LA PERLA NASCOSTA DI S. E. IL CARDINALE WISEMAN

Arcivescovo di Westminster

 

TORINO.

tip. dell'orat. di s. franC. di sales

1866. {1 [25]}

 

proprietà' dell'editore {2 [26]}

 

 

[è premesso agli scritti attribuiti o attribuibili a Don Bosco]

 

 

 

 

INDEX

Argomento  2

Personaggi 2

Atto primo  3

Scena I. 3

Scena II. Eufemiano, Alessio e Procolo. 4

Scena III. Procolo solo. 5

Scena IV. 5

Scena V. Procolo e detti. 8

Scena VI. Bibolo, uscendo di sotto la tavola, quindi Eusebio. 9

Scena VII. Bibolo solo. 10

Scena VIII.  Il monte Aventino. 11

Scena IX. L'Atrio. 12

Scena X. Alessio e quindi Procolo. 13

Scena XI. Alessio solo. 13

Scena XII. 14

Scena XIII. (Eufemiano entra). 14

Scena XIV. Eufemiano, Alessio, Procolo, Bibolo e schiavi. 15

Atto II 17

Scena I. L'Atrio. 17

Scena II. Eusebio e detti e quindi gli schiavi. 18

Scena III. Alessio entra debole e vacillante. 18

Scena IV. Alessio ed Eusebio che entra portando un piatto, e poi Orsolo. 18

Scena V. Procolo e detti. 19

Scena VI. Eufemiano e detti e poi Carino. 21

Scena VII. L' Aventino. 22

Scena VIII. L'atrio. 24

Scena IX. E' notte. 26

Scena X. Alessio, Procolo e gli schiavi. 27

Scena XI. Eufemiano, Eusebio e detti. 27

Scena XII. Carino e detti. 29

Scena XIII. 30

Scena ultima. Un Nunzio e detti. 30

 


Argomento

 

                Sotto il regno dell'imperatore Onorio, e sotto il pontificato d'Innocenzo I[1], dimorava a Roma, sopra il colle Aventino, un patrizio opulentissimo, per nome Eufemiano. Egli aveva un figliuolo unico di nome Alessio, che allevava nei sentimenti di una soda pietà, e nella pratica di una carità senza limiti.{3 [27]}

            Era Alessio sul fior degli anni quando per secondare una voce divina che gli parlava al cuore, lasciò la casa di suo padre per vivere da povero pellegrino. Egli perciò ritirossi nella città di Odessa, dove visse molti anni, durante i quali fu cercato in tutte le parti del mondo conosciuto. Finalmente un nuovo ordine misterioso gli comandò di ritornare presso a'  suoi genitori, dove fu ricevuto come uno sconosciuto.

            Il giovane Romano visse quivi altrettanti anni quanti ne aveva passati fuori della sua patria, e fino al giorno della sua morte, fu sempre in preda alle derisioni ed ai cattivi trattamenti de' suoi propri servitori.

            Dopo il suo transito, una voce celeste, che risuonò in tutte le chiese della città, lo proclamò santo, ed uno scritto che si rinvenne sopra di lui, svelò la sua storia.

            Siccome gli anni che Alessio passò in queste varie condizioni furono dagli scrittori compendiati in molte maniere, l'autore di questo piccolo dramma gli ha limitati {4 [28]} a cinque anni per ciascun tempo, ossia a dieci in tutto.

            Il principio e il termine dell' ultimo periodo formano il soggetto di questo lavoro: e tra i due atti trascorrono cinque anni.

            Tale è la storica leggenda che si conserva a Roma sul colle Aventino[2], dove s'innalza la bella chiesa di Sant'Alessio.

            I pellegrini vengono ancora in folla a visitarla nel giorno della sua festa. Dal giardino che ivi è intorno si gode una delle più belle vedute di Roma. Questa chiesa à posta a qualche passo da Santa Sabina. {5 [29]}

 

 

Personaggi

 

Eufemiano, patrizie romano.

Alessio, suo figliuolo sotto il nome di Sconosciuto.

Carino, suo nipote.

Procolo, suo liberto e intendente.

Eusebio, liberto (dopo il primo atto).

Bibolo,

Davo, schiavi.

Orsolo,

Verna, neri

Gannio, mendicante.

Un nunzio imperiale.

Un ufficiale.

Schiavi bianchi e neri, che non parlano.

Due ladri.

 

            La scena ha luogo a Roma, sul colle Aventino, parte all' esterno, e parte nell' interno del cortile o atrio di Eufemiano, durante il regno di Onorio e del pontificato di Innocenzo I. {6 [30]}

 

 

Atto primo

 

Scena I.

 

                (Uno spazio aperto sul colle Aventino fiancheggiato da un caseggiato da una parte e da una fila d'alberi dall'altra. Al fondo il palazzo di Eufemiano. Una panca di marmo sotto gli alberi).

            (Alessio entra avvolto in un mantello e mostrando stanchezza; siede un istante, quindi si alza).

 

            Alessio - Sento che finora ho ubbidito ai comandi del cielo. La voce misteriosa mi ha detto: « I tuoi occhi devono chiudersi là dove per la prima volta videro la luce del giorno; la tua vita deve terminare colà dove ha cominciato. » Ed {7 [31]} io, trasportato dall'ardente desiderio di compiere il mio pellegrinaggio, mi trovo un' altra volta dove il fiero Aventino schiaccia col suo piede roccioso il Tevere serpeggiante, e dove il sole, tenendo sospeso ad ogni foglia il rosso del mattino, percuote co' suoi ardenti raggi attraverso ai monti della Sabina. Se si trattasse soltanto dell' Italia, di Roma, dell' Aventino, sarei già pervenuto alla mia prigione....... ma, ohimè! mi rimane ancora a fare un passo........... bisogna passar questa soglia (guardando la dimora di Eufemiano) e andar a morir colà, perchè colà è dove io nacqui... Impossibile ! Cinque anni sono trascorsi da che ho dovuto lasciare dimora e famiglia. Quanti dolori sofferti per me sotto questo tetto e peggio forse:.... O madre mia diletta, vivi tu sempre? Alzi forse ancora con angoscia la tua testa spossata, e le tue mani tremanti pensando a questo figliuolo scomparso da si lungo tempo, ma non dimenticato ? Ovvero gli sorridi dall' alto del {8 [32]} cielo pazientemente conquistato colle tue virtù ?.......... So che mio padre vive, il suo nome è scritto con lettere d'oro dalla carità sui frontoni delle chiese lontane non meno che nel cuore degli uomini. Oserò ancora di presentarmi dinanzi a lui? E in qual guisa gli parlerò? Se poi mi riconoscesse ! Gli occhi di un padre riescono presto a scoprire il figliuol prodigo sotto i cenci e la polvere. Figliuol prodigo! Qual nome ho dunque pronunziato! Lo merito forse? Quando lasciai il tetto paterno io era giovine e ricco, è vero, ma io non me ne allontanai per immergermi nei vani piaceri e nelle folli spese. Amare lagrime cadevano dagli occhi miei, profondi singulti uscivano dal mio petto. Le parole di Colui, che, sul mar di Galilea, tolse Giovanni a Zebedeo e trasformò il suo amore, sole potevano sostenermi in quell'ora di cimento. Egli stesso ha detto: « Fuggite il mondo e seguitemi !... » Che ! si apre la porta .... Chi viene ? {9 [33]}

Mio padre ! O cielo, soccorrimi ! (si ritira in disparte).

            (Eufemiano entra e scorge Alessio).

            Eufemiano - Buon presagio in questo giorno lugubre, il più lugubre anniversario di mia casa ! La elemosina, e le preghiere di un infelice, benediranno il mio dolore........... Ei pare sfinito dalla fatica e dalla miseria, e tuttavia non domanda cosa alcuna .... voglio pur interrogarlo. (Ad Alessio) Buon giovane, voi sembrate povero e stanco, potrei recarvi qualche sollievo ?

            Aless. - Ricevo volentieri ciò che rende il ricco e il povero debitori l'uno dell'altro.

            Eufem. (prende la sua borsa, quindi si arresta) - No, più che d'oro voi abbisognate di nutrimento e di riposo. Da queste parti non vi sono alberghi; la mia casa vi provvederà di entrambi. Ehi! chi è di là?

            Aless. (fermandolo) - Oh! no di grazia, signore.

            Eufem. - Vorreste dunque, amico mio, {10 [34]} privarmi di questo primo profumo di carità, che respirato al mattino, aggiunge la sua vaghezza e forza alle nostre preghiere ?

            Aless. - Voi avete già offerto quell'oblazione pura, poichè le vostre prime parole ne sono profumate. In quanto a me questo sedile di marmo e un tozzo di pane inzuppato nell'acqua di questa limpida fontana mi daranno il riposo e il nutrimento di cui abbisogno.

            Eufem. - Non sarà così, amico mio. Il Vangelo m'insegna che non debbo lasciar un povero alla mia porta nudo, affamato, stanco, mentre che io vestito di porpora siedo ad un festino.

            Aless. - Ma, Signore, io sono pellegrino avvezzo a dormire sulla nuda terra.

            Eufem. - Tanto più volentieri vi avrò con me per qualche ora, poichè senza dubbio voi avete visitato reliquie insigni, celebri santuari, e forse gli stessi luoghi santi, raccogliendo molti fatti edificanti che io udrei con sommo piacere .... {11 [35]}

            Aless. - Ne so, infatti, qualcheduno, che volentieri vi racconterò più tardi se vi aggrada.

            Eufem. - No, no, amico mio, voi me li narrerete tosto. Entrate nella mia casa e riposatevi; io vado solo un momento nella vicina chiesa di Santa Sabina e subito ritornerò.

            Aless. (a parte) Grazie al cielo egli non mi ha riconosciuto.

            Euf. (si avvicina alla casa e chiama) - Olà ! non c' è alcuno ! (Entra Procolo).

 

 

Scena II. Eufemiano, Alessio e Procolo.

 

            Proc. - Eccomi ai vostri ordini.

            Eufem. - Mio buon Procolo, fa entrare questo povero pellegrino, accoglilo nel miglior modo possibile.

            Proc. (freddamente)- Sarà fatto (ad Alessio) Venite di lontano ?

            Aless. - Sbarcai ieri sera a Ostia, proveniente dalle sacre coste della Siria, e {12 [36]} giunsi a Roma e all'Aventino durante la frescura della notte.

            Eufem. - Per verità voi avete sommo bisogno di riposo. Procolo, affrettati, e fa tosto preparare una camera.

            Proc. - Ciò è impossibile ! Uno straniero !... Uno sconosciuto ! (ad Alessio) Quando voi v'imbarcaste nella Siria non eravi la peste colà ?

            Aless. No, per quanto io ne sappia. Ma lo sento, sotto questi miserabili cenci, io stesso sono una peste, e però indegno di rimanere in una camera elegante. Lasciatemi riposare all'ombra di questi alberi.

            Procolo, (prendendo a parte Eufemiano.) - Signore, lasciate che un vecchio e fedel servo vi parli liberamente. Sarebbe cosa imprudente e pericolosa il dar ricetto a cotal gente, fosse soltanto per un'ora. Potrebbe essere una trama per rubare a Voi, Signore, od anche per assassinarvi e forse ci porterà dalle paludi dell'Asia o dalle rive infette dell'Africa qualche terribile malattia. {13 [37]}

            Eufem. - E pertanto verrà dì in cui il Signore dirà: « Io era straniero, e voi mi avete accolto.... » Sì, colui che si nasconde sotto le spoglie di un mendicante e di un esiliato parlerà in tal guisa al ricco.

