per cura del Sacerdote BOSCO GIOVANNI
L.
TORINO
TIP. G. B. PARAVIA E COMP.
1861 {1 [253]} {2 [254]}
INDEX
Capo I. Vita eremitica - elezione di S. Dionigi.
Capo II. Martirio di S. Cipriano.
Capo III. Costanza ammirabile di un fanciullo.
Capo IV. Punizione de' persecutori. Carità de' cristiani.
Capo V. Concilio Romano - Relazione di San Dionigi d'Alessandria con s. Dionigi papa.
Capo VI. Massa Candida. - Martirio di S. Marino - S. Asterio al Giordano.
Capo VII. Eresia di Paolo Samosateno. Grave sentenza di Aureliano imperatore a favor de' cristiani.
Capo VIII. Ultime azioni di S. Dionigi papa. Sua morte.
Appendice sopra s. Gregorio Taumaturgo
Capo I. Nascita. - Studii di s. Gregorio.
Capo II. Trame contro di Gregorio. - Lettera a lui di Origene. - Suo battesimo. - Suo ritiro.
Capo V. Consacra Alessandro il Carbonaio vescovo di Comana. - Castiga la ribalderia di due Giudei.
Capo VI. Miracolosa liberazione di Gregorio.
Ripigliamo, amico lettore, la vita dei sommi pontefici. Noi abbiamo già esposte le azioni de' venticinque primi papi; S. Dionigi ne è il ventesimo sesto. Egli era greco di nascita, ovvero nato nella città di Turriano, che è nelle parti più meridionali d'Italia, oggidì detta Calabria. Questi paesi anticamente appellavansi Magna Grecia, perchè alcune colonie greche ne' remoti tempi vennero colà a stabilire la loro dimora.
Dionigi ebbe un'educazione cristiana; ma fatto grandicello fu spaventato dai pericoli che, soprattutto per parte de' cattivi compagni, s'incontrano nel mondo. Onde egli per assicurarsi la salvezza dell'anima volle mettere {3 [255]}in pratica il consiglio del Salvatore abbandonando ogni cosa temporale per ritirarsi ne' deserti a far vita solitaria. Forse da alcuni di voi non si capirà chiaramente quale fosse la vita solitaria praticata dagli antichi cristiani, perciò non vi dispiacerà che io mi trattenga alquanto per darvene un cenno. Coloro che per seguire i consigli del Salvatore abbandonavano padre, madre, fratelli, sorelle, casa, parenti, amici è andavano in siti detti eremi, dicevansi eremiti: da Eremo parola greca che vuol dire solitudine o deserto; e quelli che intraprendevano questo tenor di vita erano detti eremiti ossia solitari.
Talvolta avveniva che parecchi guidati dal medesimo pensiero si radunavano negli stessi deserti a far vita comune; ed allora prendevano il nome di cenobiti, da altra parola greca coenos che vuol dire comune e bios ossia vita. Di qui nacque il nome cenobio solito a darsi ai luoghi dove si radunavano per mangiare, dormire, lavorare e pregare. Il capo chiamavasi cenobiarca ovvero capo di quelli che facevano vita comune. Noi abbiamo ancora oggidì le parole monaco e monaca che sono parole greche, le quali vogliono dire eziandio {4 [256]} solo; perchè coloro che abbracciano lo stato monastico rinunciano al mondo per andare a vivere ne' loro conventi o monasteri che sono una specie di solitudine.
Quegli antichi solitari impiegavano la loro vita nel lavoro, nello studio e nella preghiera. Si occupavano a dissodare terreni incolti che non erano mai stati toccati dalle mani degli uomini. Si nutrivano con radici di erbaggi e con erbe cotte ed anche crude, con frutti di piante selvatiche, con legumi prodotti dal terreno per cura di essi coltivato. I loro liquori erano acque limpide di fontane o di ruscelli. Più volte nel giorno e nella notte si radunavano a pregare, ad ascoltare la parola di Dio, a leggere la Bibbia o la vita dei santi, e a farsi la disciplina, cioè a battersi spontaneamente con flagelli, sterze o bacchette fino a bagnar talvolta il pavimento e le pareti di sangue. Ciò facevano per secondare il Salvatore che disse a tutti: Se non farete penitenza andrete tutti alla perdizione. Nisi poenitentiam egeritis, omnes similiter peribitis. Quelle austerità, da cui sembra dover essere ognuno atterrito, avevano molti seguaci. In alcuni luoghi i solitari giunsero a più centinaia, ed anche {5 [257]} a più migliaia. Tutti sotto ad una regola sola, formanti una sola famiglia dipendevano dal medesimo capo.
Il capo di quelle maravigliose famiglie chiamavano abate, dalla parola ebraica abba che vuol dire padre; perciocchè egli era realmente considerato come il padre di tutti, e i sudditi lo ubbidivano, come altrettanti figliuoli, che perciò dicevansi frati o fratelli.
Questa vita più angelica che umana tenne più anni s. Dionigi, finchè fu richiamato a Roma, e fu aggregato al clero pontificio, che è come dire al ceto dei cardinali. Con grande zelo impiegò la sua vita pel bene della religione durante il pontificato di s. Stefano e di s. Sisto II. Allora che quest'ultimo venne coronato del martirio fu unanime il pensiero di eleggere Dionigi successore, come colui che per santità, dottrina e prudenza era da tutti ammirato.
S. Dionigi fu consacrato papa da S. Massimo vescovo di Ostia, che era una celebre città distante circa quindici miglia da Roma, edificata alla foce del Tevere, cioè in quel luogo dove il Tevere versa le sue acque nel mar Mediterraneo. Presentemente quella famosa città è ridotta ad un meschino {6 [258]} villaggio; ma ancora oggidì avvi in Roma un cardinale che porta il titolo di vescovo d'Ostia, ed è tuttora colui che fa la sacra funzione nella consacrazione dei papi. S. Agostino nota che fin dai primi tempi i vescovi d'Ostia solevano consacrare i romani pontefici. V. Brevicolo coll.
S. Dionigi era eletto papa il dodici settembre del dugento sessantuno, dopo che la Santa Sede era stata vacante trentacinque giorni mentre governavano il romano impero Valeriano e Gallieno. V. Ciac. in S. Dionigi.
Molti luminosi avvenimenti si compierono sotto al pontificato di s. Dionigi. Noi esporremo i principali secondo l'ordine dei tempi in cui sono avvenuti.
Pochi giorni dopo la elezione di questo pontefice riportò glorioso martirio s. Cipriano vescovo di Cartagine. Abbiamo già altrove parlato della relazione di questo santo coi vari pontefici che al suo tempo governarono la santa romana chiesa, accennando {7 [259]} in pari tempo le opere di zelo che egli compiè a favor della sua diocesi, di altre chiese dell'Africa è di tutta la Chiesa Cattolica. Qui daremo solo un cenno sul suo martirio.
Egli adunque governava con zelo apostolico la sua diocesi, ed aveva già dovuto sopportare innumerabili patimenti per la fede, finchè nella persecuzione dell'imperatore Valeriano fu egli pure colpito dal decreto di morte come cristiano e come capo de' cristiani. Paterno proconsole lo fece arrestare e condurre al suo tribunale. Quindi cominciò a parlargli così:
- L'imperatore mi ordina di far professare a tutti i sudditi la religione che egli professa: e tu chi sei? che religione professi?
Il santo vescovo rispose: Io sono cristiano e vescovo, e non conosco altro che sia degno di essere adorato se non il Dio Creatore del cielo e della terra. A questo Dio noi cristiani serviamo, questo preghiamo per la prosperità dell'impero.
- Voglio sapere, replicò il proconsole, il nome dei preti della vostra Chiesa.
- Io non posse scoprirli, rispose il santo, poichè le stesse vostre leggi condannano i delatori. Dopo altre parole di domanda {8 [260]} e di risposta il proconsole lo mandò in esilio in Carrubbio, piccola città sulle coste d'Africa non molto lontano da Cartagine. Nello stesso tempo molti altri vescovi e preti affricani furono cacciati dalle loro sedi, dispersi in luoghi barbari, ove dovettero soffrire mali d'ogni genere. Il santo vescovo li consolò con una lettera che non può leggersi senza sentire qualche scintilla del fuoco di cui ardeva il suo cuore che faceva riporre ogni sua felicità nel soffrire per Cesù Cristo.
S. Cipriano rimase un anno intiero nel suo esiglio, poi fu ricondotto a Cartagine per esservi nuovamente giudicato da un altro proconsole che era succeduto a Paterno. La persecuzione erasi riaccesa con grande violenza specialmente contro agli ecclesiastici. Valeriano aveva ordinato che i vescovi, i preti e i diaconi senza far loro alcun processo fossero messi a morte sull'istante.
