione. È inutile dire che quelle notizie, comunicate in tale forma, riempirono di pettegolezzi la città e aggiunsero nuova esca alla fiamma.
Dopo il suo ritorno da Roma Don Bonetti avrebbe desiderato di conoscere quale fosse Fumore dell'Arcivescovo, e l'occasione si presentò presto. Nelle prime settimane dopo Pasqua soleva la Curia torinese restituire ai sacerdoti le patenti di confessione; Don Notario, professore di teologia nell'Oratorio, andò a ritirare quelle dei Salesiani e vi andò con l'intenzione di esplorare paese. Aveva con sè Don Deppert come testimonio. La patente di Don Bonetti non gli fu consegnata. Egli fece rispettosamente osservare quella mancanza. Rispostogli essere ordine di Monsignore, chiese che gli si rilasciasse in iscritto una dichiarazione che lo giustificasse dinanzi ai Superiori. Il segretario Don Chiaverotti se ne schermiva. Nacque un diverbio, elle richiamò l'attenzione del cancelliere canonico Chiuso. Don Notario lo pregò di chiedergli udienza dall'Arcivescovo. Il canonico vi acconsentì. L'Arcivescovo ricevette lui e Don Deppert e, udito il motivo della venuta, rifiutò di consegnare le patenti dei Salesiani che risiedevano fuori di Diocesi, compresa quella di Don Bonetti, che pure aveva la sua residenza abituale in Torino. I confratelli dimoranti in altre diocesi conservavano le patenti di Torino per potervi confessare quando, come spesso accadeva, si recavano all'Oratorio. Monsignore dunque negò con le patenti anche la chiestagli dichiarazione. Domandato poi a Don Notario chi fosse e avutone in risposta essere egli il nuovo Direttore della casa di Chieri, si abbandonò a invettive e accuse violenti contro Don Bosco e i Salesiani. Don Notario ascoltò con pazienza e come la burrasca passò, fatta riverenza, accennava a uscire.
- Come?! Se ne va così presto? esclamò Monsignore.
- Come vuole che io stia qui a sentir parlare in questo [239] modo del mio Padre e Superiore? Sono qui in casa di Vostra Eccellenza e non posso pigliarne le difese.
Monsignore si calmò, lo prese per un braccio, lo costrinse a sedere e cominciò un dialogo pacato e quasi diremmo cordiale. Don Notario, quando fu sul partire, disse: - In quanto alle patenti, se la Curia non mi vuol fare la dichiarazione, ho qui il mio compagno che testificherà per me presso chi mi ha mandato.
Il 2 maggio le patenti furono restituite a Don Bonetti, ma sempre con la condizione che a Chieri non andasse più senza una speciale autorizzazione dell'Arcivescovo. Avendo egli già da due giorni cominciato a predicare ivi il mese di Maria, pregò Sua Eccellenza di autorizzarlo a continuare, sia per non interrompere l'opera con ammirazione generale sia per raccogliere i frutti della parola di Dio confessando. Non venne esaudito; onde il 4 maggio si richiamò al Santo Padre contro l'odiosa proibizione.
Non passò gran tempo che si vide l'effetto del nuovo ricorso. Il 26 l'Arcivescovo scrisse a Don Bosco: “Ho un bisogno urgentissimo di conferire con V. R. per cosa gravissima; e perciò la prego di venirmi a vedere dentro di quest'oggi; chè quantunque in letto potrò tuttavia discorrere. Confidando che godrò il piacere di rivederla dopo quasi II mesi che trascorsero dalla benedizione della pietra fondamentale della Chiesa di S. Giovanni, passo a dirmi ecc. *. Don Bosco la sera stessa andò da lui. La “cosa gravissima” era appunto la faccenda di Don Bonetti, di cui la sacra Congregazione gli aveva comunicato il ricorso. Si conchiuse che Monsignore restituiva a Don Bonetti la facoltà di confessare in qualunque luogo, rimettendosi alla prudenza del Beato circa l'inviarlo o no a Chieri.
Don Bonetti respirò e intorno a lui tutti si rallegrarono che il dissenso fosse una buona volta composto. Ma la gioia fu di breve, brevissima durata. La mattina dopo per tempo una nuova lettera di Monsignore a Don Bosco disdiceva quanto [240] si era detto la sera innanzi. Eccone il tenore: “La necessità in cui sono di sopprimere senza indugio le discordie suscitate a Chieri, m'obbliga ad assicurarmi che Don Bonetti ne siano (sic) allontanato Infine a che io stesso abbia riesaminato le cose sul luogo, e presa una conclusione con pieno conoscimento di causa; e quindi reputo necessario che per tutto questo tempo, questo sacerdote non eserciti in Chieri il ministero di confessore; e conseguentemente ritiro da Don Bonetti la facoltà di assolvere sacramentalmente insino al tempo suaccennato, che, stante lo stato fisico in cui io mi trovo, non è possibile il determinare. Questo è quanto io aveva dichiarato a D. Rua sul principio di questo mese; e quanto, riflettendo sopra a tutta la nostra conversazione di ieri sera, penso dover dichiarare a V. S. Rev.ma”.
Deluso, afflitto, sconfortato Don Bonetti umiliò immediatamente al Santo Padre questa nuova supplica: “Il Sacerdote Giovanni Bonetti della Congregazione Salesiana prostrato ai piedi di Vostra Santità espone umilmente come in data del 6 marzo e poi del 4 corrente maggio presentava ricorso alla Santità Vostra per ottenere il revocamento di una sospensione inflittagli dall'Arcivescovo di Torino, che a lui sembrava contraria alle ripetute decisioni emanate da codesta Apostolica Sede. In seguito al quale ricorso ieri 26 maggio questo Arcivescovo chiamava a sè il Sac. Giovanni Bosco Superiore Generale della Congregazione Salesiana, e per mezzo suo faceva sapere al sottoscritto come revocando la sospensione restituivagli la facoltà di confessare liberamente nell'Archidiocesi. L'umile esponente riceveva con gioia questa notizia, pieno di riconoscenza verso la Santità Vostra, ma ecco che stamane 27 dopo una notte appena d'intervallo, riceve una nuova comunicazione dell'Arcivescovo colla quale questi dichiara continuare la sospensione, e doversi tenere come non avvenuta la revocazione. di ieri sera. Con quale dolorosa sorpresa il sottoscritto e il suo Superiore ricevessero questo inaspettato annunzio non si potrebbe adeguatamente [241] descrivere. Pertanto l'umile esponente ricorre per la terza volta alla Santità Vostra, prega ossequiosamente ma istantemente che usando della suprema autorità si degni liberarlo da una posizione così dolorosa per lui e per la Congregazione Salesiana, non che oltremodo dannosa alle anime e impeditiva della maggior gloria di Dio, essendo ciò di scandalo e di vero malcontento fra il popolo”.
Il continuo ripetersi di attriti consimili offriva a Don Bosco sempre nuovi argomenti sulla necessità improrogabile per la Congregazione di possedere intera la sua autonomia mercé la comunicazione dei privilegi; per il qual motivo indirizzò al cardinale Nina protettore una supplica, affinchè gli fossero almeno rinnovati alcuni privilegi goduti già temporaneamente sotto Pio IX[154].
Nel vivo desiderio che V. E. possa avere una giusta idea delle cose che si riferiscono all'umile Congregazione Salesiana, espongo qui brevemente i gravi disturbi che dovette sostenere dalla parte dell'Ordinario della casa Madre di Torino.
Le opposizioni di questo Ordinario andarono sempre unite a quelle delle autorità civili e scolastiche. Perciò la E. V. può di leggieri immaginarsi quanto siasi dovuto faticare e soffrire per cominciare una Congregazione, sostenerla e consolidarla priva affatto di appoggio temporale e di mezzi materiali. Non c'è però mai mancato il consiglio, la direzione e l'appoggio del Sommo Pontefice da cui fummo sempre trattati colla benevolenza di un padre amorevole.
Forse la E. V. dirà: Perchè non reclamare presso la S. Sede? Ciò feci qualche volta, ma la mancanza di un Cardinale Protettore rese infruttuosi i miei reclami.
Tutte le lettere di cui si parla in questa esposizione sono originalmente conservate nell'archivio di questa Congregazione.
La grazia che al presente ci è sommamente necessaria è la comunicazione dei privilegi come godono i Passionisti, i Redentoristi, e gli stessi Oblati di Maria Vergine e in generale godono le Congregazioni Ecclesiastiche approvate dalla Chiesa. Ma ciò incontrerebbe forse gravi difficoltà; perciò almeno mi siano rinnovati i tre favori di cui [242] abbiamo fatto uso per tre anni, e che soffriamo grave disturbo e non lieve danno pella dilazione del rinnovamento dei medesimi.
Credo opportuno di unire anche qui copia della preghiera già lasciata nelle mani di Monsignore Jacobini, affinchè, previo consenso di Vostra E., ne promovesse la concessione per mezzo della Sacra Congregazione del Concilio.
Noi preghiamo il Signore che conservi la V. E. in buona salute pel bene di S. Chiesa, e perchè ci aiuti a condurre la Pia Società Salesiana in uno stato normale in faccia alla Chiesa, e così sostenersi in mezzo agli attacchi da cui incessantemente è fatta segno.
Dimandiamo tutti rispettosamente la sua santa benedizione mentre io ho l'alto onore di baciarle la sacra Porpora e professarmi
La memoria allegata alla lettera era “una raccolta manoscritta di fatti perpetrati da Mons. Gastaldi a danno della Congregazione Salesiana, desunti dalle lettere del medesimo Arcivescovo”[155]; essa doveva servire a dimostrare quali fossero le conseguenze del non avere i privilegi . Per rendersi conto di tutte le cose ivi contenute ci voleva tempo; perciò Sua Eminenza si riservò a rispondere in proposito. Quanto poi ai privilegi da rinnovarsi, pregò Don Bosco di trasmettergli il testo della primitiva concessione[156]. Il Beato mandò copia dei rescritti al Cardinale, che raccomandò al Santo Padre la domanda di rinnovazione; ma non lo trovò disposto ad accoglierla favorevolmente. La ragione era questa. Don Bosco aveva presentato la sua domanda alla Sacra Congregazione del Concilio; ma per ragioni di competenza la cosa era passata alla Congregazione dei Vescovi e Regolari, e questa Congregazione aveva già fatto al Papa la sua relazione in senso negativo. Quindi i buoni uffici del Cardinal Protettore giunsero troppo tardi e non valsero a nulla. Avvertiva [243] però l'Eminentissimo: “Ciò non deve ispirare alla S. V. alcun timore di poca benevolenza del Pontefice verso la benemerita Congregazione Salesiana, ma deve solo ravvisarvi la prova che la detta S. Congregazione non giudica ora opportuno di abbondare nella concessione di altri privilegi”. Infine conchiudeva: “Del resto, quanto è in me, avrò sempre caro il poterle mostrare il mio vivo desiderio di promuovere tutti i vantaggi possibili per una Società, che tanto si adopera pel bene delle anime, e della quale sono protettore.”[157].
Don Bosco non abbandonò la pratica. Lasciato che passasse l'estate con le sue ferie, volle tentare un'altra via per ottenere quei tali privilegi. Giacchè sapeva per esperienza che il Prefetto dei Vescovi e Regolari si mostrava piuttosto duro con lui, pregò il novello cardinale Gaetano Alimonda che s'adoprasse presso il cardinal Nina affinchè la sua domanda fosse presa in esame dalla Congregazione del Concilio. Le cordialissime risposte del Porporato ligure dovettero, se non altro, temperargli un tantino le amarezze che in quei giorni da varie parti lo affliggevano, come abbiamo visto nel capo precedente, come vediamo in questo e come vedremo nei due che seguono. “Già dissi a voce, gli scriveva l'Alimonda, e ripeto per iscritto che, dove io possa e sempre che io valga, la Congregazione Salesiana, diletta figliuola dello Spirito di V. S. M R.da, può a sicurtà giovarsi di me. Ed è per questo che io son pronto a servirla presentemente Mi condurrò dal S. Padre e mi adoprerò con bel modo [.. ]. Mio dolcissimo Don Giovanni, Dio sa quanto Le voglio bene e quanto La stimi; è per me un onore, una consolazione il potermi annoverare tra i suoi servi”[158]. Com'ebbe poi parlato al Papa, tornò a scrivergli: “Posso accertarla che il Pontefice è ben affetto verso dei Salesiani ed apprezza i preziosi servigi che rendono alla Chiesa: ma dal sottoporre le di Lei domande alla Congregazione competente non può passarsi, com'Ella [244] ben comprende”. Avendo anche tenuto col cardinale Nina lunga conferenza sulla convenienza di rivolgersi alla Congregazione del Concilio, ne lo informava così: “Il Cardinale non crede conveniente far passare dai Vescovi e Regolari al Concilio la pratica: opina che non da sinistre prevenzioni verso i Salesiani, ma dalla recente loro istituzione provengano e il ritardo a trattare la cosa, e le difficoltà ad assimilarli alle altre Congregazioni di data più antica, le quali da principio passarono pure per le stesse difficoltà. Ad ogni modo ritenne la supplica; ne conferirà col Santo Padre e parmi disposto ad adoprarsi perchè al riaprirsi delle Congregazioni la pratica sia ventilata e decisa. lo raccomandai caldamente e raccomanderò ancora che almeno i due privilegi già conceduti siano confermati. Certo che la mia influenza è ben poca negli affari di una Congregazione cui non appartengo e come ultimo entrato nel sacro Collegio: ma quel poco che posso lo farò di gran cuore”[159]. La pratica dunque si arrestò; ma a Don Bosco giovava tener vive le questioni che più gli stavano a cuore, perchè in questo modo ne favoriva e accelerava il maturare.
Ed ora rimettiamoci in carreggiata. La sospensione è pena umiliatissima per un sacerdote, tanto più quando, non essendo palese la colpa, rimane aperto l'adito ai peggiori sospetti. Si capisce quindi come Don Bonetti non vedesse il momento di levarsi da dosso quell'onta. Con tutti i suoi ricorsi non un barlume di speranza! Ai 16 di luglio si sfogò con monsignor Verga, segretario della Congregazione del Concilio. “Corre già il sesto mese dacchè io mi trovo sotto il peso di una sospensione, inflittami dall'Arcivescovo di Torino, reputata contraria alle decisioni più volte emanate da cotesta Apostolica Sede, e impeditiva della maggior gloria di Dio. In questo intervallo di tempo tre ricorsi furono umiliati al trono del Santo Padre per mezzo di cotesta Sacra Congregazione; ma [245] fin qui non si ebbe ancora alcuna deliberazione in proposito, e io son tuttavia impedito di esercitare liberamente il mio sacro ministero, con grave scandalo di molte povere anime. Si è quindi coll'animo afflitto, ma pur sempre fiducioso, che. io mi raccomando alla ben nota bontà della E. V. R.ma, perchè voglia degnarsi di promuovere una risoluzione definitiva a questo riguardo, e così togliere la povera mia persona da uno stato così penoso, e far cessare un siffatto male. Io scrivo alla E. V. questa lettera col consenso del Sac. Giovanni Bosco mio venerato Superiore, e a nome Suo La prego chè per amor di Gesù Cristo, di Maria Ausiliatrice e di S. Francesco di Sales nostro caro patrono, voglia usarmi la carità di farmi inviare un qualsiasi riscontro per sua e per mia norma”.
L'invocato riscontro non veniva; per giudicare, la Sacra Congregazione aspettava che l'Arcivescovo di Torino rispondesse, e questi non rispondeva. Onde nell'animo di Don Bonetti si formò un nuovo disegno. Ai 27 dello stesso mese si consultò con l'avvocato Leonori. “Questo mio stato di punizione, gli diceva, ha dato occasione al grave sospetto che io abbia commesso delle infamie, trattandosi specialmente d'un istituto femminile. Così in questi giorni, mentre da una parte il Governo ci percuote colla spada[160], l'Autorità Arcivescovile ci colpisce colla croce, mettendoci in voce di sacerdoti indegni e traditori delle anime. t una guerra troppo ingiusta e crudele, e mi pare che non sia onorevole per la Santa Sede il permettere più a lungo dal canto suo un siffatto disordine, che muove a sdegno le persone oneste. Se io sono creduto colpevole, mi si faccia conoscere: e ove non sappia mostrar la mia innocenza, non recuso mori; ma se colpevole non sono, perchè farmi subire un sì lungo e indebito castigo, con tanto sfregio e del mio carattere e della mia Congregazione, e pur con sì grave scandalo dei fedeli?” Egli dunque aveva intenzione di fare causa e pregava l'avvocato di assumere [246] le sue parti. L'avvocato, pur confessando che preferiva una decisione senza causa e promettendo di adoprarsi a tale oggetto, si disse pronto ad assumere la difesa[161].
All'impazienza di Don Bonetti stringeva il freno la longanimità di Don Bosco, sicchè quegli non precipitò le cose. Il 20 agosto insistette ancora presso monsignor Verga: “... Non avendo potuto far udire la, mia voce presso l'Arcivescovo, col permesso del mio Superiore sono ricorso più volte al Santo Padre per mezzo della Sacra Congregazione del Concilio, donde si scrisse e riscrisse all'Arcivescovo pro informatione e voto; ma questi nè risponde nè mi toglie la sospensione. Intanto che ne avviene? Presso i miei confratelli, presso l'Istituto già da me governato, presso le anime da me dirette, nella città di Chieri, in Torino, nella mia patria, in tutta l'Archidiocesi io sono ormai tradotto quale un sacerdote scandaloso. Le voci sinistre prendono tanto più credito, in quanto che si sa che io ho ricorso a Roma, e dei miei ricorsi dopo sette mesi non si vede alcun risultato”. Si raccomandava dunque a lui e per suo mezzo al Santo Padre per una risposta consolante, la quale ponesse fine alla sua tribolazione.
Finì agosto, passò settembre, si era a mezzo ottobre, e nonostante lo zelo adoperato da monsignor Verga e l'impegno dell'avvocato Leonori, tutto perdurava nello - statu quo. Il 15 di questo mese ritentò di aver udienza dall'Arcivescovo; ma egli la diede ad altri e non a lui. Allora pensò fra sè e .disse: - Qui non è sperabile di terminare la questione: ci vuole l'autorità di Roma. Tentiamo ancora una via pacifica: giacchè l'Arcivescovo non ridona quello che ha tolto e non risponde alle replicate lettere della sacra Congregazione, non si potrebbe ottenere che io fossi autorizzato da Roma ad esercitare come prima il Sacro ministero in sino a che egli o abbia risposto o abbia rimediato in qualch'altro modo?[162] Sperando dunque di ottenere che il Santo Padre volesse rivocare [247] a sè la causa, preparò un quarto ricorso, al quale unì l'attestato dei cinque canonici chieresi e quest'altro di Don Bosco:
Il Sac. Giovanni Bosco Superiore della Pia Società Salesiana attesta che il Sac. Giovanni Bonetti, membro della medesima Congregazione, tenne sempre onesta ed esemplare condotta, quale si addice ad un buon religioso. Anzi con varii scritti dati alle stampe, colla direzione, che per 12 anni tenne del piccolo Seminario di Borgo S. Martino, diocesi di Casale, si rese molto benemerito della buona educazione della gioventù. Esercitò coli buon successo il ministero della predicazione in occasione di esercizi spirituali, missioni, tridui, novene e simili.
Nell'uffizio poi di Direttore dell'Oratorio festivo di S. Teresa in Chieri il medesimo lavorò con zelo e non ordinarii sacrifizi nel catechizzare, confessare ed istruire povere giovanette, sicchè riuscì a raccoglierne oltre a 400 nel mentovato Oratorio mercè l'aiuto, l'assistenza e la direzione materiale delle Suore di Maria Ausiliatrice. - Questo si dichiara affinchè il prelodato Sacerdote Bonetti se ne possa valere, ove glie ne sia mestieri.
Indirizzò il ricorso al cardinal Nina con preghiera di umiliarlo al Santo Padre e di appoggiarlo con la sua valida protezione. Diceva a Sua Eminenza: ““L'affare di cui si tratta si sarebbe dovuto rimettere nelle mani di V. E. sin dal suo principio; ma in quel tempo la nostra Congregazione non aveva ancora l'alto onore di avere la E. V. per suo protettore, e perciò si passò per altra via. Credo che sia questa la ragione per cui esso si trova tuttora nel medesimo stato. Noto alla E V. che, nel desiderio di terminare questa questione senza recare disturbi alla Santa Sede, io col consenso del Rev.mo mio Superiore Don Giovanni Bosco domandai più volte di parlare all'Arcivescovo di Torino; ma questi non volle mai ricevermi”[163]. Fece rimettere il plico a Sua Eminenza dall'avvocato Leonori, stimolandolo a procurare che tutto fosse aggiustato prima che cominciasse la novena dell'Immacolata, [248] festa principale dell'Oratorio di Santa Teresa. Ma quest'altro ricorso non giunse nelle mani del Santo Padre: monsignor Verga e l'avvocato lo ritennero, non giudicando opportuno inoltrarlo. Prima che il nodo arrivasse al pettine, dell'acqua ne doveva scorrere ancora sotto i ponti!
Anche l'anno terminò senza che si vedesse alcun principio della fine. Il dolore di Don Bonetti cresceva a dismisura e gli strappava dalla penna amare considerazioni. “L'assicuro, scriveva all'avvocato Leonori[164], che io soffro assai, e non so concepire come la Sacra Congregazione del Concilio nello spazio di circa un anno non abbia ancor potuto indurre questo Arcivescovo a darle ragione del suo operato contro le prescrizioni dell'Apostolica Sede a danno di un povero religioso, od obbligarlo a restituirgli la facoltà di udire liberamente come prima le confessioni dei fedeli, restaurandolo per questa via nel rapitogli onore così necessario ai sacerdoti soprattutto ai giorni nostri. Ringrazio Iddio che fin dalla mia giovinezza mi ha inspirato un'alta stima e un caldissimo affetto alla Sede Apostolica e a quanto le appartiene. Se ciò non fosse, io mi troverei oggidì in grande pericolo, perchè, la mia dolorosa posizione essendo conosciutissima in queste parti, non mancano sussurroni capaci di consigliare ed eccitare a scandali. Ma coll'aiuto di Dio, scandali non commetterò giammai, dovessi anche morire sospeso e in voce di religioso indegno. Soffrirò rassegnato per non accrescere dispiaceri al Santo Padre e al mio superiore Don Bosco, pago di far conoscere la mia innocenza nel dì del giudizio. Tuttavia io non posso non desiderare di essere tolto da questo stato di punizione, sia per poter lavorare liberamente nella Chiesa a beneplacito dei miei Superiori, sia ancora pel decoro della Congregazione Salesiana, a cui appartengo, ed anche per l'onore della mia famiglia per la mia ingiustissima sospensione umiliata e avvilita”. [249]
In Roma si adoprava a tutt'uomo per Don Bonetti anche il novello Procuratore della Congregazione Don Dalmazzo; ma egli s'imbatteva da ogni parte in ragioni di prudenza, che consigliavano di dar tempo al tempo[165]. Finalmente il 23 marzo potè scrivergli: “Parte stamane, e forse col medesimo corriere della presente, lettera della Congregazione del Concilio che è un vero ultimatum...”. Solo il 28 giugno monsignor Gastaldi scrisse al Segretario del Concilio, asserendo non trattarsi nel caso di punizione, ma di una provvidenza dettata dalla prudenza. Si può ben immaginare quanto poco questa scappatoia appagasse Don Bonetti, ma ormai, a motivo della stagione, non restava a far altro che attendere l'autunno.
L'autunno inoltrato portò due incidenti che imbrogliarono ancor più le faccende, dando pretesto a due nuovi capi d'accusa. Sul principiare di novembre del 1880 nella casa di Chieri morì una Suora di Maria Ausiliatrice. Non appena la defunta fu composta nel sepolcro, volarono alla Curia i particolari d'una solenne violazione dei diritti parrocchiali e delle leggi canoniche. L'avvocato fiscale della Curia canonico Colomiatti, fermatosi alle prime notizie, chiamò Don Rua ad audiendum verbum senza dirgliene il perchè, e gli espose il fatto così: avere due Salesiani amministrati gli ultimi sacramenti alla moribonda, togliendo il Viatico dalla cappella interna e l'Olio santo dalla casa dei Gesuiti, e dopo il decesso essere i medesimi proceduti all'accompagnamento funebre per le vie della città fino al cimitero. Don Rua, pigliando per vero il racconto, diede le spiegazioni che gli parvero probabili e scusò i due sacerdoti come “non guari pratici”; quindi pose in iscritto le sue dichiarazioni, scrivendo all'Arcivescovo una lettera, che terminava a questo modo: “Dimando pertanto a V. E. umile venia pei due Sacerdoti suddetti, disposto a fare altrettanto verso il Parroco locale se V. E. lo ravviserà necessario. Che se occorresse anche qualche indennità per [250] violati diritti parrocchiali, ad un semplice suo venerato cenno ci disponiamo a fare quanto sarà necessario”[166]. Ma quale non fu la sua sorpresa, quando potè udire in qual modo fosse realmente andata la cosa! Non due sacerdoti salesiani avevano amministrati gli estremi conforti alla religiosa, ma il canonico chierese Matteo Sona; non i due sacerdoti avevano condotta la salma all'ultima dimora, ma dopo la messa di requie il feretro era stato accompagnato al camposanto more pauperum da una schiera di giovinette. Il non aver indagato più oltre portò in seguito l'Arcivescovo a produrre anche questa deformazione del vero come prova che i Salesiani non lasciavano occasione di recargli “sfregio e disgusto”[167].