            Proc. - Ciò non avverrà a voi, poichè se continuate così a largheggiare in beneficenza, sarete fra non molto ridotto alla povertà. La esorbitanza delle vostre limosino inghiottirebbe un patrimonio doppio del vostro. Perdonate la mia schiettezza, l'affetto che vi porto mi fa parlare così, e questa inquietudine mi agita continuamente.

            Eufem. - Questa tua inquietudine è colpevole, la santa carità non è già un canchero roditore che, siccome fa il vizio, divori le nostre misere ricchezze. La carità non rassomiglia nè alla ruggine,nè al tarlo, nè ai ladri, ma è simile alla rugiada del cielo; ciò che essa perde durante il giorno, le viene reso con abbondanza nella notte.

            Proc., (con dispetto) - Sia dunque come {14 [38]} voi dite; gli procurerò alcun che da nutrirsi.

            Eufem. - E un luogo per riposarsi.

            Proc. - Ma dove?

            Eufem. - Il dove non importa, purchè sia un luogo degno della nostra carità!

            Proc. - Non havvi presentemente camera alcuna libera, tranne......

            Eufem. - Finisci!

            Proc. - Quella che è vuota da cinque anni.

            Eufem. - Piuttosto la mia che quella. Nessuno l'abiterà fino a tanto che il mio povero Alessio non ne abbia ripreso il possesso.

            Aless. (trasalendo) - Ancora un'altra volta, vi prego.........

            Eufem. - Non una parola di più. Eseguite Procolo. Ma temo di aver mal fatto per voler usare troppe circospezioni. Come vi chiamate, amico mio?

            Aless. - Sconosciuto, Signore. Permettete di grazia, che io vi accompagni fino al bel tempio di Sabina. Vorrei santificare questo giorno benedetto fino dalla sua {15 [39]} aurora, per me doppiamente benedetto in questo momento, che ho avuto la bella sorte di incontrarmi in un cristiano vostro pari.

            Eufem. - Or dunque venite.

            (Escono entrambi dalla stessa parte).

 

 

Scena III. Procolo solo.

 

            Proc. - Astuto ipocrita!.... ma io saprò bene sventare i tuoi disegni. Va, cerca pure d'insinuarti nel suo cuore, che io te ne svellerò. No, no, questa nuova amicizia non durerà pur due ore. Se sconosciuto non è il tuo nome per il passato, lo sarà per l'avvenire. (esce)

 

 

Scena IV.

 

            (L'atrio della casa di Eufemiano, a destra, la porta d'ingresso; a sinistra, quella che conduce nell'interno della casa. Nel mezzo, formando il fondo della scena, una piccola {16 [40]} stanza chiusa sotto ad una scala. Più innanzi, una tavola coperta da un drappo che scende fino a terra; di dietro un seggiolone).

            (Bibolo entra venendo dall'interno, egli va riguardando cautamente per ogni intorno, poscia si volge verso la porta).

            Bib. - Tutto va a maraviglia, entrate. Il luogo è libero e lo sarà almeno per un'ora. -

            (Orsolo e tutti gli altri schiavi bianchi e neri entrano dapprima timidamente, portando vari utensili e strumenti pel governo della casa, del giardino e della stalla; posale, spazzole, rastrelli, striglie, ecc. Eglino si pongono ai due lati della tavola, Bibolo vi si mette dietro. Eusebio entra tranquillamente dopo gli altri, egli tiene un libro in mano e se ne sta in disparte).

            Orsolo. - Perchè mai ci hanno qui radunati?

            Bib. - Tosto lo saprete.

            Davo. - Aspettate un momento; qui non veggo alcuna cattedra dalla quale possiate arringarci, ve ne farò una intanto. {17 [41]} (volta il seggiolone, Bibolo montavi sopra). Ecco, questa sedia Curule terrà le veci.

            Bib. - Or, compagni, voglio parlarvi di innumerevoli torti che ci vengono fatti tutto dì. Io, tal quale mi vedete, fui vergognosamente trattato, quando dico vergognosamente, intendo dire senza vergogna.

            Molti. - Come ciò?

            Bib. - Come ciò? Venni rinchiuso per tutta quanta la notte in una torricella, in una cantina, cantina asciutta, avete inteso? in compagnia di botti vuote, tristi carcami di cui lo spirito erasene andato da assai tempo; inoltre, io era divorato senza pietà dalle zanzare. E tutto ciò per niente !

            Tutti. - Questa è cosa orribile ed abbominevole !

            Bib. - Lo soffrirete voi dunque? Lascerete così calpestare i vostri diritti?

            Davo. - Diritti? Qui ti voglio, poc'anzi tu ci parlavi di torti.

            Bib. - Imbecille! Non sai che quanto più sono numerosi i torti, tanto più {18 [42]} grandi per conseguenza sono i diritti, bisogna dunque che quelli siano riparati da questi.

            Verna. - In fede mia, Bibolo ha ragione. Ogni torto è un diritto non è vero?

            Bib. - Certamente.

            Davo. - E però più si ha torto, più si guadagna in diritto, essendo che diviene torto ciò che è diritto, e diritto tutto ciò che è torto.

            Bib. - Appunto, ecco la politica conomia moderna.

            Verna. - Conclusione: diritto o torto è tutt'uno, bravo !

            Tutti. - Bravo! bravo!

            Bib. - Dunque, essi avevano diritto..... No, avevano torto...... Vediamo....... Oibò! avevano diritto o torto, come vorrete, di tenermi rinchiuso tutta notte in prigione; così i vostri diritti sono diventati torti nella mia persona.

            Ors. - Ma tu non ci hai detto ancora a qual proposito.

            Davo. - Ah! si dinne i nostri diritti di cui ti fu fatto torto. {19 [43]}

            Tutti. - Si, si, per qual motivo ?

            Bib. - Per due misere bottiglie che ho bevuto alla salute del padrone.

            Verna. - Ma se comprendo bene la questione, tu ci hai fatto torto nel privarci della nostra parte, ne eravamo in diritto. Dunque, a basso l'oratore!

            Tutti - Sì, sì, a basso, a basso ! (Si avventano contro di lui).

            Eusebio, (ridendo si avanza per fermarli) - Via, non fate sciocchezze. Il vero della questione sta in ciò, che egli ha bevuto il vino del padrone, e che perciò questi ha fatto rinchiudere il bevitore. Fin qui tutto è logico e va a meraviglia. Dunque se il bere a lui conviene, l'essere rinchiuso gli conviene anche di più.

            Bib. - Non veggo la logica di ciò che voi dite, poichè l'uno mi conviene assai, e l'altro niente affatto. Ma basta, parliamo poco e parliamo bene; un po' di buon senso e lasciamo da parte le sciocchezze.

            Davo - Si, si, Bibolo ha ragione, un po' di buon senso, in nome del cielo!

            Euseb. - Non domando altro. Or ditemi, {20 [44]} il vino non appartiene dunque al padrone?

            Molti - Certamente.

            Euseb. - Egli ha dunque il diritto di serbarlo in un'anfora nella cantina?

            Bib. - Fino a che noi non l'avessimo bevuto.

            Euseb. - Taci, lasciami terminare..... E s'egli lo versa, come si usa, in una pelle di montone, non può forse, qualora il voglia, rinchiuderlo nella sua cantina?

            Molti - Senza dubbio, e appresso?

            Euseb. - Se invece di una pelle di montone, lo mettesse in una pelle d'asino, non sarebbe la stessa cosa?

            Molti - Certo che sì.

            Euseb. - Ebbene! Questo è appunto il caso nostro.

            Tutti - Come, come?

            Euseb. - Orsù, qual differenza trovate voi tra la pelle di un asino e quella di Bibolo ? Il padrone aveva dunque il diritto di metterlo in cantina come ha fatto?

            Tutti - Bravo! bravo! Bibolo è un asino.

            Bib. (furioso) - Eusebio! tu un giorno me {21 [45]} la pagherai. Amici, ascoltate, ciò non ha senso comune: sarebbe come chi dicesse di mettere i buoi avanti al carro. Io v' insegnerò la logica. E prima di lutto, perchè si è fatto il vino?

            Ors. - Capperi ! per esser bevuto.

            Bib. - Chiedete dunque a quel maligno come mai possa bersi il vino senza inghiottirlo ?

            Verna. - Ben detto, così si ragiona.

            Bib. - Voi ben vedete che ingoiandolo ho fattonè più nè meno che quello che io doveva fare; dunque io era perfettamente nel mio diritto.

            Davo. - Per conseguenza nel tuo torto.

            Bib. - Ma infin de' conti quel vino è tanto mio quanto di Eufemiano. Chi gli ha dato il terreno, chi gli ha dato il vino ? la natura. Essa non li dà forse anche a me ? non siamo noi tutti uguali ?

            Tutti. - Ciò è così per l' appunto.

            Bib. - Se e così perchè il vino non s'appartiene a me come ad Eufemiano ?

            Euseb. - Perchè tu non l'hai fatto. {22 [46]}

            Bib. - Ed egli ancor meno.

            Tutti. - Bibolo ha ragione.

            Bib. - Un sol uomo non ha diritto al lavoro di molti. Se noi siamo tutti uguali, tutto deve essere in comune. Abbasso le distinzioni artificiali! Perchè mai quel tale vestirebbe a un modo, e quel tale a un altro ? Perchè l'uno berrebbe del vino di Falerno e l' altro del vin di Sabina ? Rispondete !

            Euseb. - Bibolo ! Or tu cominci a diventar tristo. Siamo dunque uguali ? sia; ma allora non rimanere sovra una sedia mentre che noi siamo a terra; nè assordare così di continuo col tuo rantolo, mentre che noi non possiamo pur dire una parola.

            Molti. - Parli, parli !

            Verna, (scuotendo un rastrello) - Eccovi il miglior livellatore, con questo si pareggia ogni cosa. Per altro come mai può farsi una giusta divisione, come mai disporre ogni cosa, direi, in perfetta simmetria?

            Bib. - Oh ! ciò è facilissimo. Tu avresti {23 [47]} il giardino, Eusebio potrebbe prendere la biblioteca, io gliela cederei di buon cuore.

            Euseb. - Grazie, e come si farebbe a vivere ?

            Bib. - Su via, non t' ho io inteso dire che tu divori gli scritti d' oggigiorno; che tu assapori un buon poema; che ti diletti a digerire un codice di leggi? Non dichiarasti spesso che tal libro mancava di gusto; che tal altro era un salmigondi; che quell'autore ti pareva salato; quest' altro pepalo; quel terzo insipido, o che il povero diavolo era stato messo in conserva, tagliuzzato dalle critiche, e che egli era fritto intieramente?

            Davo. - Bravo, Bibolo ! tu gli hai fatto una salsa che mai la migliore; comunque, continua.

            Bib. - Ora Strigile avrebbe le stalle e i cavalli; Fumato, la cucina, ed io.... la cantina.

            Molti. - No, no, la cantina in comune.

