pel sacerdote BOSCO GIOVANNI
O
La lett. dell'alfabeto indica il num. de' fascic, delle vite dei Papi.
TORINO.
TIP. DELL'ORAT. DI S. FRANC. DI SALES.
1864. {1 [1]} {2 [2]}
INDEX
Nozioni topografiche intorno alla città di Roma
Colli aggiunti a Roma antica che fanno parte di Roma moderna.
Capo III. S. Grisogono e S. Anastasia (2).
Capo V. Moltitudine di martiri. – Coraggio del giovane Pietro.
Capo VI. Terme di Diocleziano. - S. Marcellino con s. Ciriaco e s. Sisinio.
Capo VII. Martirio di Saturnino, di Sisinio, Papia e Mauro.
Capo VIII. Ultime fatiche di s. Marcellino. Suo Martirio.
Capo IX. Osservazione sul pontificato e sulla supposta caduta di s. Marcellino.
Capo X. Trista fine di Diocleziano e di Massimiano.
Capo XII. Patria di s. Emidio. - Sua venuta in Milano, e a Roma.
Capo XIV. Martirio di s. Ciriaco e de' suoi compagni.
Capo XVI. Trista fine di Carpasio e de' suoi compagni.
Capo XVII. Culto verso s. Marcello. - Grazie e miracoli dopo morte a di lui intercessione operati.
Capo XVIII. Una muta acquista la loquela, ed una donna cieca ricupera la vista.
Appendice sui martiri della Legione Tebea
S. Solutore, Avventore ed Ottavio. Traslocamento delle loro reliquie.
Altri martiri Tebei in Torino ed in Altessano.
Soldati Tebei martirizzati nel Canavese.
Tebei martirizzati nel Monferrato.
Altri paesi santificati dal sangue di soldati Tebei.
S. Alessandro e suoi compagni.
A maggior chiarezza della storia de' Papi credo opportuno dare un cenno intorno ai nomi, ai luoghi e ai più celebri edifizi di cui spesso occorre far menzione in questi racconti.
Pertanto a ciascun fascicolo, che tratti de' sommi Pontefici, si farà precedere un ragguaglio delle cose e de' monumenti più memorabili di Roma antica confrontandoli coi moderni e dandone quella più popolare spiegazione che sarà possibile. Siccome poi taluno forse desidererà d'istruirsi più copiosamente sopra certe materie {3 [3]} qui appena accennate: così saranno poste le citazioni de' fatti e degli autori principali, da cui quelle nozioni furono ricavate, e ciò a favore di chi volesse consultarli. Io tratto volentieri questa materia perchè parlo di luoghi di presenza veduti coi propri occhi e di cose che ho minutamente osservate; e per questo lato il lettore può essere sicuro della veracità dei racconti.
Qui comincierò a dare un breve cenno sopra la topografia di Roma antica, ovvero darò una breve descrizione de' luoghi ove fu edificata Roma notando gli edifizi più memorabili che in progresso di tempo furono ivi costrutti.
Tevere. - Questo fiume entra nella città di Roma circa 18 kilometri prima di versare le sue acque nel mare Mediterraneo, seguendo una linea diritta; ma almeno 30 girando secondo le sue molteplici tortuosità. Esso separa dal rimanente della città tutta quella parte di Roma che si appella Trastevere, in cui è compreso tutto il {4 [4]} lungo dorso del Gianicolo, il Vaticano, il Castel s. Angelo ed il mausoleo di Adriano. Anticamente fu chiamato Albula dal colore biancastro tendente al ceruleo che ha presso Roma, quando non è intorbidato dalle pioggie. Ma allora che le pioggie lo ingrossano, le sue acque diventano da prima rossastre e quindi gialle. Da questo derivò il nome di Flavus con cui fu anche chiamato dagli antichi e di Biondo dai moderni.
Il nome di Albula gli si volle cangiato in quello di Tevere da un certo Tiberio o Tiberino re d'Alba Lunga, il quale nel traversarlo vi rimase annegato. Questo fiume forma entro i recinti di Roma un'isola detta Tiberina od isola di s. Bartolomeo.
Isola di s. Bartolomeo. - L'origine di quest'isola rimonta fino al tempo dell'ultimo re di Roma. Dopochè i Tarquinii per le loro scelleraggini furono cacciati dal trono, e rimasero scoperte e dissipate le congiure da loro ordite coi popoli vicini per rientrare, il Senato volle troncare ogni relazione con quella famiglia. Decretò che tutti i beni appartenenti alla medesima fossero confiscati, concessi al popolo, e che la messe di farro e di grano, che biondeggiava nel campo fra la città ed il Tevere, e che fu poi detto campo Marzio, venisse tagliata e gettata nel fiume. Vari banchi di sabbia presentava {5 [5]} allora il fiume per la scarsezza delle acque. Quelle messi tagliate e gettate in grossi mucchi nel fiume incontrarono a pie' del Campidoglio uno di questi banchi e furono arrestate. Altre materie galleggianti insieme con sabbia si fermarono colà a poco a poco, finchè indurandosi formarono un'isola, la quale andò sempre crescendo. Si copri poi di boscaglie e diventò permanente (Dionisio lib. V e XIII, Livio libro II, V e Plutarco). Presentemente è tutta coperta da caseggiati pieni di abitanti, e si suole appellare isola di s. Bartolomeo dal nome di questo Apostolo, le cui ceneri furono ivi trasportate e collocate in un tempio al medesimo dedicato.
Colli di Roma. - Roma antica era fondata sopra sette colli i quali giaciono sulla riva sinistra del Tevere. Essi erano più alti e dirupati di quello che sono oggidì, perchè parte per la mano degli uomini, che gli ha fatti più praticabili, parte per le rovine degli edifizi che riempierono le valli, hanno i colli molto variato d'aspetto. Per farci un'idea della figura di Roma sopra questi colli notiamo che uno di essi è quasi posto come centro, e gli altri, che gli stanno intorno facendo corona, ti rendono una figura, la quale più che ad ogni altra, si avvicina a quella d'un ferro da cavallo. {6 [6]} Il colle che è nel centro coronato dagli altri sei chiamasi Palatino, gli altri sono il Capitolino, Aventino, Celio, Esquilino, Viminale e Quirinale.
Palatino. - Questa parola si vuole derivata da Palatium città di un popolo antico dei contorni di Roma detto Aborigene.
La parola Palatium o Palation secondo la sua origine greca significa mucchio, tumulo di piccole cose riunite insieme. Tale per appunto era l'aspetto che presentava questo colle e la città dello stesso nome. Su di esso erano i palazzi degli Imperatori, che furono rovinati.
Sul Palatino Roma ebbe i suoi principj da Romolo, il quale ne determinò i confini con un solco, che egli formò intorno del colle secondo il rito etrusco.
Capitolino, o Capitolio, o Campidoglio. - Sorge questo colle vicino al Palatino. Esso dapprima ebbe nome Saturnio; perchè secondo una tradizione il re Saturno vi fondò una città e fu il primo della dinastia degli Aborigeni. Dopo fu chiamato Tarpeio da una vergine Romana. Essendo guerra tra Romolo fondatore di questa città e Tazio re dei Sabini, Tarpeia apri le porte della cittadella situata sopra questo colle ai nemici {7 [7]} ed in ricompensa fu da loro uccisa, precipitata dall'alto della rupe. Finalmente fu chiamato in latino Capitolium, o mons capitolinus, perchè ai tempi di Tarquinio re di Roma gettandosi le fondamenta di un tempio dedicato a Giove si trovò la testa di un uomo sepolto chiamato Tolio. Da caput Tolii, parola latina, si formò con istrana corruzione la parola odierna Campidoglio. (Veggansi su tali nomi e su tali origini quanto ne scrissero Varrone, Dionisio e Livio)
Questo colle è ancora oggidì coperto di edifizi pubblici e di case private; nulladimeno la rupe originale in vari luoghi apparisce in modo che si può asserire dopo tanti secoli non aver cangiato configurazione. Le sommità di questo colle ebbero diversi nomi che tuttora conservano. La occidentale ossia più vicina al Tevere fu designata col nome di arx la cittadella; perchè venne a questo uso destinata dai Romani. Oggi la dicono monte Caprino, perchè nei tempi antichi, essendo rimasta deserta, fu destinata a stanza di capre. Una parte di essa rivolta con precipizi verso il Tevere fu designata col nome speciale di saxum la rupe. Prese poi l'aggiunto di rupe Tarpeia, poichè da essa fu precipitata la vergine di questo nome. Da codesta rupe solevansi {8 [8]} di poi precipitare tutti i traditori della patria. In fine fu anche detto Carmenta perchè pendeva sul sepolcro di Carmenta madre di un famoso guerriero detto Evandro.
L'altra cima dopo la edificazione del tempio di Giove ebbe propriamente il nome di Campidoglio, perchè quivi è il luogo dove s'innalzò il tempio di Giove e trovossi il Capo di Tolio; questo nome fu poi comunicato a tutto il monte come abbiamo detto. Il seno che è fra le due cime, in cui trionfa oggi la statua a cavallo dell'imperatore Marco Aurelio, fu chiamato da alcuni Intermonzio parola che indica spazio fra due monti. Questo colle essendo forte per natura a cagione de' suoi dirupi, non vasto per estensione e prossimo al Palatino fu dopo questo il primo ad essere cinto di mura per formare la cittadella di Roma. Esso venne successivamente abbellito con fabbriche, e fin dalla morte di Romolo contavansi le case abitate da questo fondatore, quelle di Tazio re dei Sabini, l'asilo apertovi ai malfattori, e l'edifizio destinato a radunare il Senato ed il popolo. Numa Pompilio secondo re di Roma vi eresse una statua al falso Dio Termine, e così di seguito gli altri re lo abbellirono con vari monumenti.
Questo è quel monte celeberrimo sopra {9 [9]} del quale i Romani tenevano le loro pubbliche adunanze. Di qui davasi legge a tutto il mondo, quivi riunivasi il Senato, e poi costringevansi i cristiani a sacrificare ai falsi Dei. Sulla cima dove esisteva il famoso tempio di Giove oggidì è la chiesa di S. Maria di Aracoeli.
Vie del Campidoglio. - Abbiamo già notato che il Campidoglio era la rocca di Roma antica e ne formava la fronte verso il Campo Marzio;quindi è chiaroche da quella parte non solo non si poteva salire, ma a maggior sicurezza si fecero lavori onde potesse resistere a qualunque assalto. Oggi per altro non è così; imperciocchè avvi un cammino coperto che lo unisce al palazzo di Venezia. Tra le diverse salite praticabili avvi la scala in marmo che conduce alla Chiesa d'Aracoeli costruita con frammenti antichi l'anno 1348. Ma lasciando le salite moderne ci atteniamo a tre antiche, che possono ajutare l'intelligenza degli atti dei Ss. Martiri.
Anticamente vi erano tre sole scale cioè una chiamata i 100 gradi perchè dell'altezza di circa 100 piedi. Èssa a più riprese fasciava tutto il lato del colle, che domina il foro intersecando le altre due ed andava a terminare presso la rupe Tarpeia. I suoi scalini sono tagliati nel mezzo {10 [10]} della rupe stessa. Siccome poi alcuni di essi conducevano al ripiano del carcere, di cui adesso parleremo prendevano il nome di scale gemonie dai gemiti che necessariamente dovevano mandarsi da coloro che erano forzati a salirle o per essere gettati nel carcere o precipitati dalla rupe. Su queste stesse gemonie esponevansi i cadaveri degli uccisi in carcere e di là strascinavansi con uncini nel Tevere attraverso della piazza o foro, a fine d'incutere terrore. Spettacolo orrendo cui dovettero subire alcuni Imperatori stessi! La seconda scala era chiamata Clivo Capitolino, la quale terminava nel solco che suole dai moderni appellarsi Intermonzio. La terza Clivo Sacro così chiamata dalla pace conchiusa in quel luogo fra Romolo e Tazio re dei Sabini. La salita sacra era eziandio quella per la quale il trionfatore dal foro andava al Campidoglio.
Carcere Mamertino. - Abbiamo notato che per tre strade soltanto salivasi al Campidoglio, cioè per quella dei cento gradi, del Clivo Capitolino, del Clivo Sacro, e che i cento gradi nella loro prima parte formavano le così dette scale gemonie. Fra queste scale ed il Clivo Sacro era il carcere di cui parliamo, che oggi ancora {11 [11]} in parte esiste cangiato in cappella perchè fu santificato dai Ss. Apostoli Pietro e Paolo, fu teatro dei miracoli e strepitose conversioni da loro operate. Si designa col nome di S. Pietro in carcere.
Questa prigione fu costrutta da Anco Marzio quarto re di Roma circa l'anno 137 della città. Avendo egli grandemente accresciuta la popolazione di quella capitale cogli abitanti delle città conquistate sopra i Latini a fine d'intimorire i malfattori lo edificò nel centro di Roma. (Livio lib. CXXXIII) Questo carcere prese il nome di lui da Marcio fu detto Mamers anche quel re; quindi Mamerco, ed infine Mamertino. Lo stesso nome a cagione della vicinanza fu comunicato ad una via detta per conseguenza Mamertina.
Servio Tullio altro re di Roma aggiunse a questo un altro carcere inferiore sotterraneo, detto perciò Tulliano. (Varrone De lingua latina lib. IV)
Questo principalmente, come il Baratro in Atene ed il Ceada in Isparta, era destinato ai rei di Stato, che non potevansi per politica punire pubblicamente, come anche ai re e condottieri delle nazioni vinte portati in trionfo. Ivi alcuni erano lasciati morire di fame, altri strangolati.
Si calavano i condannati nel carcere superiore {12 [12]} per un buco fatto in mezzo alla volta. Nei pavimento di questo vi era un altro buco pel quale venivano calati nell'inferiore. I condannati pertanto di un carcere vedevano l'altro, udivano le strida ed i lamenti di quei che in essi erano dal carnefice tormentati o messi a morte; e durante la notte erano risvegliati dallo strepito delle porte di ferro, che chiudevano l’apertura, allora che o per qualche nuovo reo o per qualche esecuzione schiudevansi. Oggidì dal carcere superiore discendesi nell'inferiore per una scaletta moderna composta di 11 scalini. In questo vedesi un altare, una colonna di granito, alla quale dicesi che venissero legati i rei, ed una sorgente d'acqua fatta scaturire da S. Pietro a fine di battezzare i Ss. Processo e Martiniano custodi della prigione.