L'altro incidente non riguarda Chieri, ma la causa. Il 17 novembre 1880 Don Bonetti, stanco di essere lasciato così da ventidue mesi sulla corda, umiliò direttamente al Papa la supplica del 24 ottobre 1879, rimasta nelle mani di monsignor Verga, dichiarandosi “disposto ad accogliere preventivamente con somma venerazione” quanto Sua Santità fosse per ordinare a suo riguardo. L'effetto fu immediato. Cinque giorni dopo il cardinale Caterini, Prefetto del Concilio, ordinò al Segretario monsignor Verga di avvertire il supplicante che la stia causa sarebbe trattata in plenario Eminentissimorum Patrum consessu entro il termine di un mese. L'avvocato Leonori, incaricato di comunicare la decisione alle due parti, accluse nella lettera per Don Bosco l'altra per l'Arcivescovo con preghiera di farla subito recapitare[168].
Il plico raggiunse Don Bosco a San Benigno nella nuova casa di noviziato. Rimandò sollecitamente all'Oratorio la busta indirizzata a Sua Eccellenza e recante il suggello della Sacra Congregazione, perchè senza indugio venisse consegnata. Ne ebbe incarico Don Deppert, che il 3 dicembre la [251] portò all'arcivescovado. Vide l'Arcivescovo che passava e domandò di parlargli; gli fu negato. Allora si presentò al cancelliere canonico Chiuso, al quale disse che era latore di una lettera proveniente da Roma per Sua Eccellenza e che per suo scarico avrebbe desiderato una riga di ricevuta. Il Cancelliere udì con isdegno quella domanda. L'altro si recò allora dal segretario teologo Corno e ne ricevette la medesima accoglienza. Fece notare che la lettera non era di Don Bosco, ma di una Congregazione romana, come lo indicava il bollo; disse ancora che pochi mesi prima, dovendo lo stesso Monsignore comunicare a Don Bosco una lettera consimile per parte della Congregazione dei Riti, il suo domestico nel consegnarla aveva domandato e ottenuto la ricevuta. Fu come parlare al muro. Allora Don Deppert, temendo possibili conseguenze, non si azzardò di consegnare la lettera. Domandare un cenno di ricevuta in casi simili non è davvero il finimondo; anzi si costuma farlo pressochè universalmente.
Al domani Don Deppert ritornò con un confratello e chiese di presentare personalmente la lettera nelle mani dell'Arcivescovo. Non gli fu concesso. Risolse dunque di rimetterla al segretario; il che fece dicendo: - Spero che questa lettera sarà consegnata a chi di ragione; ma in caso contrario questo mio confratello è testimonio che io ho compiuto il mio dovere. - L'Arcivescovo, tenuta ventiquattro ore la lettera, la rimandò a Don Bosco, il quale, chiesto consiglio a Roma sul da farsi, la rinviò a Monsignore dentro una cortesissima sua. In procinto di recarsi a Borgo San Martino per la festa posticipata di San Carlo, titolare del Collegio, gli scriveva infatti così:
Debbo recarmi alcuni giorni fuori di Torino, ma prima di partire desidero dare corso alla spiacevole vertenza di D. Bonetti. Nè io nè D. Bonetti abbiamo altro da aggiungere, se non quello che fu già esposto alla Sacra Congr. del Concilio. Mi fu acclusa in un piego la lettera di quella Sacra Congregazione, affinchè la facessi pervenire a [252] mano della E. V. E ciò intendo di fare con questo mio foglio. Sempre contento e lieto ogni volta mi reputi capace a prestarle qualche servigio, mi permetta l'alto onore di potermi professare
La portò il medesimo Don Deppert, che, consegnatala al segretario, non chiese ricevuta, perchè la soprascritta era di Don Bosco. L'Arcivescovo aperta la prima busta e letta la lettera di Don Bosco, gliela rinviò per posta insieme coli quella della Sacra Congregazione, senz'aggiungere nemmeno una parola di spiegazione[169].
Si spiegò invece con i Cardinali del Concilio. Narrato il fatto a modo suo, commentava: “Io mi sentii profondamente umiliato ed amareggiato da questo modo di trattarmi, e ciò specialmente in mezzo alle tante amarezze che mi assediano ogni giorno. Io prego caldissimamente la S. Congregazione ad aver la bontà di noti mandarmi più nessuna carta per le mani di questo Ecclesiastico, il quale, dimenticandosi del mio zelo e della mia opera assidua, noti disgiunta da danaro, con cui per tanti anni dal 1848 al 1867 io venni cooperando allo stabilimento della stia Congregazione, ora mi perseguita e non lascia occasione di recarmi sfregio e disgusto”[170]. Ma a Roma in tutto questo non si vide altro che una manovra per ritardare il giudizio e stornare una' sentenza, la quale doveva essere infallantemente pronunziata[171].
Nella storia del conflitto si distinguono molto bene tre fasi. La prima precedette la sospensione di Don Bonetti: era il tempo delle recriminazioni chieresi contro l'oratorio di Santa Teresa. La seconda va dal 12 febbraio 1879 al 17 novembre 1880: è il periodo dei ricorsi torinesi alla Santa Sede. L'ultima si estenderà a tutto il corso della causa davanti [253] alla Sacra Congregazione del Concilio. Cominciata la seconda fase, cioè non molto dopo la sospensione, dalla tipografia Bruno di Torino uscì un opuscolo senza nome d'autore, il quale figurava essere un capo di famiglia chierese. Il libercolo s'intitolava: L'Arcivescovo di Torino, Don Bosco e Don Oddenino ossia Fatti buffi, serii e dolorosi raccontati da un Chierese. L’anonimo vi pigliava le difese di Don Bonetti, sonando a campane doppie contro monsignor Gastaldi e il curato del duomo di Chieri. La notizia di tale pubblicazione arrivò ai Superiori Salesiani il 29 maggio, mentre tenevano capitolo e, seduta stante, disapprovarono nella forma più energica quel mettere in canzone e buttare in piazza l'Autorità ecclesiastica. In verità quel lavoro è anche una povera cosa, e par fatta più per irritare che per convincere, nè meriterebbe di venir menzionato, se non fosse per le conseguenze a cui diede luogo durante lo svolgimento della causa. Intanto l'arciprete vicario foraneo Don Lione e il curato del duomo Don Oddenino attribuirono la paternità del libello a Don Bonetti, presentando di ciò formale accusa all'Arcivescovo[172]. Simili espedienti polemici sono biasimevoli in sè e non hanno altro risultato che d'invelenire. insanabilmente le questioni, come si vedrà a suo luogo.
POCO per quest'anno abbiamo da dire di nuovo intorno alle Figlie di Maria Ausiliatrice, che sia strettamente connesso con la biografia di Don Bosco; un po' più a lungo ci toccherà parlare di un caso, nel quale e Suore e Salesiani vennero impigliati per opera di malevoli.
La Madre Mazzarello, che aveva accompagnato le dieci suore partenti per l'America, vide a Sampierdarena il Beato Fondatore, con cui prese gli ultimi accordi circa l'assetto definitivo da darsi alla vecchia e alla nuova casa madre, quella ormai quasi spopolata e questa già pressochè al completo. Ai 3 di gennaio partirono la Superiora per Mornese e il Servo di Dio per Alassio alla volta della Francia.
Ad Alassio Don Bosco radunò tutte le Suore e prima di ragionar d'altro fece far loro una specie di rendiconto, incominciando dalla Direttrice e interrogando come se la passassero per il vitto, se fossero abbastanza provvedute di tutto il necessario, se avessero sufficiente riposo, se dormissero bene di notte... Raccomandata poi loro la fedele osservanza delle Regole: - In quanto al lavoro, disse, lavorate, lavorate pur molto; ma fate anche in maniera da poter lavorare a lungo. Non accorciatevi la vita con privazioni e fatiche soverchie o con malinconie o con altre cose che siano fuor di proposito. - Le rivide, ma non più solo di passaggio, dopo [255] il suo ritorno dalla Francia, quando tenne in quel collegio le conferenze dei Superiori. Allora le senti anche individualmente e s'interessò con bontà paterna perchè avessero comodità di ricrearsi e di passeggiare a ore debite nel giardino, e di tutto quello che poteva renderle contente. Un giorno, attraversando il refettorio con un parroco, mentre una Suor Succetti lo stava riordinando: - Oh, qui c'è Marta! esclamò. Ah Marta, Marta!... - Quell'allusione evangelica fu fatta con un tono di voce che s'impresse nella memoria della suora e le servì poi sempre di richiamo al pensiero del Signore in mezzo alle sue occupazioni giornaliere.
Il trasferimento della sede generalizia da Mornese a Nizza Monferrato si eseguì sul principio di febbraio. Fu un doloroso sacrifizio al cuore della Madre abbandonare quel nido di memorie: soltanto l'obbedienza la potè strappare dal luogo dove aveva imparato ad amare e servire il Signore e donde non avrebbe mai creduto di doversi allontanare se non quando fosse giunto il momento di cambiare la terra col cielo.
Tre sole fondazioni appartengono al 1879: una a Cascinetta presso Ivrea e due in America, a San Carlos di Almagro nella capitale argentina e a Las Piedras nell'Uruguay. A proposito di nuove fondazioni il Beato diede alla Madre Generale questa norma: - Per adesso va bene accettare asili infantili; ma ci sia sempre la condizione di potervi svolgere anche l'oratorio festivo e tenere un laboratorio per le giovanette del popolo. - Riguardo a Las Piedras c'è una lettera che dimostra quanto lo spirito della Madre fosse consono con i principii elle informavano la condotta del Fondatore verso i subalterni Quella comunità, amalgamata alla meglio con le suore disponibili, zoppeggiava un tantino. Scrisse dunque la Madre alla Direttrice[173]: “Mi rincresce che la nuova casa di Las Piedras non vada tanto bene. Suor Giovanna è troppo giovane e non abbastanza posata per fare [256] le veci della Superiora. Non bisogna però che vi spaventiate; persuadetevi che dei difetti ve ne sono sempre; bisogna correggere e rimediare tutto ciò Che si può, ma con calma, lasciando il resto nelle mani del Signore. E poi non bisogna fare tanto caso delle inezie. Certe volte per far conto di tante piccolezze si lasciano poi passare le cose grandi. Con dir questo non vorrei che intendeste di non far caso delle piccole mancanze; non è questo che voglio dire. Correggete, avvertite sempre, ma nel vostro cuore compatite e usate carità con tutte. Bisogna, vedete, studiare i naturali e saperli prendere; per riuscire bene, bisogna ispirare confidenza. Con suor Vittoria bisogna che abbiate pazienza, che la formiate a poco alla volta allo spirito della nostra Congregazione; non può averlo preso, perchè è stata troppo poco tempo a Mornese; mi pare che se la saprete prendere, riuscirà bene. Così delle altre; ciascuna ha i suoi difetti, bisogna correggerli con carità, ma non pretendere che ne siano senza e nemmeno pretendere che si emendino tutto in una volta: questo no! Ma con la preghiera e con la pazienza e la vigilanza, poco per volta, si riuscirà a tutto. Confidate in Gesù, mettete tutti i vostri fastidi nel suo Cuore, lasciate fare a Lui, Egli aggiusterà tutto. State sempre allegre, sempre di buon animo; quando non sapete come fare, rivolgetevi a suor Maddalena[174] e fate tutto ciò che essa vi dirà e state tranquilla. E poi avete un buon Direttore, per cui non dovete aver fastidio. State attenta a obbedirlo. Mi dite che avete da lavorar molto, e io ne sono ben contenta, perchè il lavoro è il padre d'ella virtù; lavorando scappano i grilli e si è sempre allegri. Mentre vi raccomando di lavorare, vi raccomando pure di aver cura della salute, e raccomando anche a tutte di lavorare senza nessuna ambizione, solo per piacere a Gesù. Vorrei che istillaste nei cuori di tutte l'amore ai sacrifizi, il disprezzo di se stesse e il distacco dalla propria volontà. Ci siamo fatte suore [257] per assicurarci il paradiso; ma per guadagnare il paradiso ci vogliono dei sacrifizi. Portiamo la croce con coraggio e un giorno saremo contente”.
Era forse giunta appena a destinazione questa lettera della Madre Generale che Don Costamagna dopo una missione predicata a Las Piedras scriveva a Don Bosco: “Riguardo alle, Suore io non mi sarei mai immaginato che ci potessero aiutare cotanto in una missione. Posso dirle senza tema d'errare che non si sarebbe potuto fare il bene che si è fatto alle donne e alle ragazze senza l'intervento delle Suore. Al loro catechismo concorrevano oltre le bimbe moltissime Signore del popolo, e pendevano attente dal loro labbro come da quello del predicatore. L'udienza intanto era cresciuta e nei quattro ultimi giorni la vasta chiesa era zeppa di gente. Si chiamò da Montevideo D. Rizzo ed altri preti, e ci mettemmo tutti in confessionale standovi dal mattino sino alla più tarda notte. Ma eccoti che ad ogni momento ci veniva tra i piedi or un bambino or una bambina di 18, 20, e più anni di età, che non solo non si erano mai confessati, ma noti sapevano un et dei misteri principali. Come avremmo potuto tirare avanti senza l'aiuto dei Catechisti e delle Catechiste? Quindi è che noi eravamo chiusi nel confessionale e i detti chierici (Rota, Chiara e Baccigalupi) e quattro Suore, stavano continuamente intenti ad istruire a poca distanza, e ce li mandavano così ben preparati che a molti venivan giù i lacrimoni doppi”[175].
Due volte il Beato si recò a Nizza. La prima volta fu per la festa dell'Assunta, nel qual giorno si chiudevano gli esercizi delle Suore e si faceva la professione; egli diede i ricordi, svolgendo questo tema: -Vita di preghiera, di lavoro, di umiltà, di nascondimento e sacrifizio, solo per Dio e per le anime, e imitazione della Madre Celeste in terra per partecipare poi più largamente alla sua gloria in cielo. - Vi tornò [258] il 21 per assistere agli esercizi delle signore. La cronaca ha serbato il ricordo di queste parole, che disse alle esercitande in uno de' suoi sermoncini dopo le orazioni della sera: - Vi sono persone ricche di buon cuore e di pietà, le quali lasciano per testamento una parte delle loro sostanze per opere di carità. Buona e santa cosa! Bisogna però notare che nel Vangelo non è scritto: “Lasciate in morte il superfluo ai poveri”, ma “date il superfluo ai poveri”. Come vedete, la cosa è ben diversa.
Parlò pure separatamente alle Superiore e alla comunità delle Suore. Alle prime fece questa raccomandazione: - Terreno qui non ve ne manca; soggezione di vicini o di cittadini non ne avete. Esercitate le suore giovani e bisognose di moto nei piccoli lavori della vigna e del giardino. E' questo un esercizio molto utile alla salute. - Alla comunità poi lasciò questo paterno consiglio: - Scrivete ai vostri genitori, non lasciateli in pena col vostro prolungato silenzio. Ciò fa male a voi e a loro, e può esser causa d'impedimento a tante vocazioni. Se invece le vostre famiglie avranno di voi più frequenti notizie si sentiranno contente di avervi date al Signore, ricaveranno morale vantaggio dalle vostre parole, faranno anche leggere quelle lettere agli amici e conoscenti, e questi più facilmente permetteranno alle loro figlie di farsi suore.
Di questi esercizi diede relazione alla contessa Corsi. Monsignor Belasio, qui menzionato, n'era stato il predicatore. La Bruna si chiamava una cascina ereditata dalle Suore sulla collinetta, dove sorse poi il loro noviziato.
Scrivo dalla Madonna delle Grazie dove si fece una stupenda muta di Esercizi. Le signore erano circa cento. Le monache e le educande fuggirono tutte alla Bruna. Era uno spettacolo indescrivibile il mirare la divozione, la pietà,' l'allegria che in tutte traspariva. Non mancava altri che la nostra Mamma Corsi. Si è però parlato molto di l'ei e pregato per Lei. Anzi un giorno io ho celebrato Messa, le Esercitande fecero la S. Comunione con particolari preghiere affinchè Dio conservi in buona salute tutta la sua famiglia e preservi i crescenti bambini [259] dai malanni che infestano questi paesi. Ma un'altra volta bisogna che procuri di venire anche Lei, e sono sicuro che ne rimarrà consolata. Dica al Sig. Conte Cesare e Sig. Contessa Maria che in questo anno rinunzino definitivamente di venire a Nizza. La difterite si è rallentata, qualche caso però succede sempre. Il vaiuolo poi prende una intensità assai inquietante. Nella passata settimana morirono 6 pel vaiolo nero. Di vaiuolo ordinario casi 25, di cui 12 nella Parrocchia di S. Ippolito. Domenica venne il Vescovo a dare la Cresima nella Chiesa di S. Giovanni e continuò lunedì. Ma, per non far. gridare l'amministrazione, due ore in una Chiesa e poi in un'altra. La sera ci fu predicatore nuovo che supplì Mons. Belasio. Chi fu? D. Bosco. Qui c'è D. Cagliero e D. Lemoyne che sono ambidue stanchi assai, e devono dimani ricominciare gli Esercizi per le Suore.
Non so se potrò vedere Nonna, perchè sono assai assediato di cose.
Le Suore ed il Sig. Casalegno, che è qui presente, i predicatori tutti vogliono essere ricordati e fanno rispettosi ossequi. Dio li benedica tutti, e preghino anche per me che con figliale affetto le sarò sempre in G. C.
P. S. Sta sera parto alla volta di Torino.
La tempesta di Chieri, per cui sommessamente si gemeva nelle case circonvicine, non diminuì nell'Oratorio di Santa Teresa nè la frequenza delle ragazze nè la buona volontà delle Suore, che si occupavano di esse sotto la guida esperta di Don Antonio Notario, incaricato da Don Bosco di sostituire Don Bonetti finchè durasse la sospensione. In quell'oratorio una nota caratteristica veniva dalle scuole festive. A Chieri nelle manifatture di cotone e tela stavano occupate centinaia dì fanciulle e giovanette, molte delle quali, non avendo potuto frequentare le scuole elementari, non sapevano nè leggere nè scrivere, e questo, data la natura dei tempi, tornava di grave discapito alle famiglie. Don Bosco volle provvedervi disponendo che le Suore ovviassero a tale inconveniente con una scuola festiva gratuita, dalle ore dieci a mezzogiorno. La frequentavano un buon centinaio di ragazze dai nove ai quindici anni, e una quarantina di più adulte, graduate in [260] tre classi secondo l'età e l'istruzione[176]. Chi fosse penetrato nel recinto dell'oratorio in dì festivo, al vedere tanto fervore di pratiche religiose, tanta varietà e attività di opere, tanta animazione di giuochi, tutto sotto la direzione delle. Suore, avrebbe capito subito perchè il nemico del bene vi si fosse tanto accanito contro.
Anche a Lu le Suore erano guardate in cagnesco da politicanti locali. Urla corrispondenza del mese di febbraio a un quotidiano torinese[177] protestava fieramente perchè “in un paese come Lu” si tollerassero tant'oltre “gli eccessi del connubio stretto tra un conosciuto reazionario qual era Don Bosco ed liti sindaco clericale” e denunziava all'universo un simile “stato di cose fatale all'incivilimento di un così cospicuo villaggio del Monferrato”. Tutto il male proveniva dall'avere Don Bosco, “per soverchia cecità di chi avrebbe dovuto provvedere”, aperta ivi una casa di Suore, dalla quale egli “per mezzo dei suoi emissari” aspirava “ad una completa dominazione”. I “Boschini” potevano così andar liberamente a predicarvi “un bigottismo” elle era “inevitabile germe dissolutore della tranquillità domestica e sociale”. Non mancava neppure una tirata contro l'arciprete che, pur facendo “professione di liberalismo”, frequentava poi “unitamente al sindaco ed a' suoi assessori” non sappiamo quali “loiolesche riunioni”. Da ultimo faceva appello alla popolazione di Lu, perchè si valesse dell'“arma formidabile” del voto nelle elezioni per disfarsi di certa gente, e all'autorità governativa, stilla quale ricadeva “la responsabilità di sì deplorevole situazione”. Ma popolo e Governo furono sordi a tanto grido, così sordi elle il fecondo lavoro delle Figlie di Maria Ausiliatrice a Lu non è stato mai fino ad oggi interrotto.
Più grossa battaglia minacciò la quiete della Casa madre al primo di giugno. La comunità era in festa, perchè le postulanti [261] stavano per ricevere l'abito religioso, benedetto da Don Cagliero. La mattina di quella domenica, dopo la messa solenne, verso le undici e mezzo, vien chiamato improvvisamente nel parlatorio il Direttore Don Chicco, e si trova davanti al sottoprefetto di Acqui, accompagnato dal vicesindaco di Nizza. Il funzionario governativo gli domanda se sia vera la voce corsa, che debba farsi là entro una vestizione religiosa di zitelle. Alla risposta affermativa, chiede se le giovani compiano quell'atto liberamente e se non c'entrino seduzioni o pressioni. Possiamo ben figurarci come Don Chicco fra stupito e sospettoso lo rassicurasse su questo punto. Ma l'altro, punto soddisfatto, scappò a dire che voleva vedere le vestiende e interrogarle.
Qui prese la parola Don Cagliero, presente al colloquio, ma comportatosi da estraneo, e parlò nella sua qualità di Direttore generale delle Suore. Volle pertanto sapere dal sottoprefetto se facesse quelle investigazioni come autorità o come amico; e se come autorità, gli dimostrasse la legalità del suo operare. Lunga fu la disputa. Don Cagliero batteva e ribatteva sempre lì: in qua potestate haec facis, con quale autorità un sottoprefetto del regno andasse in case private a inquisire se vi fossero zitelle che avessero intenzione di monacarsi. Essere quel convento una casa privata; avere le maggiorenni la libertà riconosciuta dalla legge e le minorenni la licenza dei loro padri. Egli non voler cedere se non a intimazione accompagnata da minaccia di usare la forza; ma anche in tal caso protestando per iscritto e alla presenza di testimoni. Che se al sottoprefetto come ad autorità egli noli avrebbe mai permesso di entrare in casa, di lui come amico era pronto ad appagare ogni desiderio. Il vicesindaco fremeva, scattava, usciva in parole aspre e se la pigliava coli le leggi, che non avessero abbastanza provveduto alla soppressione delle case religiose. Il sottoprefetto dovette imporgli silenzio; poi vista la mala parata, dichiarò che si svestiva dell'autorità, dicendo: - Io sono Germano Magliani. - Ed io, soggiunse [262] Don Cagliero, vado a chiamare l'unica minorenne, che è Maria Terzano.
Allora sorse una nuova questione. Il signor Magliani pretendeva di rimanere solo con la ragazza per poterla interrogare più liberamente; ma Don Cagliero, usando i termini più deferenti, gli fece notare, che, non essendovi presente il padre, spettava a lui tenerne le veci, non foss'altro per convenienza sociale. Venne la Maria. Il sottoprefetto le fece brevissime domande e quasi per mera cerimonia: la giovane rispose ottimamente. Licenziatala, quegli rivelò che proprio per essa era venuto, ossia per agire contro suo padre, del quale dicevano che per motivi d'interesse spingeva la figlia a prendere il velo. Erano però male voci messe in giro da bricconi male intenzionati. Don Cagliero condusse quindi il signor Magliani a visitare il refettorio, dove già le Suore sedevano a mensa, e lo menò anche a vedere le camere. Colui si mostrò assai soddisfatto e nell'andarsene trattò molto gentilmente Don Cagliero, che a sua volta non fu da meno in cortesia, poichè lo pregò di scusarlo, se il suo dovere l'aveva costretto a muovere quell'opposizione.
Il visitatore -avviatosi alla carrozza che lo attendeva di là dalla cancellata, vi montò e ordinò di sferzare verso la città non senz'aver prima fatto un gesto quasi di stizza a un capannello di signori che si aspettavano ben altro. Vi era il procuratore del Re venuto pure da Acqui, vi era un ufficiale dei carabinieri con parecchi militi, e ad essi facevano corona alquanti cittadini di Nizza. Costoro, appena capirono che nulla restava a fare, batterono mogi mogi in ritirata per la strada divorata dal rappresentante del Governo. Il contegno dell'arrabbiato vicesindaco aveva già detto abbastanza, qual fosse il movente di quella spedizione; il netto si conobbe chiaramente da poi. I settari del luogo, contrariati dalla presenza di tante monache 'e più dal vederne il fortunato proselitismo, avevano montato una cabala per mandare a morite la cerimonia della vestizione e così a poco a poco forzare [263] le ospiti mal gradite a mutar aria. Ma per quella volta restarono con il danno e le beffe; poichè, oltre alle spese incontrate per tale mobilitazione, dovettero ancora sorbirsi l'onta del pubblico scorno di fronte alla cittadinanza sana.