            Ors. - Ma ciò equivarrebbe a distruggere il nostro bene. {24 [48]}

            Bib. (esitando) - A questo non so che rispondere. Bisognerebbe esaminare il terreno; se si desse fuoco alla casa, che ne avverrebbe?

            Ors. - Ma ciò equivarrebbe a distruggere il nostro bene.

            Bib. (a parte) - La cantina eccettuata. (A voce alta) Tuttavia quello sarebbe un bel modo di rivendicare i nostri diritti.

            Davo. - Signori sì, e per giunta una bella burletta.

            Euseb. - Basta, Bibolo, basta; tu salti dallo scherzo al tradimento. Compagni, e amici, voi non sarete sì sciocchi per pensare a un' azione cotanto perversa.

            Ors. (con tono bisbetico) - Ebbene! consoliamoci almeno col brucciar la casa di un altro, ciò ci servirà di un compenso di quanto noi qui soffriamo.

            Molti. - Quale sceglieremo noi ?

            Bib. - Mi piace assai quest' idea; ciò varrà a farci dimenticare i nostri mali...

Vediamo..... Corbezzoli, i vicini non mancano. Le loro case son belle e i {25 [49]} loro famigli bene tenuti; tuttavia ve ne ha pur qualcheduno là entro che non avrebbe a male di aver un piccol fuoco di gioia; e chi potrà contrastarci il diritto di accenderlo ?

            Euseb. - A qual proposito?

            Bib. - A proposito di cinquanta ragioni. Primieramente, non si dà loro del bue come a noi, ed essi ne dovrebbero mangiare.

            Verna. - Certo che ne dovrebbero mangiare. Quella è una gran ragione, e appresso ?

            Bib. - Poi essi non sono liberi come noi. Nessuno oserebbe parlar apertamente di brucciar la casa del suo padrone, come l' ho fatto io. Noi siamo liberi, noi.

            Euseb. - E senza pensieri.

            Davo. - Sì, liberi e senza pensieri. Ecco il secolo, signor mio. Che importano a noi gli aristi (aristos) noi stiamo dalla parte dei demo[3]. Non è vero ? {26 [50]}

 

            Tutti. - Sì, sì.

            Bib. - Noi c'infischiamo dei padroni e degl' intendenti.

            Tutti. - Cospetto!

            Bib. - Noi li faremo saltar tutti dalla finestra. Che ne dite ?

            Tutti. - Fino all' ultimo.

            Bib. - Cominciando da Proc... Zitto egli è qui. (Bibolo scende dalla sedia e si nasconde sotto la tavola).

 

 

Scena V. Procolo e detti.

 

            (Procolo entra; ognuno mostrasi confuso).

            Proc. - Che significa questa riunione ? Perchè vi trovate qui invece di essere al vostro lavoro? Dunque, risponda alcuno, voi facevate poc' anzi un rumore indiavolato.

            Davo. - Considerando che oggi ricorre un tristo anniversario per la famiglia, ci sembrò conveniente di riunirci amichevolmente per intrattenerci alquanto {27 [51]} circa a quella ricorrenza. Frattanto noi abbiamo parlato dei nostri torti....

            Proc. - Dei vostri torti ?

            Verna. - Cioè dei nostri diritti; voi c'intendete.

            Proc. - Di bene in meglio. Scommetto che questa è una invenzione di Bibolo. Egli dov'è? Son certo di aver udito la sua voce.

            Davo. - Egli s'è nascosto; ma non deve essere molto lontano.

            Proc. - Lo si scoprirà e gli verrà dato il fatto suo. (Bibolo, sotto la tavola, mostra il pugno a Procolo che non lo vede. Ognun ride.) Perchè ridete ? Oh ! egli non riderà, siatene certi. Ma poichè siete qui, posso pur darvi una nuova.

            Tutti. - Che è ?

            Proc. - Il vostro padrone si è accollato un mendicante.

            Tutti. - Un mendicante ?

            Proc. - Si un mendicante, un uomo che vuol farsi credere un pellegrino e che il padrone vuole ricevere in casa per mangiare e bere il meglio che vi abbia {28 [52]}; così egli ha ordinato, e però voi dovete servirlo con rispetto.

            Ors. - Ma ciò è abbominevole ?           

            Davo. - E non lo sopporteremo di certo, essendo troppo al disotto di noi.

            Verna. - No, non lo soffriremo, noi siamo al di sopra di tali cose.

            Proc. (ironicamente) - Su via, voi farete ogni possibile acciòcchè egli si trovi bene.

            Davo - Si, contate su di noi.

            Proc. - Quando dormirà, non fate strepiti per non isvegliarlo.

            Verna - No, certo.

            Proc. - E se il vostro padrone gli manda qualche ghiottoneria, non la prendete per voi, ma procurate anzi ch' ei diventi grasso e tondo.

            Ors. - Naturalmente.

            Proc. - In poche parole, voi farete ogni possibile per fargli parer gradita e lieta la sua vita.

            Tutti - Per questo fidatevi di noi. Un mendicante!

            Proc. - Mi pare che su quest' affare voi siate tutti presso che unanimi. {29 [53]}

            Davo - Tutt'affatto magnanimi, come voi dite, signor caro. Ma intanto indicateci la dimòra di lui, acciocchè possiamo sapere quando dovremo rimaner tranquilli.

            Proc. - Qui, sotto la scala.

            Tutti - Ah! ah! ah!

            Davo - Qui sarà affatto al buio.

            Verna - E non avrà manco il respiro.

            Ors. - Nè potrà dare un passo.

            Proc. - Così se ne andrà più presto.

            Euseb. (a parte) - Per mia fe' costui non vai meglio di Bibolo! (a Procolo) E così che il nostro padrone intende ospitare il suo nuovo amico?

            Proc. - Taci, schiavaccio, tu cicalecci sempre senza esserne richiesto. Siete tutti d'accordo, miei bravi?

            Tutti - Tutti !

            Proc. - Sul modo di farlo dormire?

            Tutti - Sì, signore.

            Proc. - E mangiare?

            Tutti - Sì, signore.

            Proc. - E partire?

            Tutti - Sì, signore. {30 [54]}

 

 

Coro degli schiavi.

 

Al duro nervo docili

Soggetti alla catena

Vita meniam terribile

Di strazi acerbi piena.

 

Dunque godiam il vivere

Che questo dì ci dà;

Forse domani, ahi miseri !

Di noi che mai sarà ?

 

 

Scena VI. Bibolo, uscendo di sotto la tavola, quindi Eusebio.

 

            Bib. - Per verità io credo che quel po' di arresto mi abbia fatto rientrare in me stesso. A colpo sicuro, sarei rimasto il capo più popolare dell'impero, se non mi fossi lasciato cogliere da quella infelice passione del vino. Oh! disgrazia. Se non era di quell'imbecille di Eusebio, io li avrei persuasi a mettere il fuoco alla {31 [55]} casa, godendo ad un tempo la vendetta, e valendomi pure della confusione per mettermi in salvo. Più d'uno ha guadagnato la porpora con maniere molto meno acconcie. Ma ora, che questa mancò, cerchiamone un'altra. Finora fui sempre trattato con modi indegni, ieri sera poi ! Ah ! ieri sera fu il colpo di grazia! Una via sola mi si para innanzi per cancellarla. Così dunque io, Bibolo, nella profonda solitudine di quella torre, nel Tartaro di quell'ardente fornace, nelle tenebre di quella lunga notte, e che è più, nell'amarezza di un'anima ulcerata, e nella febbre della disperazione, ho giurato, per la mia arsa gola, digrignando i denti, ho giurato di vendicarmi, di vendicarmi in una maniera terribile. I miei ferri risuonavano come cembali al tremito del mio corpo, mentre che io pronunciava quelle parole spaventevoli, e un gemito profondo o un ghigno amaro le ripetè sotto la volta come un' eco. Quando fu mai che un uomo dell'Asia disdicesse un tal giuramento? {32 [56]} Quando mai rinunciò al dolce e delizioso pensiero, sol conforto dello schiavo, ......la vendetta! Eufemiano tu cesserai ben presto di essere il nostro padrone ! Tuttavia egli è buono, umano.....dunque perche permette che io sia bastonato come un cane, e incatenato come una?...... come una bestia feroce? So bene che Procolo n'è causa......Ciò è verissimo; ma chi è Procolo? Il braccio e la mano di Eufemiano......Non colpire lo stromento, va dritto al capo, alla volontà, al cuore, all'anima; non ammaccature, non ferite, ma la morte!... Per altra parie, se Procolo morisse, che mi accadrebbe? Di avere qualche altro padrone mille volte peggiore di lui. Costui per esempio. (Eusebio entra.)

            Euseb. - Ti cercava appunto, Bibolo, per darti questo foglio che mi era stato consegnato per te (gli dà un foglio).

            Bib. - Che è ciò? Tu sai che non son guari letterato io (provasi a leggere).

            Euseb. - In due parole, è un ordine di Procolo. {33 [57]} Egli conosce la tua ultima scappata, e ti fa discendere dalla condizione di schiavo domestico a quella di schiavo campagnuolo, comandandoti di andare ancor di questa sera ad Ardea[4] per metterti quivi a lavorare.

            Bib. (tratalendo) - Ad Ardea, nel cuor della state.......il sito più malsano del territorio di Roma.....dove i più robusti non resistono un anno, salvo d'esservi nati! Colà mi s'invia, e ancor degradato! Per morire fra un mese come una rana sovra un mucchio di fango, quando il sole avrà disseccate quelle paludi salmastre? E Procòlo ha riflettuto prima di prendere così fatta determinazione?

            Euseb. - Non solo conosce quei pericoli, ma dice anzi che quello ti sarà un castigo più dolce che non di morire sotto le verghe, come ti meriti. Tu perderai ben presto la vita, aggiunse, e così noi saremo liberati da un pericoloso scellerato. {34 [58]}

            Bib. - Val meglio la morte per via della sferza che non pel morso crudele d'insetti velenosi o a cagione dell'aria infetta dai miasmi. Eufemiano è già informato di questo passo ?

            Euseb. - Non ancora; ma senza dubbio egli confermerà la sentenza. Addio, Bibolo, sopporta con coraggio il castigo che tu ben meritasti (esce).

 

 

Scena VII. Bibolo solo.

 

            Bib. - Addio adulatore; addio, tu credi? No, no, non ancora! La morte riempirà di tutto questa casa prima che Bibolo vada a cercarla altrove. Dopo questa crudele condanna, chi potrà biasimarmi se cerco uno scampo?... Pertanto eccoci un'altra volta alla medesima questione ....Chi mi giuoca costi? Procolo!.... Dunque su lui dovrebbe cadere la mia vendetta! Esaminiamo con calma e con prudenza. {35 [59]}

            Se Procolo muore, senza fallo gli succederà Eusebio uomo peggiore assai, se per contro muore Eufemiano, le cose mutano aspetto: noi sappiamo che egli ha dato per testamento la libertà a tutti i suoi schiavi; dunque muoia il padrone... ed io son libero!