Aventino. - Vicino al colle Palatino quasi dalla parte opposta al Campidoglio verso l'estremo di Roma sorge il colle Aventino. Anticamente chiamavasi Murio, dal nome dato alla Dea Venere, detta mirtea pel mirto pianta a lei sacra. A quella divinità fu un maestoso tempio consacrato su questo monte.
Nei tempi posteriori, ancora più antichi della fondazione di Roma, gli fu dato {13 [13]} il nome di Aventino da Aventino re di Alba Lunga, città poco distante da Roma, che fa su questo colle sepolto. Esso è il più alto dei sette colli.
Celio. - Ad un altro lato del Palatino verso Oriente s'innalza il Celio. Lo scrittore latino Tacito ne' suoi annali dice, che il nome antico di questo colle fu querquetulano dalle piante di querceti le quali lo vestivano, e che poscia fu chiamato Celio da un certo Cele Vibenna condottiero Etrusco venuto in soccorso dei Romani, ivi posto ad abitare co' suoi dal re Tarquinio Prisco.
Questo colle comincia dal Palatino e si estende con lunga coda fin presso la chiesa di S. Croce all'estremo limite di Roma antica: oggidì si suol appellare Letterano dal maestoso palazzo di un antico romano detto Plauzio Laterano. Questo edifizio diede eziandio il nome alla celebre basilica di S. Giovanni in Laterano che quivi esiste.
Esquilino. - Ad Oriente eziandio del Palatino, ma tendente più verso settentrione, cioè verso il centro di Roma, innalzasi l'Esquilino detto anche semplicemente Esquilia, perchè varia è l'ortografia colla quale incontrasi scritto. La sua {14 [14]} vera etimologia viene da Esculus, eschio albero che porta una specie di ghiande, che un tempo ne copriva le cime ed era sacro principalmente a Giove.
Questo colle dividesi in due parti che distaccansi da una specie di ripiano generale verso occidente ossia il centro di Roma. Ambedue hanno una configurazione che si avvicina a quella del triangolo; non sono tuttavia eguali in estensione: maggiore è quella posta di fronte al Celio, sulla quale è celebre la chiesa di S. Pietro in vinculis e di S. Martino: l'altra è minore; ivi è la basilica Liberiana o di S. Maria Maggiore.
La prima di queste due parti è detta monte Appio, perchè, secondo il celebre scrittore latino Varrone, un certo Appio condusse in Roma dei soldati Tusculani, mentre il re Tulio Ostilio faceva guerra coi Vejenti ed accampossi nel piano detto Carina vicino a questa parte del colle Esquilino.
La seconda è chiamata Cispio da un altro condottiero della città di Agnani. Venuto egli a Roma nella stessa occasione, ivi si accampò a difesa di quella parte dell'Esquilino, che è rivolta al vico Patrizio verso il colle Viminale.
Questo colle è il più alto de' sette come ne è il più esteso in superficie. {15 [15]}
Viminale. - Di là dall'Esquilino Cispio verso occidente formando con tutto l’Esquilino la parte più grossa della figura di un ferro da cavallo prolungasi a foggia di lingua il colle Viminale. Egli trasse questo nome dai vimini o vinchi, specie di pianticelle, che lo coprivano.
Quirinale. - Il Quirinale è l'ultimo dei sette colli di Roma-antica. Esso si avvicina al Palatino dalla parte opposta al Celio. La sua configurazione presenta molte gobbe. Se ne nominavano specialmente quattro, che traevano nome da altari consacrati agli Dei. Una è la Quirinale pell'altare dedicato al Dio Quirino. Da questo avrebbe preso il nome tutto il colle. Ma altri vogliono che Quirinale derivi dai Quiriti, i quali venuti a Roma quivi si accamparono. Su questa cima dove vi era il tempio di Quirino ora esiste una chiesa dedicata al vero Dio. Un'altra era chiamata Salutare dall'altare della Dea Salute. Questa punta venne spianata per fare il giardino Pontificio al tempo di papa Urbano ottavo.
Una terza cima era detta la Marzia dall'altare di Marte. Venne anche demolita per ordine del papa Urbano, ed ora avvi il giardino dell'antica famiglia Colonna. Finalmente la quarta è la Lariale nome attribuito a Giove. {16 [16]}
Questo colle si ravvisa ancora nella punta esistente nel giardino Aldobrandini. Su questo colle si innalza il gran palazzo apostolico, altra abitazione dei sommi Pontefici, che viene anche chiamato palazzo Quirinale.
Gli antichi celebravano nel mese di dicembre in onore dei sette colli di Roma una grande solennità e la dicevano Settemonzio; V. Festo.
Oltre i sette colli finora descritti sorgono presentemente entro le mura di Roma altre colline. Di queste alcune sono artificiali, cioè formatesi coll'andare del tempo per mano dell'uomo; altre naturali ossia già esistenti anticamente, ma soltanto nei tempi più moderni racchiuse entro le mura della città.
Pincio. - Fra i colli naturali avvi il Pincio, che sorge al confine di Roma moderna a mezzodì.
Esso era anticamente chiamato degli orti a cagione dei sontuosi orti fattivi da Sallustio, da Lucullo e Domizio. {17 [17]}
La sua forma è quella di un V e trovasi tra il Quirinale ed il Campo Marzio. Il nome di Pincio lo derivò dalla famiglia Pinciana che sopra di esso aveva un magnifico palazzo. (Varrone lib. III)
Una parte soltanto di questo colle è compresa nel recinto di Roma, l'altra è coperta di vigne e di amene villeggiature. L'altezza sua è superiore a qualunque dei sette colli primitivi.
Dei monti artificiali entro il recinto di Roma il primo è il Giordano. Trae egli questo nome da un certo Giordano Orsini, che vi pose la sua residenza.
Citorio. - Altro fra i colli artificiali numerasi il Citorio. Questa denominazione non è anteriore al secolo XV.
Questo colle si formò dall'ammasso delle rovine dell'anfiteatro di Statilio Tauro e di altre fabbriche circonvicine.
Si sa che gli anfiteatri di Roma antica erano edifizi che servivano pei pubblici spettacoli in cui combattevano uomini contro ad uomini, oppure uomini con fiere. Essi erano di una grandezza smisurata. Un solo poteva contenere fino ad ottanta mila spettatori seduti.
L'anno in cui rovinò l'anfiteatro di Statilio non è certo, ciò deve essere accaduto {18 [18]} dopo il secolo quarto dell'era volgare. (V. Catalogo degli edifizi della nuova regione di Rufo)
Il nome di Citorio probabilmente derivò da Tauro di cui era l'anfiteatro, o da citare; perchè su di esso convocavasi il popolo a fare le votazioni.
Questo colle per gli staccamenti di terreno caduto ai piedi del monte, e per la mano degli uomini che hanno procurato di farlo ogni giorno più agiato, ha una superficie assai estesa.
I suoi limiti sono segnati dalla via di Campo Marzio e dal lago della impresa via in Lucina, via del Corso, palazzo Colonna e piazza di Monte Citorio.
Cenci. - Questo colle è così chiamato dal palazzo della famiglia Cenci, che vi aveva vaste possessioni. Egli è tutto formato dalle rovine del teatro Balbo. Questo teatro fu fatto edificare con molta magnificenza da un certo Cornelio Balbo dietro esortazione di Augusto. Il Cenci è meno vasto del Citorio, ed è circondato verso occidente dalla via della Martella; verso mezzodì da quella di S. Bartolomeo de' Vaccinari ed in parte da quella della Fiumara; verso oriente dalla piazza detta delle scuole e da quella di S. Maria del {19 [19]} pianto; verso settentrione dalla via di S. Maria in Cacaberis, dove si unisce nuovamente con quella di Martella.
Sevelli. - Il monte Sevelli ebbe eziandio il nome dalla famiglia che lo possedeva, e che vi fabbricò un palazzo nel secolo decimo terzo sugli avanzi del teatro di Marcello.
Anche egli come i due precedenti si alzò sulle rovine di una fabbrica colossale antica, come è il teatro Marcello.
Questo era stato edificato da Ottaviano Augusto in nome del suo nipote Marcello che gli diede il nome.
Nei bassi tempi i Pierleoni lo montarono a fortezza; indi i Sevelli sulle giacenti rovine innalzarono l'attuale abitazione. Verso la parte più conservata del teatro, sogliono radunarsi i montagnuoli. Da ciò prese il nome di Montanaro.
Testacio. - Il Testacio giace nella pianura a mezzodì dell'Aventino, cioè tra la riva sinistra del Tevere e l'Aventino. Dalla base sino al vertice è composto di un ammasso di rottami di vasi usuali di terra cotta; i quali dagli antichi erano chiamati Testa. Da ciò il nome di Testacio al monte quasi come dire formato di testa.
L'epoca di questo enorme accumulamento {20 [20]} di frantumi di anfore e di dolii, che ha una circonferenza di circa un miglio e centocinquanta piedi d'altezza, è ignota come ignota è la cagione che lo produsse. È probabile che non sia anteriore al quarto secolo.
Altri colli. - Sulla sponda destra del fiume Tevere, sui confini di Roma moderna, avvi un gran dorso di monte, che domina tutta la riva del fiume pel tratto di oltre quindici miglia. Parte di questo dorso sono il Vaticano, il Gianicolo, il Monte Mario ed il Monte Verde. Alle sue falde avvi il palazzo Vaticano.
Vaticano. - Sono due le principali opinioni intorno alla derivazione del nome Vaticano. Secondo Gellio questo colle era stato così chiamato dai vaticinii che i pagani credevano ricevere sopra quel monte da un loro Dio. Ma S. Agostino (De Civitate Dei lib. IV, CVIII) tiene l'etimologia data da Varrone, e dice che il nome di Vaticano viene da un Dio dei gentili. Credevasi che questo Dio aprisse la bocca ai bambini; siccome la prima voce che mandano fuori è la sillaba va da cui deriva la parola vagire, così quel nume o genio era chiamato vagitano. Questa parola si corruppe e diede luogo a quella di Vaticano. {21 [21]} Lo stesso nome si comunicò poi al monte dove dicevasi avere dimora quella divinità.
Questo colle come tutto il rimanente del dorso nominato di sopra, è composto di deposizioni ammassate dal mare.
Notiamo a questo riguardo, che il luogo dove l'anno 750 prima dell'era volgare fu edificata Roma, era molti anni addietro occupato dal Mediterraneo. Le acque si ritirarono di poi lasciando quello spazio molto irregolare coperto di acque stagnanti. Tale ritiramento del mare credesi avvenuto,circa 1500 anni avanti di G. C.
Sul dorso di questo monte è fondata la magnifica basilica del principe degli apostoli S. Pietro. Essa è in parte sopra le fondamenta dell'antico tempio d'Apollo. Un argomento è questo della divina provvidenza, poichè donde si cercavano già le risposte degli Dei menzogneri, ora il vicario ai Dio, il sommo Pontefice rende al mondo gli oracoli della verità. Avvi anche il palazzo che abitarono quasi sempre i sommi Pontefici.
Gianicolo. - Il Gianicolo è l'altra parte del lungo dorso bagnato dal Tevere. Ebbe il suo nome dal Dio Giano. Secondo la tradizione questo Dio abitò sopra il Gianicolo, fondò una città di rimpetto a Saturnia {22 [22]} e la chiamò Antipoli o Gianicola. (Virg. Eneid. lib. VIII, v. 356)
Fra il colle Gianicolo ed il Vaticano, avvi una valle dove raccogliendosi delle acque formavasi una palude. In sulle rive di questa fu martirizzato il più grande uomo del mondo, il vescovo dei vescovi, il pastore dei pastori, il primo vicario di G. C., il primo sommo Pontefice, S. Pietro. Quivi egli fu crocifisso col capo all'ingiù non reputandosi degno di imitare in tutto il suo divino Maestro. {23 [23]}
Diocleziano era nato in Salona città della Dalmazia, siccome abbiamo già altrove raccontato. I suoi talenti militari lo portarono ai primi gradi della milizia e nell'anno 284 veniva proclamato imperatore. Ora convien notare, come da circa tre secoli per mancanza di una legge, che regolasse la successione al trono, gl'imperatori per lo più erano assassinati per mano o per ordine di qualche pretendente alla medesima dignità. Quindi continui {25 [25]}assassini e lunghe guerre intestine. Diocleziano a fine di porre un qualche rimedio a tanti mali, essendo privo di prole maschile, adottò per figlio e dipoi associò all'impero il famoso generale Massimiano che al pari di lui prese il nome d'imperatore. Questi due principi si nominarono ciascuno un Cesare ovvero un erede al trono nella persona di due celebri generali di nome Costanzo Cloro, l'altro Galerio. Costoro si divisero le sollecitudini e le cure del governo delle Provincie soggette al loro padre adottivo, cioè a queill’imperatore che li aveva creati Cesari. Costanzo fu il Cesare di Massimiano, e Galerio il Cesare di Diocleziano. In questo modo era assicurata la successione al trono, e alla morte di un imperatore gli doveva per legge succedere chi dal defunto era stato designato per successore creandolo Cesare.
Diocleziano scelse per suo governo l'Oriente e andò a stabilire sua regolar dimora in Nicomedia città dell'Asia {26 [26]} Minore, che ora dicesi Isnik-mid nella Natolia.
Massimiano suo collega ebbe la parte del romano impero che riguarda l'Occidente, in cui è compresa l'Italia; e di questo novello impero fece capitali Milano e Treviri celebre città della Germania.
Così Roma cessando di essere la capitale del mondo pagano diveniva libera capitale del mondo cristiano. Nel quale fatto vediamo compiuta la grande profezia di Daniele quando vide il misterioso sassolino cadere da un'alta montagna e ridurre in minuti pezzi la statua colossale. Il sassolino era la santa ed umile religione di Gesù Cristo che doveva abbattere la colossale monarchia del romano impero e con esso tutta la idolatria per fare posto alla Sede del Vicario di Gesù Cristo e così dilatare liberamente il cristianesimo per tutti i paesi della terra.