Ma a Nizza con un'altra battaglia in grande stile si era sul punto di rinnovare l'offensiva. Fossero o no concertate e coordinate le mosse, certo è che la doppia coincidenza di luogo, di tempo e di obiettivo c'impressiona. In quel medesimo primo giorno di giugno il foglio che già aveva accolto la corrispondenza di Lu, sdoganò per i suoi lettori una prosa giacobina imbarcatagli proprio da Nizza[178]. Il titolo era promettente: INFAMIE PRETINE. Il trafiletto è un nuovo documento che prova come la setta continuasse a tener d'occhio Don Bosco macchinando di annientarlo. Diceva: “Sappiamo che l'autorità politica è oggi occupata a districare un tenebroso complotto pretino, mercè di cui una avvenentissima donzella di Nizza Monferrato abbandonava improvvisamente la propria famiglia e veniva a Torino prendendo il velo monacale. La donzella prima di fuggire di casa lasciava una lettera diretta ai parenti in cui protestava che non avrebbe mai abiurato alla propria religione la famiglia è israelitica - e si sarebbe serbata sempre degna del nome rispettabile del suo casato. Un congiunto della neomonaca è giunto testè a Torino e in unione all'autorità giudiziaria ha attivato delle indagini per scoprire il luogo dove è rinchiusa la ragazza per strapparla agli artigli della nera setta. In tutta questa faccenda si ficca di mezzo il nome di un nero famoso della nostra città e parrebbe che alle arti inique degli accoliti di questo poderoso agitatore oscurantista debba attribuirsi l'accaduto. E siamo in pieno secolo decimonono! E gli ordini claustrali sono aboliti per legge governativa! Intanto quando la luce sarà fatta appieno ne terremo informati i nostri lettori”. Ma l'effemeridi burbanzosa non potè più vedere la luce, nè tener informati [264] i lettori, perchè fece come l'ape quando ha piantato il pungiglione: in quel giorno stesso morì.
Narriamo prima com'erano andate precisamente le cose. Ricchissimi Ebrei di Alessandria, per impedire che una loro parente si facesse cristiana, come sembrava desiderare, l'avevano costretta a sposare un agiato calzolaio di Nizza. Il pio desiderio della madre fu ventitrè anni dopo un serio proposito nella figlia, il cui nome Annetta Bedarída ebbe per questo il suo quarto d'ora di celebrità. Da due anni essa vagheggiava in cuor suo l'idea di ricevere il battesimo, quando, giunte a Nizza le Figlie di Maria Ausiliatrice, il suo spirito si orientò verso di loro. Alcune giovani cristiane l'avevano condotta all'oratorio dalle Suore; poi ella aveva preso a frequentarle da sè, mettendole a parte de' suoi disegni. Il ricordo della madre defunta, sotto il cui capezzale, dopo morta, i suoi avevano rinvenuto un catechismo, la stimolava al gran passo. Se non che, restando in casa, non sarebbe mai riuscita nell'intento. Così a poco a poco architettò una fuga. Una sera dunque va alla Madonna delle Grazie e prega le Suore di non negarle ospitalità, perchè in famiglia non vuol tornare più. Le suore si commuovono, si credono in dovere di porgerle aiuto e concertano il modo. Consultarono il parroco; ma egli prudentemente se ne lavò le mani. Allora una buona fa miglia mise a loro disposizione la propria carrozza, su cui la Bedarída con due Suore si condusse a Incisa, dove prese il treno che per Nizza andava a Torino. Salire alla stazione di, Nizza non era consigliabile, stante il pericolo che i familiari della giovane se n'accorgessero. A Torino le sue compagne di viaggio la presentarono alle loro consorelle di Valdocco, che l'accolsero amorevolmente, la tennero seco e le procurarono ogni comodità d'istruirsi nelle verità della fede e nei doveri cristiani. Gli Ebrei, saputa la fuga, strepitarono, misero in moto i loro correligionari di Torino e ricorsero alla stampa; onde avvenne che l'agonizzante gazzetta torinese desse appunto l'ultimo segno di vita facendosi eco dei loro clamori. [265]
Il rauco suon della barbarea tromba non produsse però quel rapido effetto che si sperava; seguirono infatti tre mesi durante i quali la giovane israelita visse tranquilla con le Suore, andando e venendo anche per Torino senza notevoli disturbi. I parenti, com'era naturale, si diedero subito d'attorno per iscoprire il luogo del suo rifugio; scopertolo, colorirono la cosa come un atto di violenza consumato per ordine di Don Bosco e ne fecero denunzia all'autorità giudiziaria. Però, trattandosi di una maggiorenne, i magistrati non furono tanto corrivi. Pochi giorni dacchè abitava a Valdocco, andò bensì da lei un ispettore di pubblica sicurezza per interrogarla; ma essa dichiarò che liberamente e spontaneamente aveva cercato asilo presso le Suore di Don Bosco e che voleva dimorare là per prepararsi al battesimo, sicchè da parte delle autorità tutto per allora finì lì. Alcuni parenti la visitarono, fra cui il padre, al quale confermò tutta la sua filiale affezione; anche da questo lato non ci fu altro per circa tre mesi. L'Ebrea, istruita nella dottrina cristiana, sperò di venir battezzata per il 24 giugno e poi per il 15 agosto: la contessa Balbo le avrebbe fatto da madrina. Ma Don Cagliero, suo maestro di religione, e Don Bonetti che la dirigeva, le consigliarono d'indugiare ancora a fine di prepararsi meglio al grande atto.
Quella calma era foriera di tempesta. Le speranze deluse si cambiarono in furore. Oramai il piano era bell'e preparato: assalire la giovane dal suo lato debole, cioè dalla parte del cuore, sommuovere l'opinione pubblica e così agevolare un intervento energico dell'autorità[179]. [266] Il 25 agosto venne a trovarla un fratello, col quale si chiuse a confabulare per più ore, dicono cinque. Lo accompagnava un figlio del rabbino, presunto fidanzato della giovane, il quale si ritirò e riapparve solo alla partenza dell'amico. Durante il lungo abboccamento la poveretta commise una debolezza. Vedendo il fratello piangere e sentendo le sue insistenze perchè tornasse a casa, ne fu intenerita e il cuore la tradì. L'altro, accortosi del momento patologico, le somministrò carta e penna e le dettò alcune righe da consegnare alle autorità, affinchè la facessero uscire da quel luogo, quasi vi fosse trattenuta per forza. Scrisse ella macchinalmente, non però del tutto inconscia di far cosa che non andava bene, e gli abbandonò nelle mani lo scritto senza badare più che tanto alle conseguenze. Passati alcuni minuti e lasciata libera, rientrò in se stessa, conobbe il suo sproposito, e in faccia al fratello e a due testimoni ritrattò quello che aveva fatto, e sebbene per contentarlo avesse promesso di uscire con lui, non si volle muovere, ma risolse di prendersi un altro po' di tempo per riflettere seriamente. Indignato il fratello partì con il suo compagno al fianco e con propositi assai bellicosi in capo.
Presaga di quello che le stava per succedere, la catecumena provvide a parare il colpo, mutando dimora; perciò la mattina seguente passò ad abitare presso una buona signora poco lungi dall'Oratorio. Era appena uscita dalla casa religiosa, che sopraggiunsero suo fratello, un cugino e un loro compagno; ma udito della partenza, si allontanarono di là con un diavol per capello. La mattina del 27 si portò nell'Oratorio [267] il procuratore del Re, al quale la giovane tosto si presentò, dichiarando la propria volontà di rimanere dove si trovava e a lui raccomandandosi affinchè ne tutelasse la libertà personale. Il suo interrogatorio fu consegnato a verbale e da lei sottoscritto. Il magistrato se n'andò convinto non esserci ombra di coazione.
Tutto sembrava finito; ma si era solamente al principio. La Gazzetta del Popolo nel suo numero del io settembre sciorinò ai lettori una corrispondenza da Nizza Monferrato, che dell'accaduto tesseva un racconto da mille e una notte. La falsità cominciava dal titolo: La storia di una vestizione. Come se fosse possibile imporre il velo monacale a una zitella non peranco battezzata! Un particolare fantastico, bevuto da altri giornalisti e riprodotto con indignazione, veniva esposto in questi termini: “Parendo che la ragazza si mostrasse alquanto tiepida nella fede che la si vuole costringere ad abbracciare, si ricorse persino al mezzo di scrivere appositamente alcune scene drammatiche intitolate L'Ebrea convertita, nelle quali la povera infelice si vide minacciata da pene severissime. A quelle rappresentazioni la povera Bedarída fu costretta assistere più di una volta, avendo a lato un prete che con sguardo severo la rimbrottava ogni volta che essa sentendosi intenerire piangeva dirottamente pensando al dolore che provavano i parenti della convertita...” Era invece un dramma conosciutissimo nelle case di educazione e preparato dalle Suore prima che la signorina Annetta fuggisse; tant'è vero che essa lamentava di non essere venuta una settimana avanti, perchè le sarebbe piaciuto rappresentare la parte dell'Ebrea. Manco a dire che il corrispondente nizzese faceva la voce grossa sulla dichiarazione carpita nella maniera che dicevamo.
Alla livida narrazione di Nizza il giornale torinese aggiunse in proprio un incitamento per le autorità, affinchè procedessero energicamente contro Don Bosco a termini di legge e attaccò la sonaliera politica, tentando anche di risvegliare le passioni [268] agitatesi nel 1852 intorno al caso del piccolo Mortara[180]. “Le corporazioni religiose sono abolite, diceva; perchè si lascia ch'esse possano tuttavia tener conventi e insidiare in tal modo la libertà, la pace delle famiglie? E' forse per assistere a tali scandali e lasciarli impuniti che la Sinistra è salita al potere? L'Italia ha, avuto un Mortara maschio, ma lo scandalo d'allora fu commesso da aguzzini pontifici, e ciò si capisce. Ma ora dovremo noi avere una Mortara femmina sotto ministri liberali italiani, sotto ministri di Sinistra?”
Il prefetto di Torino, quel Minghelli Vaini che i lettori conoscono, non soleva essere insensibile all'oracoleggiare della Gazzetta. Il 3 settembre, di buon mattino, un nuvolo di guardie, parte in divisa e parte in borghese, accerchiò la casa ospitale della Bedarída e le adiacenze; poi si udì un forte picchiare alla porta, come di chi la volesse forzare. Non fu aperto; ma l'Ebrea, svegliatasi di soprassalto e atterrita, cadde in preda alle convulsioni. In brev'ora, alla Vista di quell'appostamento e alle dicerie che correvano, trasse gran gente per assistere [269] a lui assalto. Verso le nove ecco giungere in carrozza all'Oratorio il prefetto coli il procuratore generale. Domandò di parlare a Don Bosco. Il Servo di Dio elle terminava allora di confessare, venne dopo circa dieci minuti. Il primo saluto del funzionario fu un rimprovero di averlo fatto aspettare tanto e lì su due piedi gli gettò in faccia il sospetto elle in quel frattempo egli fosse corso a dare l'imbeccata alla giovane. Il Beato gl'indicò la casa dove l'Ebrea abitava: era a due passi dall'Oratorio. Quegli accigliato e brusco vi si avviò.
Là non volle altro testimonio elle il magistrato. La ragazza non si smarrì ma, raccolte alla meglio le forze, fece osservare come già due interrogatorii avesse subíti per la medesima cagione e elle non sapeva spiegarsi perchè ne occorresse un terzo. Il prefetto che s'immaginava di dover essere da lei accolto come lui angelo liberatore, si sentì molto contrariato da quell'esordio; ma la presenza del procuratore generale lo obbligava a serbare una certa moderazione. Udita pertanto la sua volontà e com'ella fosse rimasta sempre libera e come libera fosse tuttora, e elle lo scritto di otto giorni addietro le era stato, per dir così, strappato dal fratello senza che ella ne sapesse prevedere gli effetti, chiamarono il padre, un fratello e una sorella di lei. Molto si parlamentò da ambe le parti. Infine il prefetto augurò ai parenti che la ragazza tornasse in seno alla famiglia per calmarne il dolore. Il magistrato però con la massima pacatezza fece osservare a quei di casa sua che ella, essendo maggiorenne, godeva per legge del diritto di scegliere liberamente la propria religione.
Tuttavia il prefetto sì manteneva fisso nell'idea di staccarla dalle suore. A nulla valevano le reiterate proteste della Bedarída, che presso di loro non aveva sofferto nè soffriva violenza di sorta; egli si arrovellava a persuaderla elle le conveniva uscirne e ricoverarsi in altro istituto. Evidentemente il ghetto aveva trovato in lui il suo uomo.
- Io non conosco altri istituti fuorchè quelli di Don Bosco, diceva ella. [270]
- Sarà mia cura, rispose il prefetto, di cercargliene uno di suo gusto, per esempio, presso le Figlie dei Militari.
- Ma che bisogno c'è di mutare domicilio? lo qui non sono più dalle suore e non v'è neppur motivo di supporre che, io mi voglia far cristiana per consiglio loro.
- Ma qui ella si trova tuttora vicino a persone che hanno attinenza con l'istituto di Don Bosco; e poi la vita che qui deve menare, non si addice alla sua condizione. Io invece saprò ben trovarle un luogo che le presenti tutte le comodità Anche i suoi parenti sono d'accordo con me, non è vero?
- Sì, rispose il padre; anzi sono disposto a pagare quanto bisogni.
- Ebbene, conchiuse il prefetto, cercherò io il posto e a suo tempo ne la farò avvertita.
Le guardie di questura sorvegliarono la casa tutto il giorno, tutta la notte e non si movevano nemmeno il giorno dopo. La giovane, temendo che stessero là ad attendere che mettesse piede fuori della porta per agguantarla, si teneva tappata dentro; ma poi sdegnata scrisse al prefetto lagnandosi e protestando: “La ringrazio della premura presasi a mio riguardo nel giorno di ieri; ma io le significo che voglio godere piena libertà di stare dove mi trovo, e invoco questo diritto a nome della legge. Quindi protesto di non voler uscire da questa casa: protesto ancora contro il modo che si usa con me in questi giorni con tenermi le guardie attorno, come se io fossi una prigioniera. Si vuol far credere che io sia una vittima dei Preti e delle Monache; ma sotto colore di libertà sono la vittima di ben altra gente. Quando più non mi piacesse di fermarmi in questa casa, saprei andarmene a cercare un'altra di mio gusto, senza che altri me la determini. Fui libera e capace di cercarmi, questa, e sono tuttora capace, e voglio essere pienamente libera di uscirmene e cercarmene un'altra. Spero poi che V. S. Ill.ma vorrà dare tosto gli ordini opportuni che siano tolte le guardie d'intorno alla mia casa, [271] perchè mi sembra una vergogna trattare in questo modo una libera cittadina uscita già di minorità e colpevole di nulla”.
Ma il prefetto sotto il mentito pretesto di difendere la sua libertà personale contro le immaginarie violenze di Don Bosco non tolse l'assedio, che durò ben cinque giorni, gettando nel popolo il sospetto di chi sa quali misteriosi reati commessi da lei e da altri. Di notte i poliziotti spiavano i passanti, per tema che la preda sgattaiolasse camuffandosi anche da uomo. à di quelle guardie facevano pure una trista propaganda contro Don Bosco; poichè spacciavano che egli voleva costringere l'Israelita a farsi monaca per carpirne le ricchezze[181]; altre più sguaiatamente dicevano ben di peggio. Lo attestarono i vicini, che sorvegliavano la propria figliuolanza, perchè nessuno si avvicinasse a quelle bocche pestilenziali. Ad acuire la morbosa curiosità del volgo uscì uno di quei fascicolini di canzonette e storielle popolari, dove sul fatto si ricamava una novella boccaccevole e rocambolesca, e la protagonista con nome romantico ed epiteto lacrimogeno era detta la “sventurata Esmeralda”[182].
Don Bonetti non aveva indugiato a confutare le calunniose accuse della Gazzetta; in una sua lettera del 2 settembre al Direttore dimostrava che la giovane israelita liberamente era venuta alla casa delle suore, liberamente vi era rimasta, liberamente poteva andarsene. Ma la Gazzetta pubblicò la lettera soltanto il 4, ponendovi in coda certe “osservazioni” che miravano a infirmarne tutto il contenuto.
Oramai gli eventi precipitavano. Il procuratore del Re due altre volte, la mattina e la sera del 6, andò a trovare la signorina per consigliarla, anzi per pregarla che accettasse la proposta fattale dal prefetto di uscire da quella casa e passare in altro luogo non sospetto. Essa finì col condiscendere [272]; ma è doveroso aggiungere che l'argomento più valido a fiaccarne la resistenza fu l'averle il prefetto dato a intendere elle, se noti piegasse, Don Bosco e il suo istituto ne sarebbero andati di mezzo. Preparatone così l'animo, il prefetto le scrisse la mattina del 7: “Ho l'onore di parteciparle che la Signora Direttrice dell'Istituto Ferraris, via S. Francesco di Paola N. 10 bis, la riceverà in qualunque ora V. S. si presenti alla porta del suo appartamento, che è al io piano, standovi stilla porta del pianerottolo della scala una placca in ottone con sii scrittovi: ISTITUTO FERRARIS. Là Ella sarà padronissima affatto dei suoi pensieri: là la Direttrice ha l'ordine di secondarla nei suoi desiderii, anche accompagnarla ad una villa elle tiene in affitto essa Signora Direttrice verso la Madonna del Pilone, se a V. S. piacesse di pigliare un poco di aria di campagna. I genitori di lei pagano tutte le spese giornaliere, che a V. S. piacesse di fare secondo le abitudini dell'agiata famiglia, alla quale appartiene. Veda bene, Signorina: o le piaccia di restare nella religione dei suoi genitori o di farsi cattolica, Ella sarà padronissima di abbracciare quella risoluzione , che la sua volontà le suggerirà di preferire. Io metterò ogni impegno perchè Ella nella rettitudine della sua coscienza abbia da dire a sè e agli altri, che il Prefetto di Torino, o meglio il Governo del Re che egli rappresenta, non ha cercato, non ha voluto, non ha dato disposizione con altro scopo fuori che con quello di lasciarla liberissima di seguire la stia vocazione, o sia quella di farsi cattolica, o sia quella di restare nella religione in cui è nata. Qualunque cosa le mancasse, in qualunque modo accadesse che il trattamento che riceverà nell'Istituto Ferraris le paresse non conforme alle prendesse suesposte, voglia farmelo sapere, e io darò ordini perchè la sua libertà amplissima sia tutelata”. Intanto però le toglieva la libertà di abitare nella casa, dov'essa voleva rimanere
Prima di abbandonare la sua dimora, la giovane consegnò a chi di ragione questo autografo, elle si conserva nei nostri [273] archivi: “Io sottoscritta in presenza dei testimoni con me sottoscritti dichiaro di uscire da questa casa Via Cottolengo N. 31, non già perchè vi abbia ricevuto o vi riceva pressione nella mia deliberazione di farmi Cristiana, ma per l'unico motivo di annuire a un Consiglio del Procuratore Generale di S. Maestà, che me ne pregò, e così evitare disturbi e sfregi ai miei benefattori, che mi hanno usato tanta Carità”.
Entrò dunque il 7 settembre nell'istituto, in cui la signora Ferraris, amicissima del prefetto e della Gazzetta del Popolo, teneva a convitto allieve maestre. La Direttrice subito al primo incontro le disse che non bisognava lasciarsi riempire la testa da idee di fanatismo. La mattina del dì seguente fu data licenza al fratello di entrar nella sua camera da letto; ma la sorella, svegliata e conosciutolo, ne lo scacciò dispettosamente. Il giorno io un dottore che si disse falsamente mandato da Don Cagliero, tentò di parlarle; ma ella insospettita non lo volle ricevere. Lo stesso giorno il sedicente amante, accompagnato dal fratello, chiese alla Direttrice di poterla visitare; ma la giovane ricusò di vederlo.
Tutte queste erano vere insidie; ma si ricorse anche alla calunnia. La Direttrice, scorgendo che per otto giorni la signorina persisteva a non voler vedere nè udire persone che la stornassero dalla stia idea, non si peritò di farla mettere in canzone come visionaria; al qual fine narrò che essa “le aveva raccontato sul serio di aver veduto Dio in persona sotto le forme di un bel vecchione colla barba bianca, che le diede consigli e suggerimenti”. Il solito giornale divulgò la notizia; altri giornali gli tennero bordone[183]: e la Direttrice che fece? La Bedarída, prima di entrare nel suo convitto, aveva avuto modo di parlare con il biellese avvocato Caucino, grande spauracchio degli anticlericali per le sue vittorie forensi in difesa del clero, e ne aveva chiesta l'assistenza. L'avvocato andò poi a visitarla nella nuova dimora e sarebbe [274] dovuto ritornare; ma la Ferraris ingannò la ragazza, facendole credere essere stato il Caucino a calunniarla di visionaria, di monomaniaca, e così glielo mise talmente in sospetto, che essa noti volle più rivederlo. Allora la poveretta inesperta si trovò isolata in balìa di persone congiurate a' suoi danni: Un giorno, per dimostrarle che i suoi parenti avevano ragione di non permetterle l'abbandono dell'ebraismo, la sua carceriera in presenza di lei domandò a una signora: - Se Ella avesse una figlia che volesse farsi protestante, ne sarebbe forse contenta? Non farebbe di tutto per impedirglielo?
Nell'istituto la famiglia desiderava che passasse una quindicina di giorni, senza verun contatto nè con Salesiani nè con Suore; ma stanca di tante torture, non aspettò nemmeno quel termine. Da una lettera che le indirizzò Don Bonetti il 18, si arguisce che il ritorno a Nizza era ormai deciso. “Mi consola però il sapere, dice Don Bonetti, che Ella continua nella buona volontà di ricevere il battesimo”.
Il 18 stesso, che fu il giorno della partenza di Annetta Bedarída per Nizza, un foglio volante col titolo: Don Bosco, Don Margotti e l'avv. Caucino scornati, e con una silografia del Beato, i cui lineamenti alterati ad arte lo facevano apparire di aspetto antipatico, veniva sparso a larga mano in città ad annunziare l'infelice vittoria. La rabbia giudaica, secondo le informazioni della questura, era giunta a tal grado di accanimento, che qualcuno dell'Oratorio doveva stare in guardia contro insidie alla vita. Figuriamoci il trionfo che si menò dopo un sì poco invidiabile risultato! Sulla Cronaca dei Tribunali del 20 settembre il direttore avvocato Giustina incitava il Procuratore del Re a istruire un regolare processo; ma non se ne fece nulla, tanto evidente era alle autorità non esservi stato nessun delitto, doversi invece ritenere scellerate menzogne le delazioni dei giornali.
L'Unità Cattolica subito contrappose un altro foglio volante, dove si leggevano o meglio si rileggevano tre documenti già pubblicati separatamente, cioè la lettera, della Bedarída [275] al Direttore, l'altra lettera di lei al Prefetto da noi riferita qui sopra, e un suo telegramma al Ministro dell'Interno per protestare contro chi voleva “ingerirsi in affari della sua coscienza”. Questa pubblicazione era stata l'unico intervento del quotidiano cattolico nel fervore della mischia. Un tal riserbo rispondeva certo a una propensione di Don Bosco. Scoppiato un litigio, egli, una volta chiarite le cose mediante la serena esposizione dei fatti, non amava battagliare. Nella presente controversia poi, se gli si fosse dato retta, la gran questione sarebbe morta prima di nascere. Egli ritenne fin da principio che fosse meglio affrettare il battesimo. - Battezzata che sia, disse, tutto è finito. - Infatti il fratello, la prima volta che fu dall'Annetta, credendola già battezzata, parve rassegnarsi al fatto compiuto. Ma Don Cagliero aveva preferito andare adagio; onde colui, avvedutosi del proprio abbaglio, sollevò tutto quel putiferio. Del resto, non ogni male viene, per nuocere: grazie agli Ebrei, tanti buoni Cristiani appresero che esistevano anche le Suore di Don Bosco e che a Nizza Monferrato avevano la loro Casa madre.
NELL'ANNO, di cui ci veniamo occupando, non vi fu spedizione missionaria. Mentre nell'America i Salesiani vedevano approssimarsi l'ora delle Missioni propriamente dette, Don Bosco non si stancava di premere per ottenere delle sue Missioni un riconoscimento canonico. I tentativi fatti durante il Pontificato di Pio IX avevano sortito scarsi risultati; ora egli mirava a conseguire ben più. Fece pertanto un primo passo con il rappresentare a Leone XIII l'attività missionaria da lui spiegata in Europa, il contributo cioè che egli recava alla preparazione di apostoli per le Missioni proprie e altrui; ma diede alla sua relazione la forma di una supplica indirizzata allo scopo di poter avere sussidi dalle due massime Opere di assistenza missionaria.
Prostrato umilmente ai piedi della Santità Vostra espongo con tutto il rispetto come da molti anni sotto il nome di Oratorio di San Francesco di Sales in Torino siasi aperto un Ospizio o Seminario dove si coltivano e si preparano evangelici operai per le Missioni estere. Di fatti un numero notabile dei nostri allievi trovasi ora nella China, nell'Australia, nell'Africa, e in numero di oltre cento nella stessa America Meridionale.
Questo Istituto che presentemente contiene oltre a 500 allievi, si è finora sostenuto colla carità dei fedeli, e nei casi eccezionali coll'aiuto del Sommo Pontefice. [277] Ora la mancanza dei beni materiali cagiona gravi difficoltà per continuare nel fine proposto di somministrare individui per le Missioni estere, e perciò mi fo ardito di supplicare V. S. a voler dire una parola in favore del Pio Istituto presso alla direzione dell'Opera Pia della Propagazione della Fede di Lione, e dell'altra Opera Pia detta della S. Infanzia, affinchè ci vengano in aiuto con qualche caritatevole sussidio. In questa guisa si potranno viemeglio continuare gli studi, le vocazioni, sostenere altre case aperte col medesimo fine, di formare missionarii all'Estero, di cui si sente cotanto grave il bisogno. Case sussidiarie al Seminario di Torino sono l'Ospizio di S. Vincenzo de' Paoli nella città di Sampierdarena, il Patronato di S. Pietro a Nizza di mare, quello di S. Giuseppe presso Fréjus, quello di S. Cyr vicino a Tolone e finalmente l'Oratorio di S. Leone nella città di Marsiglia. Questi Istituti portano nomi che non esprimono i fini che noi accenniamo, ma ognuno può immaginare il motivo che consiglia ad usare tali denominazioni.