S. Cipriano fu consegnato alla custodia del capitano delle guardie in un sobborgo della città, ove gli amici del santo ebbero tutta la comodità di poterlo visitare. Tutto il popolo vi concorse; anzi temendo i cristiani che fosse fatto morire nella stessa notte {9 [261]} la passarono intera alla porta della casa, ove egli era custodito. Il proconsole dimorando nella villa, il santo vescovo fu a lui condotto in ora assai calda. Un soldato che lo vedeva tutto grondante di sudore, mosso a compassione, lo esortava a cambiarsi offerendogli un suo proprio abito. Ma il santo gli rispose: A che giova addolcire i mali che stanno per finire? Il proconsole appena lo vide gli domandò se era colui che chiamavasi Cipriano, ed egli rispose: Son io appunto.
Pro. L'imperatore ti ordina di sacrificare agli Dei.
Cip. Questo non lo farò giammai.
Pro. Pensa a' casi tuoi.
Cip. In un affare sì giusto non vi ha luogo a deliberazione.
Finalmente il proconsole, sentito il parere del suo consiglio, parlò così al santo vescovo: É gran tempo che tu fai professione di empietà senza che i nostri imperatori abbiano potuto cavarti dalla testa questi sentimenti. Poichè tu sei il capo di questa perniciosa setta, servirai di esenpio a quelli che hai strascinato nella disobbedienza. L'osservanza delle leggi sarà corroborata dal tuo sangue. Quindi prendendo {10 [262]} la tavoletta su cui era scritta la sentenza, la lesse ad alta voce in questi termini: Ordiniamo che a Cipriano sia troncata la testa. Il santo vescovo rispose: Deo gratias, a Dio si rendano grazie. Queste parole ben lungi dall'intimorire i cristiani, che trovavansi in gran numero spettatori, pieni di entusiasmo ad alta voce gridavano: Si tagli la lesta anche a noi. Era stato scelto per, luogo del martino una piazza fiancheggiata da grandi alberi a poca distanza della città. Per quanto quella fosse spaziosa, si trovò troppo ristretta per contenere la folla immensa che vi si radunò. Giunto al luogo del supplizio, si prostrò a terra e rivolse al Signore una fervorosa preghiera. Finita che l'ebbe, egli stesso si spogliò delle vesti, che consegnò a' suoi diaconi; quindi prese una benda per coprirsi gli occhi; e poichè stentava ad annodarsela dietro al collo, un prete ed un diacono gli prestarono questo uffìzio pietoso. Allora comparve il carnefice, e cosa ammirabile! il santo martire gli fece regalare venti monete d'oro. Dopo quest'ultimo atto di generosità s. Cipriano si pose in ginocchio. Tenendo così le mani incrocicchiate dinanzi al petto, come agnello mansueto, attese il colpo, che lo fece passare {11 [263]} da questa vita alla beata eternità il 14 settembre del 261. Così terminò S. Cipriano la sua vita, e si avverò ciò che dice il Signore che i suoi martiri sono morti al giudizio degli stolti, ma invece essi riposano nella pace eterna coronati di gloria.
I fedeli raccolsero il sangue di questo glorioso martire con panni e con lini che avevano distesi intorno a lui prima che gli fosse troncata la testa, e conservarono quelle preziose reliquie col più grande rispetto possibile.
Il Signore che sa rendere eloquenti gli stessi fanciulli per accrescere la sua gloria volle anche dalla confessione di questi promuovere il trionfo della fede. A Cesarea città di Cappadocia un fanciullo per nome Cirillo mostrò coraggio così straordinario, che riempi i fedeli di gioia e di ammirazione. Questo fanciullo aveva continuamente in bocca il nome santo di Gesù Cristo, e nel pronunziarlo sentiva in sè una forza che rendevalo insensibile a qualunque minaccia o {12 [264]} promessa. Suo padre idolatra dopo di aver tentato inutilmente ogni mezzo per piegarlo ad invocare i falsi Dei lo cacciò di casa avendolo prima in ogni modo maltrattato. Il giudice della città, che ne venne informato, inviò soldati a prenderlo e se lo fece condurre innanzi. Mio figlio, gli disse con dolcezza, voglio condonare alla tua tenera età i tuoi falli. Ora dipende da te il rientrare nella grazia di tuo padre e nel godimento de' suoi beni: sii buono e rinunzia alla tua superstizione. Il santo giovane rispose: Son contento di soffrire rimproveri per ciò che ho fatto. Iddio mi rideverà nel suo regno. Certamente starò assai meglio con lui che con mio padre; se fui cacciato dalla casa paterna, ne abiterò una che è pia grande e più bella; rinunzio di buon grado ai beni temporali per essere ricco nel cielo; nè la morte mi atterrisce perchè da essa comincia una vita migliore. Queste parole pronunciò con tale coraggio che dava a conoscere essere Iddio che parlava per bocca di lui.
Il giudice allora prese un tuono alto da incutere timore, e minacciandolo di morte lo fece legare come per condurlo al supplizio, ed ordinò che si preparasse un rogo {13 [265]} e vi si appiccasse il fuoco. Ma questo mirabile giovanetto invece di rimanere scosso si mostrò sempre più fermo e lasciossi condurre senza dare alcun segno di debolezza. Fu condotto presso al fuoco, e si fece finta di gettarlo in mezzo alle fiamme; ma nemmen questo valse a piegare la sua costanza. Il giudice aveva ordinato che tutto questo apparecchio per allora non fosse che per ispaventarlo. Quando poi videro che l'aspetto dei supplizi non faceva in lui alcuna impressione, lo ricondussero al giudice che così gli parlò: E bene hai veduto il fuoco e la scure? Metterai tu giudizio? Colla sommissione alla mia ed alla volontà di tuo padre ti renderai meritevole del suo affetto, ed egli ti riceverà di nuovo in sua casa. Il giovine Cirillo rispose: Gran torto mi avete fatto a richiamarmi; io non temo nè fiamme nè scuri; ho grande fretta di andare ad un abitazione assai migliore, e sospiro di possedere ricchezze più solide che non son quelle di mio padre. È Dio che deve ricevermi e ricompensarmi. Non tardate a farmi morire, che così più presto andrò a lui. Gli astanti piangevano a queste parole, ma egli continuò: Dovreste rallegrarvi con me e non piangere; invece di cercare d'indebolirmi {14 [266]} con pianti, dovreste farmi coraggio ed animo a tutto soffrire; voi non sapete quanto grande sia la gloria die mi attende, e quale la mia speranza; lasciatemi chiudere la mia vita temporale. Con questi sentimenti andò al supplizio, come narrano gli atti del suo martirio. Così la forza del divino soccorso di cui vedemmo già prove cotanto sensibili in un sesso debole e delicato manifestossi ancora in una età in cui si naturali sono la timidità e l'incostanza.
Nel 262 il secondo anno del pontificato di s. Dionigi la divina vendetta piombò terribile sopra Valeriano che fu uno dei persecutori più crudeli. Questo principe dopo di aver perduto una battaglia cadde prigioniero di Sapore re di Persia che lo trattò con una indegnità senza esempio nella storia. Quando voleva montare a cavallo faceva piegare davanti a se l'imperatore e gli poneva il piè sul collo servendosene di scabello. Finalmente diede ordine che fosse scorticato vivo, e ne fece appendere la pelle {15 [267]} tinta in rosso ad un tempio persiano come un monumento di eterno obbrobrio dei romani. I pagani erano attoniti della sventura di Valeriano, ma i cristiani riconoscevano la mano di Dio giustamente aggravata sulla testa di quel principe che tanto crudelmente avevali perseguitati. Tutto l'impero allora fu immerso nelle più spaventose calamità; i popoli barbari come torrenti invasero le Provincie dell'impero. I Goti scorsero la Tracia, la Macedonia e la Grecia lasciando da per tutto segni dolorosi di furore. I Germani valicarono le Alpi e si avanzarono per l'Italia fino a Ravenna; altri si sparsero nelle Gallie e passarono in Ispagna. I Sarmati devastarono la Pannonia; i Parti penetrarono fino in Siria. Guerre civili desolarono tutto l'impero ove si contarono ad un tempo fino a trenta tiranni che chiamavansi imperatori romani. Terremoti ed inondazioni rovesciarono città e campagne. A tutti questi mali tenne dietro la peste, ed in Roma fu si violenta che i morti giunsero a più migliaja al giorno. Non minore fu la strage in Alessandria d'Egitto diocesi di S. Dionigi vescovo di quella grande città. Il santo prelato parlando di que' mali si esprime {16 [268]} così: Era un bruno universale. Non vi era casa che non piangesse qualche persona estinta, tutta la città echeggiava di gemiti. Questa malattia era per tutti i pagani la più terribile delle calamità, e pei cristiani un'occasione di esercitare la carità più eroica essendo essi soli che avessero il coraggio di soccorrere i malati. La maggior parte dei nostri fratelli non si sono risparmiati; hanno visitato, consolato, servito con generosa carità i malati senza che il timore dell’infezione valesse a rattenerli, di modo che molti sono periti nel guarire gli altri, molti preti, diaconi e laici virtuosi hanno perduta la vita in questa luttuosa occasione; ma quei che rimangono prendono il posto di quelli e continuano a prestare ai malati gli stessi servigi. I pagani al contrario fuggono e lasciano in abbandono i loro più cari, li gettano nella via prima che siano morti e li lasciano insepolti come letame, tanta è in loro la paura di contrarre il morbo ferale senza però riuscire a scansarlo. Questa differenza nella condotta degli uni e degli altri aveva dato nell'occhio a tutti, e dichiaravasi apertamente che i cristiani erano i soli che conoscessero la vera pietà. La vittime della carità in questo {17 [269]} tremendo contagio vengono anch'esse enumerate dalla chiesa nel ruolo de' suoi martiri.