            Ma quest'azione è poi generosa, onorevole? Via! chi fu mai generoso verso di me? devo essere il solo a praticare la virtù? malinconie!... Tuttavia bisogna operare prudentemente, destramente .... uccidere è cosa vile, sia pur anche per vendicarsi; perciò è necessario d'ingannar se stesso e far vedere all'apparenza di un accidente... Ma, penso.... qual felice combinazione... so a che io debba appigliarmi, e quanto all'esecuzione.... quel pellegrino che deve venir qua a dormire... (indica la cella) Perfettamente! qual verisimiglianza! Egli pure senza dubbio, per qualche fine, e solo gli starà dappresso. Facilmente gli si potrà attribuire il fallo... Bene, Bibolo, tu sei un testone pel male! con {36 [60]} un sol colpo assicuri la tua libertà, la tua sicurezza e la tua vendetta! (esce).

 

 

Scena VIII.  Il monte Aventino.

 

            (Gannio Vestito miseramente, entra a portando sulle spalle una bisaccia, e fingendo di zoppicare quindi Bibolo).

            Gan. - Ebbene, il vecchio Ennio non era poi un balordo, quando diceva che « tra tutti i mestieri dell'Italia, il migliore è quello del mendicante, » per la ragione che ei può sedersi e riposarsi quando è stanco. Poichè dunque esercito un buon mestiere, serviamoci de' suoi privilegi. (Siede asciugandosi la fronte). Ho fatto venti miglia per giugnere qui in questo giorno, il tristo giorno della casa, detto cosi forse a cagione delle triste limosine che essi distribuiscono. (Bibolo entra inosservato). Tuttavia sono ben pagato per la mia diligenza, poichè io arrivo pel primo. {37 [61]} E chiaro che alcun de' miei fratelli non si è ancora intromesso tra me e il bottino.

            Bib. (avanzandosi) - T' inganni, buon uomo.

            Gannio - Buon giorno, Bibolo. Che di' tu mai?

            Bib. - Che un altro più furbo di te ti ha preceduto e li ha corbellato. Esso è giovane, ciò che tu più non sei; bello, ciò che non fosti rnai; e virtuoso, ciò che non sarai giammai. Era là al momento che il padrone stava per uscire; in men che non si dice ha saputo insinuarsi nelle buone grazie di lui, ed eccolo a bere, a mangiare, a dormire in questa cosa; sì, proprio in questa easa. Noi abbiamo l'ordine di dargli tutto ciò che v'ha di meglio; e però tu rimani licenziato.

            Gannio (furioso) - Miserabile! usurpare tutti i miei diritti ! Le lodi che tu gli dai mi sono come altrettante pugnalate......... Dov'è costui?

            Bib. - Lo vedi? Esso viene col padrone. {38 [62]}

            (Si ritira in disparte, intanto che Eufemiano e Alessio discorrendo entrano in

casa).

            Gann. - Eccomi frattanto tra un misero adulatore e un perfido rivale !

            Bib. - Rivale! Non vedi come desso è divenuto famigliare col nostro padrone?

            Gann. - Pur troppo lo veggo.

            Bib. - Credi a me, credi a me, esso ti ha messo all'uscio.

            Gann. - O quanto godrei se........(fa il qesto di pugnalare).

            Bib. - Silenzio! Noi lo detestiamo non meno di te.

            Gann. - Tanto meglio. Ma come si fa ?

            Bib. - Gannio, tu vendi certe cose...... tu sai ben che cosa fare.

            Gann. - La morte ai topi ? (Bibolo fa un segno di approvazione). Si, certo, ne ho sempre con me.

            Bib. - È dessa sicura e lesta ?

            Gann. - Infallibile !

            Bib. - E come si ammanisce ?

            Gann. - Se ne mette un pizzico in un bicchiere..... voglio dire dove vanno a {39 [63]} bere i topi; e chiunque, cioè il topo, che ne inghiotla muore istantaneamente. Nessuna rivelazione, appena il tempo di gridare. Mi capisci.....sempre parlando de' topi ben inteso.

            Bib. - Senza dubbio. Noi saremmo ben contenti di levarci d'attorno un......

            Gann. - Un topo. Ricordati che l'ho detto formalmente, e che io non m'immischio d'altro (trae una scatola dalla bisaccia). Dove la vuoi mettere?

            Bib. (cercando nelle tasche, cava il foglio che Eusebio gli ha dato). - Qui entro. È sufficiente?

            Gann. (versando la polvere nella carta) - Si, per cento e cinquanta.

            Bib. - Ed anche per un mendicante, soppongo?

            Gann. - Quanto a ciò, so nulla; spero bene che non udirò più a parlare di lui (esce).

            Bib. - Vecchio imbecille! T'immagini forse che io voglia rischiare il mio collo per liberarti dai tuoi nemici? Io miro più alto: questa piccola carta contiene {40 [64]} la sorte del più nobil patrizio di Roma. Ma il tempo incalza (esce).

 

 

Scena IX. L'Atrio.

 

            (Una tavola posta da un lato, in modo da lasciare libero il passaggio alla porta sotto la scala).

            (Eufemiano e Alessio entrano discorrendo).

            Eufem. - Non incontraste mai per caso nei vostri viaggi un giovane che ha per nome Alessio?

            Aless. - Quel nome non è sì raro che..... Non ha egli qualche segno particolare per poterlo riconoscere?

            Enfem. - Nessuno, se non fosse una trista storia. Egli apparteneva ad una casa illustre, erede di un ricco patrimonio, puro e dolce come un angelo, amato da tutti, e soprattutto troppo teneramente adorato da colui al quale il cielo l' ha tolto. {41 [65]}

            Aless. - È dunque morto?

            Eufem. - Ohimè! Ben peggio ne avvenne. Ei si parti da questa casa, lasciando i suoi genitori nella desolazione. Sua madre oppressa dal dolore poco dopo moriva. L'ultima di lei parola fu il nome di suo figlio (piange). Sono appunto sei anni oggidì da che incominciò il dolore di un padre. (Mirando fissamente Alessio). Voi dovreste avere, a quel che mi pare, presso a poco la sua età e quasi la stessa statura. (Alessio fa mostra di essere distratto, Eufemiano lo ritiene e continua ad osservarlo). I vostri occhi mi fanno risovvenire dei suoi, si celesti e dolci, simili a quelli di una colomba; ma la sua pelle era bianca come il marmo di Frigia, venato di rosso, tuttavia il viaggio potrebbe averlo abbronzato con nerastro colore siccome siete voi di presente. La sua bocca graziosa come sembrami la vostra se non mi venisse nascosta dalla barba, aveva un tratto così dolce, così attraente, che perciò solo lo riconoscerei tra mille...... {42 [66]} Voi piangete, buon pellegrino! Le vostre lagrime mi consolano....., Oh! ditemi, ne avreste inteso mai a parlare?

            Aless. (turbato). - Sì, caro padre !..., Scusate, voi dimostrate un sì gran cuore!... Sì, uomo venerabile.... credo di ricordarmi..... Vediamo.

            Eufem. - Parlate, in nome del cielo! Che ne sapete?

            Aless. - Mi ricordo di avere veduto giungere a Odessa, sono forse quattro o cinque anni passati, i servi di un gran Signore romano, che li aveva spediti colà in cerca di un suo figliuolo, e ciò io seppi da queglino stessi, mentre io riceveva, come tanti altri, da loro la limosina.

            Eufem. (sospirando). - Ed è tutto?... Ohimè, essi non lo rinvennero, e ritornarono ben tosto ad accrescere il dolore dei suoi genitori. Tuttavia, spero ancora contro ogni speranza. A tavola, il suo posto rimanvi pur sempre vuoto, e la sua camera è sempre preparata per ricevere colui che una tenerezza inalterabile accoglierà di giorno e di notte. {43 [67]}

            Aless. - Si, è questa veramente una tenerezza fedele. Sperate, venerabile Eufemiano, sperate, vostro figliuolo ritornerà.

            Eufem. - Parlate da senno, o tenete un tal linguaggio per lusingare il dolore di un padre?

            Aless. - Non sarebbe troppo lodevole di contraccambiare così il vostro amore!

            Eufem. - Il mio amore! Che dite mai?

            Aless. - Quell'amore caritatevole che già spesse volte ha raccolto degli angeli; perchè non un figliuolo?

            Eufem. - Vi ringrazio, Sconosciuto; che le vostre parole si avverino! Vorrei conoscere da voi stesso il nome dei vostri genitori, il luogo di vostra nascita e quello dove passaste la vostra vita.

            Aless. (a parte) - Cielo, proteggimi!

            Eufem. - Ebbene, un'altra volta; ora sarei indiscreto se v'impedissi di riposarvi alquanto. Ecco intanto un servo che vi condurrà alla vostra camera. Che il Signore vi conservi! (esce). {44 [68]}

 

 

Scena X. Alessio e quindi Procolo.

 

            Aless. - Sia benedetto ! ora che ho passata questa prova, tutto mi sembra facile.

(Procolo entra con alcune cibarte).

            Proc. - Temo, signor pellegrino, che voi siate assai stanco. La vostra camera è apparecchiata, benchè essa non sia quale l'avrei voluta.

            Aless. - Un buco qualsiasi è per me camera eccellente.

            Proc. - Io n'era sicuro; così vi ho preso in parola senza saperlo. Che volete, la casa è bensì grande ma coloro che l'abitano sono pur molti.

            Aless. - Senza dubbio. Non vi scusate più oltre.

            Proc. - Noi abbiamo un appartamento che rimane sempre vuoto; poi, giunge improvvisamante una mano d'amici con gran seguito; gente ricca; ben inteso, gente come si deve. {45 [69]}

            Aless. - Bando allo spiegazioni, io starò benissimo in qualunque luogo.

            Proc. - Siccome m' immagino che vogliate soltanto riposarvi qualche ora prima di rimettervi in via, così parati dovervi bastare una piccola camera e un lettuccio.

            Aless. - A maraviglia.

            Proc. (mostrando la cella). - Se volete dunque entrare, eccola qui.

            Aless. (sorridendo). - Sicuramente. Per me questa camera è un palazzo.

            Proc. - Prima di tutto prendete un po di ristoro, quindi vi porrete a dormire a vostro comodo. Se null'altro vi occorre, vi lascio (esce).

 

 

Scena XI. Alessio solo.

 

            Aless. - Questo riposo deve essere dunque l'ultimo di mia vita? I miei occhi stanno per chiudersi all'eterno sonno? Il mio cuore cesserà di battere prima {46 [70]} che io abbia cessato di dormire, e la mia anima si sveglierà oggi stesso nel cielo?.....Quasi lo crederei, poichè mi veggo tornato nel luogo dove nacqui per rimanervi qualche ora. È qui dunque che io trarrò l'ultimo mio respiro?... Sono pronto. La mia sorte è presentemente in mani migliori delle mie. « Vivendo o morendo, noi siamo del Signore. Una preghiera serve per morire come per addormentarci. La nostra esistenza non appartiene a Voi, o Creatore di tutte le cose, nella vita come nella morte, nella veglia come nel sonno ? La mano che scorre sulle corde della vita, comprimendole dolcemente, può a sua voglia arrestarne le vibrazioni' e farle risuonare nuovamente. Io bacio quella mano, quella mano che eziandio negli estremi confini agitò le libbre dell'amore e delle sofferenze, e che ora le acquieta colla sua benigna influenza e ne fa rendere un suono di pace. (S'inginocchia) « O Padre ! Voi che avete composta questa terra a vostra immagine, {47 [71]} mantenetene la polvere riunita o sparsa nei luoghi dove riposano i miei antenati, o dove si gettano i proscritti; datela in preda ai voraci avoltoi o ai vermi roditori; che importa, purchè da quella corruzione la mia anima si slanci nella fornace del vostro amore, o che simile ad una perla finissima, cada dolcemente nell'abisso del vostro seno, quivi cercando invano la superficie, la profondità, o la grandezza, assorbita e non consumata, rapita e pur libera! » (Entra nella cella rinchiudendone la porta).