Questa è l'opera che umilio a V. S. supplicandola a volerla benedire e favorire in quel modo che nella sua alta ed illuminata sapienza giudica opportuno.
Colla massima venerazione e col più profondo figliale ossequio ed attaccamento mi protesto
Umilissimo ed obbligatissimo figlio
Un mese dopo fece un passo più decisivo. Umiliò al Santo Padre per mano del Cardinale Protettore una nuova supplica, condensandovi notizie particolareggiate sull'attività missionaria esercitata dai suoi nell'America Meridionale e allegando una serie di documenti pontifici atti a mettere in valore quelle Missioni, affinchè l'Autorità suprema si degnasse di regolarne la posizione davanti alle Congregazioni Romane.
Le prime trattative di missioni salesiane all'estero si ebbero coll'Em.mo, Barnabò nel 1872, che ne dava incoraggiamento. S. S. Pio IX poi nel 1874 localizzava le missioni ed incoraggiava a recarci nella Repubblica Argentina per prendere cura degli italiani colà dispersi e tentare novelle prove tra gli Indi Pampas e Patagoni. Il medesimo caritatevole Pio IX somministrava mezzi materiali per la prima spedizione, che si effettuò il 14 Novembre 1875. I primi missionarii salesiani [278] si presentarono al S. Padre in numero di 10 il I° Novembre di quell'anno per riceverne la benedizione e la missione apostolica. il S. Padre li incoraggiava con calde parole, li muniva di una lettera del cardinale segretario di Stato all'Arcivescovo di Buenos Aires in data dello stesso giorno.
Ai medesimi erano concesse le facoltà necessarie dalla S. Congregazione di Propaganda Fide con decreto del 14 Novembre 1875.
Il medesimo Sommo Pontefice esprimeva la sua consolazione lodando ed approvando la novella missione con Breve in data 17 dello stesso mese ed anno.
Per dare ognora maggiore stabilità alle salesiane missioni la Congregazione di Propaganda, informata dell'incremento della messe evangelica e delle vocazioni che in quei paesi Dio suscitava, autorizzò la fondazione di un noviziato con decreto 6 Luglio 1876.
Il regnante Sommo Pontefice, che Dio lungamente sano e salvo conservi, in data 18 Settembre 1878 si degnava d'indirizzare altro Breve pieno di paterno affetto con cui approva ed incoraggia le missioni salesiane di America.
Lo stesso regnante Sommo Pontefice Leone XIII sebbene travagliato dalle strettezze finanziarie, tuttavia informato delle difficoltà che s'incontravano nella quarta spedizione per la mancanza dì mezzi pecuniarii, concorse con generosa offerta ed animava a proseguire le opere incominciate con apposita lettera in data 23 Novembre 1878.
Difficoltà grande fu l'incertezza se le missioni dell'America del Sud appartengano alla Congregazione dì Propaganda Fide, oppure alla Congregazione degli affari straordinarii ecclesiastici. Si raccomanda ogni cosa alla carità e zelo dell'Em.mo card. Nina segretario di Stato, affinchè qual protettore della congregazione si degni:
I. [Dichiarare] a quale delle due sacre Congregazioni mentovate debbano rivolgersi i missionarii salesiani, che ora trovansi nell'Uruguay e nella Repubblica Argentina, nei ricorsi all'autorità della Santa Sede.
2. Approvare queste missioni secondo la richiesta fatta dal Consiglio Generale dell'Opera Pia della Propagazione della Fede residente in Lione, affinchè si possano ottenere i promessi sussidii che nello stato attuale di cose sono indispensabili.
3. In risposta alla medesima lettera del Consiglio Generale della Propagazione della Fede si può notare che per ogni trattativa di sussudio o pratiche relative si faccia capo al sac. Gio. Bosco Rettor Maggiore della mentovata Congregazione in Torino. Qui havvi il seminario principale da cui partono i missionarii, e dove pure tengono corrispondenza dai paesi loro affidati per l'esercizio del sacro loro ministero.
4. Tornerebbe pure di grande vantaggio una commendatizia presso l'Opera della Santa Infanzia. Si potrebbe notare come molti [279] giovanetti salvati da certa morte furono dall'Arabia (Cabil) trasportati nella casa di Torino. Qui instrutti nella fede, battezzati, ammaestrati nelle scienze, alcuni furono avviati ad un mestiere ed altri vennero ammaestrati per la carriera ecclesiastica, ed ora sono missionarii nella loro patria. Altri provenienti dalla città di Damasco fanno ora i loro studii per essere poi rinviati nei loro paesi. Assai più è notevole il numero, dei ragazzi selvaggi dai Salesiani battezzati in mezzo agli Indi; altri ricoverati negli ospizi di Buenos Aires. In questo giorno medesimo 20 Aprile 1879, partono tre missionarii salesiani col ministro della guerra di Buenos Aires a fine di recarsi fra gli Indi Pampas e salvare quel maggior numero di fanciulli che si può dallo sterminio cui pare siano stati condannati dal Governo Argentino. Pur troppo quei ragazzi vagano a migliaia in cerca di chi loro salvi l'anima e il corpo, ma non si possono avere mezzi materiali e morali per salvarli tutti; e nondimeno sarà sempre un numero di fanciulli selvaggi donati al Vangelo ed alla civile società.
Conveniva in seguito tener presenti al pensiero del Papa le Missioni Salesiane. A questo si provvide con far sì che l'Ispettore Don Bodrato da parte sua e dei confratelli inviasse al Vicario di Gesù Cristo devoti omaggi in due tempi diversi, vale a dire per l'onomastico e per il capo d'anno. Il primo indirizzo, spedito da Buenos Aires il 6 luglio, giunse a Roma per San Gioachino, che è ai 16 di agosto;' si portava in esso a conoscenza del Santo Padre l'avanzata dei Salesiani verso la Patagonia, la necessità di stabilire una residenza centrale sulle foci del Rio Negro e una missione da qualcuno di loro predicata nel Paraguay. Il secondo indirizzo partì pure di là il 27 novembre in modo che arrivasse a Roma con gli auguri per il nuovo anno; vi si parlava intanto di recenti progressi nelle terre patagoniche, dell'imminente apertura di una casa a Patagones e della collaborazione prestata dalle Figlie di Maria Ausiliatrice[184].
Senz'aspettare che le sue pratiche presso la Santa Sede sortissero l'effetto desiderato, il 17 settembre rinnovò per la terza volta le sue istanze alla Santa Infanzia e alla Propagazione [280] della Vede per ottenere sussidi a vantaggio delle sue Missioni, unendo alle sue domande copia di una lettera dell'Arcivescovo monsignor Aneyros, dalla quale si potevano rilevare i meriti dei Salesiani nella Repubblica Argentina. Le risposte furono, al solito, gentilissime nella forma e negative nella sostanza. La Santa Infanzia sussidiava solamente Missionari che attendessero a tre cose insieme, cioè a battezzare, riscattare e allevare piccoli infedeli, nè sovvenzionava Missioni nascenti se non quando possedessero già residenze. destinate a quei tre scopi; inoltre non ammetteva al godimento di assegni fissi nuove missioni, se non quando l'Opera avesse aumenti di mezzi che le rendessero possibile allargare la sfera della sua beneficenza.
In questa lettera incontriamo una preziosa allusione: il Direttore Generale si compiaceva delle cose udite nel Congresso di Angers sulle “mirabili Opere” del Beato. Quel Congresso, tenutosi poco prima, si era occupato esclusivamente di istituzioni operaie cattoliche; Ernesto Harmel, fratello di Leone il bon Père di Val des Bois, vi aveva letto un ragguaglio sulla natura e sullo sviluppo delle scuole professionali fondate da Don Bosco. Di quel Congresso abbiamo anche un altro ricordo. Un sacerdote parigino, abate Machiavelli, noto in Francia per il suo apostolato sociale e per la sua competenza in questioni operaie e incardinato allora nella diocesi di Nancy, chiedeva l'anno dopo all'Oratorio informazioni particolareggiate sull'Opera di Don Bosco, la quale egli diceva d'aver udito lodare altamente nel Congresso di Angers e di cui conosceva soltanto l'esistenza[185]. Gli furono mandati i numeri fino allora usciti del Bollettino francese, che aveva [281] fatto la sua prima comparsa nell'aprile del 1879 e che oltre al resto conteneva già tradotti i primi tredici capitoli di Storia dell'Oratorio, scritta da Don Bonetti per il Bollettino italiano.
Dalla Propagazione della Fede la risposta venne più tardi, perchè la proposta del Beato era stata oggetto di esame successivamente presso i due Consigli centrali di Lione e di Parigi; ma tornò in campo l'eterna difficoltà statutaria, che l'Opera poteva aiutare soltanto le Missioni presso popoli infedeli, non appartenenti cioè a Stati cattolici, nè aventi gerarchia ordinaria, semprechè fossero riconosciute come tali ufficialmente dalla Santa Sede e rette da determinati Superiori ecclesiastici. Entrambi però i documenti stanno a confermare quanto fosse già nota e apprezzata l'Opera di Don Bosco in Francia[186].
Di un grazioso sussidio del Santo Padre per le Missioni diede il cardinale Nina comunicazione a Don Bosco il 21 ottobre. “Non ho mancato, scriveva Sua Eminenza, di riferire al Santo Padre quanto la S. V. si compiaceva espormi nella sua pregiata dei 16 dello scorso mese e nella successiva dei 27 relativamente ai suoi Missionarii di Buenos-Aires, non che, a quelli che dovranno quanto prima muovere dall'Europa alla volta del Paraguay. Sua Santità giustamente apprezzando i non piccoli vantaggi che vengono arrecati da Missionari del suo benemerito istituto, specialmente in quelle lontane regioni cotanto bisognose di spirituali soccorsi, ne è rimasta vivamente soddisfatta ed accogliendo favorevolmente la dimanda di qualche soccorso materiale per procedere alle prime spese necessarie alla prossima spedizione si è degnata di elargire a tal uopo la somma di lire mille. Nel portare a notizia di V. S. questo tratto della Sovrana beneficenza, La interesso vivamente a sollecitare per quanto è possibile la desiderata partenza”. Il Servo di Dio nella lettera [282] del capo d'anno segnalerà ai Cooperatori e alle Cooperatrici questo esempio di papale carità, e mostratone tutto l'intimo valore, professerà in questa forma la propria gratitudine: “Ad un atto di così alta bontà del Santo Padre noi ci studieremo di corrispondere con fervore e quotidiane preghiere per la sua conservazione e pel bene dì Santa Chiesa, di cui è Capo visibile. E poichè il danaro che scende nelle auguste di Lui mani va a terminare dove più grande è il bisogno della Religione e la necessità dei fedeli, noi ci daremo premura di promuovere l'Obolo di San Pietro. Come quello che non potrebbe avere una più santa destinazione”[187].
Don Bosco aveva dunque in animo di fare quest'anno una spedizione di Missionari al Paraguay? Abbiamo già accennato come tale realmente fosse la sua intenzione[188]. Infatti il 3 gennaio, corrispondendo volentieri alle premure fattegli in proposito a nome di Sua Santità, si era affrettato ad assicurare il cardinal Nina che nel prossimo ottobre sarebbero pronti dieci tra preti e catechisti e altrettante Suore per recarsi al Paraguay, dove esercitare ogni opera di carità presso quelle popolazioni bisognosissime dì aiuti spirituali.
Avvicinandosi poi il termine da lui prefisso e rinnovandosi le insistenze di quel Delegato Apostolico, la Segreteria di Stato nel mese di settembre lo sollecitò ad allestire la spedizione dei dieci Missionari, i quali per altro si sarebbero dovuti fermare a Buenos Aires, non movendo alla volta del Paraguay prima di aver preso gli opportuni accordi col Rappresentante Pontificio monsignor Angelo Di Piero, arcivescovo di Nazianzo, Quanto alle Suore, affinchè si potessero fin dal loro arrivo convenientemente collocare, si stimava necessario che venissero precedute dai Missionari; se ne sospendesse quindi per allora la partenza. Queste erano le istruzioni inviate da Roma, dove si confidava che Don Bosco fosse in grado di adempiere alle promesse del gennaio, tornate di vivo [283] gradimento al Papa[189]. Ma circostanze imprevedute erano sopraggiunte a intralciare i disegni del Beato, che così ne scrisse al cardinale Nina, Segretario di Stato.
In riscontro alla rispettabilissima lettera della E. V. in data io corrente Settembre mi affretto di comunicarle quanto segue.
Come avevo già avuto l'onore di rendere noto all'E. V., era stabilito che due nostri religiosi partissero da Buenos Aires col I° Agosto per recarsi a reggere almeno la Parrocchia della Città dell'Assunzione nel Paraguay. Pochi giorni prima della loro partenza furono consigliati, non so da quale autorità, di differire per motivo della rivoluzione scoppiata in quella repubblica. Non so se le nuove dimande del Delegato Pontificio siano di recente data, oppure anteriori al 12 Agosto; ad ogni modo io scrivo immediatamente al Superiore dei nostri Missionari stanziati in Buenos Aires, perchè mi ragguagli sullo stato delle cose, e se pare conveniente partano tostamente i due mentovati religiosi, affinchè vadano al loro ufficio e preparino quanto occorre per quelli elle saranno di prossima partenza dall'Europa. Sarebbe però indispensabile di poter ricorrere a qualche fonte di beneficenza sia per fare il corredo personale elle va ad una cifra assai rilevante e per fare tutte le altre spese di viaggio.
Al 20 di questo mese attendo novelle notizie dalla Repubblica del sud e probabilmente dallo stesso Paraguay. Ove ne sia d'uopo darò subito comunicazione di ogni cosa all'E. V.
La prego intanto di permettermi l'alto onore di potermi professare colla più profonda venerazione della E.V.
Del Paraguay noi troviamo elle più si facesse motto nè allora nè poi per una quindicina d'anni. Rimandiamo i lettori a quanto dicemmo nel volume precedente sulle condizioni politiche di quel paese.
Anche il Vescovo di San Domingo aveva ricordato in maggio a Don Bosco la fatta promessa di mandargli suoi Missionari per marzo, secondo il desiderio del Santo Padre[190]. [284] - Come rispondere? - chiese Don Cagliero, dopo aver letta a Don Bosco la lettera indirizzatagli da quel Prelato. Rispondi a questo modo, gli disse Don Bosco, e lo riferisce la cronaca: essere noi pieni di buona volontà a suo riguardo e desiderare di andargli in aiuto; ma che il Santo Padre medesimo, nel momento in cui cercavamo di assottigliare il personale di qualche casa, per compiacere a Sua Eccellenza, ci dà nuovi incarichi molto più pressanti; per il qual motivo ora lo preghiamo di pazientare. - E nemmeno per San Domingo si rinnovarono le insistenze se non passati molti anni.
Questa necessità di “assottigliare il personale di qualche casa”per aprirne o provvederne qualche altra, si ripeteva ogni tanto anche senza che c'entrassero le Missioni; onde un lamento mosso il 29 aprile da alcuni Superiori elle lo scarso numero di confratelli aumentasse soverchiamente nelle case il lavoro dei singoli con detrimento della sanità, tanto più elle in quasi tutti i luoghi i nostri accettavano predicazioni e officiature in chiese esterne. Don Bosco osservò: -Abbiamo già troppe cose per le mani senz'andarci a cercare altre occupazioni; tanto più che queste divagano e fanno sì che il cuore si attacchi a certe imprese esteriori, che forse lusingano l'amor proprio, e si trasandino poi le cose nostre. Anche in America per questo motivo sono tutti oppressi da lavori Straordinarii. É vero che tutto ha per fine la maggior gloria di Dio; ma è anche vero che noi dobbiamo avere per iscopo primario la cura della gioventù, e non è buona ogni occupazione elle da questa cura ci distragga. Lasciare elle un collegio vada male per predicare e confessare altrove, non è buon metodo. Chiudiamo la breve parentesi, lasciando l'Italia, e rifacendoci a dire dei nostri Missionari d'America.
Il 1879 segna una data storica nei cominciamenti delle Missioni Salesiane d'America; appartiene a quell'anno il primo contatto con gli Indi della Pampa e della Patagonia in quelle loro terre elle erano ancora per la massima parte inesplorate. Fallito il tentativo dell'anno antecedente per [285] la via del mare a causa della furiosa tempesta che mise a repentaglio la vita di monsignor Espinoza e di Don Costamagna, questi due coraggiosi studiarono un altro itinerario per le vie di terra. Una felice congiuntura, che dobbiamo esporre, ne favorì l'apostolico zelo. Cominciarono nel 1879 le spedizioni regolari di esplorazione e di conquista, che avrebbero in pochi anni posto fine per sempre al dominio selvaggio e reso possibile colonizzare e sfruttare gli sconfinati territori dell'ovest e del sud, Ossia della Pampa e della Patagonia. La prima mossa fu di portare la frontiera della repubblica fino al Rio Negro, soggiogando o discacciando gli Indi ed opponendo loro la barriera insuperabile del grande fiume, navigabile col suo affluente Neuquén dall'Oceano alle Ande. Stavano di fronte venticinque mila Indi allo stato selvaggio, dei quali solo quattromila e cinquecento erano atti a combattere, ma privi di armi moderne, inesperti di strategia militare e sforniti di disciplina. Il progetto della campagna era stato sanzionato con legge il 4 Ottobre 1878; l'esercito di operazione, composto di quattromila e cinquecento uomini, si mise in marcia il A aprile 1879, ripartito in cinque divisioni, sotto il comando supremo del generale Roca, Ministro della Guerra. Tre divisioni batterono l'interno della Pampa, una percorse il suo limite occidentale e un'altra più numerosa scese a fronteggiare la Patagonia, dove si accampavano cinque formidabili Cacichi. Mentre il Governo si proponeva per allora soltanto di spazzare e sotto mettere la zona chiusa fra il Rio Negro e le Ande, cioè tutta la Pampa e un po' della Patagonia settentrionale, restò indirettamente conquistata la Patagonia intera, perchè in un secondo tempo questa regione potè essere senza straordinaria difficoltà debellata. Si era creduto che i selvaggi si sarebbero concentrati al sud per essere spalleggiati dai Patagoni; invece fuggirono attraverso le Cordigliere al Chilì o si arresero o si dispersero con l'intento d'incorporarsi fra i civili; moltissimi perdettero la vita anche senza che si opponessero all'avanzata [286] delle truppe. La marcia dell'esercito durò dall'aprile al luglio del 1879; la campagna del Rio Negro si chiuse nell'aprile del 1881 con esito completo.
Spedizioni isolate, senza un piano generale, eransi fatte precedentemente, come abbiamo narrato altrove[191]. Durante quelle offensive non pochi Indi erano stati massacrati o presi e condotti a Buenos Aires e distribuiti come schiavi alle famiglie; quindi nei superstiti regnava un'acrimonia, che rendeva oltremodo difficile ai bianchi l'avvicinarli. Nella spedizione generale esulava dalla mente dei governanti il proposito d'incrudelire contro gl'indigeni; anzi il Ministro della Guerra volle pensare anche al loro bene spirituale. Perciò saputo che si desiderava spedire Missionari verso la Pampa, offerse all'Arcivescovo i suoi servigi, promettendogli di assistere e difendere i suoi inviati durante il lungo e pericoloso viaggio. Monsignor Anevros accettò l'offerta, raccomandandogli il suo vicario generale monsignor Espinoza e due Salesiani, Don Costamagna e il chierico Luigi Botta. Il Ministro li nominò cappellani militari.
Il mercoledì dopo Pasqua, 16 aprile, insieme col comandante in capo e con molti ufficiali i tre partirono per ferrovia da Buenos Aires verso Azul, ultimo lembo civile, al di là del quale si stendeva sconfinato il deserto pampero. Al momento della loro partenza l'Arcivescovo ordinò che in tutte le chiese si sonassero a festa le campane. Ad Azul ricevettero un cavallo per ciascuno ed un carro per tutti, il quale servisse al trasporto delle cose personali e sacre e offrisse un ricovero dì notte e un rifugio nelle intemperie. Di là con otto giorni di cammino arrivarono al Carhué, punto di concentramento e di divisione delle milizie.
Era il Carhué una stazione quasi nel cuore della Pampa e segnava il limite occidentale della frontiera argentina con il territorio degli Indi. La piccola altura si specchia in un magnifico [287] lago di acqua salsa. Intorno a un fortino si raggruppavano circa quaranta case, e alla periferia si scorgevano disseminati i toldos di due tribù pacifiche, dette Eripaylá e Manuel Grande dai nomi dei rispettivi Cacichi. Don Costamagna che aveva preceduto di qualche giorno i suoi compagni, andò subito ripetutamente da quegli Indi, che dimoravano a breve distanza. I due capi lo ricevettero cordialmente; il primo anzi gli fece da interprete. Con il loro consenso il Missionario radunò i ragazzi, a citi tentò di far apprendere il segno della croce e le verità fondamentali della fede. Giunti i compagni, si misero tutti insieme con entusiasmo all'opera. Amministrarono il battesimo a fanciulli indi e a figli di cristiani, aggiustarono matrimoni e disposero alla fede lo stesso figlio maggiore del cacico Eripaylá. Mentre attendevano instancabilmente a sì cara fatica, il Ministro della Guerra li pregò di seguirlo al Rio Negro, verso cui movevano duemila uomini senza un prete e dove avrebbero trovato Indi quanti ne volevano, proprio sui confini settentrionali della Patagonia. Monsignor Espinoza stimò che convenisse annuire.
Fu un viaggione di trenta e più giorni, a schiena di cavallo e fra i più gravi disagi. La colonna disperse due forti gruppi di Indi, che s'illusero di poterne impedire il passo. Nel gran giorno di Maria Ausiliatrice Don Costamagna era già in riva al Rio Negro, mentre gli altri due cavalcavano ancora per la zona che va dal Rio Colorado a questo fiume. Più volte purtroppo essi dovettero fremere in silenzio alla vista di soldatesche brutalità contro la vita degli Indi. Si fece una tappa a Choele-Choel sulla riva sinistra del Rio Negro, donde scesero a Patagónes, non lungi dalla foce. Là presero un po' di riposo. Ne avevano estremo bisogno! Dopo tanto cavalcare, dopo aver sofferto fame e sete e insonnia e tutti i malanni che provengono da mancanza di cibo o da pessimo nutrimento, dopo inauditi tormenti causati da un freddo glaciale che ne irrigidiva le ossa, senza il rifugio di una capanna o di una [288] tana nelle più gelide ore notturne (l'ultima parte del viaggio cadeva laggiù nel cuore dell'inverno), poterono finalmente procurarsi qualche ristoro, che ne ricreasse le forze e li rimettesse in grado di lavorare.
Indii per la strada e nelle fermate ne avevano incontrati e avevano fatto loro il maggior bene possibile. Particolarmente dell'opera di Don Costamagna a Choele-Choel monsignor Espinoza scrisse[192]: “Il padre Costamagna con quel zelo che tanto lo distingue aveva già principiato fin dal giorno del suo arrivo a istruire molti Indi adulti, perchè potessero ricevere presto il santo battesimo; e fummo tutti e tre non poco ricompensati delle nostre fatiche e patimenti per le primizie che potemmo offrire a Dio sulle maestose sponde del Rio Negro. Il I° di giugno sacro alla Pentecoste, assistito dai due Missionari salesiani, in una bellissima pianura e a cielo scoperto, celebrai il santo sacrifizio della Messa. Vi assisteva il Generale con tutto il suo stato maggiore ed i battaglioni in ordine di grande parata... Era la prima volta che s'immolava l'Ostia di pace in quei deserti; la prima volta che lo stendardo della Croce benediceva quelle terre percorse dal barbaro e infelice selvaggio! Dopo la santa Messa si cantò un solenne Te Deum e si prese possesso delle terre patagoniche e si battezzarono sessanta Indi, che furono incorporati nell'esercito. Il 2 giugno Don Costamagna battezzò altri ventidue Indietti, tre bambini di famiglie cristiane e quattordici Indie adulte. Il 4 giugno terminò di battezzare altri nove Indi, che il 2 non erano ancora ben preparati. Il giorno dopo, avendo il Ministro con parte delle truppe fatta una ricognizione al Neuquén, partimmo per Patagones... Il 21 giugno arrivammo finalmente a Patagónes, dove si diede tosto principio alla santa missione con la Messa cantata e con la predica del padre Costamagna. Speriamo un abbondante frutto. Finita questa missione, torneremo a internarci nel deserto [289] e a catechizzare coli più comodità tanti poveri Iridi, elle dal Missionario aspettano il loro benessere spirituale e materiale”.