Ma prima che la religione cristiana potesse liberamente esercitare il suo impero dovette ancora sostenere la più sanguinosa delle battaglie nella {27 [27]} terribile persecuzione di Diocleziano, mentre appunto la Chiesa di Gesù Cristo era governata da s. Marcellino. Questo pontefice fu scelto dalla divina Provvidenza a reggere la chiesa forse nel tempo più diffìcile per la religione. Era egli di nascita romano e suo padre si chiamava Projetto. Ajutato da una cristiana educazione aveva per più anni faticato pel bene della religione. Egli erasi trovato presente al martirio, alla morte di s. Cajo ed aveva prestato mano a dare sepoltura al cadavere di questo coraggioso pontefice. Alla morte di lui la s. Sede rimase vacante soli undici giorni, dopo cui con universale gradimento fu eletto il nostro Santo, che presso tutti era grandemente stimato per dottrina, per zelo, santità e pei suoi miracoli. La sua elevazione al Pontificato avveniva il 3 maggio 296 l'anno 13 dell'impero di Diocleziano e di Massimiano. La vita del novello pontefice fu molto simile a quella di s. Cajo suo antecessore.
Fatiche continue di ogni genere, carceri, {28 [28]} ospedali, cripte, catacombe erano campo glorioso della sua carità, e luoghi ordinari di sua dimora. Ma i principali suoi sforzi erano diretti a sostenere quelli che si trovavano in pericolo per la fede. Troppo lungo sarebbe esporre ad una aduna le gloriose vittorie che dai martiri furono riportate durante il suo pontificato, noi daremo cenno solamente di alcuni di cui si fa solennità speciale dalla Chiesa Cattolica in determinati giorni dell'anno.
Poco dopo la esaltazione di s. Marcellino al pontificato vennero a Roma i soldati della legion Tebea guidati da s. Maurizio. Questa legione era così appellata perchè i soldati, che la componevano, solevano coscriversi e radunarsi in Tebe celebre città dell'Egitto. {29 [29]} Dovendosi intraprendere una grande guerra contro ad alcuni popoli della Gallia, detti Bagaudi, Massimiano fece venire dall'Oriente quella legione che fra le milizie romane era tenuta per la più forte, la più coraggiosa e la più fedele. Venendo in Italia que' soldati passarono in Gerusalemme, ove parecchi i quali erano ancora catecumeni, ricevettero il battesimo per mano di s. Zambda vescovo di quella città. V. Baronio, anno 297.
Ripigliando poscia il loro cammino giunsero a Roma, come si disse, pochi mesi dopo la elezione di s. Marcellino. Presentatisi al santo pontefice diedero al medesimo grandi segni di venerazione, ma siccome non avevano ancora ricevuta la cresima, così lo supplicarono a volerla loro amministrare. Accertatosi il Papa della necessaria instruzione loro conferì di buon grado quel sacramento, che facendoli perfetti cristiani infondeva nei loro cuori queill’eroico coraggio di cui dovevano fra breve dare luminosa prova. Compiuta la sacra funzione, {30 [30]} il santo Pontefice prese a parlare loro così: Miei figliuoli, andate e fatevi ovunque conoscere degni soldati di Gesù Cristo, pronti a morire quando che sia di spada piuttosto che contaminare la purezza di quella fede che or ora avete ricevuta; V. Baronio luogo citato.
Da Roma traversarono l'Italia e valicando le Alpi Pennine, che ora diconsi gran s. Bernardo, andarono a raggiungere l'imperatore Massimiano che col resto dell'esercito li attendeva nelle vaste pianure del Vallese presso una città allora detta Ottoduro ed ora Martigny. Compiutasi quella difficile guerra con esito felice, l'Imperatore riconcentrò tutti i suoi soldati nelle medesime pianure del Vallese, e per dimostrare la sua gratitudine agli Dei decretò che tutti i suoi soldati ad un giorno stabilito dovessero fare un sacrifizio a quelle stupide divinità, cui follemente attribuivano le vittorie.
Tre cose esigeva l'Imperatore: fare un sacrifizio agli Dei; giurar fedeltà all'Imperatore invocando i suoi idoli; {31 [31]} promettere di andar in cerca di cristiani per metterli a morte come nemici degli Dei dell'impero. Appena Maurizio conobbe questa deliberazione giudicò di allontanarsi co' suoi e si ritirò a dieci miglia in una città allora detta Agauno ed ora s. Maurizio a pie' del gran s. Bernardo.
Massimiano diede tosto ordine severo che la legione Tebea fosse la prima ad intervenire minacciando gli effetti del suo sdegno a chi non ubbidiva. Fu da tutti risposto: christiana religione impedimur. Noi ne siamo proibiti dalla cristiana religione. Rinnovò la minaccia, ma ebbe sempre la stessa risposta. Allora l'Imperatore comandò che i soldati Tebei fossero decimati, cioè di ogni dieci fosse fatto morire uno tirato a sorte. La decimazione fu eseguita una volta e poi un'altra; ma que' prodi soldati ben lungi dall'opporsi colla forza, si sottomisero con gioja alla spietata carnifìcina, anzi i superstiti invidiavano la sorte de' compagni che avanti ai loro occhi vedevano trucidare per la religione. {32 [32]} Siccome tutti erano fermi nella fede, così l'imperatore ordinò che tutti fossero condannati a morte. Così fu. La intera legione, che era composta di circa 6666 soldati, fu tutta condannata a perir di spada. Questo fatto compievasi il 23 settembre 297[1].
Grisogono o Crisogono era un nobile e ricco cittadino di Roma che sotto al pontificato di s. Marcellino impiegava le sue sostanze e le sue fatiche in favore della religione. Diocleziano, quando ebbe la notizia dello zelo che questo fervoroso cristiano aveva per la fede, rimase altamente sdegnato e lo condannò a morire di {33 [33]} lenta fame in prigione. Ma la divina provvidenza dispose che il luogo di reclusione fosse vicino alla casa di un altro ricco e potente romano di nome Publio. Costui era idolatra ed acerrimo nemico dei cristiani, ma la sua moglie, di nome Anastasia, era fervorosa cristiana. Per qualche tempo essa potè ajutare Crisogono e soccorrerlo di quanto gli occorreva pel vitto e per le altre necessità della vita. Ma quando Publio seppe che sua moglie soccorreva Grisogono ed altri cristiani si sdegnò di lei, e fattala rinchiudere in una prigione molto distante da quella di Grisogono le somministrava appena il cibo indispensabile, perchè non morisse di fame.
Dall'oscurità della carcere Anastasia scrisse una stupenda lettera a s. Grisogono, in cui esponeva i patimenti, a cui era condannata, e si raccomandava di pregare perchè o convertisse suo marito, o almeno gli impedisse di proferire bestemmie contro al santo nome di Gesù Cristo. Chiudeva la lettera con queste parole: Vale, serve Dei, {34 [34]} et memento mei. Dio ti salvi, o servo di Dio e ricordati di me nelle tue preghiere.
S. Grisogono rispose esortando Anastasia a confidare in Dio, e non temere la malvagità del mondo. Pugna strenue et vigilanter et fuge peccatum. Combatti da forte e fuggi il peccato, unico male che un cristiano deve temere. Termina la lettera con queste parole: Vale in Domino, et ora pro me. Sta bene nel Signore e prega per me.
Anastasia vedendosi ogni giorno diminuire il cibo e crescere i tormenti, scrisse un'altra breve lettera a s. Grisogono in cui gli partecipava prossimo il suo martirio. Il nostro santo rispose, che riponesse tutta la fiducia in Gesù Cristo, e che in ogni cosa si rassegnasse a' suoi divini voleri, ma non essere ancor giunta l'ora di sua morte.
Di fatto suo marito fu dall'Imperatore incaricato di un'ambasciata presso ai Persiani; quindi riserbò il supplizio ai nostri due carcerati dopo il suo ritorno. Ma alla metà del cammino {35 [35]} egli cadde in grave malattia che in breve lo tolse di vita.
Dopo la morte del marito Anastasia fu posta in libertà; ma continuando nelle sue opere di beneficenza venne di nuovo accusata e posta in prigione come cristiana e come fautrice de' Cristiani. Il Prefetto di Roma la condannò ad essere sommersa nelle acque. A tale effetto fu posta con molti altri fedeli sopra di una nave senza vele e senza pilota affinchè fosse sommersa nel mare. Se non che coloro i quali non furono rispettati dagli uomini ragionevoli, lo furono dalle creature insensate, dalle onde. La nave guidata soltanto da un vento favorevole andò a deporre quei gloriosi confessori della fede sopra i lidi di un gruppo di piccole isole dell'Adriatico dette Palmarie. Colà mettendosi a predicare le verità del Vangelo guadagnarono molti a Gesù Cristo. Ma accusati di nuovo come cristiani furono tosto presi e sottoposti a molti interrogatorii e in fine incoraggiati tutti {36 [36]} da s. Anastasia riportarono la palma del martirio il 25 dicembre 301.
Grisogono fu ancora tenuto prigione due anni, dopo i quali venne dall'Imperatore chiamato nella città di Aquileia sotto apparenza di volergli far grazia e donargli la libertà.
L’Imperatore cominciò a parlargli così: Ti ho fatto venir qui, o Grisogono, non per punirti ma per onorarti. In questo stesso momento ti conferisco la dignità di Prefetto colla speranza di farti console a sola condizione che tu faccia un sacrificio agli Dei.
Grisogono rispose: Io, o principe, nell'intimo del mio cuore adoro un solo Dio creatore del cielo e della terra, perciò non posso adorare gl'idoli tuoi, i quali ad altro non sono buoni che condurre alla perdizione coloro che in essi pongono confidenza.
Diocleziano a quella risposta fu vivamente irritato e nel trasporto del suo furore comandò che gli fosse immantinente tagliata la testa. La sentenza fu sull'istante eseguita. Era l'anno 302 il 24 novembre giorno in cui la Santa {37 [37]} Chiesa ne celebra la festa. S. Anastasia e s. Grisogono sono assai celebri presso tutta l'antichità e furono annoverati tra quei pochi santi di cui ciascun sacerdote fa special memoria quando celebra la s. Messa.
Erano già trascorsi diciott’anni del regno di Diocleziano e di Massimiano, durante i quali i cristiani furono sempre perseguitati, ma quella persecuzione fino allora non era stata con legge comandata e si può dire che si eseguivano soltanto con rigore le leggi emanate dagli altri imperatori contro ai cristiani: leggi che tendevano piuttosto a farli prevaricare che a distruggere la loro religione. Per la qual cosa le stragi fatte dei cristiani nei primi diciott'anni dell'impero di Diocleziano si possono appellare una preparazione al terribile decreto di quella persecuzione che di tutte le antecedenti fu più crudele, più {38 [38]} sanguinosa e che fece appunto chiamare quell'epoca era dei martiri. Fu più grande il numero di quelli che riportarono la corona del'martirio in questo tempo, che non fu in tutto il corso dei tre primi secoli della Chiesa. Ma quanto più fu terribile la battaglia, tanto più furono gloriose le vittorie riportate dai soldati di Gesù Cristo.
Sul finire dell'anno 302 Diocleziano era con Galerio Cesare in Nicomedia. Costui portava un odio implacabile ai cristiani, e più egli udiva a parlare delle loro virtù e della loro santità, più sentivasi roso da invidia e da sdegno. È tempo di finirla colla genia de' cristiani, diceva all'Imperatore; costoro sono gente ostinata e finchè ve ne sarà uno vi sarà sempre una radice di sventura nel nostro impero. Diocleziano era di età avanzata, e sebbene anche egli detestasse la cristiana religione, tuttavia egli aveva dovuto più volte ammirare e provare la fedeltà dei cristiani. Ricordava le belle qualità di suo fratello s. Gabinio, de' suoi nipoti s. Cajo papa, Claudio, Massimo con molti loro {39 [39]} compagni da lai condannati a morte. Ricordava eziandio il senno di Cromazio prefetto di Roma, di Sebastiano Generale di sue truppe, ed altri prodi fatti morire per la fede. Era eziandio recente il fatto della Legion Tebea, martirizzata dal suo collega Massimiano. Collo spargimento di tanto sangue non aveva fatto altro che accrescere il nume de' cristiani e privare l'impero di sudditi fedeli e di coraggiosi soldati. Nè l'imperatore ignorava come sua moglie Serena, Valeria sua figlia e molti altri di sua corte, da lui molto amati, erano cristiani. Per questi motivi non sapeva risolversi ad emanare novelli decreti di persecuzione.
È cosa assai pericolosa, egli rispondeva a Galerio, il turbare ancora una volta la pace del mondo e versare fiumi di sangue. D'altronde i supplizi non otterranno alcun risultato, perchè i cristiani non dimandano che di morire.
Galerio allora convocò il consiglio di Stato e domandò il parere dei Ministri. Costoro per non incorrere nello {40 [40]} sdegno di Galerio diedero il loro parere per la persecuzione. Esitando tuttora l'Imperatore volle dare calma alle sue inquietudini col mandar a consultare Apolline. L'Oracolo diede questa risposta: «I giusti sparsi sopra la terra mi impediscono di parlare.» Fu dimandato ai sacerdoti di quell'idolo chi fossero i giusti, e ne ebbero risposta che con quel nome erano designati i cristiani.
Allora Diocleziano si arrese a sottoscrivere il fatale decreto di esterminio dei cristiani colla data 23 febbraio 303. Fra le altre cose si diceva quanto segue: «Le chiese dei cristiani saranno tosto uguagliate al suolo; i loro libri consegnati alle fiamme. Ogni nostro suddito che sarà riconosciuto cristiano sia immantinenti spogliato delle sue sostanze, dei suoi impieghi, delle sue dignità, e sia condannato a morte senza distinzione di età, di sesso o condizione. Eglino potranno essere citati e tradotti avanti ai tribunali, ma non potranno nè citare nè far tradurre gli {41 [41]} altri. Anzi potranno nemmanco dimandare le cose rubate o riparazione di ingiuria o di qualsiasi oltraggio. Gli schiavi fatti liberi ritorneranno schiavi per ciò solo che sono cristiani»
In forza di questo infernale editto i cristiani erano posti fuori della legge, cioè non potevano più godere dell'appoggio delle autorità civili, si che ognuno poteva impunemente insultare, disprezzare, spogliare, derubare un cristiano senza che egli potesse in modo veruno difendersi.