Nel 263 l'anno terzo del pontificato di s. Dionigi, mentre tutto il mondo era oppresso dai flagelli mandati da Dio agli uomini per vendicare il disprezzo della religione, l'eresia di Sabelio continuava a turbare la Chiesa di Gesù Cristo. Sabelio, di cui abbiamo già altre volte parlato, aveva sparsi i suoi errori specialmente nell'Egitto e nelle città vicine. Il principale errore di questa eresia consisteva nell'insegnare che la Santissima Trinità fa un solo Dio ed una sola persona, perciò il divin Salvatore non è Dio. Questa dottrina è affatto contraria alla sacra bibbia, ove Gesù Cristo è chiamato Dio forte, Dio eterno, esistente da tutti i secoli, per cui tutte le cose furono fatte e senza cui nulla fu fatto.
S. Dionigi vescovo d'Alessandria d'Egitto come primate di varie diocesi predicò e {18 [270]} scrisse con forza contra l'eresia Sabelliana e contro a tutti quelli che ne seguivano gli errori. Ma alcuni vescovi della Libia, paesi vicini all'Egitto, forse in buona fede giudicarono che s. Dionigi per combattere un errore fosse caduto in altro opposto, cioè che egli insegnasse non solo essere distinte le persone, ma eziandio le loro proprietà, la natura e la medesima divinità.
I vescovi pentapolitani, vale a dire delle cinque diocesi della Libia, per assicurarsi di non errare nè da una parte nè dall'altre, ricorsero al Romano Pontefice che in ogni tempo fu sempre tenuto pel supremo ed infallibile giudice nelle cose di religione. Il papa che aveva un grande concetto del vescovo di Alessandria camminò con molta cautela nel proferire sentenza, e considerata attentamente la quistione radunò in Roma un concilio di più vescovi. Così furono sempre soliti a fare i sommi pontefici nei casi più difficili della religione ad esempio di quanto raccomandò Gesù Cristo, e di quanto fecero gli apostoli medesimi. Imperciocchè si radunarono essi a concilio quando elessero l'apostolo S. Mattia in luogo di Giuda traditore; quando scelsero i sette diaconi da ordinarsi, e {19 [271]} quando celebrarono il concilio di Gerusalemme per discutere intorno all'obbligo della circoncisione. Il Signore assicurò la sua assistenza a queste radunanze, e le decisioni che ivi si prendono diventano infallibili come se venissero dalla bocca dello stesso Gesù Cristo, qui vos audit, me audit. Il papa e gli altri vescovi radunati a Roma esaminarono bene lo stato della quistione, ma non potendo comprendere esattamente quali fossero i principii di S. Dionigi d'Alessandria, gli scrissero una lettera in cui lo invitavano ad esporre chiaramente il suo modo di pensare intorno ai dubbi nati sulla sua dottrina. Il santo prelato ricevette con venerazione l'invito proveniente da Roma; e tosto diè mano a scrivere una lunga relazione in un modo chiaro e appoggiato sulla Sacra Scrittura e sui santi padri dei primitivi secoli. In essa egli espose la sua dottrina in confutazione di Sabellio e di tutti i suoi seguaci. Di poi unendo una umile e rispettosa lettera, la mandò al papa con una copia della relazione. Ogni cosa fu trovata secondo il vangelo e perciò conforme alla dottrina della Chiesa Cattolica: per la qual cosa il vescovo d'Alessandria venne assolto e lodato per la sua purezza e {20 [272]} fermezza nella fede. Per l'opposto furono condannati i suoi accusatori e tutti quelli che professavano la dottrina di Sabellio.
Tuttavia Dionigi papa, desiderando che la vera dottrina fosse ovunque conosciuta e con sicurezza seguita, deliberò di scrivere egli medesimo un trattato pieno di erudizione. Ivi espone la dottrina della Chiesa intorno alla divinità di Gesù Cristo, di poi con argomenti e ragioni cavate dalla bibbia confuta Sabellio e tutti i suoi seguaci. Questo trattalo servì di poi a confutare tutti gli eretici che insegnarono errori contro alla divinità di Gesù Cristo. S. Atanasio riferisce un lungo brano di questo trattato contra gli Ariani. - V. Atan. contra l’eres. Ar.
Il cardinal Baronio dopo di aver diffusamente esposte le cose sopra narrate fa la seguente grave conclusione. Dalle questioni insorte tra i vescovi della Pentapoli che accusavano s. Dionigi d'Alessandria, e dalla difesa da esso fatta contro a' suoi accusatori, che per avere un sicuro giudice ricorsero al vescovo di Roma, apparisce chiaramente la generale ed antica crederai che nella Chiesa Romana esista il primo tribunale per sentenziare nelle controversie religiose. A {21 [273]} questo supremo tribunale si è sempre fatto ricorso fin dai primi tempi della Chiesa; si fece ricorso dai fedeli cristiani e dai medesimi vescovi dai luoghi vicini a Roma e dai paesi più lontani.
L'autorità che esiste in questo gran tribunale fu esercitata da Gesù Cristo e dai suoi vicari nel discutere, proporre, assolvere e condannare quanto si riferisce alla religione. Chiunque siasi, so egli vuol essere cattolico, cioè se vuole appartenere alla vera Chiesa di Gesù Cristo, bisogna che creda alla Chiesa, si sottometta al suo capo, lo ascolti, lo ubbidisca; e ciò sotto pena di andare dannato coi gentili e coi pubblicani. Si Ecclesiam non audierit, sit tibi tamquam ethnicus et publicanus.
A Valeriano succedette suo figliuolo Gallieno, il quale atterrito dalla trista fine di suo padre e riconoscendo in quel fatto la mano del Signore ordino che i cristiani non fossero più perseguitati. Ma gli ordini {22 [274]} imperiali furono lentamente eseguiti, di modo che molti paesi continuarono ad essere egualmente perseguitati. Luminoso è il fatto della massa candida.
Non molto dopo la morte di s. Cipriano il proconsole voleva a qualunque costo distruggere il cristianesimo, e per guadagnar tempo fece radunare 300 cristiani in luogo determinato per condannarli tutti con una sola sentenza. Eravi grande folla di popolo. Da una parte stava preparato l'incenso da offerire agli Dei, dall'altra eravi una profonda e vasta fornace che tramandava fiamme spaventevoli. Disse allora il proconsole: Chi vuol essere amico dell'imperatore e riconoscere i nostri Dei, faccia tosto un sacrifizio ed offra loro incenso. Quelli poi che persistono ad essere cristiani osservino che tremendo fuoco sta loro preparato.
Que' coraggiosi confessori, mossi dal desiderio di morire per amore di Gesù Cristo, spinti da una grazia speciale del Signore, dicendo che volevano tutti dare la vita per la fede si lanciarono spontaneamente in quelle fiamme. Il proconsole sdegnato ordinò che i corpi ne fossero coperti di calce, onde all'esterno più nulla apparve se non un mucchio di calce e di ossa sfarinate {23 [275]} che formarono una massa bianca, donde que' gloriosi confessori furono detti i martiri della Massa Candida.
Nell'Asia eziandio vi furono dei martiri anche dopo la morte di Valeriano. Fra essi avvi s. Marino. Egli eia un celebre generale dell'esercito romano, uomo ricco, onorato e grandemente stimato per scienza e coraggio militare. Dimorava in Cesarea città della Palestina, e doveva assumere la carica di governatore, quando fu accusato di essere cristiano e di non fare sacrifizi all'imperatore. Si accorse egli allora che trattavasi di rinunziare al grado di generale e di governatore, o rinunziare alla dignità di cristiano, perciò professando pubblicamente e con fermezza la sua religione, fu spogliato della sua autorità; di poi gli si diedero tre ore di tempo per scegliere o di rinnegare la fede o di assoggettarsi a spietata carnificina. Marino rispose che la scelta era fatta e che volentieri per amor di Gesù egli dava questa misera vita temporale per guadagnarne un'altra eterna. Allora fu preso e con furia tratto a morte sull'istante.