Giova conoscere questo posto strategico delle future Missioni Salesiane. Patagónes aveva circa un secolo di vita, con una popolazione di quattromila anime, divisa fra le due sponde del Rio Negro, a una cinquantina di chilometri dall'Atlantico. Sulla sinistra del fiume prese il nome di Carmen de Patagones, dalla Vergine del Carmine, il cui simulacro i Patagonesi avevano rapito ai Brasileni in una battaglia navale; sulla destra si chiama Mercedes de la Patagonia, perchè si trova sui confini di questo territorio. Qui oltre il padre Savino lazzarista, loro compagno di sventura nel naufragio del 1878, incontrarono un Antonio Calamaro Sacrestano, nativo di Voltri ed ex-alunno di Lanzo; il 23 giugno egli si mise a cantare un inno onomastico in onore di Don Bosco, imparato da lui quattordici anni prima.
I Missionari rientrarono in Buenos Aires alla fine di luglio. Il racconto di quanto col divino aiuto avevano operato in tre mesi e mezzo di peregrinazione, infiammò talmente l'Arcivescovo, elle il 5 agosto ne scrisse una lunga lettera a Don Bosco[193], cominciando con queste parole: “E' finalmente giunta l'ora, in cui Le posso offrire la Missione della Patagonia che le stava tanto a cuore, come anche la parrocchia di Patagónes, che alla Missione puó servire di centro”. Descritte poi le miserrime condizioni di quella povera gente e detto della propaganda protestante, proseguiva: “Io mi rivolgo a Lei con quella più viva sollecitudine, di cui è capace il cuore di un Prelato, e La scongiuro per le viscere misericordiose di Nostro Signore Gesù Cristo d'affrettarsi a venire in mio aiuto per soccorrere tante povere anime abbandonate... La casa centrale dei Missionari si potrebbe stabilire a Carmen [290] di Patagones ovvero a Mercedes della Patagonia, e da questo centro dirigere le missioni nei villaggi.... come anche spedirne di qui in tutta la Patagonia, ove migliaia d'infedeli vivono ancora nelle tenebre dell'idolatria... Il Governo insiste con ardore perchè io vi mandi tosto dei missionari, e mi ha promesso di ottenere dalle Camere una considerevole somma per sussidio, somma superiore a quella che è ora accordata annualmente, e che incomincerà a decorrere dal io gennaio 1880... Ella si farà facilmente idea dell'ansietà con cui io sto aspettando la sua risposta... Il mio cuore s'allarga alla speranza ch'Ella non mi abbandonerà in queste sì stringenti circostanze e che sarà per abbracciare incontanente e con gioia incarico di questa Missione, sì necessaria per la gloria di Dio e per la salute di tante anime, che ora si trovano completamente abbandonate per mancanza di Missionari. Sono persuaso che Don Cagliero, il quale conosce queste regioni e ne ha toccato con mano gli urgenti bisogni, mi aiuterà in questa santa e laboriosa impresa. Sono stato soddisfattissimo delle buone notizie avute sul miglioramento della sua vista. Prego caldamente il Signore che voglia conservare in perfetta e lunga salute la S. V., di cui abbiamo tanto bisogno”.
Monsignore accludeva copia di una lettera per il signor Edoardo Calvari, agente dell'emigrazione a, Genova, affinchè interponesse i suoi buoni uffici per ottenere ai missionari salesiani il passaggio gratuito fino a Buenos Aires. Pare che contemporaneamente il Governo argentino affidasse a Don Bosco ufficiale incarico di evangelizzare la Patagonia, promettendogli validi aiuti. Questa corrispondenza gli giunse a Lanzo il 5 settembre durante un corso di esercizi spirituali. Don Barberis entrò nella camera di Don Bosco subitochè egli aveva lette queste notizie e lo trovò “tutto gioia”, scrive egli, e soggiunge che dopo avergliele partecipate esclamò: - Chi sa dove andremo a finire[194]? - . [291]
Il Signore consolava così Doli Bosco afflitto allora da gravissimi dispiaceri, come ben sanno i lettori. Della sua gioia ci è vivo testimonio la seguente lettera a Don Costamagna.
Ringraziamo Dio. La tua missione andò bene; non t'incolse disgrazia.
In altra tua scrivimi minutamente l'accoglienza, abitazione, vesti, parole dei cacichi coi quali ti sei trattenuto.
Ora tratta seriamente con D. Bodratto e coll'Arcivescovo l'apertura di una casa centrale di suore e di Salesiani a Patagones. Non è egualmente necessaria una al Carrhué? Se occorre io mi occuperò pel personale e tutti insieme ci occuperemo dei mezzi materiali.
La mia vista va assai bene; sia ringraziato il Signore. Fa un carissimo saluto a D. Daniele, D. Vespignani, D. Rabagliati, a tutti gli altri confratelli ed alunni. Hai notizie del Sig. Gazzolo? Mons. Espinoza non ha sofferto?
Le tue lettere sono stampate e lette. da ogni parte. Il mio caro D. Allavena che fa, come sta? Con un appetito indescrivibile! Se ne scrivi una sul Rio Negro, altra sul Rio Colorado saranno pur lette con gran piacere.
Dio ti benedica, o sempre caro D. Costamagna; faccia Dio che ci possiamo amare, aiutare colle preghiere in terra, per trovarci poi un giorno tutti raccolti con Gesù in cielo.
Questo autunno abbiamo fatto una spedizione di cera a Buenos Aires. Si desidera sapere se è pervenuta e se, pel prezzo, conviene continuare tali spedizioni.
La grazia di N. S. G. C. sia sempre con noi. Amen.
Don Costamagna dinanzi a simile autografo del suo buon Padre andò in visibilio e diede, rispondendo, libero corso agli affetti del suo cuore. “Lei si è degnato mandarmi una letterina tutta di suo pugno. Una lettera di Don Bosco in questi tempi è per noi poveri suoi figli Salesiani Americani una cosa che fa epoca. Ah! chi può immaginare ciò che si sente in cuore al vedere i caratteri del nostro carissimo Padre? Certamente elle più grande giubilo non provava Timoteo quando riceveva lettere di San Paolo, suo diletto Padre in [292] Gesù Cristo. Si figuri, o caro Don Bosco! Quando noi leggiamo nel Bollettino Salesiano gli esordi della Congregazione Salesiana e le prime gesta del nostro Patriarca[195], ci vien da piangere in pensando che egli vive tuttora, e elle noi pure siamo suoi figli! Or che non sarà il ricevere una stia lettera, vederne i caratteri e udirlo come parlare al nostro Cuore con quello stesso affetto, con cui un giorno ci rubava al mondo senza che neppure ce ne addassimo, e ci chiudeva nella eletta Vigna Salesiana a lavorare solo pel Signore?” Siccome poi Don Bosco gli aveva chiesto ulteriori notizie degli Indi, Don Costamagna per il momento se la sbrigava inviandogli non una relazione, ma una collezione di gruppi fotografici, dove si vedevano gli Indi da lui e da monsignor Espinoza istruiti e battezzati là sulle sponde del Rio Negro. Una chiosa sommaria illustrava i particolari che ne avevano d'uopo[196]. L'anno seguente un documento ufficiale[197] precisava essersi celebrati nel corso di quella missione duecento ventitre battesimi di fanciulli appartenenti a famiglie indigene e cristiane e centodue di adulti indigeni.
Il cardinal Desprez, Arcivescovo di Tolosa, esaminava un giorno con vivo interesse nella figura del globo terraqueo posta sul suo scrittoio le varie regioni del mondo, pensando a quanto la Chiesa aveva fatto per evangelizzarle. Fermatosi sulla Patagonia e sulla Terra del Fuoco, rifletteva con dolore come quelle parti estreme del nuovo continente fossero state poco favorite; poichè missionari in piccolo numero avevano visitate e infelicemente le plaghe patagoniche e nessuno era ancora penetrato nella Terra del Fuoco. Di ciò si rammaricava, quando, arrivatogli il Bollettino francese, vi lesse che i Salesiani intraprende vano quelle missioni. Tutto giubilante [293] esclamò: - Come sono contento che sia toccato a Don Bosco il compiere materialmente la grande profezia: In omnem terram exivit sonus eorum et in fines orbis terrae verba eorum! - Così alcuni anni dopo lo stesso Cardinale a Don Bosco, in presenza di Don Albera.
Un'altra bella letterina Don Bosco indirizzò il mese appresso a Don Tomatis, al quale di recente era stata affidata la direzione del collegio di S. Nicolás. Il primo Direttore Don Fagnano, ammalatosi gravemente di tifo e con ricaduta, aveva dovuto trasferirsi per la convalescenza a Buenos Aires, donde, conte vedremo, non tornò più al suo collegio, ma partì per le Missioni della Patagonia.
Sono sempre stato a giorno delle cose del collegio dì S. Nicolas; presentemente pare voglia correre novella fase sotto al tuo ducato. Bene sia. Animo. Noi poniamo in te piena fiducia e speranza. Ti noto qui alcuni degli avvisi che do sempre ai Direttori e procura di valertene.
I) Abbi grati cura della tua sanità e di quella de' tuoi sudditi; ma fa in modo elle niuno lavori troppo e non istia in ozio.
2) Procura di precedere gli altri nella pietà e nell'osservanza delle nostre regole; e adoperati affinchè. siano dagli altri osservate, specialmente la meditazione, la visita al SS. Sacramento, la Confessione settimanale, la Messa ben celebrata, e pei non preti la frequente comunione.
3) Eroismo nel sopportare le debolezze altrui.
4) Agli allievi molta benevolenza, molta comodità e libertà di confessarsi.
Dio ti benedica, o caro D. Tomatis, e con te benedica tutti gli altri nostri confratelli, figli, l'amico Ceccarelli, cui debbo scrivere e a tutti vi conceda sanità e grazia di una santa vita. A tutti un cordialissimo saluto.
Prega per me, che ti sarò sempre in G. C.
P. S. Da questo scritto argomenterai che gli occhi miei vanno assai meglio. [294] Nelle prime righe è evidente l'allusione a un decadimento di quel collegio. Infatti gli alunni erano diminuiti. Causa precipua di quella diminuzione si giudicò essere stato l'arrivo colà dei parenti del Direttore, che erano poveri e comparivano tali; onde si prese a sussurrare che anche il Direttore, al par di tanti altri, fosse andato da quelle parti per far quattrini e arricchire i suoi; il qual sospetto, al dire di Don Cagliero, bastava laggiù, dall'inconscia un prete non potesse più conchiudere niente di buono. Appena è necessario aggiungere che il Direttore agì con la più schietta semplicità e nell'interesse stesso della casa, onde avere cioè persone fidate per lavori di vario genere, ma a questo mondo la rettitudine non salva chi non fa le cose coli una certa dose di prudenza. L'anno dopo il collegio ripigliò vita, mentre Don Fagnano spiegava la sua attività in un campo, dove egli solo poteva operare con tanta efficacia.
Prima che l'anno finisse, Don Bosco volle che tutti i suoi fossero messi a parte della propria letizia per il dischiudersi della missione patagonica ai Salesiani e nel medesimo tempo fece appello alla comune solidarietà, affinchè nulla mancasse al buon cominciamento dell'impresa. Don Rua, incaricato di rendersi interprete di questi sentimenti del Servo di Dio, scrisse il 18 dicembre ai direttori delle Case e per il loro tramite ai confratelli e ai giovani: “Le porte della Patagonia sono aperte ai Salesiani [...]; il Signore vuole a noi affidare quella importante missione, come tante circostanze ci fanno chiaramente conoscere: le ultime lettere arrivate dall'America ci annunziano che a Patagónes e nelle colonie di quelle parti vi è grande aspettazione dei Salesiani. Come si vede, ben si può dire ciò che diceva il nostro Divin Salvatore, che già la messe biondeggia, e noli aspetta che il coltivatore che vada a raccoglierla. Ma qui appunto incontriamo la difficoltà, trovare il personale, stante le molte imprese che già abbiam tra mano. Converrà pertanto mettere in pratica il consiglio che lo stesso nostro Divin Salvatore dava agli Apostoli: Rogate ergo Dominum messis, ut mittat operarios in messem [295] suam. Perciò il nostro caro Superiore Don Bosco ordina che appena ricevuta la presente, si cominci anche in codesta casa a recitare ogni giorno un Pater, Ave e Gloria da continuarsi sino alla fine di gennaio, a fine di ottenere che il Signore si degni farei conoscere chi fra i Salesiani Egli destina a quella missione, e voglia ispirare a tali Confratelli i sentimenti di zelo, di carità e di coraggio necessarii a sì bella impresa, ed intanto compiacciasi pure di provvederci altro personale da supplire abbondantemente quelli elle devono colà recarsi”.
Nel capo d'anno poi Don Bosco partecipò la lieta notizia ai Cooperatori e alle Cooperatrici nella sua circolare già citata. “Ma il campo più glorioso, scriveva, che in questi momenti la divina Provvidenza presenta alla vostra carità, è la Patagonia. In quelle ultime regioni del globo finora non poterono penetrare gli Operai del Vangelo per annunziare la fede di Gesù Cristo. Ora pare che sia giunto il tempo di misericordia per quei selvaggi. Monsignor Aneyros, Arcivescovo di Buenos Aires, d'accordo col Governo Argentino, ci invita formalmente a prendere cura dei Patagoni, e io pieno di fiducia in Dio e nella vostra carità ho accettata l'ardua impresa. Si fecero già le prime prove, e ben cinquecento di loro furono istruiti nella fede, rigenerati alla grazia col santo battesimo, ed ora fanno parte del gregge di Gesù Cristo. Dalle rive del Rio Negro movendo al sud di quei vastissimi deserti s'incontrano sei colonie a guisa di paesi a parecchie giornate di distanza l'un dall'altro, dove sono già cominciate le relazioni commerciali e principii di agricoltura. Nel mese di marzo i Salesiani, e nel medesimo tempo o poco più tardi le nostre Suore andranno a stabilire case e scuole in quei paesi. Ivi sarà il centro, donde speriamo coll'aiuto del Signore partiranno in appresso gli Operai Evangelici allo scopo di penetrare nei vasti deserti e nelle sconosciute regioni della Patagonia”. Circostanze impreviste, come diremo a suo luogo, obbligarono l'Ispettore Don Bodrato ad anticipare la partenza dei Missionari per alla volta di Patagónes. [296] Menzionando poc'anzi i dispiaceri di Don Bosco temperatigli dalle confortanti notizie patagoniche, non intendevamo di riferirci soltanto alla chiusura delle scuole, alla controversia di Chieri e alla questione dell'Ebrea, ma anche a una guerra mossagli con l'accusa di aver procurato una diserzione, mandando in America un giovane per sottrarlo agli obblighi di leva. Con i missionari della quarta spedizione era partito nel 1878 il chierico Michele Foglino, che giusto allora compiva i suoi vent'anni, essendo nato nel dicembre del 1858, e quale renitente alla leva fu condannato in contumacia a tiri anno di reclusione militare. Un tal Atanasio Torello, nativo come il Foglino di Nizza Monferrato e studente al l'Università di Torino, elle senza quella fuga sarebbe stato esonerato dal servizio militare, si fece accusatore di Don Bosco imputandogli d'aver costretto il Foglino a espatriare, o meglio, non accusatore, ma piuttosto strumento di accusa, al servizio di certa stampa. La prima pietra fu lanciata dal rabbioso anticlericale avvocato Giustina, che nel suo settimanale[198] con un articolo intitolato Sempre a Don Bosco insinuò la cosa e minacciò di far tradurre il Servo di Dio innanzi ai tribunali. Nel numero del seguente sabbato[199] la minaccia venne ripetuta in questa forma: “Nel numero venturo cominceremo noi ad informare l'autorità stilla fuga del Foglino dall'Italia e come esso si trovi attualmente in un collegio dell'abate Giovanni Bosco. Dimostreremo ancora con una lettera autentica tante altre coserelle che in nome della pubblica moralità siamo in obbligo di dire”. Gli rispose per le rime il cattolico Corriere di Torino[200], che con trasparente allusione alla recente campagna giudaica, mossa come questa da Nizza, disse il giornale avversario “periodico di Torino che vedeva solamente la luce del sabbato” e proclamò Don Bosco “troppo grande per temere da simili attacchi e per aver bisogno di difesa”. [297]
L’ebdomadario sabbatino mantenne la parola. Infatti nel suo numero del primo novembre formulò l'atto di accusa, invitando il procuratore del Re ad appurare i fatti; ma s'introduceva con un esordio extra rem, dove il difetto di serenità è compensato per noi dall'inconscia rivelazione di maneggi occulti, che ci spiegano questa e altre cose simili. Diceva così: “Nizza Monferrato, se nessuno ancora nol sa, è l’oppidum, la fortezza dell'esercito di Don Bosco. Là preti, là chierici, là monache, là figliuole numerose di famiglia e tutti credenti nella miracolosa potenza dell'abbate Bosco, al quale si dà in anticipazione il titolo di santo... Don Bosco è spalleggiato poi dai nobili che gli fanno corona. E chi comanda è una certa signora contessa, la quale di Don Bosco è l'occhio destro. C'è la gioventù che vorrebbe scuotere questo giogo ed innalzare la bandiera della rivolta; ma, ahimè, essa non è in forze sufficienti per opporsi alla falange dei bacchettoni che puntellano per bene il partito clericale”. Seguiva una divagazione sull’affare della Bedarída; dopo di che narrava: “Foglino tessitore, figlio di povera gente, veniva ricevuto dall'abate Giovanni Bosco in uno dei suoi collegi. Colà imbevuto nei principi del cattolicismo, abbuiato da tutte le superstizioni possibili, il Foglino finì per essere, come si suol dire, un Salesiano. Viene il momento della leva. E Foglino si reca a Nizza Monferrato per l'estrazione del numero. Il suo numero è compreso tra quelli dichiarati abili al servizio militare. E Foglino deve presentarsi perchè è soldato. All'annunzio di tale avvenimento quello che nella congrega salesiana si sia detto o fatto, certamente in modo positivo non si sa. Si sa un fatto, sulla verità del quale non manca la testimonianza giurata. Nel tempo in cui il Foglinosi trovava in Nizza Monferrato gli fecero sollecitazioni perchè venisse a Torino da Don Bosco. E il Foglino dicea: I veui nen andè a Turin, perché a veulo feme andé an America[201]. Si sa che Don [298] Bosco in America ha istituti di propaganda fede e di apostoliche missioni. Si sa che i missionari oggi non aumentano e che difficilmente si trova chi per la propagazione della fede se ne voglia andare all'altro emisfero. Don Bosco ha bisogno di giovani... e il resto pensatelo voi, o signori. Mettete insieme i due fatti, deducetene le conseguenze e avrete il primo barlume di verità”.
Il primo barlume di verità è invece un altro. Il Foglino venne all'Oratorio nel novembre del 1871; le “sollecitazioni” perchè venisse a Torino erano gl'inviti fattigli durante le vacanze del 1875 a iscriversi nella Società insieme con tanti suoi condiscepoli, il che ci dimostra in quale buon concetto egli fosse tenuto. Nell'Oratorio quell'anno si era fatto un gran parlare di Missioni, perchè fervevano i preparativi per la prima spedizione. Incerto se dovesse vestirsi chierico a Torino o nel seminario di Acqui, il giovane proferì le parole citate, che hanno soltanto il valore che potevano avere allora. Un secondo barlume è che allora come oggi nessuno sì mandava in terre lontane, senza che egli ne facesse formale domanda per iscritto. E un terzo barlume sia che dal 1875 al 1878 corsero tre anni, nei quali il Foglino ebbe agio di vedere, pensare e decidere. Cum essem parvulus, loquebar ut parvulus, sapiebam ut parvulus, cogitabam ut parvulus[202]. La marioleria però del giornale appare in questo, che con la frase ambigua “nel tempo in cui il Foglino si trovava in Nizza Monferrato” si dava a intendere ai lettori che il Foglino avesse parlato così dopo l'estrazione del numero, cioè dopo tre anni di chiericato e quando aveva già emesso i voti religiosi.
Il giornale dell'avvocato Scala[203] replicò il dì appresso con un trafiletto umoristico. La conversazione giornalistica fu ripresa il 22 e 23 novembre. La Cronaca menava il cari per [299] l'aia; ma dal suo divagare due punti emergono, utili non tanto alla cronaca del momento quanto alla storia. Il primo è un chiarimento che sempre meglio discopre donde provenisse la guerra e... il nerbo della guerra. “Il Foglino, si leggeva, fuggendo ha travolto nella rovina un bravo nostro studente il signor Torello Atanasio, il quale deve troncare a mezzo i suoi Studi per coprire il posto lasciato vuoto dal fuggiasco Foglino”. E dopo una serie d'interrogazioni retoriche alle autorità perchè non si movevano, l'articolista rizzava un paravento che nascondesse agli occhi dei lettori il vero movente di tanto ardore bellicoso. “Nessuno più di noi, vi si asseriva, venera in Don Bosco l'uomo filantropo, ma nessuno più di noi ama il rispetto all'uguaglianza dei cittadini innanzi alla legge. Per la seconda sacrifichiamo volentieri ogni simpatia, ogni rispetto, ogni amicizia, persino gli affetti della famiglia”.
A questo catoneggiare l'antagonista ebbe buon gioco a vibrare un colpo maestro. La Cronaca in un passato articolo aveva preso l'atteggiamento di chi si accingesse ad abbattere un drago che non sarebbe tardato a comparire. Il Corriere del 23 novembre scriveva: “Aspettavamo con viva curiosità il famoso drago della Cronaca dei Tribunali. Ahimè! che delusione! Esso ha semplicemente la proporzione di un pipistrello; per quanto esso cerchi di gonfiarsi resta pur sempre un pipistrello. Veda, poveretto, di non far la fine della rana di Esopo! Ci si dice poi che questo pipistrello conosca Don Bosco, perchè... ne ha assaggiato il pane. Certamente fra tanti augellini a cui Don Bosco ha fornito e fornisce nido e pane, potè anche trovarsi qualche pipistrello... che si crede un drago. Ala Don Bosco non lascerà certo la cura affettuosa degli augelletti per occuparsi dei pipistrelli”.
Il Direttore della Cronaca aveva infatti frequentato come alunno interno il ginnasio di Lanzo e di Varazze. Travolto dalla politica e caduto in balìa delle sette, fece l'iconoclasta fin verso il tramonto della sua vita. Ferito dunque dall'articoletto [300] del Corriere, tentò rimediarvi con una lettera della quale ai termini di legge impose la pubblicazione, e in cui diceva di essere stato bensì allievo di Don Bosco negli anzidetti collegi “per volontà dei genitori”, ma di avervi anche pagato “l'importo della pensione di prima classe”. Veramente un po' di gratitudine sarebbe stata una paga assai migliore; ma anche di quest'amarezza permise la Provvidenza che fosse abbeverato Don Bosco, di patire cioè simili vessazioni per opera d'un suo ex-allievo[204]. E questo serva di conforto agli educatori, che non sanno darsi pace per l'ingratitudine di qualche loro beneficato. Neppure a Don Bosco fu risparmiata siffatta tribolazione.
La stampa fece silenzio per tre mesi, cioè fino al 28 di febbraio del 1880, nel qual giorno con aria di trionfo la Cronaca notificava ai lettori quanto segue: “Don Bosco in tribunale. I lettori ricorderanno ancora il fatto di quel certo soldato Foglino di Nizza Monferrato, il quale, fuggito nel tempo della leva militare dall'Alta Italia, oggi si trova a Buenos Aires prete apostolico di un noto prete torinese. I lettori si ricorderanno la polemica che la Cronaca a tal riguardo impegnò col Corriere di Torino. Ora l'autorità giudiziaria sta procedendo contro l'abate Giovanni Bosco per l'accusa di aver agevolato e anzi procurato al Foglino i mezzi dell'avvenuta diserzione. Ne riparleremo a suo tempo”. Con tanta voglia di riparlarne noli ne fiatò più fino al 12 di giugno. Segno evidente che le altisonanti denunzie non erano prese sul serio da nessuno.
Dal 12 giugno al io luglio fra i due giornali in lizza vi fu uno scambio di botte e risposte, donde due asserzioni soltanto vale la pena di raccogliere: una che Don Bosco fu prosciolto [301] “per deficienza di prove”, non quindi per inesistenza di reato, il che è poco meno di una condanna, e l'altra che “ciò avvenne perchè non tutti i testimoni, che avrebbero potuto far luce sulla causa, furono escussi”.
Riguardo ai testimoni non escussi, ci riesce doppiamente preziosa una notizia largitaci dalla gazzetta[205]: “Noi fummo interrogati solo in via di schiarimento, ma abbiam fatto constatare che altri testi avrebbero potuto meglio illuminare la coscienza del giudice”. Qui adunque si accusa con estrema leggerezza l'autorità giudiziaria di aver negletto il dover suo in cosa abbastanza grave del suo ufficio; ma più che tutto è da credere che il signor Giustina, messo finalmente in condizione di sfoderare il materiale probatorio, di cui si vantava in possesso, non abbia lesinato il proprio contributo all'illuminamento della giustizia. Se non che si dev'essere rinnovato il caso de partitriunt montes, exit ridiculus mus; infatti gli elementi da lui prodotti e illustrati con la sua eloquenza, non fecero nè caldo nè freddo a chi ne riceveva la deposizione.