 

 

Scena XII.

 

            (Bibolo entra portando una tazza, una bottiglia e alcuni cibi in un piatto che depone sopra la tavola).

            Bib. - Àncora pochi istanti e poi Eufemiano verrà a prendere la sua refezione; che egli troverà al luogo consueto. Troverà bevendo maggior gusto e sapore dell'ordinario.....e quindi morra! {48 [72]} Qual dolce e gradevole morte! (battendoti il petto). Silenzio, molesti rimorsi ! pace, vermi roditori della coscienza! Voi parlate troppo tardi..... la bevanda è là preparata, nè è più possibile di estrarne la polvere fatale. Ricordatevi di Ardea e della morte che quivi nascondesi, simile a quella del cane idrofobo, colla schiuma alla bocca, o a quella della vipera che si contrae sovra un suolo ardente. No, no, non più scrupoli; ciò che faccio è un sicuro rimedio a tutti i miei mali, il mezzo facile di conseguire il mio intento. Quivi sta tutta la morale che questi tempi d' ipocrisia mi hanno insegnato....

            (Prende un foglio e osserva la porta della cella).

            Vediamo, ciò che fa il nostro pellegrino.... Dorme, dorme sì che pare morto!

            (Entra nella cella donde esce immediatamente).

            Non ho veduto mai a dormire così profondo. La carta è bene assicurata presso al suo letto (empiendo la tazza). Potrò {49 [73]} dire che questa bevanda è colà rimasta alcun tempo, e che non ne sono risponsabile. Ma ecco il padrone!.... Quanto sarci contento di vedere tosto terminato quest'affare! Resterò qui presso, così sarò il primo a dare l'avviso (esce).

 

 

Scena XIII. (Eufemiano entra).

 

            Eufem. - Confesso che io amo quel mio ospite, le sue parole sono dolci e la sua persona mi fa ricordare una cara immagine. Poi la sua affezione mi sembra direi quasi figliale, commossa dai dolori di un padre. Ardo di sete. Beviamo. (All'istante in cui sta per appressare la tazza alle labbra, una voce sonora esce dalla porta socchiusa della cella e pronunzia queste parole).

            Aless. - Eufemiano, sta in guardia!

            Eufem. (trasalendo e deponendo la tazza). - Sarei zimbello di una illusione ? (dà uno sguardo all'intorno). Nessuno! sarà effetto {50 [74]} d'immaginazione........ Fui anzi tentato di persuadere il mio ospite di rimanere con me, come già in altri tempi gli abitanti di Emmaus fecero pel Salvatore che possedevano; e perchè no? di adottarlo forse anche per mio figliuolo... Ho le labbra inaridite (riprende il bicchiere, la stessa voce ripete).

            Aless. - Sta in guardia, Eufemiano!

            Eufem. (riponendo la tazza). - Che stia in guardia, di che cosa? Da questa innocua bevanda? Oh! no; conosco quella voce..... È quella del mio caro Alessio...... ben lontano da questo luogo, nel cielo forse, e che mi rimprovera il pensiero di ritenere questo pellegrino in di lui vece (con passione). No, no, figliuol mio, ciò non sara! Ma perchè parlarmi senza mostrarti? Non importa, figliuol mio, se tu mi puoi intendere, per le oggi farò questo brindisi (alzando la tazza in alto sta per avvicinarla alle labbra, quando Alessio esce fuori con impeto dalla cella, e gliela toglie di mano). {51 [75]}

            Aless. - Fermatevi, quello è veleno.

            Eufem. - Che odo! qui dentro?

 

 

Scena XIV. Eufemiano, Alessio, Procolo, Bibolo e schiavi.

 

            (Procolo entra seguito dagli schiavi. Alessio prende il bicchiere dalle mani di Bibolo e lo pone sulla tavola. Alessio sta in mezzo alla scena avendo Eufemiano a destra, Bibolo a sinistra, gli altri schiavi divisi ai due lati ma alquanto più innanzi).

            Proc. - Che è stato, che è accaduto, Signore?

            Eufem. - Assassinio e tradimento! La mia tazza è avvelenata !

            Proc. - Chi ve l'ha detto ?

            Aless. - Io stesso.

            Proc. - Come lo sapeste ?

            Davo - Non vi è più una gocciola.

            Proc. - Sei tu, Bibolo, che l'hai preparata! Parla, miserabile, o mene risponderà la tua vita. {52 [76]}

            Bib. - Quando io deposi la tazza, su questa tavola, era pura come la rugiada del cielo. Ignoro ciò che possa essere accaduto nella mia assenza, chi venne di poi potrà informarvi meglio di me.

            Proc - Che vuoi dire? Parla schiettamente e subito.

            Bib. - Colui che l'ha scoperto, come mai l'ha saputo? Il veleno sta piuttosto sulla lingua a lui che ha cercato d'inasprire il vostro cuore. Mettetelo alla prova.

            Proc. - Signore, Bibolo, questa volta ha ragione.

            Eufem. - È vero, mancano le prove.

            Aless. (porgendo una carta) - Ebbene, osservate. Ho trovato questa carta nella mia stanza, o piuttosto ho veduto a deporvela furtivamente, mentre che io fingeva di dormire. La conoscete voi, Procolo ?

            Proc. - Gran Dio ! è l'ordine che ho spedito, sarà un'ora, a Bibolo.

            Euseb. (osservandola) - La stessa che gli consegnai poc' anzi. {53 [77]}

            Eufem. - Che contiene ?

            Ors. - Della polvere per distruggere i topi, io la conosco.

            Bib. (a parie) - Quanto io sono imbecille ! (ad alta voce) Un assassino può ben essere un ladro.

            Aless. - Se è così, veniamo alla prova. Questa bottiglia stava in tua mano quando tu qui entrasti, non è vero, Bibolo?

            Tutti - Noi l'abbiamo veduto.

            Aless. (prende la tazza vuota e la riempie) - Nessuno l'ha toccata, bevi dunque sotto gli occhi del tuo padrone.

            Proc. - Si, bevi !

            Bib. - Per morire a'  suoi piedi! Padrone, abbiate pietà di me ! ( s'inginocchia ).

            Eufem. - Vi ringrazio, mio Dio, di avermi protetto !

            Proc. - Che il castigo segua il delitto ! Prendete costui e legatelo per condurlo alla morte.

            Tutti - Sì, sì ! (si avventano contro di lui).

            Aless. (interponendosi) - Signore, in ricambio dell'avervi sottratto ad una certa morte, a costui la vita perdonate per {54 [78]} me, pel vostro figliuolo, in questo giorno di trista memoria.

            Eufem. - Non posso negarvi questa grazia.

            Aless. - Ed ora per mia ricompensa ?

            Eufem. - Domandate quel che volete.

            Aless. - La vostra borsa.

            Eufem. - Che ! dell'oro?

            Aless.- Si, appunto; giammai io mi sentii così avido di ricchezze..... (Eufemiano, sorpreso gli dà la borsa - A Bibolo; ) Prendi questo denaro e fuggi. Havvi ancora a Ostia una nave pronta a partire per la Palestina; va a cercare il tuo perdono in mezzo ai ricordi della misericordia divina (Bibolo esce).

            Eufem. - Finora, Sconosciuto, io non vi ho rimeritato e non vi rimeriterò giammai quanto il dovrei, poichè vi debbo colla vita tutto ciò che la rende gradita. La mia casa, i miei averi, vi dono; ma ecco ciò che vi chieggo; non separiamoci più; rimaniamo sotto al medesimo tetto durante il resto dei nostri giorni.... Dove vi han posto di presente?

            Proc. - Perdonatemi, signore .... ma, {55 [79]} per causa di alcune riparazioni, io.... io........

            Eufem. - Che cosa dunque ?

            Aless. - Io sono contentissimo della mia stanza, signore.

            Proc. - Così pareva anche a me. Il signore desiderando la quiete e la solitudine, ... il signore essendo pellegrino, voi, signore, sapete......

            Eufem. - Benissimo, benissimo! dimmi subito dove l'hai posto?

            Proc. (confuso) - Ma .... là, signore.

            Eufem. - Là, in quel covile, come un cane: ecco l'accoglienza che riceve il pellegrino nella mia casa ! Non ti vergogni, o Procolo ?

            Aless. - Calmatevi, degno Eufemiano; se Procolo mi avesse posto altrove, voi sareste morto.

            Tutti - Ciò è vero.

            Aless. - Ed ora quella camera è benedetta per voi e per me; ve la chieggo dunque per vivervi, e, se a Dio piace, per morirvi.

            Eufem. - Bisogna pure che vi soddisfaccia, {56 [80]} Sconosciuto. Ma ditemi, come avete scoperto il pericolo che mi sovrastava; qual voce ho mai intesa ?

            Aless. - Era la mia !

            Eufem. - Essa rassomigliava a quella di mio figliuolo.

            Aless. - Mentre io dormiva, credetti di vedere al mio fianco una creatura bella e splendente come l'aurora; le sue ali di porpora scintillavano d'oro e muovevansi come giovani cedri allo spirare di legger vento. Egli mi toccò da tergo e mi svegliò. Allora intesi il perfido disegno di quello schiavo il quale credendo che io dormissi, entrò per compiere il suo nero proposito e lasciò cader presso di me la sua falsa testimonianza. Mi alzai tosto, e vidi ogni cosa attraverso alla porta lasciata socchiusa.

            Eufem. - La benedizione è entrata con voi in questa casa.... Ma, chi è mai questo spirito, l'avete condotto con voi?

            Aless. - Io ben lo conosco; egli è l'angelo dei pellegrini, colui che difende la soglia ospitale. Notate le mie parole: {57 [81]} Quattro angeli sono posti alla guardia delle opere di grazia qui in terra, essi le guidano verso il cielo e quivi le inscrivono. Il primo dà da mangiare agli affamati in piatti d'argento; il secondo dà da bere agli assetati in tazze d'oro; il terzo riveste di broccato coloro che son nudi; ma l' angelo dell' Ospitalità fa tutto in una volta; egli veste, nutre, ristora, quando la sua chiave di diamante apre una casa ospitale. Gli altri tre l'accompagnano e l'attorniano con sollecitudine, ed egli, lasciando loro le più belle opere di misericordia, volge verso la terra il suo sguardo di serafino per iscoprire nella polvere e salvare una perla nascosta !

 

FINE DEL PRIMO ATTO. {58 [82]}

 

 

Atto II[5]

 

Scena I. L'Atrio.

 

            (Eufemiano, Carino, Eusebio, coperti da lunghi manti e da larghi cappelli. Carino porta la bolla appesa al collo. Un letto a capo della camera).

            Eufem. - Ebbene, Carino mio, sei stanco?