Un decreto speciale comandava che tutti i libri riguardanti alla religione cristiana fossero consegnati alle fiamme, pena la morte a quel cristiano presso cui si fosse trovato un libro che trattasse della sua religione.
Un terzo decreto era diretto contro i Vescovi ed i Sacerdoti, i quali dovevano di preferenza essere cercati e messi a morte. Massimiano confermò quanto il suo collega aveva stabilito contro ai cristiani, perciocchè queste barbarie erano conformi alla sua naturale ferocia. {42 [42]}
Crudeltà inudite e torture fino allora non mai immaginate furono messe in opera contro ai cristiani. Nella Mesopotamia alcuni furono sospesi in aria col capo in giù e soffocati a lento fuoco; nella Siria erano fatti arrostire nelle graticole infuocate; nell'Asia Minore e segnatamente nelle Provincie del Ponto erano loro appuntate canne fra ugna e carne, poi si versava del piombo liquefatto sui loro corpi. In Egitto dopo averli tanagliati erano sbranati con pezzi di coccio; nella Frigia un'intera città, i cui abitanti erano tutti cristiani, fu attorniata da un corpo di soldati con ordine di appiccarvi il fuoco; pel che uomini, donne e fanciulli perirono fra le fiamme lodando ed invocando il nome di Gesù Cristo. Eusebio vescovo di Cesarea testimonio oculare {43 [43]} e scrittore di queste barbarie dice che le crudeltà usate contro i cristiani in questa persecuzione sorpassano ogni umano linguaggio. Tutta la terra, dice il filosofo Lattanzio, dà Oriente ad Occidente fu inondata di sangue cristiano[2].
Ma Dio che non mai abbandona la sua Chiesa, la sostenne visibilmente in questa prova terribile e portò il soccorso in proporzione del bisogno. La persecuzione incominciò dallo stesso palazzo dell'imperatore dove molti fra i primi uffiziali erano cristiani. Furono adoperate tutte le arti e tutti gli inganni per forzare que' prodi a far sacrifizio agli Dei; ma essi tollerarono intrepidi lo sdegno del principe, la perdita delle loro dignità, i {44 [44]} tormenti più crudeli piuttosto che commettere un'infedeltà verso il loro Dio. Fra gli altri è maravigliosa la costanza con cui un giovane di nome Pietro sostenne tormenti che destano spavento al solo udirli. Spogliato esso de' suoi abiti fu appeso ad una macchina che alzavalo in alto e poi di piombo era lasciato cader sul suolo. Ammaccato ed infranto da queste cadute fu percosso con una moltitudine di colpi di bastone che tutte gli contusero le membra, anzi gli fecero per tutto il corpo piaghe così profonde che scoprivansi nude e peste le ossa. Allora gli fu versato per tutta la superficie del corpo sale e aceto, senza che gli orribili dolori scuotessero minimamente il suo coraggio. Di poi gli vennero appressati carboni accesi, e una graticola sulla quale fu fatta arrostire ogni parte del corpo una per volta, e per rendere lungo questo orribile tormento era allontanato ad intervalli dal fuoco per essere indi a poco di bel nuovo rimesso. Ma tutto questo raffinamento {45 [45]} di crudeltà fu inutile; il santo Martire vincitore dei tormenti e del tiranno spirava su quel letto di dolori senza che fessegli sfuggito il minimo lamento. Eusebio lib. 8, cap. 6.
Mentre Diocleziano dimorando in Nicomedia si adoperava fortemente per distruggere la religione cristiana Massimiano aveva adottata la medesima legge, i medesimi editti di persecuzione del suo padre adottivo. Pel desiderio poi di fare cosa che al medesimo tornasse gradita, Massimiano divisò d'innalzargli in Roma un maestoso edifizio, noto nella storia sotto il nome di terme ovvero bagni di Diocleziano. I cristiani che non erano condannati alla morte erano per lo più condannati alle terme. Questo lavoro era faticosissimo, dove in breve tempo quasi tutti lasciavano la vita. {46 [46]} Si contano oltre a trentamila cristiani che riportarono il martirio nei lavori di queste terme di Diocleziano.
Un fervoroso e ricco cristiano di nome Trasone, di cui abbiamo parlato nella vita di s. Gajo, continuava ad impiegar le molte sue sostanze a favore di coloro che pativano fame e sete lavorando nelle terme. Per non essere egli stesso scoperto faceva la sua carità per mezzo di alcuni cristiani di nome Ciriaco e Sisinio.
Quando s. Marcellino seppe le belle opere di carità che si compievano li chiamò a sè, si rallegrò con loro, lodò Trasone del suo distacco dalle ricchezze, lodò ed incoraggiò gli altri a continuare nella loro carità. Postosi di poi a discorrere con Sisinio e Ciriaco conobbe che erano molto instruiti nelle scienze ecclesiastiche, perciò li consacrò ambidue diaconi della Chiesa. Con maggior fervore di prima continuarono i novelli ministri nell'esercizio della loro carità. Ma qualche tempo dopo mentre nottetempo portavano ai condannati il vitto {47 [47]} che Trasone loro somministrava furono sorpresi dai soldati pagani e condotti al tribuno che li fece tosto chiudere in prigione.
L'imperatore Massimiano oltre alla carcere li condannò a scavare terra e a portare pesi d'ogni genere secondo il bisogno delle terme.
Tra coloro che già portavano acqua e sabbia per quei faticosi lavori eravi un attempato cristiano di nome Saturnino. Egli aveva passata una lunga vita nell'esercizio delle virtù e di opere di carità; ma per l'età sua avanzata non poteva più sostenere gravi fatiche e spesso cadeva sotto gli enormi pesi da cui era gravato. Mossi a compassione di lui Ciriaco e Sisinio come più sani e più robusti portavano i loro pesi e quelli di Saturnino. Tal caso essendo eziandio venuto a notizia di Massimiano mandò a chiamare Sisinio e gli tenne questo discorso: Come ti chiami?
Sisinio: Io mi chiamo Sisinio povero peccatore e servo dei servi di Gesù Cristo. {48 [48]}
Massimiano: Che cosa andate cantando fra di voi cristiani?
Sisinio: Se tu conoscessi i nostri cantici, conosceresti eziandio il tuo Creatore.
Massimiano: E chi è cotesto creatore se non l'invicibile Ercole?
Sisinio: Fa vergogna il nominare Ercole o udire voi a parlarne.
Massimiano: Se tu hai vergogna a nominare i nostri Dei, io ho vergogna a nominare te stesso. Basta quanto hai detto, scegli uno dei due, o che sacrifichi ad Ercole o che farò arrostire le tue carni sopra ardente bragia.
Sisinio: È da molto tempo ch'io desidero questa gloria; se questo tempo è giunto io godo grandemente perchè mi avvicino al possesso del più gran bene che uomo possa desiderare.
Massimiano allora mosso da sdegno consegnò i due diaconi al prefetto che li fece chiudere nel carcere Mamertino, che è quella famosa sotterranea ed oscura prigione, dove furono tenuti lungo tempo i santi apostoli Pietro e Paolo. {49 [49]} Intanto il Prefetto desideroso d'interrogare anch'egli i nobili prigionieri comandò al capo dei carcerati di nome Aproniano, che gli conducesse Sisinio. Ma appena questi penetrò colà dentro, tosto apparve una luce celeste e dal mezzo della luce uscì una voce che diceva: Venite a me, o benedetti del mio celeste Padre, ricevete il regno, che vi fu preparato dal principio del mondo. Approniano a quella vista spaventato esclamò: Ti scongiuro per quel Gesù Cristo che tu predichi a non tardare di amministrarmi il battesimo, affinchè io possa teco pervenire al possesso di quel regno glorioso di cui è fatto promessa. Sisinio lo interrogò e per quanto comportava la brevità del tempo lo instrui intorno alle verità della fede. Quando poi conobbe essere sufficientemente instruito lo battezzò.
Sisinio approffitando della notte e della libertà che Approniano come carceriere loro poteva dare, andò coi suoi compagni a fare una visita al Pontefice. Godette molto s. Marcellino {50 [50]} all'arrivo di que' fervorosi campioni della fede, e dopo di aver amministrato ad Approniano il sacramento della Cresima, celebrò la santa Messa infra cui amministrò a tutti il Corpo di nostro Signor Gesù Cristo.
Ritornati i santi Martiri nella prigione, vi passarono tutta la notte. Fattosi giorno Approniano li condusse dal prefetto. Questi pensavasi di udir Approniano a proferir imprecazioni contro ai cristiani, e vomitare bestemmie contro al nome di Gesù Cristo; ma fu il contrario. Udi in vece queste parole: E fino a quando il demonio vi spingerà a maltrattare in tante guise i servi di Dio? Il Prefetto maravigliato soggiunse: Come? sei anche tu forse cristiano? Approniano: Me infelice! ho perduto i più bei giorni di mia vita! Dalle quali parole {51 [51]} fortemente mosso a sdegno, il prefetto lo condannò alla morte dicendo: Se non togliamo costui di vita molti periranno per cagion sua, e gli fece tagliare la testa. Per incutere vieppiù terrore negli astanti, la sentenza fu sull’ istante eseguita. Mentre eseguivavasi la sentenza di morte contro ad Approniano il Prefetto diceva a Sisinio e Saturnino: Se non farete sacrifizio agli Dei vi farò egualmente perire in mezzo ai tormenti.
Fatto poscia portare un turibolo pieno di fuoco con incenso, soggiunse: Fate immediatamente un sacrifizio ai nostri Dei. Saturnino rispose: Il Signore Iddio riduca in polvere gli Dei dei gentili. In quel momento e il turibolo e l’ incenso furono ridotti in minutissimi pezzi. A quel miracolo due soldati di nome Mauro e Papia si posero ad esclamare: G. Cristo, che adorano Sisinio e Saturnino, è il vero Signore Iddio. Il Prefetto altamente sdegnato cominciò dal sottomettere Saturnino a molti e gravi tormenti; fece spezzare i denti con una pietra {52 [52]} a Magro e a Papia, dipoi distese sopra le fiamme Sisinio e Saturnino. Dopo questi e molti altri tormenti fu loro troncata la testa.
Soltanto la sentenza contro Papia e Mauro fu differita. Per la qual cosa essi ebbero tempo di instruirsi convenientemente nelle verità del Vangelo e di ricevere il Battesimo e la Cresima dal santo Pontefice. Dopo furono sottoposti alle sferzate ed alle bastonate, e sotto a quei colpi spietati terminarono la vita.
Molti altri ottennero la palma del martirio in questa terribile persecuzione. Celeberrimo fu quello di santa Agnese. All’ età di soli dodici anni ella fu in mille guise insultata, flagellata, minacciata. Ma ella rispose con celeste sapienza a tutte le obbiezioni che le facevano, e con una serie {53 [53]} di prodigi Dio la liberò dagli ingoiti de' maligni e finalmente cinta della corona dei vergini e dei martiri volava gloriosa al Cielo il 21 gennaio nel 304.
Il santo Pontefice Marcellino faticava giorno e notte a favore della fede. Ajutato da parecchi fervorosi ecclesiastici si faceva tutto a tutti per guadagnare tutti a Gesù Cristo. Assistere gli infermi, istruire gl’ igoranti, soccorrere le vedove e gli orfani, visitare e incoraggiare quelli che nelle carceri pativano per la fede; animare alla costanza quelli che erano minacciati o condotti al martirio, erano le ordinarie occupazioni del coraggioso Pontefice. Ma il suo zelo fu appunto quello che lo palesò ai persecutori, che da lungo tempo andavano in traccia di lui.
Con altri arrestato venne condotto nelle carceri dove gli furono fatti patire tutti quei mali che la barbarie seppe inventare. Ma il santo Pontefice tutto sopportò con ammirabile pazienza. Tutto rassegnato ai voleri {54 [54]} di Dio, pregatalo instantemente perchè si degnasse di aprire gli occhi ai persecutori ed avesse pietà della sua greggia.
Abbiamo negli atti che si conservano nei codici vaticani, che s. Marcellino mentre era condotto al martirio ordinò, che il suo corpo fosse deposto in una cripta, ovvero in un cubicolo del cimitero di s. Priscilla nella via Salaria presso al corpo di s. Crescentone. Egli era coronato del martirio il 26 aprile 304, dopo aver governata la santa Sede otto anni meno sette giorni. Con lui furono eziandio martirizzati i Ss. Claudio, Cirino e Antonino.
Tenne egli due volte la sacra ordinazione nel mese di dicembre, in cui ordinò quattro sacerdoti e due vescovi che mandò al governo di alcune diocesi lungi da Roma. Fra i sacerdoti da lui ordinati, di cui la storia ci conservò i nomi, fu s. Silvestro, che dopo aver lavorato per la religione sotto a quattro Pontefici finalmente venne egli stesso innalzato {55 [55]} alla Sede pontificia siccome a suo tempo racconteremo.
Per eccesso di barbarie il corpo del s. Pontefice e quello de' suoi compagni furono esposti al pubblico disprezzo e si lasciarono trenta giorni senzadio niuno potesse dar loro sepoltura. Finalmente s. Marcello notte tempo e coll’ ajuto di alcuni zelanti cristiani riusci a portar via quei cadaveri. Il corpo di s. Marcellino fu portato a seppellire nel luogo da lui a s. Marcello ordinato. La sepoltura fu fatta solenne, e vi prese parte tutto il clero Romano portando lumi in mano, cantando inni sacri al Signore e facendo preghiere certamente in suffragio dell’ anima di lui, che per altro era già volata al cielo.