- Ma più inescusabile era l'affermare che Don Bosco fosse stato prosciolto per difetto di prove. Questa maniera di esprimersi veniva a dire che c'era stato almen l'inizio di un procedimento penale a carico di Don Bosco, e così la intesero certamente i lettori, tanto è preciso il valore della formola giuridica adoperata. Ora noi abbiamo potuto a nostro bell'agio fare diligenti ricerche negli archivi della pretura di Nizza e mentre non riscontrammo indizio di lacune nei documenti, non c'imbattemmo nemmeno in una lievissima traccia che si fosse iniziato processo di sorta. Sappiamo invece da altra fonte che si fecero indagini di polizia, quali si sogliono esperire allorchè si diffondono sinistre voci di reati occulti; ma dopo gl'interrogatorii del padre e della madre con le consuete minacce a scopo d'intimidazione, calò il sipario, et hic finis[206]. Certo non poteva garbare all'autore o [302] agli autori di tanto fracasso che tutto sì risolvesse così in una bolla di sapone; ci spieghiamo quindi la voglia di occultare lo smacco, cambiando magari le carte in mano.
Una cosa dava colore di verità alle affermazioni del Giustina, ed era il leggere ne' suoi articoli certe particolarità, che appalesavano in lui una conoscenza precisa della vita intima che si svolgeva fra le mura dell'Oratorio. Ebbene, la storia di questo episodio non sarebbe completa, se non aggiungessimo una parola sopra un suo informatore. Dimorava da tre anni nell'Oratorio un tal Ferrero, fisico, naturalista e fotografo sempre occupato in esperimenti elle andavano a vuoto, ma che costavano fior di quattrini ai Superiori. L'uomo finalmente destò sospetti circa l'essere suo e venne messo alla porta, ed allora si scoperse com'egli fosse affigliato alla massoneria e in un grado avanzato. Ecco l'informatore del giornalista. Arcades ambo!
Sarebbe ingenuità porre il quesito, se Don Bosco sapesse o no che il Foglino disertava. Che la determinazione eroica di preferire l'esilio al pericolo di perdere la vocazione provenisse interamente dal chierico, è fuori d'ogni dubbio; che Don Bosco lasciasse liberamente fare, è non meno certo. Ma chi noti sa qual sorta di legge fosse quella che condannava alla caserma gli alunni del santuario? Il fatto è che a sessant'anni di distanza quella legge è stata da chi governa l'Italia, coraggiosamente riveduta e corretta di buon accordo con l'Autorità ecclesiastica, che l'aveva colpita di condanna.
Se noi ci siamo indugiati alquanto intorno a questo episodio, buone ragioni vi ci hanno indotti. Bisognava anzitutto liberare la memoria di Don Bosco dall'odioso sospetto di violenza morale a danno di un suo suddito. Oltre a ciò, appartiene alla biografia di Don Bosco tutto che gli fu causa di sofferenze. Ma c'è dell'altro ancora. Insegnanti non patentati, violazione della libertà di coscienza, disprezzo di una legge dello Stato non furono che pretesti settari per mantener viva la guerra contro Don Bosco e contro ciò che [303] un tal nome rappresentava. Testimonianze sfuggite agli aggressori nel furor della mischia ne sono già state da noi riferite in parecchi luoghi; qui dobbiamo far tesoro ancor di due,
Il Giustina dirigeva pure un periodico bisettimanale, torinese, illustrato. il Romanziere popolare, nel cui numero dell'II gennaio 1880 pubblicò di Don Bosco un profilo pieno di sciocchezze e una vignetta che malamente lo rappresentava. Per noi il punto notevole è questo: “Giovanili Bosco, fedele al pontefice ne seguì le orme politiche e tutti gli sforzi intese onde allevare una numerosa prole di preti, un esercito d'antiliberali, di servi della Chiesa, e di nemici d'Italia. Noli calpestò la carità, è vero, ma la fraintese e la fece servire di strumento a mire di partito. Don Bosco divenuto miracolosamente grande, prodigiosamente potente, è l'occhio destro del Vaticano, è l'ispiratore del partito cattolico, l'educatore dei novelli liberticidi fedeli al motto: Viva il Papa Re! Viva Roma papalina! Da ogni onesto liberale non si può quindi disapprovare il Governo allorquando cerca, per quanto può, di restringere la cerchia d'azione di questo uomo, che rifiutato più volte il cappello cardinalizio, sarebbe, se l'avesse voluto, per l'ingegno e per attività, uno dei più famosi ed astuti padri generali dell'ordine di Gesù. Egli ama meglio, non per sete di lucro, non per gloria di partito, stare in mezzo alla gioventù e instillare negli animi delle masse i principii reazionarii del catechismo politico della Chiesa, levigato e fatto bello nell'apparenza dall'oro della carità”. Parlando poi della gioventù da lui educata, dice che essa “non conosce la patria, non rispetta nè il re nè le leggi, fugge per non servire il proprio paese coll'armi, s'insacca in una sottana da prete per congiurare contro la libertà, contro fa grandezza di Roma, capitale d'Italia”. Con maggior violenza si scagliò contro di lui nella sua Cronaca del 10 luglio: “Nessuno più di noi riconosce i benefizii dell'uomo utile al proprio paese. Ma quando quest'uomo che fa tanti benefizi innesta nel cuore [304] della gioventù quei prinicipii che sono il puntello del papismo, sono le bombe Orsini che dovrebbero un giorno mandare all'aria il santo tempio delle nostre libertà, oh allora scordando i benefizii non abbiamo innanzi che un nemico, il quale della beneficenza si fa scudo per combattere pel papa, per distruggere quello che con tanti sacrifizi i padri nostri hanno cementato insieme”. Rettorica ampollosa di quei tempi, la quale però ci svela che cosa si pensava e si ordiva in conventicole di politicanti, dove si covavano i destini di un'Italia senza Dio.
Il Beato Don Bosco poteva benissimo far sue le parole scritte da San Paolo, quando gli si presentò una bella opportunità di guadagnar anime a Gesù Cristo in Efeso: Ostium mihi apertum est magnum el evidens, et adversarii multi[207]. Mentre il Cielo gli schiudeva la porta della Patagonia, mostratagli già nei “sogni” come suo campo di conquiste evangeliche, l'inferno gli suscitava contro ostilità d'ogni fatta per ridurlo all'impotenza. Ma egli, ad esempio dell'Apostolo, non che perdersi d'animo, considerava quale segno dell'essere stilla buona via il vedersi così avversato.
PROPOSTE di aprire nuove case ne pervennero a Don Bosco in un numero assai maggiore che non siano quelle di cui ci accingiamo a parlare; ma le vicende, alle quali il materiale archivistico andò soggetto, causarono perdite di documenti e poi in molti casi vere pratiche non furono intavolate. Alla luce quindi delle testimonianze rimasteci verremo studiando anche in questa parte l'attività di Don Bosco durante il travaglioso 1879. Alle case per cui si trattò, ma non si pattuì, faranno seguito alcune, che le circostanze consigliarono di chiudere per impiegare più utilmente altrove il personale.
Premettiamo un'osservazione di indole generale, che bisognerà tener presente per non errare nei giudizi sulla condotta del Beato. Nelle trattative poste a dormire si possono per lo più distinguere tre momenti. In un primo tempo Don Bosco fa buon viso alle proposte con verace intenzione di esaudire, se non sorgeranno ostacoli insormontabili; onde i proponenti aprono il cuore alla speranza. Succedono poi le pratiche formali, condotte dall'altra parte con entusiasmo e dalla parte di Don Bosco senza precipitazione; ma nel corso di esse emergono difficoltà o volutamente occultate o non bene avvertite dagli interessati. Infine si arriva al punto più delicato, quando bisogna scrivere la dura parola: Impossibile! [306] D'ordinario le difficoltà più serie sono di tal natura che la convenienza vieta di dir la verità nuda e cruda; quindi allora si accampa la mancanza dì personale a motivo di circostanze sopraggiunte o si adducono altre ragioni meno evidenti: perciò imbarazzo di qua, e delusione, sconforto, amarezza di là. L'arte dì comporre i dissapori che n'erano l'effetto, stava nelle buone maniere usate o ispirate da Don Bosco.
Cominceremo da Modena, la prima città dove i Cooperatori fecero da sè nel preparare e tenere una conferenza salesiana[208]. In un appello diramato nel 1894 un Comitato modenese promotore delle Opere di Don Bosco diceva che da tempo la fondazione di un istituto salesiano a Modena era stato pio desiderio di tutti i buoni. Oh sì, da tempo assai più remoto che non si credessero quei buoni amici. La prima idea infatti risaliva al 21 marzo 1875. Don Bosco, ospite del conte Tarabini[209], udito dell'estremo bisogno elle si sentiva colà di aprire un oratorio festivo per porre un argine alla immoralità dei figli del popolo, aveva dichiarato che non ricuserebbe di assistere anche personalmente quei cittadini, quando si fosse potuto mettere mano ad un'opera così benefica. I mezzi economici purtroppo scarseggiavano; ma la vista del male che progrediva nella classe umile della società, indusse il conte nel gennaio del 1877 a interpellare il Beato, se e come stimasse opportuno d'intraprendere qualche cosa[210]. La risposta fu favorevole, ma dilatoria. Nel 1879, anno della [307] conferenza, alcuni zelanti Cooperatori del clero e del laicato dedicavano le loro cure a un oratorio festivo, governandolo secondo il metodo di Don Bosco e facendo voti di poterlo rimettere quanto prima ai Salesiani. Ma il Beato li incoraggiò a proseguire, avendo egli allora fin troppa carne al fuoco.
Per un altro affare lo assediava di preghiere l'Arcivescovo di Modena monsignor Giuseppe Guidelli. Egli avrebbe voluto che il Servo di Dio lo aiutasse a ripristinare il collegio vescovile o piccolo seminario di Finale Emilia, chiuso da sette anni. Don Bosco si disse disposto a servirlo, ma chiese tempo. Monsignore nel 1879 incalzava con lettere sempre più pressanti, mostrando che il bisogno urgeva; perciò Don Bosco, presagendo di non poterlo contentare tanto presto, gli fece rispondere in giugno che le vessazioni governative gl'impedivano di appagarne con la voluta sollecitudine il buon desiderio. Solo nel 1913, sedici anni dopo l'apertura dell'istituto San Giuseppe a Modena, doveva il secondo successore di Don Bosco mandar i Salesiani a dirigere il piccolo seminario di Finale, intitolandolo a Maria Ausiliatrice.
Nel 1879 Don Bosco ricevette dalla Sardegna il primo invito per una fondazione. Il suo nome era già assai noto nell'isola, specialmente per i suoi libri, per le Letture Cattoliche e da ultimo per il Bollettino Salesiano. Ce lo prova il fatto che da Ales cinque studenti lo pregarono tutti insieme di inscriverli fra i Cooperatori Salesiani, promettendo di compiere qualsiasi opera, spirituale venisse loro comandata e di offrire alla fine dell'anno il loro obolo, frutto di minuti risparmi su gli scarsi mezzi di cui disponevano; pregavano poi istantemente che fosse mandato a ciascuno di essi l'organo dell'associazione[211]. Il suggerimento di chiamare Don Bosco [308] in Sardegna fu dato da un padre Porqueddu da Genoni, gesuita, che propagava con zelo la divozione a Maria Ausiliatrice e, trovando giovanotti di buona volontà, li raccomandava a Don Bosco, il quale ne ricevette parecchi o come artigiani o come Figli di Maria, Don Atzeni fra gli altri. Preoccupato egli della crescente scarsità di vocazioni ecclesiastiche, incitava da parecchi anni i Vescovi a far sì che Don Bosco aprisse uno o più collegi nell'isola, aiutandolo nella bisogna; ma i poveri Vescovi, benchè pieni di buona volontà, si dibattevano in tali strettezze, che si sentivano cader l'animo dinanzi a un'impresa della quale tanti purtroppo e anche ecclesiastici non conoscevano tutta l'importanza. Veduti inutili i suoi sforzi da quel lato, che pure gli sembrava il più proprio a riuscire, si rivolse ai secolari, sicuro che col tempo sarebbero andati appresso anche gli ecclesiastici; poichè fra questi ve n'erano animati da buone intenzioni e forniti di mezzi, che avrebbero impiegati volentieri in opera così santa.
Aveva appena lanciata l'idea, che trovò subito un signore, il quale prometteva molto senza desiderare altro che conoscere le richieste di Don Bosco per la fondazione di un collegio o piccolo seminario od oratorio, in cui si desse buona educazione ai giovani, facendo loro imparare fin da piccoli la vita di sacrifizio “cosa qui quasi ignota”, scriveva il Padre, sicchè facilmente con la divina grazia s'accendesse loro in cuore la viva brama di consacrarsi al Signore e di esserne degni ministri. Egli dunque aspettava da Don Bosco due linee per sapere come regolarsi. Don Bosco rimise la lettera a Don Cagliero, scrivendovi sopra: “E' bene parlarne presto in Capitolò”. Si deliberò di rispondergli che per il momento era impossibile, ma che intanto si adoperasse a provvedere i mezzi necessari; i quali mezzi essere “una casa e un tozzo di pane”. Replicò il Padre, pregando che gli si spiegasse più chiaramente il tozzo di pane. La seconda. risposta non fu guari incoraggiante rispetto all'esecuzione del disegno Sembra [309] però che quel religioso non fosse uomo da fermarsi a mezza via, tanto più in cose dei servizio di Dio. Infatti riuscì a trovare la casa: un collegio lasciato dai padri Scolopi e passato per diritto al municipio di Isili che, avendolo dato con questo patto che fosse luogo di educazione e d'istruzione, aveva rivendicato edifizio e reddito dopo la partenza dei religiosi. Quel municipio dunque offriva a Don Bosco il fabbricato con un'entrata di duemila lire, più qualche altra risorsa. “Non mi dica, scriveva il Padre a Don Bosco[212], che non ha soggetti: cerchi, frughi, rovisti, accetti e mandi ad ogni costo. Oh quanto bene! oh che bella Patagonia!”.
L'offerta era stata fatta soltanto in via officiosa. In seno al consiglio comunale la proposta venne presentata da un consigliere Giovanni Zedda per incarico del consigliere e deputato d'Isili Pietro Ghiani Mameli, abboccatosi col Beato probabilmente a Roma, e informò i colleghi come qualmente “certo sacerdote Bosco continentale avrebbe divisato l'impianto in Sardegna di un collegio per l'insegnamento ginnasiale, tecnico e, se si voleva, elementare, purchè dal municipio si provvedesse il locale ed un assegno annuo di lire quattromila”. Il sindaco Antioco Porceddu appoggiò la proposta, conchiudendo con queste parole: “Basta sapere essere un progetto del sacerdote Bosco che ben conosco, per accettarlo”. Il Consiglio comunale dopo breve discussione, accogliendo favorevolmente e di buon grado in massima la proposta, deliberò ad unanimità che si addivenisse alle opportune trattative. La deputazione provinciale tre settimane dopo approvò[213]. In una lettera del 24 maggio il padre gesuita ribadiva: “Per carità, D. Bosco mio, faccia di tutto perchè questa cosa riesca; abbiamo più bisogno dei poveri Patagoni, e non vi è in Sardegna un Collegio nè un seminario, in cui possiamo far educare un giovane con qualche fondata speranza di buon riuscimento”. [310] Il Beato prese in considerazione la cosa, riservandosi di attendere fino a che favorevoli circostanze gli permettessero di agire. Ad Isili si riposò su questa promessa per cinque mesi; poi il sindaco rinnovò l'istanza. Don Bosco il 21 novembre a mezzo di Don Durando, incaricato delle pratiche per le accettazioni di case, ringraziò i signori del consiglio per tanti segni di fiducia; disse che ben volentieri si sarebbe già venuti all'effetto, se l'estrema penuria di personale insegnante l'avesse consentito; sperare tuttavia che ciò che non poteva farsi allora, si sarebbe condotto a buon termine più tardi, e tanto per principiare gli si facesse conoscere la distanza della stazione ferroviaria più vicina a Isili, la capacità dello stabile e se vi fosse cortile e giardino annesso. Il sindaco diede le informazioni richieste.
Oramai l'anno scolastico aveva ripreso il suo corso, nè vi era premura di spingere avanti il negozio. Ma il 22 aprile, non vedendo giungere altra comunicazione, il sindaco pregò caldamente Don Bosco a nome del consiglio, che mandasse a Isili un suo rappresentante per osservare e trattare: il municipio si sarebbe sobbarcato all'indennità di viaggio. Trascorsero così due anni, nel qual tempo rinnovatasi la rappresentanza del comune, il nuovo sindaco Antonio Cicalò, riassunta la pratica, si rese interprete dei sentimenti di tutti i suoi amministrati, instando che si accelerasse l'apertura del desiderato collegio[214]. Ma il momento non era propizio; così noli si parlò più di Isili se non dopo la fondazione del collegio di Lanusei, capoluogo del circondario. Parrà che l'indecisione di Don Bosco, nonostante le mezze promesse, si sia protratta di soverchio; ma bisogna sapere che nel palazzo già degli Scolopi si erano installati gli uffici municipali e governativi, e ci si stava comodamente; ora non conveniva certo a Don Bosco aver l'aria di andar là a sloggiare quegli impiegati ed altri inquilini. [311]
Un voluminoso incartamento racchiude la documentazione completa di una pratica che riguarda Pisogne e va dal 1878 al 1886, culminando però nel 1879. É Pisogne una borgata della diocesi e provincia di Brescia, all'imboccatura della Valle Camonica, sulla riva orientale del lago d'Iseo. Esisteva colà un collegio fondato nel 1822 da un sacerdote Giacomo Mercanti, di cui portava il nome, e prosperato fino al 1865 con scuole elementari e ginnasiali. In seguito manchevolezze della direzione e rivolgimenti poli tipi l'avevano fatto decadere. Essendo l'Opera di Don Bosco anche da quelle parti già assai conosciuta e ammirata, il vescovo monsignor Giacomo Corna Pellegrini, nativo di Pisogne, portò il pensiero su di lui per rialzare le sorti del povero istituto. “In questa provincia di Brescia pur tanto vasta e religiosa, gli scriveva, non vi ha pur un collegio di grido, e che risponda ai bisogni del giorno. Un collegio sotto i di Lei auspici e direzione produrrà un gran bene”[215]. Don Bosco fece rispondere non essere possibile per quell'anno, ma sperarsi “per altro anno”.
L'istituto era costituito in ente morale e amministrato dal comune; perciò ne fu comunicata la notizia alla giunta, che l'accolse con riconoscenza e si mise con Don Bosco in diretta relazione, ritenendo senz'altro potersi fare sicuro affidamento sulle “eminenti qualità civili e morali”, che lo rendevano “illustre e benemerito davanti alla società”. Per prima cosa si voleva che il ginnasio venisse pareggiato, pur non ignorandosi che il voler rimettere in piedi l'istituto importerebbe non lieve sacrifizio; ma tutto si ripromettevano quei signori di ottenere “dalla nota filantropia” di Don Bosco[216]. Don Bosco ordinò di rispondere che il pareggiamento importava troppe spese; bastare allo scopo l'approvazione [312] dell'autorità scolastica e lo svolgimento dei programmi governativi.
Altre campane mandarono altro suono. Fu segnalato a Don Bosco il pericolo che egli, ingannato da false relazioni, andasse a cadere in “un vespaio di difficoltà, di spese e di disturbi”. Ulteriori comunicazioni della giunta municipale confermarono indiretta niente queste confidenze; si diceva infatti che, ammessa la massima della fondazione, faceva mestieri stabilirne i particolari, i quali sarebbero “molti e svariati”[217] e quindi malagevoli a concretarsi per via di corrispondenza epistolare. Laonde fu nominata una commissione di due membri, fra cui il fratello del Vescovo, con l'incarico di trattare personalmente e a viva voce. Da Rovato altri nuovi informatori, che avrebbero voluto una scuola professionale nel loro paese, dicevano corna di Pisogne, perchè luogo di febbri e covo di discordie, con un municipio responsabile della rovina del collegio Mercanti. Vi era poi anche la troppa vicinanza di un collegio a Lóvere, che obbligava a riflettere; anzi quella direzione, messa in allarme e temendo la concorrenza, spontaneamente si offriva, a fare del collegio Mercanti un suo istituto filiale. I due comuni, sebbene limitrofi, appartenevano a province diverse, dipendendo Lóvere da Bergamo. Infine l'ispettore scolastico, accampando informazioni pervenutegli da Torino, brigava d'accordo coi liberali del paese per mandar a vuoto il disegno; ardì perfino scrivere al municipio contro Don Bosco lettere diffamatorie, elle il sindaco sdegnò di lasciar leggere in consiglio.
Il 3 aprile Don Cagliero e Don Durando, reduci dal loro giro per l'Italia, si fermarono a Brescia, ospiti del Vescovo, nel cui palazzo ricevettero i due commissari. Si dissero fra l'altro noli favorevolmente prevenuti sulle condizioni igieniche locali, circostanza assai pregiudizievole all'incremento [313] dell'istituto, e dichiararono che per il prossimo anno scolastico, data la momentanea deficienza di personale insegnante a motivo di precedenti impegni, Don Bosco non poteva obbligarsi all'apertura del collegio di Pisogne. Udite le calorose insistenze del Vescovo e dei due commissari, non essendo eglino autorizzati a conchiudere, ma solo a trattare, si rimisero a quanto avrebbe deciso Don Bosco in base alla relazione che essi avrebbero fatta.
Il responso di Torino fu che, approvata in massima l'accettazione, non vi era per l'imminente anno scolastico la possibilità di procedere all'apertura. Allora il consiglio comunale, preso atto della relazione dei suoi commissari, deliberò che si domandasse a Don Bosco per il momento anche una persona sola, a cui affidare subito la direzione. Ma a Torino si credette meglio di soprassedere. Si venne poi elaborando un capitolato sulla base di quello conchiuso col municipio di Randazzo, che noi vedremo nel capo seguente. Si giunse così al 1881, quando una Seconda commissione delegata dalla giunta si recò a Torino per conferire con Don Bosco e con lui si stabilì che un Salesiano accompagnato da un tecnico sarebbesi portato a Pisogne per visitare l'edifizio, osservare le adiacenze e giudicare sul da farsi. La giunta si stimò in dovere di ringraziare Don Bosco e di attestargli la propria riconoscenza per il modo cortese e deferente, col quale erano stati accolti e trattati nell'Oratorio i suoi rappresentanti. Ma la visita non si fece. Le obiezioni sollevate sul contratto di Randazzo giustificarono il timore di serie difficoltà e di gravi incagli per l'avvenire. Perciò Don Bosco, trovandosi di passaggio a Firenze, diede ordine a Don Rua di scrivere che egli intendeva di riprendere la stia libertà, desistendo dalle, pratiche. Vi furono poi quattro nuovi tentativi dal 1892, al 1905, ma senza pro. E' vero che il collegio di Lóvere, essendo diventato laico, noti poteva più fare ombra; rimaneva però sempre l'eccessiva ingerenza del municipio, che avrebbe legato le mani al Direttore. [314]
A Roma sul principio dell'anno Don Bosco, visitato dal canonico Gerardo Procacci, parroco di sant'Ilario in Monterotondo, aveva promesso di mandare là da Magliano Don Daghero, per vedere un locale che si voleva affidare ai Salesiani, perchè vi tenessero le scuole elementari del comune e vi aprissero inoltre un ginnasio. I principi Boncompaghi, d'accordo con l'Eminentissimo Bilio Vescovo e con il municipio, sicuri anche di far cosa gradita a tanti padri dì famiglia, auspicavano l'arrivo dei figli di Don Bosco in mezzo a quella popolazione il principe padre amava dirsi grande amico del Servo di Dio. Don Daghero andò, vide e riferì: la sua relazione fu undequaque favorevole. Tosto il sindaco prese nelle sue mani l'affare, col proposito di licenziare i maestri laici, come ne aveva il diritto, e sostituirvi i religiosi; Ugo Boncompagni figlio, presidente di quel circolo della gioventù cattolica, si associò a lui nel pregare Don Bosco che non mettesse indugio[218].
Don Durando rispose a nome di lui che per allora non si poteva, ma dava buone speranze “per altro anno”. - Si rimandi pure ad altro tempo, fu. replicato; ma si stringano subito i nodi del contratto, anche perchè, approssimandosi le elezioni, si corre rischio di non avere più un consiglio comunale formato di elementi sani come al presente. - Da Torino si promise di fare il possibile; ma si evitò a bello studio ogni frase che si prestasse a essere intesa come impegnativa. Questo linguaggio venne interpretato per un cortese rifiuto, nè vi si tornò sopra. Nel 1911 il Boncompagni figlio, allora sacerdote e prelato, rifece la proposta a Don Albera, che per difetto di personale declinò l'invito. Cadere in balìa di municipi, massime nei piccoli centri, dove i partiti si accapigliano per dei nonnulla e si dilaniano con danno dei terzi, poteva [315] essere fonte di continui guai. Non erasi lasciato prevedere che si dovesse correre quest'alea, quando il Beato aveva detto al sullodato canonico: - Se la relazione di Don Daghero è favorevole, la cosa è fatta: dipende da quello che egli riferirà. - Neppure Don Daghero nella sua lunga relazione mostrò d'aver subodorato l'inconveniente.