Alla morte di Marino trovavasi presente un senatore romano di nome Asterio, uomo eziandio di grandi ricchezze e assai celebre {24 [276]} per la sua scienza e pietà. Appena egli vide compiuto il martirio di Marino, ne avviluppò il santo cadavere con abiti ed ornamenti preziosi, e ponendoselo sopra le spalle lo portò a seppellire in un sepolcro appositamente preparato.
Del medesimo s. Asterio si racconta pure il seguente fatto maraviglioso. A poca distanza dalla città di Cesarea di Filippo avvi un lago donde scorre il fiume Giordano. I miseri abitanti dei vicini paesi accecati dall'idolatria solevansi radunare in giorno di grande solennità intorno alle acque di quel lago per sacrificare una vittima umana, che viva gettavano nelle onde in olocausto al demonio. Permetteva Iddio che lo spirito maligno strascinasse giù nei profondi vortici quella vittima e così dall'apparenza di un prodigio quel popolo continuasse ad essere ingannato. Un giorno trovossi presente anche Asterio, che tutto commosso per vedere tanti uomini in cotale guisa dal demonio ingannati, sollevò gli occhi al cielo e così pregò: Dio grande, creatore e padrone di tutte le cose, pei meriti del tuo divin figliuolo Salvator nostro Gesù Cristo ascolta l'umile mia preghiera. Fa vedere la tua potenza, frena quello {25 [277]} spirito diabolico che per mezzo di tanto inganno acceca questo popolo; scopri le frodi e gli inganni che esso usa per condurre questi uomini alla rovina.
Questa preghiera fu accolta da Dio, che sull'istante tolse le forze al demonio per modo che la vittima già strascinata nel vortice delle acque ricomparve galleggiante sopra di quelle. In questo modo quel popolo fu disingannato; il demonio perdette la sua forza; nè mai più in avvenire si operò quella diabolica maraviglia.
Dopo ciò quegli abitanti, che fino allora avevano conservati molti avanzi d'idolatria, rinunziarono ai loro errori e vennero alla fede. Anzi vollero che sopra la riva di quel lago fosse collocata una grande statua del Divin Salvatore che la Emoroissa del vangelo aveva fatto con maestria lavorare. Quella statua era un monumento parlante della vittoria di Gesù Cristo sopra tutte le potenze infernali. Eus. libr. 14. {26 [278]}
Fra le cose che sotto al pontificato di San Dionigi cagionarono gravi turbolenze nella Chiesa fu l'eresia di Paolo Samosateno. Questo eresiarca fu così soprannominato dal luogo di sua nascita che fu Samosata città della Siria poco distanto dall'Eufrate. Era vescovo di Antiochia quando salì sul trono di Siria la famosa Zenobia comunemente detta regina d'Oriente. Costei piccavasi di scienza e di religione, quindi soleva invitare alla sua corte tutti gli uomini celebri per ingegno e dottrina. Vi chiamò anche Paolo di Samosata, e ammirandone l'eloquenza volle con lui trattenersi intorno alla religione cristiana. Ella conosceva assai bene la lingua, la religione ebraica ed anche la cristiana, ma non poteva credere ai misteri che questa professa. Paolo pensò di poter appianare questa difficoltà dicendo che le persone della SS. Trinità non erano tre Dei, ma tre attributi sotto ai quali la divinità erasi manifestata {27 [279]} agli uomini, perciò un solo Dio ed una sola persona nella SS. Trinità. Colla quale asserzione venivasi a negare la divinità di Gesù Cristo. Questo errore era simile a quello di Sabellio, già condannato dalla Chiesa.
Da principio Paolo riguardò questo cangiamento di dottrina non come contrario alla Chiesa, ma come una condiscendenza propria a far cadere i pregiudizi di Zenobia contra la religione cristiana. Credevasi egli di poter così conciliare le espressioni della Chiesa colla sua dottrina. Ma s'ingannò: appena conosciuta, ne fu testo rimproverato. Ma quando egli conobbe l'abisso in cui era caduto, invece di umiliarsi e trarsene fuori adoperassi a tutt'uomo per giustificare la sua condotta. Per ordine del papa si radunò un concilio di vescovi in Antiochia, e Paolo per evitare una pubblica condanna finse di ravvedersi, ma protetto dalla regina Zenobia continuò nell'empietà, senza nemmeno voler abbandonare la sua diocesi.
L'anno 265 s. Dionigi papa nello scopo d'impedire la maggior diffusione del male convocò pure a Roma un concilio in cui fu esaminata la dottrina di Paolo e la sentenza {28 [280]} dei vescovi d'Antiochia. Roma condannò l'eresia di Paolo ed approvò l’insegnamento del concilio Antiocheno. Bar. anno 265.
Fra i più celebri per dottrina e santità, che intervennero al concilio antiocheno, fu l'infaticabile s. Dionigi alessandrino. È questa l'ultima opera pubblica cui egli prese parte pel bene della Chiesa. Pochi di dopo compieva la sua carriera mortale dopo aver diciassette anni governata la diocesi di Alessandria in tempi i più calamitosi. Egli giunse ad una gloriosa vecchiaja, faticò molto nel predicare, confutare gli eretici, e lasciò molti scritti che sono di grande utilità ai fedeli cristiani.
Malgrado la disapprovazione e sebbene par la deposizione dalla sua dignità gli fosse stato eletto un successore, Paolo protetto tuttavia sempre da Zenobia non volle abbandonare la sua chiesa con grave danno dei suoi diocesani. Quando poi Aureliano (nel 270) s'impadronì dell'impero, mosse guerra a Zenobia e mandò a fine la potenza di lei; allora godendo la Chiesa un po' di pace i cattolici si rivolsero all'imperatore affinchè costringesse quell'eretico ad uscire di quella casa vescovile. Aureliano benchè gentile {29 [281]} ed idolatra diede questa memorabile sentenza. La casa vescovile appartenga a colui, al quale i vescovi di Roma indirizzeranno le loro lettere. Paolo non avendo più alcune relazioni con Roma fu costretto ad allontanarsi e lasciare in pace quella diocesi. I seguaci di quello sventurato trovandosi in questa guisa abbandonati si raffreddarono, e poco per volta l'eresia cadde in oblio non senza però avere prima cagionata la perdita di molte anime.
Questo fatto ci insegna due importantissime verità: primieramente che non solo i fedeli cristiani in ogni tempo ricorsero al romano Pontefice come a giudice supremo in fatto di religione; ma gli stessi gentili, il medesimo Aureliano idolatra ed avverso ai cristiani conoscevano esservi una autorità suprema fra i cristiani, e questa autorità risedere nel rescovo di Romi.
Questo medesimo fatto convince di errore coloro che dicono la Chiesa ne' primi tempi non aver posseduto beni stabili. La Chiesa possedeva ai tempi apostolici, quando i fedeli portavano ai piedi degli apostoli ogni loro avere. Possedevano i papi che promossero tante opere di beneficenza, mandarono missionari e limosine per tutte {30 [282]} la parti della cristianità, scavarono catacombe, edificavano chiese e ne sostennero il decoro con grandi spese.
Possedevano pure le chiese particolari, come apparisce dal fatto di Aureliano; perciocchè ivi si parla di una casa proprietà della chieda domus ecclesiae, la quale veniva assegnata per abitazione di colui che fosse stato eletto patriarca della città di Antiochia. V. Eus. lib. 7.
Questo glorioso pontefice lavorò indefesso nel predicare la parola di Dio; incoraggiare i martiri alla costanza nella fede; convertire gli infedeli; ed accorrere ad ogni sorta di bisogni della Chiesa universale. Faticò anche non poco a sedare le questioni religiose che durante il suo pontificato nacquero in vari paesi e nel tempo stesso a combattere l'errore, specialmente l'eresia di Sabellio e di Paolo Samosateno.
Mentre per altro estendeva le sue sollecitudini {31 [283]} alla chiesa universale non dimenticava le cose che lo riguardavano come vescovo di Roma. Fra le altre cose il libro ponteficale dice che divise le parochie della città fissandone i limiti a quelli che dovevano aver cura delle anime nominati curati, perchè essi dovevano aver cura delle anime dei fedeli che dimoravano in un luogo determinato.
Dicevansi anche parochi da una parola greca che vuol dire provveditore. Gli antichi dicevano paroco colui che aveva l'uffizio di somministrare legna, sale e foraggi agli ambasciatori che venivano da paesi stranieri. Gli ebrei non facevano alcun sacrifizio senza che vi fosse del sale e del fuoco. Per questa analogia furono detti parochi que' sacri ministri che da' vescovi sono destinati a porgere ad un numero determinato di fedeli le legna ovvero il fuoco della carità, del santo timor di Dio; amministrando loro il sale della sapienza, della scienza della vita eterna.