            Car. - No, padre, poichè volete che io vi dia questo nomo.; la strada che noi facemmo stamattina mi diverti assai. Che più dilettevole infatti delle rive del Tevere, ornate di marmoree ville, rinfrescate dall'ombra dei cipressi e dei pini! Per ogni intorno una calma perfetta, ad eccezione tuttavia delle dorate barche {59 [83]} che correvano sull' onda, splendenti e pur tanto silenziose, come uno sciame di lucenti mosche.

            Eufem. - Sii il benvenuto nella tua ridente dimora.

            Car. (guardando tutto attorno) - Ridente e bella, è vero, ma non mia.

            Eufem. - Hai ragione, poichè il giorno stabilito per la tua adozione cade domani soltanto. Ma allora tua diverrà ogni cosa che tu vedi e molto più.

            Car. - Come mai può farsi tal cosa, mentre che il vostro erede è tuttora in vita ?

            Eufem. - Ohimè, a quest'ora ogni speranza è perduta.

            Car. - Perchè ?

            Eufem. - Ho percorso invano il mondo intiero; ho fatto proclami, promisi ricompense, e a quest'ora io ritengo per certo che l'istinto dell'amor figliale gli avrebbe fatto domandare di me ovunque egli si trovasse.

            Car. - Se le chiamate del cielo fossero più forti delle vostre, queste dovrebbero rimaner inutili. {60 [84]}

            Eufem. - Il Figliuol di Maria non permise che i suoi genitori l'avessero a cercare al di là di tre giorni, e son presso a dieci anni invece che io invano cerco il mio.

            Cor. - Oh ! Padre ! quei tre giorni furono vent'anni al cuor di Maria.

            Eufem. (a parte) - Quai sublimi pensieri in questo fanciullo ! (ad alta voce) Le mie speranze sono svanite. Dunque domani l'anniversario del nostro lungo duolo si cambiera in un giorno di gioia. Onorio per tratto di somma bontà, presiederà al mio umile banchetto, al finire del quale egli stesso degnerassi, al suono della tromba e dei cembali, proclamarti mio erede.

            Car. - E se, prima ancora che l'eco di quegli strumenti cessasse, Alessio apparisse in mezzo a noi ?

            Eufem. - No, ciò non può essere; e ti prego, non far simili supposizioni. Le parole di un giovane e santo pellegrino che dimora fra queste mura mi hanno sostenuto durante cinque anni; ma dieci anni di vane speranze sono ben lunghi ! {61 [85]}

            Cor. - Padre mio, è egli vero tutto ciò che si va dicendo di Alessio? Dolce, obbediente, puro, affabile cogli infelici, divoto verso i santi, acceso dell'amor divino ?

            Eufem. - Egli era quel desso e mille volle più.

            Car. - Allora permettete che io partecipi con lui nelle sue virtù, senza usurparne l'eredità. Alessio vive, e verrà a ridomandare ciò che gli appartiene.

            Eufem. - Che di' tu, mio caro?

            Car. - Voi avete dipinto un santo, e questi non muoiono senza che la Chiesa lo sappia. Vi rammentate, che allorquando il mendicante Servolo morì nel cortile della chiesa di S. Clemente, i nostri canti furono interrotti per ascoltare quelli degli angeli che celebravano il suo passaggio ?

            Eufem. - Oh ! fosse pur così ! egli allora non s'inquieterebbe più per i beni e per gli onori terrestri. {62 [86]}

 

 

Scena II. Eusebio e detti e quindi gli schiavi.

 

            Euseb. - Scusi, signore, la sua casa è radunata per render omaggio a Lui e al giovine futuro lor padrone.

            Eufem. - Fate entrare Davo, Verna, e gli altri schiavi. (Essi si ordinano ai due lati della scena).

            Euseb. - Signore, i vostri servitori vi augurano il ben venuto dopo la vostra lunga assenza, e molti anni di quiete e di gioia. Allontanate ogni timore. Cercate di dimenticare imparando a sperare (indicando Carino). Possa questo giovine fiore, colla sua grazia, cancellare sull'albero di sua casa i guasti dei passati inverni!

            Cor. - No, mio buon Eusebio, sia piuttosto il frutto maturo dell' autunno. Io son fanciullo e perciò non posso prendere il posto di una virtù virile. Grazie, amici, dei vostri affettuosi auguri; ma se mi amate, concedetemi una grazia; {63 [87]} io non voglio essere adulato, ne accarezzato con discorsi melati; intendo invece che tutti e sempre mi dicano la verità, quando pure questa verità fosse un rimprovero.

            Tutti. - Bravo ! bravo ! Viva Carino !

            Eufem. - Ed io pure, miei buoni amici, vi ringrazio; egli è appunto con tali testimonianze di affetto che, le varie persone di una stessa casa si uniscono coi legami di un' amicizia vicendevole... Ognuno intanto affretti i preparativi pel giorno fortunato in cui l'imperatore si degnerà di onorare la nostra tavola e proclamare il nostro erede. Il sole di domani rischiarerà i nostri abiti di lutto e spargerà la gioia nella dimora degli antenati. (Tutti escono.)

 

 

Scena III. Alessio entra debole e vacillante.

 

            Aless. - E fino a quando dovrò io strascinare questa si miserabile vita? Cinque {64 [88]} anni già sono trascorsi dal mio ritorno in questa casa. Il tempo è passato uniformemente; ma accelerando ognora il suo corso, ed ora io mi assomiglio ad un uomo che si avvicina ad una cataratta. La sua navicella trascorre piacevolmente sopra un' onda piana e silenziosa; ma tutto ad un tratto essa si agita e lo precipita nell'abisso. Ciò non ostante io mi sento calmo, ma bisognoso di riposo; il mio cuore aspira ardentemente a quel fine, ma senza turbarsene. Quanto godrei di vedere, prima di morire, il mio futuro erede ! Una sola volta lo vidi quando egli era ancor fanciullo. Come veloci trascorrono gli anni ! Le migliori promesse dell' infanzia erano visibilmente scolpite sulla sua fronte, sulle sue labbra, e ne' suoi occhi luminosi. Se quella prima pagina non ha mentito, il libro dev'essere prezioso senz' alcun dubbio. {65 [89]}

 

 

Scena IV. Alessio ed Eusebio che entra portando un piatto, e poi Orsolo.

 

            Euseb. - Buon giorno, Sconosciuto; desiderava assai di vedervi dopo il mio ritorno; il mio nobile padrone, Eufemiano, me ne porge l' occasione. Gradite da sua parte questo piatto preparato per la sua tavola. Ma, gran Dio ! quanto mutato voi mi apparite dagli anni addietro ! sareste per disgrazia ammalato ?

            Aless. - In verità mi sento poco bene.

            Euseb. - Temo che abbiate sofferto assai, durante la nostra assenza, per causa di quegli schiavi grossolani e sfrenati.

            Aless. - No, no, i lamenti male s'addirebbono a colui che è stato inviato in questo luogo per esercitare una pazienza più grande che non fu quella dell'eremita nel deserto. Il termine si avvicina!

            Euseb. - Che volete dire, amico sconosciuto? {66 [90]}

            Aless. - Lo saprete più tardi; ma parlatemi di quel giovane.

            Euseb. - Di Carino?

            Aless. - Sì. Sarà egli il degno erede del buon Eufemiano ?

            Euseb. - Io lo direi quasi degno dello stesso Alessio. Del resto, voi lo conoscerete, poichè egli brama di favellare con voi, essendo stato ei pure educato in Asia.

            Aless. - Fate che tosto qui venga.

            Euseb. - Vado a cercarlo (esce).

            Aless. (prendendo il piatto) - Ed io frattanto porterò queste delicate vivande a Gannio, che n' è molto avido.

            (Mentre che ei parla, Orsolo entra e lo incontra. Eusebio si ferma all' altra porta ed osserva senza essere veduto).

            Ors. - Tanghero che tu sei ! dove vai si frettolosamente con quel piatto ? Dàllo a me sull' istante.

            Aless. - Ben volentieri; degnatevi d' accettarlo.

            Ors. - Accettare il mio bene! Con qual diritto, miserabile intruso, ti fai tuo {67 [91]} ciò che spetta alle persone di casa ? Io non l'accetto ma lo prendo. (Prende ruvidamente il piatto e dà una spinta ad Alessio il quale vacilla e cade sul letto. Si rialza e rimane quindi in piedi. In quel mentre entra Carino, dalla parte opposta a quella in cui si trova Eusebio; egli si sdegna nel vedere quell' azione brutale, ma ritirandosi in fondo al teatro si pone dietro un pilastro).

            Euseb. (avanzandosi con impeto e prendendo il piatto) - Ritirati, arpia infame, avvoltoio insaziabile, che imbratta tutto ciò che incontra. (Lo spinge dall' altra parte del teatro, in modo che Orsolo va ad urlare Procolo all'istante in cui questi sta per entrare).

 

 

Scena V. Procolo e detti.

 

            Proc. - Ebbene, schiavo !

            Ors. - Padron mio, fu Eusebio che mi sospinse contro di voi, dopo di avermi {68 [92]} tolto un piatto che io portava a Gannio da parte dello Sconosciuto.

            Euseb. - Mente il codardo.

            Proc. - Silenzio, schiavo sfrontato.

            Euseb. - Nulla, nulla più schiavo di te.

            Proc. - Come, monellaccio, oseresti......

            Euseb. - Meno ingiurie: io son libero al par di te.

            Proc. - Questo si vedrà quanto prima. Parli intanto Orsolo.

            Ors. - Ebbene io dico che l'intrusione dello Sconosciuto è la causa di ogni nostro male. Da poi che egli è in questa casa, noi non abbiamo più pace. Nascono alterchi di continuo per cagion sua, ed Eusebio ha preso sempre a proteggere la causa di lui, malgrado ciò che voi ci avete detto.

            Proc. - Hai ragione. Lo straniero che si insinua in una casa è simile alla freccia che penetra nella carne: ad ogni movimento produce l'irritazione ed il dolore.

            Euseb. - Ma egli è forse venuto ad imporsi, o non è piuttosto il padrone della casa che lo ha invitato, direi anche, sospinto? {69 [93]}

            Proc. - Ciò che m'importa, si è che egli

è qui contro la mia volontà!

            Aless. - Io l'ignorava.

            Proc. - In questo caso voi dovete essere molto stupido.

            Aless. - Per qual motivo ?

            Proc. - Non vi bastava un'ora trascorsa in questa casa per capire che io aveva fatto voto di non lasciarvi trattenere qui per altre cinque?

            Euseb. - Il qual votosi è trovato falso come colui che lo pronunciò.

            Proc.- Taci, schiavo!

            Aless. - Se voi l'aveste detto, lo Sconosciuto non avrebbe opposto alcuna resistenza.

            Proc. - Ebbene, lo ripeto presentemente, vi sommetterete voi al mio ordine?      Aless. - Sì, domani partirò.

            Euseb. - No, giammai!

            Proc. - Vi prendo in parole, Sconosciuto. Partite!

            Ors. - Si, va a farti impiccar altrove, falso pellegrino!

            Proc. - Domani a quest'ora....

            Ors. - Tu te ne andrai. {70 [94]}

            Aless. - Ve l'assicuro.

            Euseb. - Ed io dico che ciò non si farà.

            Proc. - Perchè mai ?

            Euseb. - E un giorno di festa.

            Proc. - Tanto meglio, essa sarà più bella senza di lui.