Da questo fatto apparisce quanto sia antico l’ uso praticato dalla Chiesa cattolica di portar lumi, cantar inni sacri, fare preghiere nell’ accompagnare i cadaveri alla tomba. {56 [56]}
Alcuni parlando di questo santo Poutefice hanno fatto un nome solo tra Marcellino e Marcello, che ne fu il successore quasichè il primo sia nome diminutivo del secondo. Ma tutti gli Scrittori latini e i più accreditati scrittori greci stabiliscono due pontificati uno diverso dall’ altro; descrivono le azioni, il tempo del pontificato in guisa che per niun modo possono convenire alla medesima persona. Perciò la Chiesa cattolica appoggiata sopra la autorità della storia tramandata dai più remoti tempi fino a noi fa due solennità con ufficiatura, con messa e lezioni distinte da leggersi in tempo diverso. La festa di s. Marcello si celebra ai 16 gennaio, quella di s. Marcellino ai 26 aprile.
Altra cosa si suol notare di s. Marcellino ed è una supposta caduta nell’ idolatria. Ecco la cosa come è raccontata. Nella persecuzione di Diocleziano {57 [57]} spaventate dai tormenti, a cui i martiri erano assoggettati, offerì incenso agli idoli. Ma poscia pentito andò a Sinoessa, ove in un concilio di 300 vescovi confessò il suo peccato. Niuno per altro osò condannarlo dicendo la prima Sede non poter essere giudicata da nessuno. Allora Marcellino ritornò a Roma agitato dai rimorsi, presentossi all’ Imperatore, lo rimproverò intrepidamente della sua crudeltà, e così ottenne il martirio.
Ma i migliori storici sostengono che quel fatto è intieramente favoloso. Natale Alessandro fa una dissertazione per provare che quel fatto è del tutto falso. La caduta di Marcellino, egli dice, è una favola inventata dai Donatisti in odio del Papa. Teodoreto chiama Marcellino uomo forte che nella persecuzione si condusse maravigliosamente.
S. Agostino parla di questo fatto rispondendo all’ eretico Petiliano come segue: «Che bisogno avvi di confutare le accuse portate da Petiliano contro {58 [58]} ai vescovi di Roma che egli copre di calunnie e d’ imposture con un accanimento incredibile? Egli accusa Marcellino di aver consegnato i libri santi ai gentili e offerto incenso agli idoli; ma un rimprovero che è fondato sopra niente, può egli stabilire a suo favore la colpa di quello? Petiliano assicura che egli è stato sacrilego, ed io rispondo che esso è innocente. Perchè dovrò io mettermi a trattare la difesa di uno quando l’ accusa è destituita di ogni prova e di ogni fondamento?» Quanto poi al concilio di Sinoessa esso non ha mai esistito, come niuno seppe mai ove sia esistita una città di questo nome. Inoltre in tempo della terribile persecuzione di Diocleziano come era mai possibile poter venire a concilio 300 vescovi? I dotti scrittori, Pagi, Tillemont, Berti e Benedetto XIV vanno d’ accordo nell’ asserire essere una vera favola l’ apostasia di s. Marcellino[3].{59 [59]}
Appena Diocleziano sottoscrisse il sanguinoso editto di persecuzione tosto cominciarono a cadere sopra di lui gravi flagelli. Galerio che lo aveva {60 [60]} spinto a perseguitare i cristiani, dopo gli si rivoltò contro minacciandolo di morte se non abdicava. Perciocchè Galerio spingendo il sovrano a maltrattare i sudditi cristiani sperava di avere con ciò’ un pubblico pretesto a fargli abdicare l’ impero. Allora Diocleziano stanco per l’ età e per le fatiche sostenute in tempi di pace e in {61 [61]} tempo di guerra, costretto dallo stesso suo figlio adottivo, rinunciò al trono e si ritirò in Salona città posta sulle rive dell’ Adriatico. Ma la mano di Dio che pesava sopra di lui lo accompagnava ovunque. La sua salute si alterò in modo che perdette quasi interamente l’ uso della ragione, e ne conservò soltanto quel poco che gli bastava per sentire il peso delle miserie e dell’ avvilimento della sua condizione. Intanto lo assale un umor bilioso che lo divora. Languente, tristo, agitato da perpetue inquietudini non pigliava quasi più alimento di sorta, non riposava il giorno, non dormiva la notte. Sovente rompeva in forti gemiti, si vedeva spessissime volte a lacrimare con tutta la debolezza di un fanciullo. Oppresso dalle pene, o meglio dai colpi della celeste vendetta, si abbandonò alle più violente agitazioni, e cieco nella sua frenesia si percuoteva da se medesimo, si voltolava a terra mettendo speventevoli grida. Finalmente bramando di terminare una vita infelice con una {62 [62]} presta morte si lasciò disperatamente morire di fame.
Poco dissimile fu la morte di Massimiano suo genero e suo emulo nella barbarie e crudeltà. Egli adottò le medesime leggi, i medesimi editti che Diocleziano aveva emanato, quindi non solo nelle parti d’ Oriente, dove comandava Diocleziano, ma in tutto l’ Occidente dove governava Massimiano infuriò la persecuzione. Ma dovette anch’ egli provare gli effetti dell’ ira di Dio. Costretto a rinunciare al trono, andava viaggiando dall’ Italia nelle Gallie e dalle Gallie nell’ Italia, ora fingendo di volere davvero abdicare al trono, ora eccitando sedizioni contro a chi pretendeva all’ impero. Ma tramando insidie contro il suo genero Costantino il grande fu rinchiuso in una prigione. Per grazia speciale messo in libertà formò tosto il reo disegno di uccidere nel letto il suo generoso benefattore. A tale effetto andò nottetempo, ma invece di Costantino mise a morte uno sciagurato eunuco postovi {63 [63]} in luogo del genero. Nell’ atto che consumava il suo delitto, Costantino apparve attorniato dalle sue guardie, fece imprigionare l’ assassino con facoltà di eleggersi qual genere di morte volesse. Massimiano, trascelse quello di essere strangolato e lo pose colle proprie mani in esecuzione.
Cosi terminarono la loro vita questi due famosi Imperatori: ambidue celebri per virtù e valore militare; ambidue lodati per la destrezza nel maneggiare le cose politiche; ambidue dati ai vizi della crapula e dell’ intemperanza; ambidue crudeli persecutori dei cristiani. La divina giustizia permise che prima della loro morte provassero in gran parte gli spasimi, le umiliazioni, i patimenti che eglino stessi avevano fatto soffrire ai martiri di Gesù Cristo. V. Latt. de mart, pers {64 [64]}
Galerio oltre all’ odio grande che nutriva contro ai cristiani aveva l’ ambizione di voler regnare solo. Invece di intendersi con Costanzo Cloro, che doveva succedere a Massimiano, egli creò Cesari un generale di nome Severo ed un suo nipote di nome Massimino. Costanzo per evitare la guerra civile approvò i novelli Cesari; ma poco dopo esso essendo morto, le sue truppe si radunarono ed innalzarono al trono suo figlio Costantino il grande. Esso per altro si contentò del titolo di Cesare, mentre Severo era proclamato imperatore. Ma il governo arbitrario e tirannico di Galerio provocò una rivoluzione in Roma dove fu proclamato imperatore Massenzio figliuolo di Massimiano.
Mentre succedevano questi scompigli s. Marcello assunse il governo della Chiesa universale. Egli era nato {65 [65]} in Roma, suo padre si appellava Benedetto, ed aveva gii faticato molto pel bene della Chiesa dorante il governo di vari pontefici.
Quando s. Marcellino era condotto al martirio avendo incontrato Marcello gli indirizzò queste parole: Non temere i sanguinosi decreti di Diocleziano, temi soltanto Iddio, egli sarà sempre con te.
Questo Marcello fu il successore del medesimo Pontefice. La Sede pontificia era stata vacante circa sette mesi ed il 21 novembre del 304 fu innalzato alla santa Sede mentre tuttora infuriava la persecuzione ordinata da Diocleziano. Onde si può dire che cominciò il suo papato coll’ andarsi a nascondere nelle catacombe per potere con qualche libertà trattare le cose della Chiesa[4].{66 [66]}
Sia a motivo delle passate persecuzioni, sia perla lunga vacanza della Sede pontificia le cose della religione erano sossopra. Nella medesima città di Roma a stento i fedeli potevansi radunare nelle tombe o nelle grotte per assistere ai divini misteri. Già s. Evaristo aveva divisa Roma in venticinque rioni o quartieri, a ciascuno dei quali deputò un sacerdote incaricato della cura dei cristiani e dei gentili che avessero abbracciato la fede; ma quei sacri ministri erano stati o mandati in esilio o martirizzati, le loro abitazioni atterrate, i libri abbruciati; sicchè non appariva quasi più traccia di quanto aveva quel Pontefice stabilito, s. Marcello approfittando del tempo in cui il Romano impero era agitato per l’ abdicazione degli imperatori Massimiliano e Diocleziano e per le discordie insorte tra i varii pretendenti, si occupò colla massima sollecitudine in quel tratto di tempo almeno in apparenza pacifico per consolidare la disciplina ecclesiastica e riordinare le cose o distratte {67 [67]} o sconvolte dalla persecuzione. Divise nuovamente la città di Roma in venticinque parochie come in altrettante diocesi; deputò a ciascuna un prete che più tardi prese il nome di cardinale. Ad esso aggiunse altri sacri ministri come altrettanti viceparoci ovvero coadiutori. Fissò di poi le attribuzioni, cui dovevano tendere le loro sollecitudini. Era speciale ufficio di essi amministrare il sacramento della penitenza e della santa Eucaristia; celebrare la santa Messa, conferire il battesimo a quelli che erano sufficientemente instruiti; instauro i fanciulli; aver cura delle vedove e degli orfani; far conoscere il vangelo ai gentili; soccorrere e confortare quelli che si trovavano in bisogno od erano condotti al martirio. V. Burio in s. Marcello.
Inoltre durante la persecuzione avveniva che non si poteva dare la sepoltura ai cristiani a segno, che spesso i corpi degli stessi martiri giacevano delle settimane e talvolta dei mesi senza che si potessero seppellire, siccome {68 [68]} avvenne del corpo di s. Marcellino e dei suoi compagni, s. Marcello consacrò certi siti e li destinò ad uso di cimiteri; uno specialmente fu edificato nella via Salaria destinato ad accogliere i corpi di coloro che morivano per la fede.
Taluno farà maraviglia leggendo come il Papa in tempo di sanguinosa persecuzione abbia potuto mandare ad effetto opere pubbliche, quali sono cimiteri e chiese. È facile rispondere.
Mentre ardevano accanite guerre, come si disse, per la successione degli Imperatori non si badava molto alle cose di religione.
Di più Massenzio, che ebbe il governo di Roma, sul principio del suo regno vedeva di buon occhio i cristiani e concesse loro diversi favori. Alcuni pretendono che siasi anche fatto instruire nella fede per divenire cristiano. Ma coll’ andare del tempo, dando esecuzione alle leggi de' suoi antecessori, divenne egli pure feroce persecutore dei cristiani. V. Bar. 309. {69 [69]}
Ordinate così le cose interne di Roma portò il suo pensiero alle esterne. Persuaso che dai buoni ecclesiastici dipende il progresso della religione, di questi si occupò eziandio con grande zelo. Oltre a quelli che erano e in Roma e fuori di Roma consacrati dagli altri vescovi, tenne egli stesso più volte la sacra ordinazione in cui consacrò venticinque sacerdoti, due diaconi, e vent’ un vescovi che mandò ad occupare diverse diocesi lungi da Roma. Tra questi vescovi merita di essere specialmente nominato s. Emidio che dal s. Pontefice fu inviato ad Ascoli celebre città dell’ Umbria. V. Boromio a. 309.
S. Emidio era nato in Germania in una città vicina la fiume Reno. {70 [70]}
Dopo aver compiato gli stadi delle scienze profane, giunse a conoscere la santità della religione cristiana, la quale abbracciò e professò fervorosamente. Gli autori di sua vita raccontano una moltitudine di maraviglie operate in sua patria e ne' suoi viaggi. Noi trasceglieremo solamente quelle cose, che hanno più stretta relazione col pontificato di s. Marcello. Mosso da divina inspirazione, egli parti con tre compagni detti Euplo, Valentino e Germano. Giunto in Milano si pose a predicare la fede, ed essendo stata conosciuta la sua grande scienza e le rare sue virtù, venne ordinato sacerdote dal vescovo di quella città. Ivi dimorò tre anni esercitando specialmente il suo sacerdotale ministero in una chiesa già esistente sotto il nome di s. Nazario {71 [71]} e Celso. Ma il nemico del genere umano invidioso del bene che Emidio operava, eccitò contro di lui una turba di gentili, che coprendolo di villanie e di oppressioni lo cacciarono fuori della città. La chiesa milanese celebra ogni anno il 20 gennaio questa persecuzione del santo sostenuta per la fede di Gesù Cristo. Allora Emidio continuò il suo cammino alla volta di Roma, dove giunto, andò a prendere alloggio in casa di un soldato detto Graziano. Aveva costui una figliuola da cinque anni gravemente inferma. Ogni spesa, ogni cura dell’ arte era tornata inutile. Quando intese che quei forestieri sapevano di medicina, sentissi il cuore pieno di fiducia per la guarigione di sua figlia. Disse loro pertanto: Io ho una figlia unica, la quale da cinque anni patisce flusso di sangue; nulla giovarono le cure dei medici, nemmanco le arti e i rimedii dei nostri indovini; se mai voi la potete guarire, vi darò una vistosa somma di danaro, e vi acquisterete un nome che vi renderà {72 [72]} ricchi, cari e gloriosi più di ogni altro medico di questa città.
Emidio: noi siamo medici, come ti abbiamo detto, e possiamo guarire in un momento la tua figliuola purchè si faccia cristiana. Accondiscese il soldato, e nell’ atto che dava alla figliuola col battesimo la salute dell’ anima, le restituiva in pari tempo la perfetta primiera sanità corporale.
Sparsa la voce di questo miracolo si portarono molti altri infermi che tutti furono miracolosamente guariti. Pei miracoli che si operavano, per le predicazioni che si facevano molti gentili vennero alla fede. In un sol giorno 650 ricevettero il battesimo, altro giorno 1030.