I curati e paroci si appellano anche con altri nomi. Diconsi prevosti perchè presiedono ai fedeli cristiani; pievani ovvero capi della plebe; arciprete, ovvero primo tra i preti della parochia. Custode perchè sono {32 [284]} mandati dai vescovi come pastori a custodire le pecorelle di Gesù Cristo che sono le anime dei cristiani. Ma tutti questi nomi vengono sempre a significare un sacro ministro destinato dal vescovo ad aver cura di un determinato numero di fedeli.
Parochia poi significa lo spazio o il paese in cui è circoscritta l'autorità del paroco. Parochiani in fine si appellano gli abitanti della medesima.
Ora debbo notarvi che la città di Roma era già stata divisa in più parochie fin dai primi pontefici; ma le persecuzioni, specialmente quella di Valeriano, misero tutto sossopra. Imperciocchè quell’imperatore nel suo odio contro ai cristiani comandò che i sacerdoti fossero di preferenza ricercati e immediatamente messi a morte. Onde quando Aureliano diede qualche tempo di calma alla Chiesa, subito s. Dionigi che pur vedeva ogni giorno crescere il numero dei fedeli, tosto se ne valse per dividere con regolarità le parochie; stabilì preti di bontà conosciuta, affinchè sottentrassero nel ministero a coloro che erano stati mandati in esilio o coronati del martirio.
Lo stesso Valeriano aveva proibito ai cristiani {33 [285]} di radunarsi nei cimiteri e nelle catacombe per pregare ed invocare sulle ceneri dei martiri coraggio e fermezza nella fede. Perciò que' venerandi luoghi erano stati abbandonati dai cristiani, saccheggiati e rovinati dagli idolatri. S. Dionigi ne riparò i guasti; affidò la custodia di quei sacri recinti ad alcuni fedeli determinati. Quindi i cristiani poterono ripigliare il loro corso alle catacombe per ivi assistere alle religiose funzioni, ascoltare la santa messa, udire la parola di Dio ed accostarsi ai santi sacramenti, specialmente a quello della comunione.
Il medesimo s. Dionigi tenne in dicembre la sacra ordinazione due volte, nella quale consacrò dodici sacerdoti, sei diaconi, sette vescovi che mandò al governo di varie diocesi.
Non ci deve recar maraviglia se s. Dionigi nel corso del lungo suo pontificato abbia ordinato soltanto questo numero di ministri, perciocchè non sempre i papi tenevano essi la sacra ordinazione. Nei paesi lontani da Roma gli ecclesiastici erano consacrati dai vescovi secondo la loro ordinaria autorità. In Roma poi, quando il papa non teneva esso l'ordinazione, deputava un {34 [286]} vescovo a farne le veci siccome si pratica ancora presentemente.
Fra i vescovi ordinati da s. Dionigi fu s. Zama che mandò a governare la chiesa di Bologna. Egli è considerato come il primo vescovo di quella città, non già che prima di lui non siano stati vescovi in quella città, ma s. Zama è il primo di cui siansi conservate memorie. Gli scritti che contenevano il nome e le azioni de' suoi antecessori si smarrirono o durante le persecuzioni o nelle invasioni de' barbari.
L'anno 268 s. Dionigi comandò che si radunasse un secondo concilio nella città di Antiochia contro di Paolo Samosateno che fra gli altri errori negava la verginità di Maria. Dionigi approvò la decisione di quell'assemblea, condannò l'errore; di poi volle in Roma stessa dare un pubblico segno di affetto verso la grande Madre di Dio colla erezione di una chiesa a lei dedicata nel luogo detto oggidì scuola greca o bocca della verità. Dicesi scuola greca perchè qui era un ginnasio dove la gioventù era istruita nelle lettere greche; nominasi poi bocca della verità da un'ara che anticamente ivi esisteva presso cui erano condotti quelli che con giuramento asserivano la verità di qualche cosa. {35 [287]}
Finalmente questo coraggioso pontefice dopo di aver governata la Chiesa undicianni, tre mesi e quattordici giorni in età assai avanzata cessava di vivere il ventisette dicembre del 272. Esso è il primo dei pontefici che abbia terminata la vita con pacifica morte. Da taluno si suole anche nominare martire, non perchè abbia terminata la vita ne' tormenti, ma perchè consumò tutte le sue forze nel promuovere la gloria di Dio e il bene delle anime. Così noi potremmo chiamarlo martire di carità.
V. Aldoino in S. Dionigi. {36 [288]}
Fra i santi che terminarono gloriosamente la vita sotto al pontificato di s. Dionigi fu s. Gregorio Taumaturgo. Le azioni di quest'uomo maraviglioso sono così amene e strepitose, che noi crediamo di far cosa grata ai nostri lettori coll'esporle qui informa di appendice.
S. Gregorio, detto anche Teodoro, è soprannominato Taumaturgo, ossia operator di miracoli a cagione de' molti e strepitosi prodigii da lui operati in vita e dopo morte. {37 [289]}
Egli era nato in Neocesarea città del Ponto che è un regno dell'Asia minore. Apparteneva ad una nobile e ricca famiglia; suo padre era pagano; ma Gregorio lo perdette in età di quattordici anni, e fin da quel tempo cominciò ad istruirsi intorno alle verità del Cristianesimo. La madre vedova attese colla maggior cura alla buona educazione del figlio. Gli fece imparare la lingua latina, necessaria per chi aspirava ai pubblici impieghi, e gli procacciò buoni maestri affinchè lo ammaestrassero nella letteratura e nella eloquenza. Nei quali studi pel raro suo ingegno Gregorio in breve progredì così rapidamente che diede a' suoi parenti le più belle speranze di riuscita in qualche luminosa carriera. Sino da quella età era sì grande il suo amore per la verità, che neppure per esercizio oratorio poteva indursi a lodare quelli che non ne fossero veramente degni. Aveva molto a cuore l'innocenza e la purità della vita, e vedendo le azioni dei filosofi pagani non conformi a' loro insegnamenti volle piuttosto starsene contento delle cognizioni ordinarie, che andarne ad apprendere delle più sublimi da maestri così corrotti.
A Berito, città della Fenicia, era in {38 [290]} que' tempi una famosa scuola per lo studio delle leggi romane. Gregorio vi fu mandato; ma prima di fermarvisi passò in Cesarea, dove ebbe la bella sorte di udire il famoso Origene, il quale mentre menava una vita da santo, faceva altri santi e martiri. Maravigliato per i bei discorsi di quel maestro, Gregorio invece di ritornare, a Berito, come incantato rimase a Cesarea. Di ottimo cuore qual era ben presto si unì coi vincoli di una stretta amicizia a questo nuovo maestro, il quale colla sua benevolenza e tenerezza gli fece dimenticare fino la propria patria. Origene dal canto suo conobbe pure la eccellenza del suo allievo, e non tralasciò cura nè fatica per ben coltivarlo. Ma a fine di piegare quell’animo ancor fiero e sottometterlo a poco a poco al soave giogo di G. Cristo procurò anzi tutto di guadagnarsi ben bene la sua confidenza. Non ardì parlargli subito della fede cristiana, ma si contentò sulle prime di biasimare in generale la cecità di quegli uomini i quali vivevano come gli animali bruti senza conoscere il loro Creatore. Quindi gli manifestò il gran desiderio che esso aveva di procurargli la soda e vera sua felicità.
Dopo di avergli così preparato il cuore lo {39 [291]} istruì nelle cose della vera filosofia. Lo ammaestrò primieramente nella logica, ossia in quella scienza che mostra a ragionar bene ed a separare il vero dal falso. Lo applicò poscia alla scienza fisica, cioè alla considerazione dell'infinita sapienza ed onnipotenza del Creatore nelle sue opere. Gli insegnò l'astronomia, ossia la scienza delle stelle per assuefarlo a sollevare il suo spirito al cielo. Quindi lo istruì nella morale, ossia nella scienza della virtù, praticando egli pel primo quelle cose che gli raccomandava. In fine gli insegnò la teologia, e gli fece leggere tutti quei filosofi che avevano scritto delle cose divine, eccetto quelli che empiamente negavano Dio e la Provvidenza. Questo prudente maestro non abbandonava a se medesimo il suo scolaro in tutte le sue letture, ma lo conduceva come per mano; gli indicava quello che ogni filosofo aveva di buono e di cattivo; lo premuniva contro i passi pericolosi. Caldamente poi gli raccomandava che attaccasse il suo cuore alla Sacra Scrittura ed ai suoi interpreti, come alla sola e vera fonte dalla quale si poteva attingere la verità senza mescolanza d'errore. {40 [292]}
In quel tempo sorse la sesta persecuzione contro i cristiani, mossa dall'Imperatore Massimino. Questa persecuzione minacciava Origene più che ogni altro, essendo il dottore più rinomato della Chiesa. Vedendosi mal sicuro in Cesarea egli se ne fuggì. Gregorio costretto di abbandonare il caro suo maestro si ritirò nella città di Alessandria, dove la gioventù concorreva da tutte le parti per istudiare la filosofìa e la medicina. Sebbene non fosse ancora battezzato, tuttavia menava già una vita così pura e casta, che si era guadagnata la stima e la venerazione di tutti. Alcuni perversi compagni scorgendo nella buona vita di lui un santo rimprovero della pessima loro condotta, rosi da invidia, cercarono di diffamarlo. Stando egli un giorno a disputare con alcuni sapienti, gli mandarono un'infame cortigiana a chiedergli la mercede che, ella diceva, aver da lui meritata. I suoi compagni che conoscevano {41 [293]} la purità della sua vita arsero di sdegno contro a quella svergognata; ma egli senza punto turbarsi disse tranquillamente ad uno de' suoi compagni: Date a costei qualche cosa in mio nome affinchè ci lasci tranquilli. Le diede l'altro quanto ella domandava; ma appena ebbe sporta la mano per riceverla, assalita dal demonio, si mise ad urlare con voce da disperata. Il maligno spirito la gittò per terra in mezzo dell'adunanza, ed essa cogli occhi sconvolti, colla schiuma alla bocca già stava per essere soffocata. Ma Gregorio vedendola in quello stato ne ebbe compassione, e pregato il Signore per lei immantinenti fu libera.