Monsignor Gerlando Maria Genuardi fu il primo Vescovo della Sicilia che trattasse con Don Bosco per avere nella sua città episcopale i Salesiani. Scusandosi con lui del suo tanto insistere: “Che vuole, mio egregio Signore, gli scriveva[219], se Iddio proprio mi tiene fitto in mente un pensiero, che la povera gioventù di questa città e diocesi deve aver salute e vita a mezzo dell'Oratorio di S. Francesco di Sales?”. Aveva già appoggiato autorevolmente la domanda per Randazzo, luogo della sua diocesi; ma in cima dei suoi pensieri metteva la sua Acireale. Egli disegnava di riaprire un collegio Sali Martino, governato già da ecclesiastici e poi chiuso, e aveva fatto in modo che l'edifizio fosse ceduto in uso a Don Bosco mediante un tenuissimo fitto. “A questo proposito, continuava Monsignore, Ella ben comprende come dovette, esultare di bella speranza il mio povero cuore, e però senza porre tempo in mezzo io la comunico alla S. V. e la raccomando al suo cuore, al suo zelo, alle sue orazioni sotto la luce soavissima e possente del Cuore di Gesù. Io in questi giorni farò una novena a questo scopo. Ella poi risolva e mi scriva. Ma nel caso che volesse consolarmi mettendo la prima tenda della sua famiglia in Sicilia in questa città, sarebbe necessaria la sua venuta qui, dove in ogni ora ed in ogni giorno troverà col mio povero cuore, aperto il mio piccolo episcopio”.
Don Bosco non vi andò, ma vi mandò i suoi due inviati, Don Cagliero e Don Durando. Essi nella loro peregrinazione, [316] sbarcati in Sicilia, si diressero ad Acireale, dove, visitato l'edifizio, lo trovarono magnifico e adatto per collegio. Poi Monsignore, nella visita ad limina, si spinse fino a Valdocco unicamente per trattare della cosa col Beato. Di quelle trattative un particolare soltanto è giunto a nostra conoscenza. Al collegio S. Martino il municipio acitano accordava già un sussidio annuo di lire duemila; orbene il Vescovo aveva ottenuto elle il municipio annuisse a prestarlo nuovamente, quando venissero i Salesiani: egli anzi sperava che tale somma verrebbe raddoppiata, qualora Don Bosco vi stabilisse anche il liceo. Conveniva però che Don Bosco desse ufficialmente comunicazione delle sue intenzioni e facesse domanda del mentovato sussidio, Don Bosco indirizzò al sindaco la seguente lettera[220].
Da ragguardevole personaggio di cotesta città venuto a visitare questo Oratorio di S. Francesco di Sales mi è stato manifestato il desiderio elle cotesti proprietarii dell'ex-collegio S. Martino in una a cotesta cittadinanza si hanno di vedere per mezzo de' miei preti riaperto quel Collegio all'educazione ed istruzione della gioventù con un corso completo d'insegnamento secondario.
Ora, desiderando per quanto è in me corrispondere in un tempo più o meno lontano a sì onorevole invito, ed essendomisi fatto conoscere come la S. V. insieme coli cotesta ragguardevole rappresentanza municipale allo scopo di agevolare sì fatta riapertura, non sarebbero lontani dal concorrere con qualche annuo assegno a titolo di sussidio sull'azienda comunale, prima che io possa definitivamente impegnarmi, Le sarei grato, se la S. V. in modo categorico volesse apprestarmi [317] qualche conoscenza sugli intendimenti di cotesto onorevole Municipio in ordine all'accennato concorso.
Ho l'onore di potermi professare colla più distinta stima
Il consiglio comunale approvò che fosse accordato l'annuo sussidio di lire quattromila per quando i Salesiani avessero aperto in Acireale un liceo pareggiato. Quest'ultima antifona dovette sonar male all'orecchio di Don Bosco; ma fortunatamente non ci fu più motivo di continuare la pratica, perchè le cose pigliarono un'altra direzione. A lasciar cadere anzi del tutto la prima proposta del Vescovo dovette contribuire pure l'essersi appreso che nella città fioriva da poco tempo un collegio San Michele, diretto dai Padri Filippini. Monsignore dunque per il 1880 maturava un altro disegno. La stia diocesi, creata da Pio IX nel 1872, non aveva ancora potuto possedere un seminario, perchè non era stata peranco riconosciuta dal Governo. Avvenuto nel 1880 il riconoscimento, Sua Eccellenza pensò subito al seminario e di pieno accordo col suo capitolo fece istanza a Don Bosco, perchè si compiacesse di accettarne la direzione; si sarebbe dovuto cominciare con i corsi elementare e ginnasiale, ma nella forma laicale di seminario-convitto o convitto Vescovile. Don Bosco non esitò a entrare in trattative per questo nuovo progetto, abbandonando il precedente.
Per prima cosa egli espresse il desiderio che si pigliasse per base il capitolato di Magliano, manifestando la sua intenzione che nel programma si stabilisse doversi gli alunni vestire da chierici nel servizio religioso e nelle pubbliche funzioni. Il capitolato piacque; onde la deputazione conciliare del seminario lo tenne presente nel redigere un suo progetto dell'atto da stipularsi. Se non che, a cose fatte, ne risultò un piano, che si allontanava di molto dall'aspettazione del Beato e del suo Capitolo. Una corrispondenza assai nutrita del Vescovo [318] coli Don Bosco durò fino al luglio del 1881; il cancelliere della Curia canonico Michele Méndola e il segretario vescovile Don La Spina intrapresero il viaggio di Torino per chiarire le idee e appianare le difficoltà. Ma nonostante tutto il buon volere di ambe le parti, reciprocamente riconosciuto, il Capitolo Superiore non diede voto favorevole, perchè non vide una situazione abbastanza netta e in tutto scevra di spiacevoli sorprese nell'avvenire[221]. Fu un gran dolore per il Vescovo; ma, prelato di eminente virtù, amò sempre egualmente Don Bosco e i suoi [222]successori, nè lasciò mai di compiacersi per avere con il collegio di Randazzo aperto nella sua diocesi le porte della Sicilia alla Congregazione.
Veramente Catania precedette di un anno Acireale nel chiedere a Don Bosco che mandasse i Salesiani; ma vere trattative non corsero. Fra quel clero si contavano numerosi i Cooperatori. Il sacerdote Rosario Riccioli, rettore del seminario, fece allora qualche passo; anzi, recandosi a Torino i sacerdoti Contessa e Scavone di Agira, li autorizzò a ragionarne coli Don Bosco. Il Beato si restrinse a consigliare d'intendersela con l'Arcivescovo monsignor Dusmet. L'anno seguente fece un altro passo il canonico Cesàreo, che scrisse al Servo di Dio: “Risolutissimo, non io isolatamente ma qualche altro ecclesiastico, di destinare a tale scopo [di stabilire in Catania un convitto per poveri artigianelli] alcune nostre proprietà ed essendo stata questa nostra risoluzione maturata da qualche tempo, desideriamo di veder posta ad effetto ogni cosa mentre siamo in vita, ed in un momento nel quale dal nemico dell'uman genere si cerca scristianizzare [319] la povera gioventù”[223]. Ma tutto finì lì nella città destinata a divenire il centro della vasta e feconda attività dei figli di Don Bosco per Visola del sole. A non omettere nulla, aggiungeremo che monsignor Guttadauro, vescovo di Caltanissetta, vagheggiava nel 1877 per la sua sede l'idea di un orfanotrofio femminile sotto la direzione delle Figlie di Maria Ausiliatrice; ma anche quello rimase nulla più che un pio desiderio.
Neppure nel '79 era scoccata l'ora tanto desiderata per una fondazione a Roma. Non una, ma due case si dicevano pronte ivi nel maggio di quell'anno. Una presso la Chiesa dei Santi Quattro doveva essere un piccolo ospizio per artigianelli, da intitolarsi alla Sacra Famiglia; l'altra in Trastevere sarebbe stata una scuola professionale, e la voleva il Papa. Si chiese pertanto un prete abile, che andasse ad assistere subito all'impianto della prima ed a trattare per entrambe. Per quella si asseriva essersi raccolti danari sufficienti a provvedere le cose più necessarie; per questa avrebbe pagato tutto il Papa. Tali le informazioni di monsignor Jacobini[224], che furono salutate dai Superiori come un tratto speciale della Divina Provvidenza, Don Monateri, Direttore ad Albano, venne incaricato della pratica, con l'istruzione di udire, vedere e riferire senza dare assicurazione di verun genere. “Quest'anno, gli scriveva Don Barberis a nome di Don Bosco, abbiamo già data la parola per altre case, ma queste di Roma non è da lasciarle sfuggire, perchè vi è bisogno di avere un centro in Roma”.
La relazione di Don Monateri non si fece aspettare; senonchè le notizie non erano quali si desiderava che fossero. Le idee dei Romani erano toto caelo diverse da quelle di Don Bosco. Si sarebbe voluto che una Commissione concentrasse [320] tutto nelle sue mani e s'ingerisse anche nell'amministrazione interna, sicchè i Salesiani vi facessero da umili servitori. Quella Commissione, già bell'e composta, consegnò a Don Monateri un abbozzo delle regole, che s'intendeva d'imporre. Don Monateri significò a quei signori che il Capitolo Salesiano non avrebbe mai approvato condizioni simili e suggerì invece un progetto, nel quale a lui pareva che potessero convenire ambe le parti; ma parlò al vento e dovette inviare a Torino l'inesorabile schema. Il Capitolo approvò pienamente il progetto di Don Monateri e respinse a pieni voti l'altro. L'effetto fu qual era da attendersi: scese sii tutto il silenzio e l'oblio.
Per Roma non era stata ancor detta l'ultima parola riguardo all'Ospizio di Sali Michele[225]. Il principe Gabrielli, presidente della commissione governativa che lo amministrava, invitò formalmente Don Bosco nel mese di giugno ad accettare l'intera direzione morale e disciplinare dell'istituto, dicendo elle si sarebbe recato a gloria, se, nonostante il gridare della piazza, egli avesse potuto durante la stia presidenza porlo in sì buone mani. Noi abbiamo già visto in elle deplorevole decadimento fosse piombata un'istituzione, intorno alla quale i Papi avevano profuso oro e cure. La difficoltà massima da Don Bosco opposta per l'accettazione era stata la mancanza di autonomia Il Principe, che aveva fatto il possibile e l'impossibile per eliminare tale difficoltà, allora assicurava che in quanto alla disciplina i Salesiani sarebbero lasciati completamente liberi e indipendenti. Don Bosco rispose che accettava in massima e che i Salesiani si sentivano beli onorati per tanta fiducia che in loro si riponeva. Ecco in proposito le idee di Don Bosco, quali si leggono nella minuta di risposta al Principe[226]. [321]
Eccellentissimo Sig. Principe Gabrielli,
Alcuni affari dei giorni passati mi tolsero il piacere di rispondere prontamente alla rispettabile sua lettera del 4 corrente Giugno.
Ora premetto i miei umili ringraziamenti a Lei e a tutta l'amministrazione dell'Ospizio di S. Michele, la quale si compiacque rivolgersi alla Pia Società di S. Francesco di Sales pel servizio di quel glorioso Istituto.
Io vorrei che quella rispettabile amministrazione ottenesse il suo scopo e dal canto mio fossi io pure in grado di appagarla. Sarà bene pertanto che mi spieghi sopra la parte più essenziale della sua lettera: Confidare la direzione dei giovani e la loro immediata dipendenza e sorveglianza.
Queste basi sono accettabilissime in massima, ed io mi provo a tradurle in pratica in questo senso:
I° L'amministrazione esercita la sua autorità su tutto ciò che si riferisce alle finanze, al personale relativo, compre, vendite, costruzioni, riparazioni e simili.
2° Il Sacerdote Bosco provvederà Direttore, Economo, Prefetti, Portinaio, Capi d'arte, Maestri di scuola e servitori nel numero che saranno necessarii per assicurare la disciplina, la moralità e il profitto professionale degli allievi. E per questo personale sarà stabilita una discreta somma per ciascun individuo o complessivamente.
3° L'amministrazione corrisponderà una diaria o mensualità in ragione dei giovani che intende siano accolti nell'Istituto.
4° Il Direttore dell'interno è responsabile di tutto quello che riguarda all'Istituto e riceve i giovanetti allievi a norma delle condizioni che l'amministrazione sarà per stabilire.
Il medesimo Direttore è disposto di conservare nel rispettivo uffizio le attuali persone di servizio e quei capi d'arte, [secondo] che l'amministrazione ne riconosce il merito e la convenienza.
In questo modo l'amministrazione avrebbe tutti i vantaggi finanziari che desidera, conserverebbe intatto lo scopo dell'Istituto ed eserciterebbe la sua piena autorità, mentre la Società Salesiana potrebbe a sua volta mettere in pratica tutti i mezzi che alla medesima sono indispensabili per conseguire il suo fine. Perciocchè nelle nostre case si fa uso di un sistema disciplinare affatto speciale, che noi chiamiamo preventivo, in cui non sono mai adoperati nè castighi nè minacce. I modi benevoli, la ragione, l'amorevolezza ed una sorveglianza tutta particolare sono i soli mezzi usati per ottenere disciplina e moralità tra gli allievi, come la E. V. avrà potuto rilevare dal Regolamento della casa di Torino, che serve eziandio per tutte le nostre case d'Italia, di Francia e di America.
Mi sarebbe cosa graditissima che la E. V. o qualunque dei Signori Amministratori, capitando a Torino, ci onorasse di una visita in questo [322] nostro Ospizio e notasse quanto sarebbe da togliere od aggiugnere per applicarne il Regolamento a quello di S. Michele a Ripa.
Ho esposto qui brevemente alcuni miei pensieri; occorrendo trattare ulteriormente, mi potrà fare scrivere, ed io darò carico a qualche amico della Prefettura di Roma o del Ministero degli Interni, i quali, come conoscitori delle cose nostre, potranno porgere i richiesti schiarimenti ed anche trattare a mio nome.
Prego Dio che La conservi in buona salute, e mi creda colla massima stima
Il Principe, animato da ottime intenzioni, richiese nuovi schiarimenti. Don Bosco sviluppò più largamente il suo concetto, e poichè allora Don Durando era a Roma per la questione contro il ginnasio dell'Oratorio, lo incaricò di trattare personalmente con lui.
Ho alquanto ritardato il riscontro della rispettabile lettera di V. E.; attendeva che il mio progetto fosse un po' più sviluppato praticamente, siccome vedrà nel foglio unito[227]. Il Professore Durando nostro Sacerdote è a Roma per alcuni giorni e dimora al solito domicilio presso Torre de' Specchi. Egli è incaricato di trattare ogni cosa relativa e se gli fisserà un'ora si troverà a' di Lei cenni.
Potrebbe anche farne parola al Sig. Cav. Carosio, che è assai bene informato delle cose nostre
Se io mi sono abbastanza bene spiegato, credo di non aver oltrepassato i limiti che la E. V. mi aveva tracciato. Se vi sono osservazioni le riceverò con buon grado.
Il punto fondamentale sta nel poter liberamente esercitare il nostro sistema dì educazione. In tutto il resto non avremo difficoltà.
Prego Dio che La conservi in buona salute, mentre mi raccomando alle valide sue preghiere, e mi professo
Le trattative, a quanto pare, procedevano coli lentezza. Il Beato per avere sul posto chi facesse convenientemente le sue [323] parti, si procurò un intermediario nella persona del suo affezionato Aluffi[228].
Avrei un affare ad affidarle, ma non so se in questi giorni Ella sia in Roma. Ad ogni modo ne darò cenno a V. S.
Si tratta di affidare ai nostri maestri ed assistenti l'opera pia di S. Michele a Ripa. Le trattative sono già iniziate, ed il Principe Gabrielli, presidente di quell'opera, mi invita ad incaricare qualcheduno per trattare in modo positivo e gradirebbe la persona di V. S.
Pertanto se Ella può, e se non è suo tempo di ferie, io le manderò copia del proposto capitolato colle relative istruzioni. Come Ella vede, non la dimentico mai in ogni nostra occorrenza; ed Ella a sua volta si valga di me ovunque la possa servire, mentre io sono lieto pregarle ogni celeste benedizione e professarmi di V. S. Car.ma
Il Beato non ebbe che a lodarsi dell'opera di questo ottimo funzionario governativo, il quale per la sua posizione al Ministero dell'Interno poteva influire più direttamente nella pratica. Le cose però andavano a rilento; ma Don Bosco aveva tutte le ragioni di evitare la fretta. Riscrisse all'avvocato Aluffi:
Ho ricevuto la rispettabile sua lettera e la ringrazio dei ripetuti disturbi a mio riguardo. L'affare dell'Ospizio di S. Michele bisogna lasciarlo camminare a bell'agio. Il Sig. Principe Gabrielli ha senno e prudenza e cammina fin dove l'onestà comporta. Laonde siamo in buone mani. La S. V. ha fatto bene la parte sua e intanto si vedrà o meglio Ella vedrà l'opportunità del tacere o del parlare. Io mi rimetto al suo buon senno.
Se le accadrà di vedere il prefato Signore favorisca di ossequiarlo da parte mia assicurandolo di tutta la mia stima e gratitudine, desideroso di poterlo in qualche cosa servire.
Prego Dio che la conservi in buona salute, mentre di tutto cuore e con grato animo mi professo
Nella penuria di documenti intorno a quest'affare altro non ci rimane che un magro verbale del Capitolo Superiore, donde si viene a conoscere come la libertà concessa al futuro Direttore fosse più illusoria che effettiva; egli, per esempio, non sarebbe stato padrone di scegliersi il prefetto che volesse nè di stabilire un economo interno che dirigesse i laboratori, nè di mettere un portinaio salesiano che stesse completamente a' suoi ordini. Le pratiche dunque si arrestarono e furono rotte; tornò per altro a favore dei Salesiani il sapersi in Roma che il Governo trattava con essi e aveva in essi fiducia per cosa di sì alta importanza.
Coli queste fondazioni andate a vuoto ne porremo alcune poche non attecchite. Il bisogno urgente di personale non consentiva a Doli Bosco di lasciare confratelli dove si viveva a disagio, si stava all'altrui mercè e non vi era speranza di miglior fortuna. Vogliamo alludere a Montefiascone, Albano e Ariccia, dove il Servo di Dio aveva messo piede assai più per compiacere ad alte personalità e mirando remotamente a Roma, che non per fiducia che avesse di potervi prendere durevole stanza.
A Montefiascone Don Guidazio era un pesce fuor d'acqua[229]. La sua condizione si fece alquanto spinosa, dopochè aveva preso a combattere l'idea chimerica dì aprire ivi un liceo con professori salesiani: allora tanto nel Vescovo che nel Rettore egli scorgeva una crescente freddezza verso di lui. Non si aveva tuttavia il menomo dubbio che egli non fosse per continuare nel seminario l'opera sua; il parlare anche solo dell'ipotesi di un richiamo sarebbe stato un provocare qualche ricorso al Papa per impedirlo: e data l'affezione che Leone XIII nutriva per monsignor Rotelli, si poteva star certi che non sarebbe mancato un divieto pontificio. [325] Finito quindi l'anno scolastico, Don Guidazio ricevette l'ordine di recarsi a Torino per rimettersi in salute, giacchè realmente non si sentiva guari bene; più tardi al Vescovo fu significato che, essendosi Don Bosco obbligato con lui solo per un anno, egli si riteneva sciolto da ogni vincolo e destinava Don Guidazio altrove; in caso di bisogno avrebbe cercato e facilmente trovato un professore esterno da suggerire ai superiori di quel seminario. Dal prosostituto alla Segreteria di Stato ecco tosto giungergli una calda raccomandazione a ritornare sul provvedimento, rinviando senza indugio Don Guidazio al suo ufficio nel seminario di Montefiascone, anche per risparmiare un sommo imbarazzo al Vescovo e un grave dispiacere al Papa. Fatta ragione delle pie esagerazioni che apparivano in questi motivi, Don Bosco non recedette dal suo proposito.
Molto a disagio si trovavano pure i figli di Don Bosco ad Albano e Ariccia. Trasferito alla sede di Ostia e Velletri il cardinale Di Pietro che li aveva chiamati, e morto poco dopo il suo successore cardinale Morichini, i quali due Porporati avevano amato i Salesiani come figli, questi non erano più nelle grazie del nuovo Vescovo. l'Eminentissimo Morichini nutriva per loro tanto affetto, che, essendo accidentato, si fece condurre alla loro casa e volle essere portato su a braccia in poltrona. Arrivò durante la scuola di musica vocale; onde fu eseguito alla sua presenza l'Orfanello di Don Cagliero, il qual canto lo commosse fino alle lacrime. Gli succedette il cardinale D'Hohenlohe, che fece il suo ingresso con istraordinaria solennità. Al pranzo di gala venne invitato anche Don Monateri; ma nella visita fatta da lui a Sua Eminenza in compagnia di un altro Salesiano l'accoglimento fu piuttosto glaciale. In seguito Don Trione, recatosi a ossequiarlo con un prete novello della diocesi, fu ricevuto bene, ma non una domanda o una parola su Don Bosco e sui Salesiani. Tutto [326] confermava la voce che egli fosse prevenuto contro la Congregazione. Fautore della scuola rosminiana, era legato in amicizia con monsignor Gastaldi. A chi ne sondò l'animo per conoscere se avrebbe permesso a Don Bosco di aprire in Albano un collegio, si manifestò risolutamente contrario. Nel suo clero poi noli poteva trovare chi gli parlasse favorevolmente dei Salesiani; poichè quei preti, oltrechè non avevano mai guardato di buon occhio i buzzurri, negli ultimi tempi movevano loro una sorda guerra. Un incidente anche da poco sarebbe stato la gocciola bastante a far traboccare il vaso, e l'incidente fu un malaugurato schiaffo che il buon Don Montiglio, perduta la pazienza, lasciò andare durante la scuola a un importuno convittore del seminario. Questo diede origine a un battibecco, a pettegolezzi e a maldicenze di sacrestia. Per quelli di Ariccia alle cause accennate si aggiungeva il pessimo stato della loro abitazione che era incomoda, malsana, ristretta, disturbata nell'interno dal via vai degl'impiegati municipali e di chi si recava nei loro uffici. Alle ripetute domande di qualche miglioramento si rispondeva sempre con vaghe promesse; il municipio indebitato non aveva fondi. Durarla più a lungo in simili condizioni non era possibile nè per gli uni nè per gli altri.
Buon per loro che Don Cagliero e il suo compagno di viaggio andarono a passare con essi il carnevale. Nella sua relazione a Don Bosco quegli aveva scritto: “Attese le urgenti domande per aprire convitti e la niuna speranza di aprirne in Albano, ci sembra questo un personale sprecato. Quel poco di bene che fanno i nostri nei due colli germani, lo potrebbero fare i preti stessi del paese; ed a poco si riduce il frutto di questo personale, compiuto piuttosto. e ben disciplinato, mentre occupato altrove in qualche convitto darebbe un risultato maggiore assai”[230]. Di lì a non molto venne a Don Monateri l'ordine di presentare le dimissioni dei Salesiani [327] di Albano al Cardinale Vescovo, che immediatamente le accettò. Analogo ordine fu mandato a Don Gallo per il municipio di Ariccia, che nicchiò, ma dovette rassegnarsi.
Ad Ariccia la riluttanza delle Autorità aveva un. suo perchè. L'arciprete e quei della giunta avevano fatto segretamente pratiche per attirare altri maestri; ma, non avendone trovato, non sapevano più elle, pesci pigliare. In un ambiente simile non era più aria per i Salesiani.
Ad Albano, i convittori del seminario sì ridussero a due; e i chierici, costretti a frequentare pubbliche scuole con insegnanti atei e fra condiscepoli d'ogni risma, si trovarono a mal partito. Per tutto questo il seminario si dovette chiudere, chiuso rimanendo fino ai dì nostri.
Tuttavia le popolazioni dei due luoghi volevano molto bene ai Salesiani, sia per ragioni di sacro ministero, sia per le splendide funzioni che facevano, sia per le cure da essi prodigate ai loro figli nella scuola e fuori della scuola. I giovani poi eran loro talmente affezionati, elle ne riempivano del continuo la casa. Di questa benevolenza del popolo e della gioventù, i superstiti Salesiani. che ne furono oggetto, serbano tuttora vivo il ricordo; così pure, quando nuovi Salesiani si stabilirono nel vicino Genzano, sentirono come da quelle buone genti si lamentasse ancora la partenza degli antichi, che li avevano preceduti vent'anni prima nei Castelli Romani.
NELLA lettera del capo d'anno 1880 ai Cooperatori il Beato Don Bosco, enumerando le nuove case aperte. L'anno antecedente, metteva in primo luogo la colonia agricola di Saint-Cyr; infatti il suo vero cominciamento datò dal 10 giugno 1879, quando se ne prese effettivamente possesso e le Figlie di Maria Ausiliatrice vi assunsero la direzione di povere giovanette applicate ai lavori agricoli. Nulla per ora abbiamo da aggiungere al già detto in questo e nel volume che precede.
Una casa destinata ad acquistare somma importanza nella Congregazione fu inaugurata nell'estate del '79: la casa di San Benigno Canavese. Con tale fondazione Don Bosco ricondusse il fervore della vita e della pietà in una storica dimora che da secoli aveva offerto un tranquillo asilo di preghiera, di studio e di operosità a numerosa famiglia di monaci Benedettini. Intorno al sacro ostello, come accadde per infiniti altri luoghi, erasi formato a poco a poco un grosso borgo, che dal nome dell'abbazia si chiamò San. Benigno di Fruttuaria. L'aveva fondata nel 1001 il monaco Guglielmo di Volpiano, già abate benedettino di San Benigno a Digione e istitutore di quaranta monasteri, celebrato grandemente [329] per santità e dottrina in tante parti dell'Europa cristiana. Durante il medio evo l'influenza di questa abbazia crebbe a segno che il suo capo ne reggeva trenta altre, esercitando giurisdizione anche temporale non solo in Italia, ma in Francia, in Austria e in Corsica; poichè Papi, sovrani e signori feudali dotarono largamente la badia di villaggi, castelli e beni. Un tempo ne dipendevano fino a milleduecento monaci. Vero focolare di virtù e sapere, diede alla Chiesa due Papi, Innocenzo IV e Sisto IV; cinque principi di Savoia vi furono abati. Nelle sue origini valse ad apportarle celebrità il fatto di re Ardoino, che, affranto dalle lotte politiche, aveva Cercato ivi la pace, vestendo l'abito di S. Benedetto e perseverando fino al termine de' suoi giorni nell'austerità della regola claustrale. Il suo ricordo, non travolto dalle rovine del tempo, sopravvive tuttora dopo nove secoli nelle tradizioni popolari.