Alla vista di tanti gentili che venivano alla fede, i sacerdoti idolatri gli si rivoltarono contro con minaccia di fare uccidere Emidio e i suoi compagni dalla moltitudine se non uscivano di città. Ma un angelo del Signore apparve notte tempo ad Emidio ed ai suoi compagni, parlando con chiara voce in questo modo: Non voler {73 [73]} temere i tormenti dei carnefici, Dio è con voi, alzatevi presto di letto; andate dal papa Marcello, egli vi additerà quanto dobbiate fare. A questo ordine divino Emidio coi compagni andò immediatamente dal. Pontefice. Come fu alla presenza di lui Emidio cominciò a parlare cosi: 0 Padre universale e mediatore tra Dio e gli uomini, la cui lingua chiude ed apre la porta del Cielo, vieni in nostro ajuto, perciocchè noi siamo gravemente perseguitati perchè non vogliamo negare Gesù Cristo. S. Marcello con parole di compiacenza prese loro a parlare così: Di che paese siete voi? In che cosa io potrei ajutarvi? Quale è l’ ufficio vostro in questa città?
Emidio rispose: Noi siamo nati e stati nudriti nella Germania; ci siamo portati a Roma guidati dallo spirito di orazione, ed avvisati da un Angelo siamo venuti qui ai piedi tuoi. Io sono un peccatore di nome Emidio, insignito della dignità sacerdotale. Fui ordinato in Milano nell’ oratorio dei santi Martiri Nazario e Celso. Colà predicai {74 [74]} per tre anni il Vangelo. Ma a motivo della sanguinosa persecuzione mossa in quella città ai servi di Dio fui costretto di fuggire e venire a Roma. Ora co' miei compagni sono qui a' piedi tuoi chiedendoti ajuto e consiglio. Da tre giorni desidero parlarti, ma i molti affari cui tu devi dar sesto me l’ hanno impedito.
S. Marcello gli rispose: Ho udito a raccontare molte cose di te, e so quanto hai fatto in questa nostra città; ora per avere tempo a discorrere e conoscere meglio la volontà del Signore credo bene che tu passi con me questa notte, domani poi dirò quello che dovrai fare.
S. Marcello si trattenne molto tempo a colloquio con s. Emidio, e scorgendo in esso scienza, prudenza e {75 [75]} santità necessarie pel capo di una diocesi, pensò di .consacrarlo vescovo. Volle egli stesso compiere quella funzione con grande concorso di sacerdoti e di semplici fedeli e lo consacrò vescovo della chiesa di Ascoli, ed ordinò diacono Euplo di lui discepolo. Dategli quindi alcune regole di prudenza necessarie per quei calamitosi tempi, lo inviò alla sua diocesi. Molti romani lo pregarono a voler ancora rimanere qualche tempo presso di loro per dare guarigione ad alcuni infèrmi; ma egli loro rispondeva: Non posso appagarvi, perciocchè io debbo ubbidire agli ordini del mio Pastore, e del mio padrone Marcello papa. È meglio ubbedire che fare sacrifizio Non potendolo trattenere più a lungo, lo pregarono almeno di accettare varii oggetti preziosi in oro, in argento, e raccomandandosi tutti alle sue sante preghiere, il lasciarono partire. Ma parecchi suoi amici e molti altri da lui beneficati il vollero accompagnare fino ad Ascoli in numero di oltre a mille persone. Entrato in quella città si pose a {76 [76]} predicare la fede di Gesù Cristo operando molti miracoli. La qual cosa fu cagione che molti vennero alla fede. Guadagnò molti gentili, distrusse molti templi degli Dei, altri purificò e consacrò al vero Dio. Così in breve tempo non solamente in Ascoli, ma in tutte le città del Piceno e dell’ Umbria facevasi risuonare il nome di Gesù Cristo. Il governatore della città, di nome Polimio, mosso a sdegno perchè una moltitudine di pagani abbracciava la fede, e la sua stessa figliuola erasi fatta cristiana, ordinò al nostro santo di cessare dalla predicazione. Al quale comando ricusando il santo di ubbidire, il governatore lo fece incatenare, e lo condannò al taglio della testa. Affinchè poi il popolo non si rivoltasse contro di Polimio fece segretamente eseguire la barbara sentenza il 5 agosto. Intanto una ricca e nobile matrona timorata di Dio, raccogliendo il sangue del nostro Martire, ne riempi tre piccoli vasi di vetro, di cui uno mandò a s. Marcello papa. Il Pontefice ricevette quella preziosa reliquia {77 [77]} in un momento in cui infieriva grandemente la persecuzione, in cui egli stesso doveva essere al Signore sacrificato.
Poco dopo la notizia della morte di s. Emidio, il santo Pontefice dovette assistere al martirio di Ciriaco e de' suoi compagni. Di essi abbiamo già parlato nella vita di s. Marcellino, qui daremo ancora un cenno sulla loro preziosa morte.
Questo santo aveva avuto la gloria di liberare da grave malattia s. Artemia figlia di Diocleziano e s. Iopia figlia del re di Persia. Finalmente dopo lunghi e crudi tormenti fu condannato ad essere strascinato davanti alla vettura dell’ Imperatore. S. Marcello commosso alla vista dei grandi tormenti che al suo caro discepolo si facevano patire, si presentò coraggiosamente {78 [78]} dall’ Imperatore e gli disse: eh! abbi pietà dei servi di quel Dio che essi pregano ogni giorno per te e pel tuo impero! Fu sempre gloria dei Romani umiliare i superbi e sollevare gli umili. E tu non voler degenerare. Deh! mira quanti innocenti oppressi, quante crudeltà verso coloro che sono mansueti come agnelli! l’ opprimere in simile guisa gli inermi e gli innocenti è un’ infamia al nome romano, è un’ abbominazione a' suoi principi.
Massenzio lasciò che il Pontefice liberamente parlasse. Ma dopo saltò sulle furie e condannò tosto s. Marcello alla flagellazione. Diede poscia ordine che Ciriaco fosse esposto ad ogni sorta di tormenti. L’ esecuzione della sentenza fu affidata al vicario di Roma di nome Carpasio.
Desideroso esso di vedere quel Ciriaco di cui aveva udito a raccontare tante maraviglie lo fece co' suoi compagni condurre alla sua presenza, quindi gli disse: Perchè disprezzate voi i comandi dei vostri principi e {79 [79]} non volete far sacrifizi agli immortali nostri dei?
Risposero: Noi ci offriamo di cuore in sacrifizio al Signor nostro Gesù Cristo e non possiamo ad altri sacrificare.
Carpasio: fate senno ed eseguite gli ordini miei, e. specialmente tu, o Ciriaco, con questa tua bianca canizie dovresti essere persuaso e star a' miei comandi. Che se per tua mala ventura ti mostrassi ostinato, io saprò ben modo di fartela ringiovanire. Ciò detto fece fondere della pece in una grossa pentola, e comandò che fosse versata bollente sul capo di Ciriaco. Il coraggioso confessore della fede non altro disse che queste parole: Ti rendo grazie, o Signore, che ci fai degni di entrare nelle porte del Cielo. Finalmente egli con Largo, Smaragdo e Crescenziono dopo di essère stati sottoposti a tormenti di ogni genere, compierono il martirio coll’ essere loro troncata la testa il 15 febbraio un’ anno prima del martirio di s. Marcello. {80 [80]}
Otto giorni dopo il martirio di s. Ciriaco e suoi compagni, venne s. Marcello con s. Lucina al luogo dove erano i loro cadaveri. Avvoltili in un lenzuolo li unse con aromi, e nottetempo li pose sopra di un pavone, che è una specie di piccolo feretro, quindi accompagnato da alcuni fervorosi cristiani, li trasportò in un podere della medesima Lucina in distanza di sette miglia da Roma nella via di Ostia che presentamente dicesi di s. Paolo.
Questa Lucina impiegava le molte sue sostanze nel soccorrere i cristiani specialmente quelli che pativano per la fede. Desiderando di ispropriarsi di tutto e farne compiuto sacrifizio al Signore, per mano del sommo Pontefice fecit donationem de facilitate sua {81 [81]} ex omnibus Sanctae Ecclesiae Catholicae. Cioè fece donazione di ogni suo avere alla Santa Chiesa Cattolica, perchè anche in quei calamitosi tempi, la Chiesa aveva già i suoi possessi rispettati dalle stesse leggi pubbliche; queste leggi erano state bensì annullate da Diocleziano nell’ impero d’ Oriente, ma erano poi tollerate nell’ impero d’ Occidente dove comandava Massenzio.
Una largizione cosi vistosa fece grande rumore in Roma; quando poi la notizia giunse all’ Imperatore, ne fu altamente sdegnato e condannò Lucina all’ esilio. La santa Eroina si sottomise con gioia alla crudele sentenza, ma prima di partire pregò s. Marcello a voler consacrare in chiesa la propria di lei casa. Con sommo gradimento il Pontefice appagò i pii desideri della Santa e fece la sacra funzione con quella maggior solennità che i tempi permettevano. Di più il sommo Pontefice reputando quel luogo molto comodo ai cristiani, andava sovente nella novella chiesa a celebrare la santa {82 [82]} Messa, fare istruzioni al popolo ed amministrare la santa comunione. Ma l’ Imperatore giudicando forse tal cosa fatta in suo dispetto, mandò i suoi soldati a profanare il santo luogo, lo empiè di animali e lo cangiò in un catabalo ovvero stalla pei giumenti, che in Roma solevansi mantenere in luoghi determinati ad uso pubblico. Per manifestare poi speciale rabbia contro s. Marcello, fecelo condurre alla sua presenza minacciandolo delle più gravi sciagure, se non rinunziava alla dignità di vescovo di Roma.
Il coraggioso Pontefice rimproverò l’ Imperatore della crudeltà usata contro ai servi di Dio osservando che, quanto egli ed i cristiani facevano, era tutto scevro di colpa e diretto al pubblico bene; perciò nessuna minaccia, nessun male del mondo avrebbegli fatto rinunziare al glorioso titolo di vescovo di Roma, e di vicario di Gesù Cristo. Massenzio senza più dire cacciò il santo dalla sua presenza e lo condannò a servire in quella medesima casa di Lucina da lui consacrata al divin culto {83 [83]} e dall’ Imperatore ridotta in una stalla.
Quella casa, dice l’ autore della vita di s. Marcello, servì a lui e di carcere e di esilio; ma contento di patire per amore di Gesù Cristo si prestava volentieri al basso servizio di quegli animali. Il suo vitto era pane ed acqua, il suo letto un puro pavimento, il suo vestito un sacco con cilicio. Colà offerendo se stesso in sacrifizio pregava Iddio ad aver pietà della sua Chiesa ed infondere coraggio in quelli che erano condotti al martirio. Mortificazioni, veglie, digiuni erano le sue occupazioni, finchè in modo inaspettato venne tolto per forza da quella stalla siccome siamo per raccontare.
I suoi chierici e molti altri fedeli addolorati perchè il capo della cristianità fosse condannato a lavori cotanto umilianti e penosi vennero notte tempo e sia che ciò facessero per vie e porte sconosciute, sia che ingannassero la vigilanza delle guardie, fatto fu che tolsero s. Marcello da quella stalla e lo restituirono in libertà. Tutta la Chiesa godeva grandemente {84 [84]} della libertà riacquistata dal suo capo; ma quella consolazione fu di breve durata, imperocchè saputa la cosa l’ Imperatore ordinò che fosse di nuovo con gran diligenza ricercato e stretto fra catene ricondotto in quella stalla di prima. Colà gli furono a segno diminuiti i cibi ed accresciute le fatiche, i dispregi, le oppressioni, che in breve dovette soccombere. Cosi egli consumato dalla fame, dalla sete, dalle infermità, dalle vigilie, dai digiuni il 16 gennaio 309 lasciava la stalla cui era stato condannato e volava a godere la gloria del paradiso, e invece di animali andava a godere la compagnia degli Angeli e dei Santi per tutti i secoli dei secoli. Il suo corpo fu tolto di notte da un sacerdote di nome Giovanni il quale in compagnia di altri sacerdoti e di altri fedeli lo portarono ad essere seppellito nel cimitero di s. Priscilla nella via Salaria tre miglia lungi da Roma.
Questo santo Pontefice si suole dipingere con due chiese tra le mani e con due Imperatori prostrati a' suoi {85 [85]} piedi. I due Imperatori si credono Massimiano e Massenzio da lui superati colla eroica sua fermezza nella fede e nei patimenti. Le due chiese poi sono la casa di s. Lucina da lui consacrata, e la casa di s. Ciriaco dove egli consacrò un fonte battesimale. V. Molano in natalibus sanctorum.
Gli atti che riferiscono il martirio di s. Marcello, di s. Ciriaco e dei suoi compagni, dopo di avere esposto i loro patimenti e la loro morte gloriosa, raccontano la trista fine di Carpasio vicario di Roma, che con inudito accanimento si era studiato di tormentare i servi del Signore. Il fatto è raccontato come segue: Quando Massenzio seppe l’ esecuzione della sentenza per parte di Carpasio, lo mandò a chiamare per essere informato della {86 [86]} disputa e della morte cui soggiaquero i nostri santi. L’ Imperatore si mostrò talmente suddisfatto, che Carpasio giudicò potergli in quel momento dimandare la casa abitata da s. Ciriaco. Questa casa era stata donata alcuni anni prima al nostro Santo dall’ imperatore Diocleziano perchè aveva liberato Artemia sua figlia da mortale infermità. Di buon grado Massenzio appagò il desiderio di Carpasio concedendogli la casa con tutto il mobilio , che nella medesima aveva lasciato s. Ciriaco. Quando Egli vi andò al possesso fece una gran festa invitando una moltitudine di arnia a prenderci parte. Fra le altre cose ebbe caro un luogo dove s. Ciriaco aveva edificato un fonte battesimale, che s.Marcello medesimo aveva consacrato. Colà s. Ciriaco soleva battezzare coloro che venivano alla fede. Carpasio per incrudelire contro i servi del Signore, che già erano defunti, e per disprezzo della cristiana religione cangiò quel battistero in un bagno, ad deridendam legem christianorum. Che più? volendo {87 [87]} condurre l’ empietà all’ estremo cangiò quella casa in un pubblico ridotto, a guisa che si commettevano in quel bagno le più orribili nefandità. Ma guai a chi disprezza le cose del Signore, egli stringe una spada a due tagli! facendosi spesso colà convegno di gente di buon tempo e scostumata; e Carpasio godendo di quel turpe guadagno, ne fu con molti suoi amici terribilmente colpito dalla mano del Signore. Un giorno mentre con molti compagni usciva dal bagno in numero di venti, come colpiti da un fulmine, caddero morti sull’ istante. A quel colpo terribile quelli, che rimasero in vita o fuggirono o si diedero a trarre fuori i cadaveri degli estinti tra cui lo stesso Carpasio per condurli a sepoltura. Questo fatto servi efficacemente ad accrescere il numero dei fedeli. Da quel giorno istesso fu chiuso il bagno e quel luogo diventò oggetto di timore dalla parte dei gentili, e di venerazione da parte dei cristiani. {88 [88]}
Il corpo di questo santo Pontefice fu sepolto, come si è detto, nel cimitero di s. Priscilla. Colà cominciò a farsi grande concorso di gente. Circa l’ anno 550 il suo corpo fu portato entro la città di Roma, ma molte parti vennero concesse ad altri paesi.