            Euseb. - La sua partenza apporterà disgrazia alla casa.

            Proc. - Al contrario, apporterà buona fortuna.

            Aless. - Pace, amici miei gettatemi, come Giona nel profondo dell'abisso per ricuperare la calma, acconsento; ma però facciamo i conti insieme. A voi, per esempio, Orsolo, qual torto ho io mai fatto?

            Ors. - Il torto di esser qui, ecce tutto. Tu sei per me la bestia nera, il mio spauracchio ! Tu mi fai l'effetto di una pustola, di un canchero.... queste cose non fanno torto ad alcuno, e pure nessuno le può riguardare. Qual cosa può fare un ragno o una lucertola? Nessuno, e tuttavia ognuno li odia e li schiva. Chi dunque non li schiaccierebbe {71 [95]} volontieri così? (batte col piede con violenza). Offendono perciò solo che sono, che esistono. Lo stesso succede a te.

            Aless. (sorrid.) - Disgraziatamente la mia esistenza non dipende da me; in quanto alla mia presenza vi ho promesso di liberarvene. Ora, Procolo, una parola di pace e di addio.

            Proc. - Sì, di pace eterna !

            Aless. (con dolcezza) - Procolo, voi non usaste mai verso di me nè bontà, nè dolcezza in tutto il tempo che stetti tra voi. Non vi faccio un rimprovero; la vostra intenzione era buona, senza dubbio, ed io non meritava di meglio.

            Euseb. - Di grazia, buono Sconosciuto, non parlate così, voi siete stato oltraggiato continuamente.

            Proc. - Taci una volta, schiavo!

            Aless. - Raffrenatevi, Eusebio, io ben mi conosco.

            (Carino si avvicina a Procolo senza essere veduto).

            Aless. - Amico, ho io forse pronunciato un lamento, sia tra me alla sfuggita, {72 [96]} sia all' orecchio di qualcheduno ? Non chinai la testa a tutti i vostri rimproveri, a tutti i vostri disprezzi? non mi curvai sotto i colpi che voi ed i vostri servitori mi deste a piacer vostro?

            Proc. - Basta, miserabile! basta.

            Euseb. - Tu piuttosto, tu sei un miserabile !

            Aless. - Eusebio, per amor mio, tacete. E voi, Procolo, se non mi sono abbassato sufficientemente, parlate, ed io implorerò il vostro perdono. Se mancai di dolcezza e di umiltà, se ho scandolezzato qualche mio fratello colla mia condotta altera, dite, acciocchè io mi prostri dinanzi a voi e dinanzi a lui fin nella polvere, e che mi allontani perdonato.

            Euseb. - Egli a voi deve domandar perdono.

            Proc. - Oibò ! egli fa la sua parte ottimamente. Il pellegrino malizioso, astuto, non si lamenta del buon albergo. Cinque anni di nutrizione, di vestire, di limosine, valgono ben un po' di pazienza. Dov' è quel mendicante che non possa {73 [97]} sopportare un'ingiuria, soffrire pur qualche percossa per una moneta d'argento? Ora, vivere durante cinque anni dell'altrui sudore, non è per lui il paradiso terrestre ?

            Euseb. - Quale indegnità !

            Proc. - Sì, è cosa indegna di fatto, che un giovane vagabondo mangi il pane di chi lavora.

            Ors. - E che mangi il pane di chi è più onesto di lui.

            Proc. - È un obbrobrio il vederlo ciascun di seduto come se fosse a casa sua, invece di servirsi delle sue braccia por guadagnarsi il pane!

            Ors. - Ed inoltre servito di ciò che vi ha di meglio.

            Proc. - Io, che porto il peso di questa casa, potrei vedere con pazienza un parassita scioperato che ne divori la sostanza ? Ascolta dunque la mia risposta: « tu hai fatto ottimamente a curvarti sotto un giusto sdegno e sotto a meritati colpi; ma il tuo abbassamento è un nulla a petto della profondità del mio disprezzo. » {74 [98]}

            Aless. - Posso discendere più basso della polvere ?

            Proc. - Sì, al dissotto ancora.

            Aless. - II vostro desiderio sarà presto appagato.

            Proc. - No, no, domani tu porterai il tuo carcame altrove; frattanto osserva il conto che io fo di te. (fa scoppiettare le dita sotto il naso di Alessio).

            Ors. (mostrandogli il pugno) - Ed io pure. (Eufemiano entra)

 

 

Scena VI. Eufemiano e detti e poi Carino.

 

            Eufem. - Che vuol dire ciò? voi insultate il mio ospite!

            Euseb. - Oh! se non ci fosse altro!

            Proc. - Silenzio, brutto schiavo!

            Eufem. - Schiavo ! adesso è mio liberto, in conseguenza, tuo uguale.

            Proc. (confuso) - Signore, io ignorava...

            Eufem. - Ebbene che successe ?

            Proc. - Ho veduto Eusebio, il quale io {75 [99]} credeva ancora schiavo, che percuoteva Orsolo.

            Euseb. - È falso, signore! Orsolo toglieva violentemente allo Sconosciuto il piatto che voi gli avevate mandato, io glielo ripresi di mano.

            Ors. - Qual infame menzogna! Sconosciuto diceva di portarlo a Gannio; io gli ho voluto togliere quel fastidio.

            Eufem. - Ma che hanno a fare queste cose con quello che ho veduto?

            Proc. - Vi dirò, signore: quei due si sono messi d'accordo per tormentare la vostra gente, per non lasciar loro nè pace, ne tregua, e debbo confessare che la mia indegnazione, quando voi entraste, mi aveva fatto uscire alquanto dai termini della moderazione.

            Eufem. - E tu, Orsolo?

            Ors. - Me pure offendeva, signore, soprannomandomi Arpia.

            Eufem. - Chi ?

            Ors. - Eusebio.

            Eufem. - Ma perchè vendicarvi sullo Sconosciuto. {76 [100]}

            Euseb. - Di grazia, signore, mi ascolti un momento.

            Proc. - Me prima, signore, io richiedo il mio diritto.

            Eufem. - Parlate.

            Proc. - Lo Sconosciuto mi ha provocato; egli mi ha rimproverato di averlo disprezzato, oltraggiato, e dopo cinque anni di ospitalità, vuol far credere che gli si è fatto torto.

            Car. (di dietro) - Infame impostore!

            Proc. (trasalendo) - Ho io inteso una voce?

            Eufem. - È l'eco. Dice egli il vero, Sconosciuto? parlate, amico mio, tranquillatemi..... Voi tacete?

            Euseb. - Parlerò per lui. Ciò che Procolo ha detto è falso da capo a fondo.

            Proc. - Io dissi la pura verità. Parla Orsolo ?

            Ors. - E così nè più nè meno.

            Proc. - Voi vedete, Signore, che ciò che dico è......

            Car. - Una menzogna.

            (Tutti gli astanti trasalgono, Procolo ed Orsolo tremano). {77 [101]}

            Eufem. - Mi pareva di udire un romore... È un errore senza dubbio. Come poss'io discernere il falso dal vero fra un miscuglio di asserzioni e di negazioni si positive?

            Proc. - Noi siamo due contro uno, signore: Eusebio è solo a mantenere le sue asserzioni.

            Euseb. - Su via, Sconosciuto, parlate.

            Aless. (ad Eufemiano) - Non serve l'altercare per cagion mia, ciò anzi aggiugnerebbe l'afflizione alla vostra carità. Chi sono io mai per contraddire all'uno o all'altro? Di grazia, riconciliatevi, siate amici.

            Proc. - Lo Sconosciuto insomma dice niente: noi siamo sempre due contro....

            Car. (si avanza) - Due? ho inteso ogni cosa.

            Proc. (a parte) - Se Carino parla, tutto è perduto.

            Car. - Sono stato testimonio di tutto quanto si è detto da costoro. Eusebio ha detta la verità, Procolo ha mentito.

            Proc. - Che! la testimonianza di un fanciullo {78 [102]} avrà maggior forza che quella di due servi fedeli?

            Car. - Si, padre mio, o piuttosto nostro comun Signore, siate nostro giudice. Son giovane, lo so; non ho ingegno nè alcuna qualità luminosa, ma una pertanto me ne fu data dalla mia infanzia che io stimo al dissopra di tutte le altre.

            Proc. (ironicamente) - E quale, di grazia?

            Car. - La verità! Eufemiano, le mie labbra non hanno conosciuto ancora la menzogna, esse non la conosceranno mai. Questi due uomini sono stati brutali in parole ed in fatti verso il vostro ospite. O Sconosciuto (stringendogli la mano), siate per l'avvenire la mia guida, il mio maestro e il mio amico; insegnatemi ad esercitarmi secondo le mie forze in quella virtù che voi avete mostrato in questo momento, riservandovene per voi il fiore squisito che l'adorna. Siate per me Alessio, acciocchè, se egli è perduto, possiamo ritrovarlo in voi che a lui tanto rassomigliate. E che sono mai la scienza, l'ingegno, il giudizio, se non se lo scrigno {79 [103]} in cui rinchiuderò questo puro diamante.

            Aless. (commosso) - Caro fanciullo, possa io spesso ascoltarti per imparare, e non per insegnarti!

            Car. - Ma voi avete promesso a Procolo di partire domani.

            Eufem. - È forse vero?

            Aless. - Si, e debbo mantenere la parola.

            Car. (ad Eufemiano) - Padre, voi potete comandare là dove io posso appena supplicare.

            Eufem. - Sconosciuto, ascoltate la preghiera di un padre... (Alessio trasale) del padre di questo povero orfano. Rimanete con noi per ispargere la benedizione su di questa casa, fin tanto che il cielo vi prolungherà la vostra vita. Me lo promettete?

            Aless. - Ben volontieri.

            Proc. (a parte) - Furbo!

            Aless. (a Procolo) - E pur manterrò la mia parola.

            Eufem. - E come può esser ciò?

            Aless. - Si, domani sia dunque un giorno {80 [104]} di gioia, in cui sia dato un padrone all'orfano, un erede a queste mura desolate, un padrone a cui ognuno obbedisca.

 

 

Scena VII. L' Aventino.

 

            (Gannio seduto sopra un sedile di marmo sta mangiando in una scodella. Bibolo entra travestito e travisato col capo coperto da un gran cappello a larga tesa, e al mento una lunga barba. Contraffà là voce parlando).

 

            Bib. - Buon giorno, Gannio. Di continuo al tuo posto, divorando il meglio che tu possa rapire ad Eufemiano.

            Gann. - Chi siete voi, che mi conoscete per nome?

            Bib. - Oibò! non lo sai, vecchio?

            Gann. - Vecchio! corno voi quanto prima. Io non so chi vi siate, ma potrei ben dirvi quel che siete.

            Bib. - E come ciò? {81 [105]}

            Gann. - Pel vostro rifiuto di farvi conoscere.

            Bib.- Sempre maligno. Ebbene chi son io?

            Gonn. - Un impostore!

            Bib. - Ah! ah!

            Gonn. - Un uomo che non vuoi essere conosciuto, vuole sopraffare altrui, ed è ciò che voi fate per l'appunto.

            Bib. - Ed è forse per te soltanto che io voglio rimanere incognito?

            Gann. - In questo caso sareste ancor peggiore.

            Bib. - Che dunque?