Durante la sua dimora in Alessandria ebbe una lettera da Origene. In questa egli lo chiama suo figliuolo. Gli dice che il suo bell'ingegno può renderlo grande nel mondo; ma lo esorta di tutto cuore di non adoperarlo in altro che in favore della religione cristiana. Gli raccomanda di nuovo lo studio delle divine scritture; aggiungendovi l'orazione, la quale, egli dice, è necessarissima per poterla intendere.
Tanto approfittò Gregorio di questi saggi {42 [294]} consigli che più non si potrebbe desiderare. Ritornato dopo qualche tempo ad Origene terminò d'istruirsi. Stette cinque anni suo discepolo; con indicibile gioia del suo cuore ricevette il battesimo, che ardentemente desiderava; poscia ritornò in patria col suo fratello Atmedoro, il quale fu poi vescovo e martire. Prima però di lasciare il suo caro maestro volle assicurarlo della sua riconoscenza con un bel discorso che egli fece innanzi a lui e ad una numerosa adunanza. In questo discorso gli dà le maggiori lodi che dar si possono ad un uomo vivente, tanto da chiamarlo inspirato da Dio e divino. Finisce quindi col raccomandarsi alle sue orazioni dicendo: «Prega Dio che mi consoli alquanto della vicina tua privazione; pregalo che mi mandi il suo buon angelo a condurmi; ma più di tutto pregalo che mi riconduca vicino a te, perchè questo solo basterà per rendermi felice.»
Presane licenza dall'amato maestro, Gregorio ritornò a Neocesarea, dove quei di sua famiglia occupavano le prime dignità. Tutta la città a lui rivolgeva gli occhi aspettando, che venisse ad occupare qualche alta carica. Ma Gregorio già per nulla stimava {43 [295]} i vani onori e le ricchezze di questo mondo. L'amore dell'orazione e della scienza dei santi gli fecero nascere un gran desiderio di ritirarsi in luogo solitario, dove, senza disturbo alcuno, attendere unicamente alle cose di Dio, e non conversare con altri se non con lui solo. Divise pertanto le sue ricchezze tra i parenti ed i poveri, non riserbando per sè che la sola fiducia nella divina Provvidenza. Abbandonato così tutto ciò che possedeva si ritirò in una solitudine, dove rimase per lungo tempo tranquillo, tutto dedito alle cose del cielo.
Le luminose virtù di Gregorio non potevano a meno di risvegliare la pubblica attenzione. Ben presto si pensò di farlo vescovo; ma egli reputandosi indegno di quella sublime dignità cercava esimersene non lasciandosi ritrovare; e cangiando dimora passava di solitudine in solitudine, e per {44 [296]} qualche tempo gli riuscì di tenersi nascosto. Alla fine Fedimo arcivescovo di Amasea, il quale aveva il dono di profezia, vedendo di non poterlo raggiungere, inspirato da Dio, sebben lontano tre giorni di cammino lo elesse vescovo di Neocesarea sua patria, dove gli idolatri erano senza numero, e i cristiani soltanto diciassette. Gregorio vedendo che quella era la volontà di Dio si sottopose al giogo, e colle dovute cerimonie fu consacrato vescovo. Tuttavia tremando per una così grande dignità pregò Fedimo di dargli ancora qualche spazio di tempo per acquistare una più profonda e più esalta cognizione dei nostri sacri misteri.
Dopo aver passato un'intera notte nella più profonda meditazione vide apparirgli innanzi un vecchio venerando in compagnia di una signora di augusto aspetto. Gregorio malgrado l'oscurità della notte non poteva sostenere lo splendore di questa visione. Intese essere la Grande Madre di Dio che gli appariva col discepolo prediletto, s. Giovanni al quale Maria diceva di spiegare al vescovo i misteri della religione. Subito il discepolo gli spiegò il mistero dell'adorabile Trinità, e Gregorio immantinenti scrisse quella celeste lezione, che {45 [297]} poi tramandò a' suoi successori. Questa maraviglia nulla ha d'incredibile nella vita di un santo, la quale non è che una serie di miracoli.
Dopo questa visione Gregorio uscì del suo ritiro per andare alla città che doveva governate. Un violento temporale e l'oscurità della notte lo obbligarono a ritirarsi in un tempio d'idoli il più famoso del paese nel rendere gli oracoli. Nell'entrarvi egli fece il segno della santa croce, secondo il suo costume, e cantando lodi al Signore passò così grande parte della notte. La mattina venne il sacerdote del tempio pei suoi uffizi; ma il demonio, il quale rendeva gli oracoli, gli disse che gli Dei non potevano più abitare in quel luogo dove un empio uomo vi aveva passata la notte. Il sacerdote si pose ad offrire dei sacrifizi straordinari per placare l'ira de' suoi Dei, ma tutto fu inutile. Montato in collera quel sacerdote chiese della strada che Gregorio aveva presa e si mise ad inseguirlo. Raggiunto che l’ebbe lo caricò d'ingiurie, e lo minacciò di accusarlo ai magistrati siccome profanatore della religione dell'impero. Il santo vescovo lo ascoltò con molta trauquillità. Quando il sacerdote ebbe finito {46 [298]} Gregorio si mise a fargli vedere l'impotenza de' suoi Dei, i quali erano restati muti per la presenza di un povero servo di Gesù Cristo. Gli soggiunse che egli aveva il potere di scacciarli da qualunque luogo egli volesse e di farli anche ritornare dove stimasse a proposito, tanta era la sua confidenza in Dio.
A queste parole maravigliato l'idolatra, dalle minaccie passando alle preghiere, lo scongiurò perchè volesse farli ritornare nel tempio. Allora il Taumaturgo gli diede un biglietto, su cui aveva scritto queste parole: «Gregorio a satana: Rientra.» Il sacerdote preso quel biglietto se ne ritornò al tempio, e quivi lo pose sull'altare. Fatte le solite cerimonie rivide i suoi Dei, ovvero ciò che soleva veder prima. Stupefatto il pagano corse di nuovo dietro al vescovo, e lo pregò di fargli conoscere quel Dio così potente, che esercitava un tanto impero sopra i demonii. Gregorio gli espose i principali misteri della nostra S. Fede; ma il sacrificatore non poteva capacitarsi del mistero dell'Incarnazione, giudicando cosa indegna di Dio il venire fra gli uomini e prendere carne mortale. Allora Gregorio gli disse: «Non sono nè le parole nè {47 [299]} gli umani ragionamenti cha possono persuadere questa verità, ma bensì le maraviglie di Dio.» All'uno dei lati di quella strada dove si trovavano eravi un macigno di smisurata grossezza: «Comanda a questa pietra, gli disse il sacrificatore, che cangi luogo e vada in quell’altro (e gli indicava dove) e poi ti crederò.» Gregorio comandò, e la pietra, come se fosse animata, ubbidì. Il pagano allora non seppe più resistere; abbandonò e moglie, e figliuoli, e casa, e beni, e sacerdozio per seguire Gregorio e divenir suo discepolo, e non andò molto che fu da lui ordinato diacono. Questi miracoli del Taumaturgo sono riferiti da s. Gregorio Nisseno, da s. Basilio suo fratello, da Rufino, da s. Girolamo, dallo storico Socrate, da Teodoreto e da molti altri.