Celebre è la reliquia concessa ai religiosi di Altomonte nel Belgio; eccone in breve la storia. V. Ursione presso i Boll. 16 Jan.
Circa l’ anno 650 essendosi terminato un vasto edifizio destinato per abitazione di monaci, vennero chieste alcune reliquie al sommo Pontefice Martino I per onore e gloria del convento. Come reliquia insigne e preziosa fu donata la maggior parte del corpo di s. Marcello. Il vescovo di quella città ed il re del Belgio, di {89 [89]} nome Dagoberto, furono compresi dalla più grande allegrezza. Il re volle che ogni cosa si facesse a sue spese, e il vescovo si adoperò affinchè il trasporto fosse effettuato colla massima venerazione e solennità. Chiuse e sigillate in un’ urna d’ argento quelle reliquie furono per molti secoli in Altomonte oggetto di venerazione e di benedizione. Ma per le molte guerre, pel passaggio di eserciti, per invasione di gente straniera, caddero in dimenticanza a segno, che nemmen più sapevasi in qual sito riposassero.
Per altro la divina Provvidenza dispose che fossero novellamente scoperte e fatte oggetto di culto pubblico l’ anno 1054. Questo ritrovamento è in ogni anno con festa speciale celebrato il giorno 8 settembre, giorno in cui avvenne la gloriosa scoperta, che per quei popoli fu pegno di molti celesti favori.
Noi ne esponiamo soltanto alcuni ricavati dal mentovato Ursione autore contemporaneo e superiore di quel convento. All’ occasione che furono {90 [90]} scoperte quelle reliquie, egli dice, fu fatta una grande solennità con molto concorso di fedeli. Fra l’ immensa moltitudine venne eziandio condotta una giovine sordomuta dalla nascita. Mossa da viva fede e dalla speranza di guarire corre a prostrarsi vicino all’ urna del Santo e non colla voce, ma coi gemiti e cogli affetti del cuore sta immobile, supplicando e attendendo la grazia ad intercessione del Santo. In quel momento il Cielo, che prima erasi coperto di dense nuvole, si fa sereno e la chiesa appare tutta irradiata di viva luce. Allora la fanciulla tutta festevole si alza, volge lo sguardo verso la moltitudine e con universale ammirazione si mette a parlare, intende e ascolta chi le è vicino e con loquela spedita risponde a chi le indirizza il discorso. Il fatto vien riferito al vescovo e la notizia gli è comunicata mentre appunto predica al popolo le glorie di s. Marcello. Si fa chiamare la stessa giovinetta e in presenza di tutti ella stessa racconta il prodigio. Una moltitudine di quelli {91 [91]} che l’ avevano conosciuta sordomuta dalla nascita, confermano la veracità del fatto.
Il vescovo commosso non sa esprimere altrimenti la gioia del suo cuore che intonando ad alta voce un solenne Te Deum che viene dal popolo con voci di allegria cantato. Dopo di che il vescovo celebrò la Santa Messa e comparti a tutti la santa benedizione.
La fama di quel miracolo si diffuse celeramente nei vicini paesi, sicchè da tutte parti si faceva ricorso a s. Marcello per ottenere favori celesti. Fra gli altri fu una donna di Gomigni. Aveva costei soltanto la somiglianza umana, del resto era tutta attratta in modo che tra mani, piedi e il resto del corpo faceva una specie di gomitolo. Da tre anni giaceva in quel miserabile stato. I parenti l’ avevano inutilmente sottomessa a molte cure mediche raccomandandola eziandio in molte occasioni al Signore. Alla notizia poi delle maraviglie che si operavano da s. Marcello, ella supplicò i parenti a {92 [92]} volerla anche condurre a quel medico maraviglioso. Colà portata col più vivo affetto del cuore pregò e la sua preghiera giunse a s. Marcello che la porta al trono di Dio, e le ottiene pronta guarigione. In un momento i piedi e le mani prendono forma e movimento regolare, si alza da se stessa, ringrazia il Santo e co' suoi piedi camminando va a raccontare ovunque la maraviglie che Dio aveva operato ad intercessione del suo celeste benefatore.
La moltitudine di grazie e di miracoli che ad intercessione di s. Marcello ogni giorno si operavano, traevano gente da tutte parti. Ma molti o per distanza, o per mancanza di mezzi non potendosi recare ad Altomonte, domandarono al vescovo di permettere che le prodigiose reliquie {93 [93]} fossero portate in altri paesi. Il vescovo accondiscese. Interviene il clero secolare e regolare con popolo in numerabile, lunga schiera di fanciulli precedono ed altri seguono il sacro, deposito. Ovunque passa la divota processione il Santo segna il cammino con grazie e prodigi. Ad una città, allora detta Alcinio ed oggidì Auchin, avvenne quanto segue. Era un fanciullo di sette anni muto dalla nascita, ed era come senza lingua. La madre piena di fede lo condusse presso l’ urna che era portata processionalmente. La madre col figlio piange, geme e prega Ma la sua preghiera fu breve, imperciocchè pochi istanti dopo il muto acquista la loquela e l’ udito, si alza, ascolta gli altri e si mette a parlare raccontando così col fatto le maraviglie del santo Pontefice.
Da Auchin la processione continuò verso la città di Sonegia che oggi dicesi Songiez, segnando ovunque il passaggio con nuove maraviglie. Finalmente dopo altre fermate ed altre grazie vennero riportate ad Altomonte. {94 [94]} Quivi continuarono ogni giorno innumerevoli i celesti favori.
Una donna cieca da più anni soleva recarsi a tutti quei Santuari ove udiva ottenersi grazie speciali. Ma sempre inutilmente; essa doveva ottenere il premio della sua fede in Altomonte. Va di fatto presso l’ urna di s. Marcello e fervorosamente lo prega a volerla liberare dalla dolorosa sciagura della cecità. Anche qui furono brevi le preghiere, imperciocchè tosto la cieca si accorse essere svanito il dolore degli occhi, e di avere acquistata la vista più sicura e più perfetta che prima non aveva. Col cuore pieno di gioia e di gratitudine corre immantinente a raccontare il miracolo operato ai religiosi di quel Santuario che si radunano con grande folla di popolo, quindi unanimi ringraziano il Signore cantando lodi a Dio Padre onnipotente che ad intercessione del suo servo fedele S. Marcello papa e martire abbia concesso e conceda tanti celesti favori a' suoi devoti. {95 [95]}
Gli atti dei Martiri della legione Tebea furono quasi subito scritti dai contemporanei, le memorie si conservarono con varii monumenti. Ma s. Eucherio vescovo di Lione nella fine del quarto e sul principio del quinto secolo temendo che quelle preziose notizie andassero perdute, le raccolse e compilò la storia che si conservò fino ai nostri tempi. Questi Ss. Martiri sono con solennità speciale onorati in molti paesi della cristianità, s. Maurizio è da molti secoli il principale protettore della Real casa di Savoia. Il duca Amedeo avendo rinunziato al trono, nel {96 [96]} desiderio di procacciarsi gloria innanzi a Dio, si ritirò nel monastero di Ripaglia vicino a Ginevra. Aveva secolui sei cavalieri decisi come lui di menare vita solitaria. Li appellò soldati di s. Maurizio. Portavano sul petto una croce d’ oro, usavano abiti semplici simili a quelli dei pellegrini. Amedeo diede loro le regole, e fondò due case l’ una per loro, l’ altra per canonici regolari incaricati dell’ ufficio divino. Tale fu l’ origine dell’ ordine militare di s. Maurizio.
Emanuele Filiberto lo istituì come è al presente e papa Gregorio XIII lo approvò e lo confermò nel 1572.
Le reliquie di s. Maurizio andarono soggette ad alcune vicende che a noi giova conoscere perchè fanno parte della storia patria.
La città di Agauno era passata sotto il dominio dei Principi di Savoia quando il Re di Francia mosse guerra a Carlo Emanuele padre di Emanuele Filiberto. Si venne a patti, e fra gli articoli del trattato di pace uno fu che il duca di Savoia acconsentisse di cedere la sovranità {97 [97]} di Agauno ovvero s. Maurizio; ma che sarebbero trasportate a Torino le reliquie di s. Maurizio. Il duca inviò il vescovo d’ Aosta a chiedere le dette reliquie. Ma quegli abitanti ravvisando in quelle sacre ceneri un tesoro incomparabile si opposero arditamente. Si offrirono pronti, anzi giurarono di perdere piuttosto le loro vite che lasciarsi levare quella sorgente di benedizioni. Il vescovo d’ Aosta li minacciò di pene severe, ma inutilmente. In fine per evitare disordini maggiori si dovettero dividere le reliquie. La divisione si fece colla spada stessa del Santo. Una metà trasportata a Torino fu prima depositata nella chiesa dei Padri cappuccini della Madonna di campagna, dipoi con grandissima solennità trasportata alla cattedrale della città; sì venerano tuttora nella Reale cappella della SS. Sindone.
Le feste che si celebrarono in questa occasione durarono tre giorni. Il duca Carlo Emanuele ordinò che il 22 settembre fosse per sempre festivo vietando in esso ogni genere di lavoro. {98 [98]} Sebbene consti dalle memorie antiche che la strage fatta della legione Tebea fosse universale, e s. Eucherio attesti essersi veduta la spaziosa pianura di Agauno coperta dai corpi dei s. martiri; tuttavia non tutti vennero in quel giorno uccisi. Alcuni, o perchè forse si trovassero lontani od anche secondo il consiglio evangelico del Salvatore fossero da quel luogo fuggiti, furono salvi per allora. La qual cosa servì maravigliosamente a recare altrove la dottrina cristiana e riportarono poco dopo la palma del martirio. Le nostre contrade furono da Dio fra le altre predilette sebbene alcuni passassero anche in Isvizzera od in altre parti.
Io andrò accennando brevemente i diversi paesi che furono dal sangue di questi martiri consecrati.
I santi Solutore, Avventore ed Ottavio si credono Torinesi incorporati {99 [99]} nella legion Tebea quando quà passava. Scampati alla decimazione vennero in Torino a predicare la religione cristiana. Qui furono scoperti dai satelliti di Massimiano, e condannati a morte. S. Solutore potè sfuggire, ma raggiunto a Caravino nel Canavese fu trucidato.
Una santa matrona, Giuliana d’ Ivrea, avendo ciò saputo dagli stessi carnefici, dissimulò la cosa ma andò subito in traccia del corpo di s. Solutore nel luogo indicato. Come l’ ebbe trovato se lo prese seco e montò in cocchio alla volta di Torino. Ivi giunta trovò eziandio le reliquie dei santi Avventore ed Ottavio, le uni a quelle di s. Solutore che avea seco condotto, e li seppellì in un Tempio dei Gentili da lei comperato e cangiato in Chiesa. È questa la prima chiesa di cui si abbia memoria in questa città. S. Giuliana dopo morte fu nello stesso luogo seppellita. Questo oratorio fu di poi magnificamente ampliato, e divenne più tardi il famoso monastero di s. Solutore proprio nel sito dove fu edificata la cittadella di Torino. Ma nell’ anno mille cinquecento {100 [100]} trenta sei, i Francesi essendosi impadroniti di questa città il monastero fu distrutto, le reliquie dei ss. Solutore, Avventore ed Ottavio con quelle di s. Giuliana e di s. Gozzelino abate di quel monastero, furono dapprima trasportate nell’ Oratorio di s. Andrea ora Chiesa della Consolata. Intanto fu edificata una nuova chiesa nel centro della città dove furono trasportate le sudette reliquie, che dai nostri santi dicesi tuttora chiesa dei santi martiri.
Coi ss. Solutore, Avventore ed Ottavio erano anche venuti in Torino i ss. Giuliano e Bisurio della stessa legione. Credesi che il martirio di questi ultimi sia avvenuto presso la Dora. Scavando alcuni contadini in vicinanza dell’ antico castello di Altessano, paese poco distante da Torino, in una possessione scoprirono un sepolcro ed in esso un cadavere, un calice ed un libro. Avvisato di ciò il paroco accorse e trovò {101 [101]} nel libro descritto il martirio di un soldato della legione Tebea, s. Marchese ivi sepolto. Quivi fu dapprima edificata una cappella, in appresso quelle reliquie furono trasportate nella parodiale dove se ne celebra la festa ogni anno il 20 giugno.
S. Besso soldato Tebeo fuggendo venne a nascondersi nel canavese nelle montagne di Val Soana vicino a Pont, dove predicando il Vangelo fu perseguitato e precipitato giù da un alto monte, sicchè credevasi morto. Ma dalla divina provvidenza conservato andò al di là della Dora Baltea sul monte presso Vittumulo che prese poi il nome del Santo, e chiamasi della Bessa, tra il Canavese ed il Biellese. S. Besso fini i suoi giorni in questa montagna e fu sepolto non lungi dalla Dora Baltea, dove le sue reliquie stettero nascoste finchè fu data la pace alla Chiesa. Nel secolo IX furono trasportate in Eugenia {102 [102]} oggidì Ozzegna. Nel principio del secolo undecimo il Re Arduino le fece trasportare nella cattedrale d’ Ivrea.