Sul finire del secolo decimoquinto cominciò la decadenza, che coincise con l'erezione dell'abbazia in commenda[231]. La nomina degli abati commendatari continuò anche quando non esistevano più monaci e le ultime terre abbaziali erano state assorbite dai duchi di Savoia. L'ultimo abate commendatario, preposto al governo spirituale degli abbaziali, fu il celebre cardinale Amedeo delle Lanze, che, morto nel 1738, lasciò viva ricordanza di sè per la sua munificenza di gran signore e il suo zelo di buon prelato. Dopo di lui il territorio abbaziale venne incorporato alla diocesi d'Ivrea. Il colpo estremo partì dalla legge 15 agosto 1865, per la quale le restanti rendite passarono all'amministrazione del fondo culto e i beni in potere del demanio. Finalmente nel 1877 tiri regio decreto dichiarò monumento nazionale il palazzo abbaziale, che il demanio cedette in uso e custodia al municipio. Erano dunque tali le condizioni giuridiche del sacro luogo, allorchè si trattò di affidarlo in subcessione a Don Bosco. [330] Il pensiero di chiamarvelo partì dal parroco Don Benone, che, fallito un primo tentativo, fu più felice in un secondo. Dobbiamo premettere che nel 1852 i Padri della Dottrina Cristiana avevano aperto ivi un istituto pareggiato e che contemporaneamente un buon. sacerdote in un locale a fianco teneva una scuola succursale del collegio per i meno abbienti; ma nel 1867, sorte divergenze col municipio, i Padri abbandonarono il paese, andandosene con loro anche il detto sacerdote. Allora fu che il teologo Benone propose a Don Bosco di subentrarvi per fondare ivi un collegio suo. Don Bosco rispose che ben volentieri accoglieva la proposta; ma innanzi tutto il parroco vedesse di ottenere il consenso del Vescovo d'Ivrea, che era monsignor Moreno. Quegli, sicuro di non incontrare alcuna difficoltà per un'opera tanto buona, si recò da Monsignore, al quale con la familiarità di vecchio amico espose il caso. - Mai e poi mai, gli disse Sua Eccellenza, permetterò a Don Bosco di stabilirsi nella mia diocesi. - Mortificatissimo a sì inattesa risposta, il teologo si ritirò nè si trattenne a pranzo nell'episcopio, come soleva fare ogni volta che qualche motivo lo conduceva dal capo della diocesi. In seguito il Vescovo, sperando di aver egli col tempo a sua disposizione l'edifizio, mise le mani innanzi per impedire che altri se ne ingerisse; col quale intendimento vi fece molte riparazioni e brigò presso il Governo perchè fosse riconosciuto monumento nazionale. Il riconoscimento venne, egli buttò nei lavori quindici mila lire, e tutto finì con tornare a vantaggio di Don Bosco; poichè la nuova condizione dell'edifizio ne impedì il passaggio ad altri acquirenti, finchè, morto il Vescovo nel 1878, Don Benone ripetè con ottimo successo il tentativo d'installarvi i Salesiani.
Lo scopo di Don Bosco era di trasferire a San Benigno il noviziato de' suoi chierici. Per tre fasi passò il noviziato salesiano. Sul principio i novizi crescevano come in famiglia, pigliando parte alla vita comune e così esercitandosi tanto nelle pratiche di pietà quanto nella vita attiva propria della [331] Congregazione; quindi conformemente alle differenti attitudini chi assisteva i giovani, chi faceva scuola, chi insegnava il catechismo, chi si occupava negli oratorii festivi, chi aiutava negli uffizi, vivendo sotto la dipendenza diretta dei superiori della casa. Per gli studi filosofici e teologici frequentavano le scuole del seminario. In un secondo tempo ebbero scuole a parte e venne assegnato loro un superiore, dal quale dovevano in tutto e per tutto direttamente dipendere, e questi fu Don Giulio Barberis; ma continuarono per qualche anno a tenere ancora assistenze dei giovani. Durante questo periodo con progressivo isolamento furono a poco a poco destinati loro camerone proprio per dormire, cortile distinto per la ricreazione, refettorio per essi soli; esonerati in ultimo da ogni assistenza, formarono nell'Oratorio un corpo segregato da tutto il resto dello stabilimento. Infine ebbero anche casa propria, la casa di San Benigno Canavese, dove tutto era ordinato alla loro formazione religiosa.
Che Don Bosco a ciò mirasse nell'aprire la casa di San Benigno, lo disse egli medesimo; ma disse pure che non conveniva dare alla casa un aspetto esclusivamente chiesastico; dovervisi quindi accettare anche giovanetti artigiani, mettendo su alcuni laboratori, che tornassero insieme di utilità per i bisogni interni[232]. E quanto savio fosse questo suo divisamento, si vide allorchè, avvenuta da parte del municipio la subcessione dell'edifizio a Don Bosco, la regia prefettura di Torino prima di accordare l'approvazione definitiva inviò al sindaco la seguente nota: “Siccome poi nel contratto di cessione dal Demanio al Comune quest'ultimo si è obbligato di non destinare il Palazzo Abbaziale ad usi che non siano di pubblica utilità; così coli verrà che la S. V. indichi espressamente a quale uso detto Palazzo sarà adibito dal Sacerdote Bosco, che accenni le ragioni per le quali l'uso stesso potrà rivestire il carattere di utilità pubblica”. Don Bosco, ricevuta [332] comunicazione di questa nota prefettizia[233], inviò al sindaco la seguente risposta.
Ho l'onore di rispondere alla sua lettera in data io Marzo riflettente l'uso del palazzo abaziale a S. Benigno. Come sta già notato nell'atto di cessione, io intendo di destinarlo a pubblica utilità, come sono altre case che da me dipendono. In particolare poi desidero che il palazzo abaziale di S. Benigno serva:
I° Ad uso delle scuole diurne per la scolaresca del paese.
2° Scuole serali per gli adulti.
3° Trattenere in amena ricreazione, musica, ginnastica, declamazione e simili nei giorni festivi i giovanetti operai del paese.
4° Del locale che sopravanza farne un ospizio di poverelli artigianelli, come quello di Torino, dove si raccolgono abbandonati fanciulli provenienti da varie parti d'Italia.
5° Se il locale lo comporterà, fare eziandio uno studentato di preparazione per nostri assistenti nel tempo che fanno il loro tirocinio per imparare le regole pratiche, con cui tenere la disciplina nei dormitorii, nei laboratorii, nei catechismi e nelle classi d'insegnamento.
Queste sono le cose che si hanno di mira secondo che lo concederà la capacità del locale.
Credo così aver appagato il suo quesito e quello del signor Prefetto della provincia di Torino. Occorrendo ulteriori schiarimenti, sarò sempre lieto di poterli dare.
La prego di credermi in tutto quello che La potrò servire, con pienezza di stima
Quello che formava l'obbiettivo principale, è posto qui in fondo a tutto il resto ed espresso a mo' d'ipotesi. Che se nell'atto di subcessione non indicavasi in qual maniera Don Bosco avrebbe usato del palazzo a utilità pubblica, veniva ciò determinato nella convenzione con la giunta municipale, dove si diceva assumersi egli per sè e per i suoi eredi questi tre obblighi: I° Di soddisfare agli impegni che il comune teneva verso il Governo, secondochè si stabiliva nell'atto di subcessione. 2° D'impiantare nei fabbricati un istituto educativo [333], che estendesse l'istruzione elementare a favore della popolazione. 3° Di assumere gl'impegni che il comune teneva allora con gl'insegnamenti delle scuole elementari. Qui è messa in vista come contrattuale la parte soltanto dell'uso che interessava il comune, senz'alcun cenno all'altra che a Don Bosco stava maggiormente a cuore, ma che non conveniva porre in evidenza prima del tempo. Il suo intendimento tuttavia era adombrato sufficientemente nella frase “impiantare nei fabbricati un istituto educativo”, del quale venivano presentate come emanazione le scuole elementari.
Avviate per bene le cose, ne parlò Chiaramente nella citata circolare del 1880 ai Cooperatori, dove, presentando la nuova casa come “destinata a molteplice scopo di pubblico bene”, soggiungeva: “Ivi parecchi poveri giovanetti apprendono un mestiere, mentre altri fanno il tirocinio per divenire buoni maestri ed assistenti nelle scuole e nei laboratorii. V'interviene pure nei giorni feriali la scolaresca del paese; vi si tiene anche oratorio festivo”. Sono intuitive le ragioni di cautela che gli consigliavano di evitare qualsiasi cenno a religioso noviziato. D'altra parte il municipio, lasciando mano libera a Don Bosco, ci aveva il suo tornaconto, inquantochè questi arricchiva il paese di un'utile istituzione e liberava il bilancio comunale, da obblighi onerosi.
Nè la promessa e poi la presenza di artigianelli nella casa era solo per gettar polvere negli occhi. Infatti il direttore Don Barberis subito dopo la presa di possesso diffuse con una circolare la notizia che Don Bosco aveva aperto in San Benigno Canavese “un nuovo ospizio di beneficenza per raccogliere sempre maggior numero di giovani abbandonati, educarli alla virtù ed al lavoro e renderli atti a guadagnarsi onoratamente il pane della vita”; e quindi pregava d'inviargli quei ragazzi che si conoscessero più bisognosi di educazione e pericolanti, purchè avessero dodici anni compiti e non diciotto, chiedeva insieme lavoro per falegnami, i sarti, calzolai e legatori di libri, i soli laboratori allora [334] possibili, e si raccomandava alla carità dei buoni, avvertendo che la si poteva fare con danaro, con oggetti d'uso e con generi alimentari. I laboratori noli tardarono guari a moltiplicarsi e a prendere notevole sviluppo; ma i novizi erano così poco disturbati dalla coabitazione di tanti artigiani, che nel corso della vita ordinaria non s'accorgevano nemmeno della loro presenza, non vedendoli mai, perchè avevano gli uni e gli altri cappelle, ambienti e cortili a sè.
Correva quell'anno il giubileo straordinario per l'esaltazione di Leone XIII al soglio pontificio. Nel maggio il prevosto di San Benigno, recatosi all'Oratorio per chiedere un Salesiano che andasse a predicare un triduo di preparazione all'acquisto delle sante indulgenze, fu tosto appagato con l'invio di Don Barberis, che, essendo designato a dirigere la nuova casa, avrebbe potuto vedere quali lavori fossero indispensabili prima di occupare il luogo. Più tardi Don Bosco mandò Don Cagliero e Don Barberis a Ivrea dal novello Vescovo monsignor Davide Riccardi per fare atto di ossequio e domandare le opportune facoltà. Sua Eccellenza si mostrò largo di condiscendenza fino a dire: - Occorrendo, si prendano pure tutte le facoltà che sanno potersi accordare da un Vescovo cattolico. - Avuta poi a suo tempo comunicazione dell'ingresso dei Salesiani nella stia diocesi, espresse tutta la sua gioia per il felice avvenimento, augurandosi che ottimo e durevole fosse il loro soggiorno, dal quale sperava gran bene[234].
I primi abitatori della casa di San Benigno furono i chierici ascritti dell'anno scolastico 1878-79. Terminati i loro esami ai 3 di luglio, mossero il giorno 5 da Torino in numero di cinquanta, facendo a piedi il viaggio fino alla nuova residenza per trascorrervi le vacanze estive. Furono accolti festosamente dalle autorità e dalla popolazione. Mancavano molte e molte cose; ma durante il periodo preparatorio è sempre stato utile che i nostri novellini si trovassero nell'occasione [335] di doversi ingegnare per sopperire in qualche cosa ai bisogni della vita.
Nonostante il desiderio, anzi il proposito di trapiantare a San Benigno il noviziato, Don Bosco prima di radunarvi definitivamente gli ascritti dell'anno appresso volle accertarsi bene se il luogo fosse adatto. Ecco perchè dispose che vi andassero i chierici a passare le vacanze: intendeva con quello di fare un esperimento. Nel mese poi di settembre durante gli esercizi di Lanzo incaricò Don Rua, Don Lazzero e Don Barberis di esaminare se la cosa fosse o no conveniente, e di riferirne quindi in Capitolo. La relazione fu favorevole per più motivi. Due soli ostacoli si rinvennero: il primo, che quella casa sempre sarebbe stata a carico della Casa madre con notevole aggravamento di spese, pochissimi essendo ordinariamente gli ascritti che pagassero qualche cosa; il secondo, che la lontananza avrebbe impedito a Don Bosco di riceverne le confessioni, come in passato, e d'infonder loro il vero spirito della Congregazione.
Alla prima difficoltà si rispose che il Signore, come si era degnato sempre di provvedere alle necessità della Congregazione, così noti sarebbe venuto meno allora, trattandosi di un'opera che tendeva unicamente alla sua maggior gloria. Quanto all'altra difficoltà si fece osservare che Don Bosco si assentava pure dall'Oratorio per più mesi dell'anno; che anche nell'Oratorio egli stentava ormai a conoscere tutti i chierici; che potrebbe con frequenti visite, per esempio negli esercizi della buona morte, andarli a trovare e così conoscerli e dirigerli.
Fu dunque deciso il 17 settembre che i chierici ascritti avrebbero d'allora in poi passato il loro anno di prova a San Benigno, e ivi si recarono tosto i giovani che negli esercizi spirituali erano stati dai Superiori accettati per la Congregazione. Il 20 ottobre nella cappella interna si fece la prima vestizione per mano di Don Bosco, che disse infine parole d’incoraggiamento e di conforto alla virtù. Fra i cinquanta [336] che ricevettero allora l'abito sacro, dite meritano speciale menzione: Michele Unia, l'eroico apostolo dei lebbrosi e Filippo Rinaldi, terzo successore del Beato Don Bosco.
Nel prefato resoconto del capo d'anno ai Cooperatori Don Bosco dopo San Benigno enumerava di seguito tre fondazioni che vissero vita breve, non già per difetto di previdenza o di preparazione da parte sua, ma per circostanze di forza maggiore che fin dall'inizio le sopraffecero.
La prima è la casa di Cremona. I dite visitatori salesiani durante il viaggio di ritorno passarono anche di là, dove trovarono le cose discretamente bene avviate. In settembre vi si recò pure l'economo Don Sala, che rimase soddisfatto dei preparativi compititi dalla commissione incaricata di ciò. Quindi verso la fine di quel mese partirono per Cremona tre preti, dite chierici e due coadiutori. Direttore fu nominato Don Stefano Chicco, che lasciò a Don Lemoyne il suo posto di Nizza Monferrato. Nella sua circolare Doti Bosco scrisse: “Si aperse in Cremona un oratorio festivo, giardino di ricreazione, chiesa pubblica, scuole diurne e serali sotto al titolo di S. Lorenzo”.
I Salesiani lottarono ivi per tre anni fra serie difficoltà a motivo dei partiti politici che non tolleravano checchè avesse aspetto di favorire l'influenza clericale. Disgrazia volle che un insegnante per cause disciplinari usasse misure stravaganti con alcuni ragazzi. Trapelatane fuori la notizia, si levò subito un gran chiasso. Gli anticlericali, impadronitisi dell'affare, suscitarono uno scandalo, aizzando la plebaglia, che per più giorni consecutivi si affollava nei pressi dell'istituto con clamori e minacce d'ogni genere e con tentativi d'assalto. Per colmo di sciagura, il nuovo direttore Don Domenico Bruna, succeduto al defunto Don Chicco, sbagliò tattica in quei frangenti, pigliando le difese dell'incauto subalterno; il [337] che inasprì l'opposizione e costò a lui stesso l'immediata destituzione da parte dell'autorirà prefettizia.
I buoni però si schierarono dalla parte dei Salesiani: vennero raccolte in fretta e furia le firme di circa cinquanta padri di famiglia in lor favore. Il Beato mandò subito a Roma Don Durando, perchè le presentasse al commendator Malvano. Questi, ricevendole mentre andava a pranzo dal Re, gli promise di parlarne al ministro della Pubblica Istruzione, che era pure fra gl'invitati. Alla sera il commendatore riferì a Don Durando che la cosa andava male. Questi poi, conferito col cavalier Costantini, segretario del ministro, e dettogli che l'affare si era messo nelle mani dell'onorevole avvocato Villa, s'intese rispondere che per questo appunto la cosa sarebbe andata ancor peggio. Infatti, avendo la massoneria cremonese ingiunto al fratello trepuntino di non muoversi, questo signore intascò lire cinquecento per le spese del viaggio, nè più si fece vivo. Don Durando volò tosto a Cremona per parlare con le autorità locali. Ma il prefetto era via; il provveditore si teneva nascosto; il sindaco non era ancora nominato e il facente funzione non se ne volle impicciare. Così le bieche mire nemiche trionfarono; poichè divenuta per tal modo insostenibile la posizione, i Salesiani d'ordine dei loro Superiori il I° luglio 1882 si ritirarono, rimettendo ogni cosa nelle mani della Commissione, elle li aveva chiamati. Monsignor Bonomelli addoloratissimo non potè far nulla per calmare le ire. settarie, nè volle andar in cerca delle responsabilità, non cessando per questo di amare Don Bosco e la sua Congregazione[235]. Avremo occasione di tornare su questi fatti nel volume seguente.
Detto di Cremona, Don Bosco proseguiva: “Col medesimo scopo fu aperta una casa il giorno 8 di novembre in [338] Brindisi, penultima città dell'Italia meridionale”. In questo accenno così fugace sembra quasi di leggere il pronostico della brevissima durata. I Salesiani non avevano abitazione propria, ma dimoravano in un appartamento del palazzo arcivescovile. Quel buon Prelato, Monsignor Luigi Maria Aguilar barnabita, era stato a visitare Don Bosco e l'Oratorio, partendone edificato e commosso[236], e vagheggiando alcunchè di simile per la sua archidiocesi; ma i suoi voti rimasero senza effetto. Malintesi non chiariti in tempo crearono ai Salesiani negli ambienti ecclesiastici diffidenze e ostilità, che li rendevano invisi, tanto più che il clero locale non vedeva la necessità della presenza di quei preti forestieri in mezzo alla popolazione brindisina. I pochi confratelli, che avrebbero dovuto dar cominciamento all'opera, vedendo dileguarsi le simpatie della prima ora e perduta la speranza di riconquistarle, nell'estate seguente se ne tornarono senza più in Piemonte.
Parecchie volte Don Bosco, parlando col savoiardo commendator Dupraz, quello della casa di Trinità, aveva manifestato il desiderio di metter mano a qualche opera nella diocesi del Santo, da cui la Congregazione derivava il nome. Quel signore ne ragionò col suo Vescovo di Annecy Monsignor Magnin, descrivendogli il bene che i Salesiani facevano soprattutto a favore della gioventù povera e abbandonata; il che udito, Monsignore lo assicurò che, qualora Don Bosco avesse il mezzo di fondare un suo istituto in Savoia, gli avrebbe prestato tutto il suo appoggio. L'occasione si presentò propizia nel 1877. Il commendatore e una sorella nubile si proposero allora di acquistare e adattare un fabbricato a Challonges, loro patria, nell'Alta Savoia, affinchè Don Bosco vi aprisse oratorio, scuole e convitto. Il Vescovo, richiesto del suo consenso, scrisse a Don Durando: “Da gran tempo [339] so tutto il bene che compie la Congregazione fondata da Don Bosco e quindi plaudo di cuore alla fondazione che cotesto uomo di Dio ha in animo di fare a Challonges nella mia diocesi. Dopo aver ammirato da lungi i prodigi del suo zelo a vantaggio della gioventù italiana, sarò fortunatissimo di ammirare da vicino e di benedire quanto la sua Congregazione attuerà, com'io ne ho fiducia, fra i miei cari diocesani[237]”. Morto Monsignor Magnin quando le lunghe pratiche volgevano al termine, il suo successore Monsignor Isoard si disse ben lieto di continuare il suo favore. all'opera buona e diede il benvenuto ai Salesiani, ripromettendosi egli pure da essi preziosi vantaggi spirituali per i suoi diocesani[238].
I lavori di adattamento si prolungarono più che non si fosse preveduto, importando coli l'acquisto una spesa di circa settantamila franchi, sborsati dal commendatore, che si obbligò inoltre a passare ai Salesiani un annuo assegno di franchi millecinquecento. Don Bosco mandò Don Durando a vedere, se e quando si potesse cominciare. L'apertura fu stabilita per il novembre del 1879
Pressochè alla vigilia dell'inaugurazione un consigliere comunale di Challonges lanciò un foglio volante intitolato “Oratorio di San Giovanni Battista”, nel quale diceva che con l'autorizzazione del Vescovo di Annecy e col beneplacito del parroco locale si sarebbe aperto nella casa del commendator Dupraz un oratorio cattolico per l'educazione e l'istruzione religiosa dei ragazzi esterni di Challonges e dei paesi vicini; ne esponeva minutamente il programma, comprendendovi una scuola gratuita approvata, conformemente alle leggi, dal delegato cantonale per le scuole primarie; terminava rendendo noto che si aveva intenzione di aprire anche una scuola libera o, come diremmo noi, privata per il regolare insegnamento elementare. [340] Ma per scuole di tal genere si richiedeva che chi le rappresentava di fronte al Governo possedesse. la debita patente e fosse di nazionalità francese. Ora Don Bosco alla direzione della casa intendeva preporre Don Cays, italiano. Onde gli convenne far venire da Saint-Cyr l'abate Vincent, elle aveva tutti i requisiti per sostenere quella parte presso le autorità scolastiche del paese.
I Salesiani vi furono accompagnati da Don Durando. Appena giunti, diedero principio all'oratorio festivo con scuola di canto. L'oratorio era quotidiano, perchè in Savoia per disposizioni episcopali si faceva ogni giorno un'ora di catechismo a tutti i ragazzi dal io novembre al 14 marzo. Le giornate riuscivano per questo veramente piene; poichè, essendosi dovute formare diverse classi, il catechismo occupava i nostri dalle sette e mezzo alle otto e mezzo: indi veniva la messa: poi scuola gratuita, nella quale era permesso insegnare soltanto a leggere, scrivere e far di conti. Nel pomeriggio i ragazzi tornavano a divertirsi nel cortile; ma non pochi, venendo da tre paesi dei dintorni, portavano seco da mangiare e restavano là fino a sera. La casa si prestava molto bene; le aule scolastiche erano comode e belle. “Tutto va bene, scriveva il Conte[239], ad eccezione del povero direttore sottoscritto il quale si sente assai lontano dal possedere i mezzi necessari per corrispondere all'importanza della propria posizione. E' vero che vo ripensando a quello che Ella liti disse tante volte, che omnia possum in eo qui me confortat; con tutto ciò avrei bisogno che la debolezza della mia confidenza non fosse pari alla mia incapacità! Le scrivo sinceramente queste mie ansietà, noti già perchè io voglia rifiutarmi a fare il mio possibile, ma per ottenere da Lei che preghi assai il Signore per me”.
Intanto accadde anche là quello che era già avvenuto altrove: gli alunni del maestro comunale disertarono la scuola [341] pubblica per passare alla scuola gratuita, detta di carità, dove l'insegnamento impartito non poteva aver valore legale, essendo incompleto. Questo abbandono della scuola governativa mise i nostri nella, necessità di far sì che i giovani non avessero a' scapitare; onde aggiunsero nuove materie d'insegnamento e pensarono di dover affrettare il normale assetto della scuola libera. Pressati dunque da ecclesiastici e laici, i Salesiani cominciarono le pratiche per detta scuola; ma, spedite alla prefettura le carte relative, si misero senz'altro all'opera, cioè senza lasciar passare prima l'intervallo di un mese dalla domanda secondo il prescritto della legge.
Allora contro i nostri si scatenò un gran ca' del diavolo. Giornali massonici attaccarono i nuovi venuti, massime il Patriote Savoisien di Chambéry, organo dei radicali. Soffiava nel fuoco il maestro comunale, al quale erano rimasti appena due alunni. L'ispettore intervenne e fece denunzia alla prefettura, che deferì l'abate Vincent all'autorità giudiziaria con due capi d'imputazione. Il primo era d'aver tenuta aperta una scuola libera senza la debita autorizzazione. e per questo fu citato a comparire dinanzi al tribunale correzionale civile di Saint-Julien, capoluogo del circondario. Il secondo capo d'accusa era d'aver introdotto nella scuola come insegnanti e come sorveglianti o assistenti due stranieri, cioè Don Cays e un chierico. Per questo secondo motivo venne dal prefetto di Annecy l'ordine d'immediata chiusura della scuola; ma poichè a un provvedimento così draconiano non si poteva ricorrere se non per ragione di pubblica moralità, si applicò siffatta causale alla presenza di stranieri, quasi ciò tendesse a mettere le scuole sotto la direzione di persone che non offrissero sufficienti garanzie. Così l'8 dicembre il Direttore congedò gli alunni, d