La fama del mentovato miracolo, essendo giunta à Neocesarea prima del vescovo, {48 [300]} mosse tutto il popolo ad andargli incontro sin fuori della città. Di tanti beni che aveva posseduto in quel luogo di sua nascita, Gregorio non si era riserbato neppure una stanza per dimorarvi. I fedeli che lo accompagnavano nè mostrarono qualche inquietudine. «Non siamo noi forse al coperto, disse loro, sotto le ali della provvidenza di Dio? Il nostro Divin Salvatore non ci ha forse comandato la sola cura di fabbricarci un'eterna dimora in Cielo?» Tostochè ebbe proferito queste parole molti cittadini a lui si avvicinarono chiedendogli come per grazia che andasse ad alloggiare nella loro casa. Egli diede la preferenza ad un certo Musonio, non già che fosse uno de' principali della città, ma bensì perchò faceva onore alla fede cristiana che professava.
Prima che terminasse il giorno un gran numero di cittadini credette in Gesù Cristo. Il giorno seguente di buon mattino si vide alla porta del santo pastore molta gente d'ogni età e condizione con ogni sorta d'infermi. Egli dando loro la benedizione tutti li guarì sino all'ultimo. Questi miracoli replicati di giorno in giorno e l'esempio anche più mirabile delle sue virtù {48 [301]} resero così frattuose le sue parole che in breve tempo si formò un gregge numeroso e pieno di fervore. Allora fece fabbricare una chiesa alla cui fabbrica ognuno contribuì o col danaro o coll'opera. Essa era posta nel luogo più alto della città, e fu considerato come un continuo miracolo, che abbia resistito a molti terremoti, i quali coll’andare del tempo distrussero quasi tutta Neocesarea. Fu pure risparmiata durante la persecuzione tanto crudele e violenta di Diocleziano e di Massimiano, la qual cosa fu considerata non meno maravigliosa delle altre.
Egli non mai s'impiegava più volentieri che quando trattavasi d'impedire la violazione della santa legge di Dio, o di far novelli cristiani. I suoi frequenti e grandi miracoli persuasero a tutti gli abitanti di Neocesarea e dei dintorni che egli non diceva nè faceva cosa alcuna senza il poter di Dio. Per la qual cosa conchiusero non esservi alcun tribunale più giusto del suo; perciò quando avevano qualche questione andavano da lui. Così tutti gli affari anche i più difficili essendo da esso definiti, tutti godevano grande pace e grande concordia. Un giorno gli si presentarono due fratelli che {50 [302]} litigavano sul possesso di un lago, nel quale allora si faceva la pesca. Non avendo il santo vescovo potuto metterli d'accordo, essi grandemente infieriti raccolsero gente armata da una parte e dall'altra per far valere colle armi le loro ragioni. Il santo pastore fu di ciò avvisato da alcuni caritatevoli vicini. Subito si recò sulle rive del lago che alla mattina dovevano essere bagnate dal sangue di quegli uomini armati. Dopo di aver passata qui la notte in orazione, pieno di fede nell'onnipotenza di Dio, comandò all'acqua di ritirarsi. A quel comando l'acqua disparve in modo che lasciò quel luogo secco da potersi lavorare. Venuti alla mattina i due giovani ciascuno colle sue genti, e non trovaudo più altro che puro terreno, deposero il loro furore, e da nemici quali erano tornarono fratelli. Cento anni dopo vedevansi ancora i segni di questo lago rasciugato.
Un'altra volta in un modo non meno miracoloso comandò alle acque del fiume Lico, il quale ingrossando improvvisamente, principalmente in tempo d'inverno, rompeva gli argini, inondava le campagne e seco travolgeva ricolti, bestiami e fino gli abitanti. Una volta fra le altre crescendo quelle acque {51 [303]} in maniera più del solito spaventevole, molta gente gridando e piangendo dirottamente corse al santo vescovo e lo scongiurò ad impedire la totale loro rovina. Egli andò seco loro dicendo che non dovevano aspettare soccorso da altri se non da Dio. Giunto a quel fiume, allora che vide la furia delle onde, ravvivò la sua fede in Gesù Cristo, il quale aveva comandato ai venti ed al mare, e lo supplicò a rendere nota la stessa potenza in faccia ad un popolo ancora debole nella fede. Terminata la sua preghiera piantò il suo bastone nel luogo dove il fiume versava. Sull'istante si arrestò l'inondazione, nè mai più l'acqua passò quel bastone, il quale mise le radici e divenne un albero che si vedeva ancora più d'un secolo dopo. Lo zelo e la riputazione di quest'uomo operatore di miracoli stabilirono ferma la fede non solo in Neocesarea, ma in tutti i luoghi circonvicini. {52 [304]}
Gregorio consacrò molti vescovi in parecchie città; fra questi merita particolare menzione s. Alessandro, detto il Carbonaio. La città di Comana dipendente da Neocesarea aveva mandato alcuni deputati per ottenere un pastore. Gregorio vi andò per esaminare quelli che venivano proposti a quella dignità. Colà giunto fece loro sapere che non bisognava aver riguardo nè alla nobiltà della nascita, nè alle nobili qualità delle persone; ma che si doveva dare la preferenza alla virtù, quando anche si trovasse sotto le apparenze più dispregevoli. «Se è cosi, disse uno dell'adunanza quasi in segno di burla, non ci resta altro che scegliere Alessandro il Carbonaio.» Gregorio ben sapendo che spesse volte i consigli di Dio sono molto lontani da quelli degli uomini ripigliò: «E chi è questo Alessandro?» Alessandro si trovava in quella calca, e fu fatto avvicinare a Gregorio, Al vedere avanzarsi fra mezzo a {53 [305]} loro quella nera figura tutti si misero a ridere. Ma il Carbonaio non turbandosi minimamente si presentò in contegno fermo e modesto. Gregorio sospettò subito che in quest'uomo vi fosse qualche cosa di straordinario, e presolo in disparte gli dimandò con premura chi fosse, e lo scongiurò a non volergli nascondere niente per una umiltà fuori di proposito. Alessandro dichiarò ogni cosa al vescovo, la sua patria, la sua educazione, la nobiltà di sua famiglia; gli aggiunse che il desiderio di mettere in salvo l'anima sua l'aveva animato ad abbracciare quello stato in cui si trovava. Quindi rispondendo ad ogni interrogazione che gli fu fatta diede a conoscere di essere un uomo di gran senno. «Io riguarda, egli disse, la nerezza di questo carbone come un velo che mi tiene nell'oscurità e nell’oblio. Sono ancora giovane, siccome puoi vedere, e per quanto mi si diceva altre volte assai ben fatto della persona. Queste cose sarebbero per me altrettante tentazioni, dalle quali ora mi trovo liberato con questo basso mestiere, dal quale traggo con che innocentemente sostenermi la vita.»
Gregorio allora non dubitò più della scelta che il cielo faceva di Alessandro. Egli si allontanò {54 [306]} alquanto e lavatosi bene ritornò vestito di abiti convenienti. Avanzatosi nell'assemblea parve un uomo nuovo, e tutti furono grandemente maravigliati. «Non vi stupite, disse Gregorio, se le apparenze vi tenevano ingannati, imperocchè il demonio stesso voleva rendere inutile questo vaso di elezione tenendolo così nascosto.» Dopo di questo lo consacrò vescovo secondo le cerimonie della s. Chiesa. Tutto il corso del vescovato di Alessandro corrispose a questo sì felice principio. Egli governò santamente il popolo di Comana fino alla persecuzione di Decio, nella quale ottenne la palma del martirio essendo bruciato vivo.
Mentre Gregorio ritornava da Comana due Giudei sia per prendersi giuoco di lui, sia per istrappargli qualche moneta, usarono il seguente inganno. L'uno si mette lungo e disteso per terra e fa il morto, mentre l'altro si dà a piangere, ed avvicinandosi al santo vescovo gli chiede di che dar sepoltura al suo compagno. Il santo prende tosto il suo mantello, il getta sul finto morto, e prosegue il suo cammino. Non aveva ancora fatto gran pezza di strada, che l'impostore cangia il pianto in grandi scoppi di risa, e allegro corre al compagno {55 [307]} a dirgli che si alzi pure. Lo chiama, ma l'altro non risponde; lo chiama di nuovo, lo scuote, ma non si muove, perchè era morto davvero.