Vicino al sito dove fu martirizzato s. Besso era già accaduto il martirio di un altro soldato Tebeo, s. Secondo. Le reliquie di s. Besso furono di là trasportate alla Novalesa e nel 906 in Torino con quelle dell’ abate s. Valerico; che si venerano al presente nella cattedrale.
Altri soldati della legion Tebea riportarono la corona dei martiri nel Canavese come s. Giovenale e s. Tegolo. Giovenale si portò nel luogo di Andrato, e qui fu per opera dei Sacerdoti di Apolline martirizzato. Nel giorno dell’ Ascensione i popoli dei dintorni di Andrato si portano processionalmente a venerare il loro s. martire Giovenale. S. Tegolo fu martirizzato, ma il suo sepolcro restò ignoto finchè venne rivelato a s. Veremondo vescovo d’ Ivrea che nel 1005 ne trasferì le reliquie nella sua cattedrale e lo acclamò patrono della città con festa il 25 ottobre. {103 [103]}
S. Candido con alcuni suoi compagni fuggì nel Monferrato. Ma i persecutori, che lo inseguivano, lo raggiunsero in Murisengo presso Casale. Ivi incontrò il martirio. La sua festa si celebra il giorno 11 di marzo.
Un compagno di s. Candido si crede che fosse s. Quirico , il quale venne anche martirizzato in Murisengo. La sua festa è celebrata dagli Astigiani il 46 giugno.
Un altro dei compagni di s. Candido fu s. Defendente di cui cade la festa il 2 gennaio. Egli soffri il martirio presso Casale che allora si chiamava Seduta.
Vi fu un altro s. Defendente appartenente alla stessa legione che credesi martirizzato vicino al fiume Rodano.
S. Valerio fuggito dalla strage si rifugiò presso i popoli stabiliti nei dintorni dove adesso è Alessandria; ma {104 [104]} arrestato presso Lu diede gloriosamente la vita.
Le sue reliquie sono venerate nella parochia di quel paese il 22 gennaio.
Nel paese di Caramagna si venerano le reliquie dei ss. martiri Asterio, Abondio e Desiderio i quali fuggiti dalla morte si portarono a predicare Gesù Cristo in questo paese dove raggiunti furono uccisi.
Questo stesso paese venerava ancbe s. Cesario, Longino, Mauro e Demetrio, le cui reliquie peraltro andarono smarrite.
Alla distanza di due miglia circa da Fossano è situato un villaggio che appellavasi Urbano ed era città considerabile dei popoli Vagienni. Ivi si rifuggì s. Albano e quivi ebbe il martirio lasciando al paese il proprio nome ed il titolo alla parochia. Prima che fosse edificata la città di Fossano esisteva in sua vece un villaggio detto Romanisio. Qui vennero due soldati tebei Alverio e Sebastiano e vi riportarono anch’ essi la palma del martirio. Le loro reliquie furono per lungo {105 [105]} tempo ignorate; ma nell’ anno 1427 gli abitanti udirono il 26 gennaio una gran melodia, che pareva provenisse di sotto terra: continuando cosi alcuni giorni vi attrasse molta gente. Si fece scavare la terra e si trovarono due cassette ben ornate, e ben chiuse con lastre di ferro. Dentro avevano le ossa di s. Asterio e s. Sebastiano che furono con solennità trasportati nella collegiata di s. Giovanni e proclamati per santi tutelari e compatroni della città.
A Dronero presso Cuneo nella valle di Macra vennero a rifugiarsi s. Costanzo, Vittorio, Costantino, Dalmazzo e Ponzio ove furono martirizzati. Contemporaneamente a questi ebbe il martirio s. Fiorenzo. Vuole la tradizione che il luogo bagnato da questo sangue fosse nella provincia e Diocesi di Mondovì in un montuoso villaggio che si denomina la Bastia. Da quella parochia si celebra annualmente in onore di lui l’ uffizio e la messa il 14 di giugno.
È situata nella valle del Po nella provincia {106 [106]} di Saluzzo una piccola terra chiamata Grisolo, perchè anticamente vi si estraeva dell’ oro. Ivi è tradizione costante che sia stato martirizzato e sepolto s. Chiaffredo o Gioffredo. Per molto tempo non si conobbero le sue reliquie. Finalmente alcuni contadini arando la terra ne scoprirono il sepolcro. Si eresse in questo sito una chiesuola, ed il Signore vi operò molte maraviglie. Nel secolo XVI per togliere queste reliquie alla profanazione degli eretici si deliberò sotto Carlo Emanuele I di trasportarle nella Rocca di Revello. Tutto era disposto per la traslocazione; ma gli abitanti di Grisolo si opposero. Dopo molte alterazioni si conchiuse di lasciar in Grisolo una coscia ed una mano, ed il resto trasportato in Revello. Di qua furono poi trasportate in parte nella cattedrale di Saluzzo dove se ne celebra la festa il 6 dicembre.
S. Valeriano discese dalle rive del fiume Rodano e venne nelle montagne di Cumiana presso Pinerolo. Nei dintorni di questo paese, di Piossasco, di {107 [107]} Frossasco e sulla sponda del torrente Chiusola catechizzava i gentili, ed amministrava il Battesimo. Perseguitato or di qua or di là fu raggiunto nella valle di Susa tra Borgone e Chiavrie vicino alla Dora Riparia, e diede la vita fra quei popoli che divoti del suo nome gli eressero altari e cappelle assai frequentate. Il giorno della festa è il 14 aprile in cui fu martirizzato, ma il maggior concorso al suo santuario osservasi nel lunedì dopo la festa di Pasqua.
I compagni di Valeriano nella fuga furono s. Desiderio e s. Glorio. S. Desiderio, diverso da quello che si venera in Carmagnola, ebbe il martirio poco lontano da Borgone. La sua festa cade il 25 luglio. S. Giorio si festeggia il 26 aprile giorno in cui ottenne la palma del martirio presso Pinerolo sulla riva del torrente Chisone.
S. Alessandro unitamente con Cassio, Severino, Secondo e Luinio (suoi valorosi commilitoni) vennero alla volta {108 [108]} d’ Italia e si fermarono a Milano. Qui riconosciuti cristiani furono arrestati e chiusi in carcere dove convertirono molti infedeli. Frattanto Massimiano sceso in Italia per ritornare a Roma si fermò in Milano dove seppe molte cose dei ss. confesori. Li fece tradurre alla sua presenza, li sollecitò con promesse e con minacce a rinunziare alla loro fede; ma vedendoli costanti li fece ricondurre in carcere per determinare quale atroce supplizio loro si dovesse. Durante la notte alcuni cristiani li sottrassero alle guardie e li posero in libertà. Camminando alla volta di Como giunsero in quella città nel momento che una gran moltitudine di gente con sospiri e lagrime accompagnavano un defunto alla sepoltura. Alessandro li ferma e restituisce loro il defunto vivo e sano. Massimiano intanto consapevole di questa fuga, e tutto acceso di rabbia ne ordina la ricerca. S. Alessandro è arestato vicino a Como in un luogo appellato il Boschetto e strascinato all’ Imperatore il quale ordinò che dopo aspri tormenti {109 [109]} gli fosse mozzato il capo. Giunto al luogo del supplizio, mentre genuflesso stava aspettando l’ ultimo colpo il littore vien preso da insolito terrore: gli tremano le gambe, le sue braccia sono irrigidite ed intanto grida che un uomo di sembiante divino gli proibisce di eseguire il suo uffizio. Gli sottentrano altri carnefici; ma indarno; perciò fu ricondotto in carcere. Il Signore, che voleva dare ad altro paese le sue preziose reliquie, di bel nuovo gli porge mezzo di sottrarsi, ed egli si avviò alla città di Bergamo. Per via dovendo passare un fiume si fa il segno della s. Croce ed ecco il passaggio asciutto.
Giunto nella città si mette a predicare la gloria di Dio finchè di bel nuovo è arrestato. Qui era il luogo in cui doveva ricevere la corona a benefìzio di quei di Bergamo che ora lo venerano patrone; fu decapitato il giorno 26 agosto.
Rimase il suo corpo insepolto per tutto quel dì. Ma pervenutane la notizia a s. Grata cospicua matrona di {110 [110]} quella città e già discepola del santo recossi a dargli sepultura in un sepolcro di marmo che avea per se stessa preparato, e dove riposa nella chiesa a lui intitolata. In tutti questi martiri si verifica la grande verità de' libri santi, che mentre le anime dei giusti godono gloriosi la felicità del cielo, le loro ossa sono venerate e riconosciute sorgenti di benedizioni; e la lero memoria è in benedizione di secolo in secolo per tutte le generazioni. {111 [111]}
Con approvazione ecclesiastica {112 [112]}
Nozioni topografiche intorno ailla citta' di Roma . |
pag 3 |
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Colli aggiunti a Roma antica che fanno parte di Roma moderna |
17 |
Capo I Diocleziano e Massimiano imperatori - Galerio e Costanzo Cloro Cesari - Elezione di s Marcellino - Sue prime fatiche Apostoliche |
25 |
Capo II S Marcellino amministra la cresima a s Maurizio ed a' suoi compagni, e raccomanda loro la costanza nella fede . |
29 |
Capo III S Grisogono e s Anastasia . |
33 |
Capo IV Decima persecuzione . |
38 |
Capo V Moltitudine di martiri - Coraggio del giovane Pietro |
43 {113 [113]} |
Capo VI Terme di Diocleziano - S Marcellino con s Ciriaco e s Sisinio . |
pag 46 |
Capo VII Martirio di Saturnino, di Sisinio, Papia e Mauro |
51 |
Capo VIII Ultime fatiche di san Marcellino - Suo martirio |
53 |
Capo IX Osservazione sul pontificato e sulla supposta caduta di s Marcellino |
57 |
Capo X Trista fine di Diocleziano e di Massimiano . |
60 |
Capo XI Galerio e il Romano impero - Principii di s Marcello - Suoi provvedimenti pel bene della Chiesa . |
65 |
Capo XII Patria di s Emidio - Sua venuta in Milano e a Roma . |
70 |
Capo XIII Il Pontefice consacra Emidio vescovo e lo manda a governare la chiesa d’ Ascoli, dove lavorando per la fede è coronato del martirio . |
75 |
Capo XIV Martirio di s Ciriaco e de' suoi compagni |
78 |
Capo XV S Marcello consacra in {114 [114]} Chiesa la casa di s Lucina - È condannalo a servire alle bestie . |
pag 81 |
Capo XVI Trista fine di Carpasio e de' suoi compagni |
86 |
Capo XVII Culto verso s Marcello Grazie e miracoli dopo morte a di lui intercessione operati |
89 |
Capo XVIII Una muta acquista la loquela, ed una donna cieca ricupera la vista . |
93 |
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Appendice |
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Sui MARTIRI DELLA LEGIONE TEBEA |
96 |
S Solutore, Avventore ed Ottavio Traslocamene delle loro reliquie . |
99 |
Altri martiri Tebei in Torino ed in Altessano . |
101 |
Soldati Tebei martirizzati nel Canavese |
102 |
Tebei martirizzati nel Monferrato |
104 |
Altri paesi santificati dal sangue di soldati Tebei |
ivi |
S Alessandro e suoi compagni |
108 {115 [115]} {116 [116]} |
[1]Si veda in fine del libro: Appendice sopra i Martiri della legione Tebea.
[2]Questa orribile persecuzione fu pubblicata in occasione che da' Romani celebravansi le feste terminali ossia in onore del Dio Termine. Lattanzio applica a quel giorno le parole di Virgilio come segue: IIIe dies primus lethi primusque malorum causa fuit. De mart. pers. Quello fu il giorno in cui cominciarono le stragi ed ebbero origine tanti mali.
[3] Il racconto della caduta di Marcellino essendo riferito eziandio dal Breviario romano, si suol domandare percnè non si corregge. Si risponde coll’ autorità di Benedetto XIV il quale dice il Breviario essere di grande autorità presso ai cattolici ma non tale da non potersi disputare contro specialmente nei fatti storici. I sommi Pontefici hanno già dimostrato più volte il desiderio ed il bisogno di correggere alcuni tratti storici del Breviario, ma o la brevità del pontificato o le turbolenze suscitate contro alla Chiesa nol permisero. Quindi la Chiesa permette queste lezioni del Breviario, perchè sono semplici letture che non riguardano nè ai dogmi, nè alla disciplina, nè ai costumi, aspettando che gli studi storici abbiano con certezza depurati certi fatti e certi detti non abbastanza fondati. D’ altra parte poi si deve notare che la Chiesa approva cose contenute nel Breviario che in se stesse esprimono una verità, sebbene vi possa talvolta esservi sbaglio intorno alla persona cui si riferiscono. Onde in questi casi sarebbe approvata la leggenda ovvero le cose contenute nel Breviario senza definire da chi siano state dette o fatte.
I protestanti fanno molto rumore sulla caduta di s. Marcellino dicendo: Se il Papa offerì incenso agli idoli, dove è l’ infallibilità del Papa cotanto vantata dai cattolici? Si risponde col cardinale Bellarmino. Ancorchè fosse vera la caduta di questo o di altri pontefici, niente potrebbesi inferir contro l’ infallibilità del Papa, perchè con quel fatto avrebbe peccato personalmente, ma non avrebbe insegnata alcuna cosa contra alla fede. Lib. 4 de Rom. p.
Onde diceva già Tertulliano che questa sarebbe colpa privata di chi vive nel mondo, ma non di chi predica la fede. - Vitium conversationis non praedicationis. Capo 23 de prescript.
[4] Gli atti del martirio che corrono sotto il nome di s. Marcello sono scritti dai notai ovvero scrittori della Chiesa Romana. Vedi Boll. 16 gennaio Una parte però si riferisce a s. Marcellino, è l’ altra a s. Marcello. Vedi Baronio, anno 304.
[5] Fra i molti cbe scrissero diffusamente di s. Emidio citiamo il P. Paolo Appiani nella vita di questo santo. Vghelli Italia sacra, v. l. Gli atti di s. Emidio attribuiti a s. Valentino discepolo del Santo. Da questi autori ricaviamo quanto andremo brevemente esponendo di questo Santo.