Salito sul trono l'imperatore Decio ebbe suo primo pensiero di pubblicare un sanguinoso editto contra i cristiani. Gregorio che grandemente amava il suo popolo, lo consigliò a scampare colla fuga dal pericolo di quell’accanita persecuzione. Egli stesso per dare al popolo l'esempio di cristiana prudenza si ritirò sopra una collina deserta in compagnia di quel sacerdote idolatra che egli aveva convertito e quindi consacrato diacono. Il Signore talmente benedisse le cure di lui, che per un'eccezione particolare e affatto maravigliosa in quell'orribile persecuzione non vi fu in Neocesarea neppure un apostata. Inoltre dimostrò pure Iddio con un miracolo che approvava il suo ritiro. Saputo il luogo dove Gregorio ed il suo compagno si erano nascosti, i feroci persecutori li inseguirono. {56 [308]} Una parte si pose a guardia sulle uscite della valle, mentre altri lo rintracciavano per tutta la montagna. S. Gregorio intanto disse al suo diacono di mettersi a pregare con lui e di confidare in Dio. Dopochè i persecutori ebbero scorso tutti quei luoghi e visitato ogni più recondito nascondiglio tornarono giù nella valle ai compagni, e loro dissero di non aver trovato altro che due alberi l’uno vicino all'altro. Il principale condottiero di quella truppa, stupito di una cosa cotanto strana, ritornò solo negli stessi luoghi, e trovò il santo vescovo col suo diacono immobili in orazione nel medesimo luogo dove gli altri erano già passati per ben venti volte, e non avevano mai veduto altro che due alberi. A quel prodigio, da feroce leone cangiato in mansueto agnello, si gettò ai piedi del Taumaturgo, si fece cristiano, nè più volle separarsi da lui.
Intanto i pagani, perduta ogni speranza di prenderlo, rivolsero tutta la loro rabbia contro i fedeli del suo gregge. Li cercavano nei loro nascondigli, li traevano alla città e ne riempievano le prigioni. Ma le fervorose preghiere del loro pastore li sostennero. Un giorno egli fu veduto turbarsi {57 [309]} mentre pregava. Gli fu domandata la cagione di questi improvvisi suoi cambiamenti, ed egli rispose che nel tempo in cui pregava, un giovane di nobile famiglia, di nome Tronde, era stato presentato al governatore, e che dopo molti tormenti aveva riportato la palma del martirio. Il suo diacono volle informarsi di questo, e trovò pienamente vera la narrazione del santo.
Un'orribile pestilenza devastava quasi tutto il mondo. Gli idolatri pretendevano di arrestarla colla morte dei cristiani; ma essa raddoppiava le sue stragi con inaudita violenza. Questo flagello durò per dieci anni, e fece perire un numero d'infedeli infinitamente maggiore di quello dei cristiani, i guali con atroci tormenti erano mandati a morte. Essi, ben lungi dal temere il contagio, soccorrevano con carità eroica non solo i loro fratelli, ma eziandio gl'idolatri {58 [310]} che li perseguitavano con tanta barbarie. Intanto cessando qualche poco la ferocia della persecuzione, Gregorio ritornò a Neocosarea. Visitò luogo per luogo la sua diocesi, dove erano stati molti martiri; ne fece portare i corpi in luoghi destinati ed ordinò al popolo di congregarsi ogni anno per celebrarne la festa. Esso seppe fare servire il flagello della peste alla conversione del resto di pagani. Questo contagioso morbo aveva incominciato a Neocesarea in una festa che celebravano in onore dello false loro divinità con una pompa la più straordinaria. Grandissimo era il concorso dei cittadini e delle persone accorse dai luoghi vicini. Non potendo perciò trovare luogo bastante per gli spettacoli, tutti insieme nel loro folle entusiasmo pregarono con alta voce gli Dei che allargassero lo spazio. S. Gregorio lo seppe, e nel suo dolore mandò loro a dire che ben presto avrebbera più spazio di quello che bramavano. Nello stesso punto infierì la peste in modo così terribile, che quella innumerevole moltitudine ne restò colpita sull'istante. Nessun umano rimedio poteva fermarne il corso, ed in tutti i quartieri della città non vi fu che la più orribile desolazione. {59 [311]} Non solo le case private, ma gli edifizi pubblici ed i templi erano pieni di morti e di moribondi; le strade ne erano seminate. Gli infermi lasciati soli e senza soccorso uscivano vacillando per andare a temperare nelle fontane gli interni ardori che li consumavano. Altri avendo perduta ogni speranza di guarigione, e meno temendo la perdita di un infelice avanzo di vita, che la privazione della sepoltura, si strascinavano ancora viventi dentro i sepolcri. Si grande insomma era il numero dei morti, che i vivi non bastavano più a seppellirli.
Queste fatali circostanze fecero finalmente pensare che questo potesse essere un castigo per parte del Dio dei Cristiani, piuttostochè delle divinità del paganesimo, le quali si mostravano così impotenti. Tosto il popolo idolatra corse al vescovo, la cui sola presenza aveva scacciato il male da alcune case dove era entrato. Gli promisero di abbracciare tutti il Vangelo, se colle sue orazioni li liberasse da quella terribile calamità. Il santo pregò, li liberò, ed essi mantennero così fedelmente la loro parola, che i cittadini e gli altri diocesani si recavano in folla a dimandare il battesimo, e quasi tutti vennero alla fede. {60 [312]}
Intanto erasi già avvicinato il tempo in cui Gregorio doveva passare a ricevere quel celeste gunlerdone che Dio tiene preparato a' suoi servi fedeli. Vedendosi al termine de' suoi giorni volle sapere se ancora restasse qualche infedele nella città di Neocesarea e nel suo contado. Inteso esservene ancora diciassette, alzò gli occhi al cielo e dimostrando per una parte il suo dolore di non veder i suoi desiderii intieramente compiuti, rendè per altra parte umili grazie al Signore, perchè non avendo trovato quando imprese a coltivar quella vigna se non diciassette cristiani, allora lasciava al suo successore non più che altrettanti pagani. Prima di morire ordinò che non si comperasse alcun luogo per dargli sepoltura affinchè i posteri sapessero che Gregorio non aveva posseduto un palmo di terra nè prima nè dopo la sua morte, e che per seppellirlo gli era bisognato il sepolcro d'un altro. Egli riposata pacificamente nel Signore nel 266, l'anno quinto del pontificato di s. Dionigi, mentre Aureliano governava il romano impero. La Chiesa onora la memoria di questo glorioso santo il 17 del mese di novembre. Nello stesso giorno si onora pure la memoria di s. Dionigi vescovo di Alessandria, {61 [313]} anche discepolo di Origene e condiscepolo fedele del Taumaturgo. Gli stessi nemici della Chiesa chiamano Gregorio un altro Mosè pe' suoi grandi miracoli.
I santi padri parlano di lui come del nomo dei prodigi, raro anche trai santi, degno di essere paragonato ai più illustri patriarchi, agli apostoli, ai profeti, non tanto pe' suoi miracoli, quanto per le sue virtù. Egli era chiarissimo per la sua erudizione, non meno che per la singolarità del suo genio. Il suo discorso che fece in lode di Origene è uno de' più belli squarci di eloquenza dell'ecclesiastica antichità. Abbiamo pure sollo il suo nome quattro altri belli e divoti sermoni, tre sull'Annunziazione della B. V. ed uno sulla Deofania o manifestazione della divinità al battesimo di Gesù Cristo. Tutti quattro tendono a dimostrare la divinità consustanziale del Figliuolo di Dio, la sua incarnazione in seno a Maria Vergine, l'unità di sua persona Dio e uomo insieme, la divina maternità della beata Vergine, la quale vien quivi chiamata più volte Theotocos o madre di Dio. In ultimo abbiamo la sua epistola canonica indirizzata ad un vescovo, il quale dimandava il suo parere sui diversi gradi di penitenza, che il santo sin d'allora distingueva. {62 [314]}
Capo I Vita eremitica Elezione di s Dionigi |
Pag 3 |
Capo II Martirio di san Cipriano |
7 |
Capo III Costanza ammirabile di un fanciullo |
12 |
Capo IV Punizione de' persecutori Carità de' cristiani |
15 |
Capo V Concilio romano - Relazione di san Dionigi di Alessandria con san Dionigi papa |
18 |
Capo VI Massa Candida - Martirio di san Marino – Sant’Asterio al Giordano |
22 |
Capo VII Eresia di Paolo Samosetano - Grave sentenza di Aureliano imperatore a favor de' cristiani |
27 |
Capo VIII Ultime azioni di san Dionigi papa - Sua morte |
31 |
Appendice sopra S Gregorio Taumaturgo |
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Capo I Nascita - Studi di san Gregorio |
37 {63 [315]} |
Capo II Trame contro di Gregorio - Lettera a lui di Origene - Suo battesimo - Suo ritiro |
Pag 41 |
Capo III Sua visione - È promosso alla sede vescovile di Neocesarea - Suoi miracoli in un tempio d’idoli |
44 |
Capo IV Miracoli operati in Neocesarea - Numerose conversioni ivi operate - Prosciuga un lago - Arresta una inondazione |
48 |
Capo V Consacra Alessandro il Carbonaio vescovo di Comana - Castiga la ribalderia di due giudei |
53 |
Capo VI Miracolosa liberazione di Gregorio |
56 |
Capo VII Ritorno di Gregorio a Neocesarea - Conversioni ivi da lui operate - Fa che cessi la peste - Sua morte - Suoi scritti |
58 |
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Con approvazione della Revisione ecclesiastica. {64 [316]} {65 [317]} {66 [318]} |