            Gonn. - Uno scellerato.

            Bib. (ridendo) - Ah! ah! spiegami queste tue sentenze.

            Gann. - Adunque se conosce Gannio come voi mi sembrate conoscerlo, e arrossisce di mostrarsegli, colui, dico, deve essere un birbo di prim' ordine.

            Bib. - Tristo buffone! (togliendosi il travisamento) Guardami.... mi riconosci?

            Gann. - Si, bene, e per meno d'assai di un impostore e di un briccone.

            Bib. - Ma allora per chi dunque mi prendi? {82 [106]}

            Gann. - Per un imbecille.

            Bib. - E per qual motivo?

            Gann. - Tu sei quel Bibolo che ebbe altre volte una grande idea e non la seppe eseguire; che formò un gran disegno, e che lo lasciò mancare; che volle commettere un delitto grave e se ne pentì; che preparò il veleno pel suo padrone e cadde in ginocchio dinanzi a lui! Io disprezzo un tal uomo.

            Bib. - Ottimamente! Seguita.

            Gann. - Lasciami, m'infastidisci! senza dubbio tu hai gironzato qua e là, ed ora ritorni.....

            Bib. - Lo stesso.

            Gann. - Stava per dire, ipocrita. In fine poi non v' è gran male.

            Bib. - Odi, Gannio, poichè ti scorgo ognor più risoluto, ti voglio proporre un negozio assai migliore che non quello di avvelenare Eufemiano.

            Gann. - Sarebbe?

            Bib. - Il furto....... Ascoltami. Come mai un uomo della tua qualità può rimanersi alla porta, tendendo la mano {83 [107]} per ricevere alcune meschine bricciole, quando invece potrebbe avere l'oro a mucchi per.....

            Ganti. - Per essere appiccato n'è vero?

            Bib. - Baie! Tu puoi arricchire senza rischio veruno. Onorio domani verrà qui a pranzo, e so che in simil caso la mensa è sempre apparecchiata la sera innanzi. Noi non avremo mai più una si bella occasione. L' ullima volta che ebbe luogo un di quei pranzi, fu appunto in quel giorno che quello stupido garzone se ne fuggi son dieci anni domani. Io ho ben presente alla memoria quel servizio. Che vasellame! Niente in argento dorato; ma tutt'oro massiccio, proprietà di famiglia, ammucchiato da secoli; candelabri, urne, piatti, boccie!

            Gann. - E qual vino v' è dentro!

            Bib.- Più tardi. Dobbiamo conservare la nostra testa libera.

            Gann. - Non fa bisogno di dirlo. (Si mette alla bocca una bottiglia).

            Bib. - Ora a me (beve). Ma per questo {84 [108]} avremo bisogno di aiuto. Conosceresti tu per caso due birboni a cui ci potessimo fidare? due onesti scellerati?

            Gann. - Senza dubbio, astuti come volpi e coraggiosi come leoni.

            Bib. - E feroci come tigri, forse? (Gannio afferma). Ebbene tanto meglio! I loro nomi?

            Gann. - Li ignoro. Chiameremo l'uno primo ladro, e l'altro secondo ladro, come al teatro.

            Bib. - Ma noi non recitiamo la commedia.

            Gann. - No, certo: quando v'è in ballo la testa, non è più uno scherzo. Non importa, prendo su me la briga di cercare quei due compagni, Adesso stabiliamo il da farsi.

            Bib. - Trovati qui in sul cader del giorno; io t'introdurrò con me in una cella abbandonata dietro la casa. Ognuno sarà occupato a vuotare i forzieri, a pulire, a disporre il vasellame. Verso il mattino tutti si ritireranno, e allora noi {85 [109]} entreremo piano piano nel triclinio[6], riempiremo i nostri sacchi, che vogliono essere grandi e in buono stato, intendi, e usciremo quindi per la porta principale. La sola difficoltà è quella di sapere che faremo del bottino.

            Gann. - Penserò io pure a questo. Succede talvolta a un pover uomo, come sai, di trovare uno spillo, di raccogliere un anello caduto per caso; gli abbisogna allora un amico per ispacciar quelle bagatelle; io ne ho uno che abita in un viuzzo non molto lungi.

            Bib. - Benissimo. Ma è egli buon pagatore?

            Gann. - Per questo non istiamo troppo bene; egli dà sempre il meno che può.

            Bib. - Per esempio, quanto dà egli per l'oro fino?

            Gann. - Lo paga quanto l'argento informe.

            Bib. - Miserabile! sembra incredibile che vi esistano persone tanto disoneste!... E per l'argento? {86 [110]}

            Gann. - Il valore del rame.

            Bib. - È un' infamia, un latrocinio!... E pel rame?

            Gann. - Non lo vuole a prezzo veruno.

            Bib. - Certo egli a quest' ora avrà danaro a mucchi?

            Gann. - Mucchi....... Così siamo intesi; vado intanto a vedere i miei amici. Noi ci ritroveremo questa sera (dando un calcio alla sua scodella). Lungi da me, vile oggetto! ormai non mangerò più che nell'oro.

 

 

Scena VIII. L'atrio.

 

(Alessio e Carino entrano)

 

            Car. - Voi dunque dimoraste principalmente a Odessa durante il vostro lungo pellegrinaggio in Oriente? Vi piace quella città?

            Aless. - Molto. Essa è una città bella sovramodo, le sue case sono magnifiche, {87 [111]} te chiese splendide e gli abitanti di modi cortesi e gentili; nessun'altra in Oriente è tanto celebre per la scienza.

            Car. - Mi sovvengo infatti che i giovani della Siria, desiderosi d'istruirsi, dicevano sempre: « Noi andremo a studiare in Odessa![7] »

            Aless. - Ciò avviene perchè colà ogni nazione ha il suo asilo. Armeni, Assiri, Persiani vi passano la loro gioventù negli studi. Altrove abbondanti sorgenti spargono la scienza per molti canali; ma gli uni aggirandosi nel piano, sono ritenuti da mille attossicati fiori, altri scaturiscono impetuosamente dalla roccia, minacciando di distruggere colla loro violenza la vera fede. A Odessa al contrario essi vanno a terminar tutti egualmente ad uno stesso serbatoio di cristallo, riempito anticamente dal re Abgaro alla sorgente di vita[8]. Quivi {88 [112]} vengono purificati, affinati, e ne escono ciascuno separatamente, ma imbevuti tutti quanti di una linfa celeste.

            Car. - Quali maravigliose disposizioni della provvidenza! Ma ditemi, Sconosciuto, un fanciullo come io sono, che non abbia altro desiderio se non quello d'imparare; potrebbe ritrarne un qualche giovamento e fare qualche bene?

             Aless. - Voi mal giudicate i doni naturali. Il merito di un giovin uomo non consiste nella vivacità dell'ingegno, nell'acutezza dei pensieri, nella bellezza del discorso. Queste cose sono simili ai torrenti che la state inaridiscono, agli alberi i cui frutti prematuri cadono spesso anzi tempo. Il vero merito del giovane risiede nella serenità e nel candore della sua fronte; nel vigor della sua tempra che si accende alla lode e rischiarasi di gioia quando può darla; ne' suoi occhi intelligenti che non ispandono {89 [113]} la luce, ma l'assorbono, fissi sulle labbra del maestro, come la speranza sul cielo; nella semplicità, finalmente in un cuor modesto, puro e fermo. Un tal giovane non si può forse paragonare ad un gran manipolo, di cui tutte le spighe sono piene e pesanti? il sole li ha portati a maturità, e la rugiada del cielo li ha riempiuti perchè riescano pane per la vita presente e semenza per la vita futura.

            Car. - Vi ascolto con giubilo, Sconosciuto; ma un secreto pensiero e non ancora espresso si nasconde nel più profondo del mio cuore, le vostre dolci parole sembrano trarlo fuor del suo nido.

            Aless. - Apertosi forse troppo presto.

            Car. - E che nondimeno dovrà prender quanto prima il suo volo. Ditemi, Sconosciuto, sarebbe egli convenevole ad' un fanciullo debole come son io, di aspirare alle più alte e sublimi regioni?...

            Aless. - Che! Il vostro cuore conoscerebbe già le torture dell'ambizione? E perchè? {90 [114]} Non avete voi forse ricchezze, nobiltà, potere su vasti dominii?

            Car. - Non voler credere così male di me, Sconosciuto; io aspiro a più alte cose.

            Aless. - Più alto che il grado di Senatore romano? (con forza). Che volete dunque, fanciullo..... Sarebbe forse?.... Ma no....... voi non potete pretendere d'innalzarvi pari all'aquila romana, ad impadronirvi dello scettro del mondo, ad usurpate la porpora allora doppiamente arrossata (affettuosamente). Non è vero, fanciullo; è impossibile! Sì orridi pensieri non scenderanno mai ad oscurare la vostra anima; ma se vi si presentassero, fuggitene l'influenza funesta come si fugge la morte.

            Car. - Caro Sconosciuto, così non m'innalzerei molto in alto, ma cadrei invece ben bassamente. Chiunque sprezza i beni delle terra può ancora volerne i diletti?

            Aless. - Spiegatemi dunque questo enigma, caro fanciullo.

            Car. - Ambisco un nome più grande di {91 [115]} quello di Cesare e di Augusto, un potere obbedito dagli angeli e temuto dai demoni; la mia porpora è quella che copri una volta il re che dominò la corte schernitrice di Pilato. Non più dinanzi ad un trono, ma dinanzi ad un altare voglio inginocchiarmi, portando non già le divise del mondo, ma del suo stesso Signore!

            Aless. (teneramente). - Carino mio diletto, quanto erano ingiusti i miei timori! La vostra risoluzione sia benedetta dal cielo; la grazia ne inaffi le tenere radici e la faccia pervenire alla sua maturità! Ma, fanciullo mio, ne avete esaminate tutte le condizioni, tutte le difficoltà, tutti i sacrifizi? Eufemiano vede in voi il primo anello della lunga catena che deve perpetuare il suo nome, e voi volete spezzarlo.

            Car. - Si, ma qual gloria! Il sacerdote come l'apostolo termina la sua stirpe, per quanto nobil sia, in una maniera ancora più nobile. {92 [116]}

            Aless. - E come si potrà rendere persuaso Eufemiano?

            Car. - Ecco quello che io temo, e tuttavia dovrò ben parlargliene domani (in tono carezzevole). Voi ad ogni modo mi aiuterete?

            Aless. (pensieroso alzando gli occhi al cielo).- Sì, caro fanciullo, lo farò. Il vostro pensiero è si nobile, ed espresso con tanta grazia; il nido di colomba che voi tanto desiderate è tanto al di sopra di quello dell' aquila a cui sospettava che aspiraste, che se vi bisognasse per crescere il miglior sangue del mio cuore, simile al pelicano, ve lo darei volentieri, fino a tanto che voi stesso poteste compierne lo svolgimento.

            Car. - Oh! non parlate così. Domani mi aiuterete a svelare il mio disegno che tenni per tanto tempo nascosto (esitando). E allora forse mi racconterete la vostra propria istoria. Poichè, scusatemi, Sconosciuto, ma voi non siete quello che gli uomini vi credono. Sotto questi abiti grossolani, sotto questo corpo immagrito, {93 [117]} a traverso questi lineamenti che mostrano un lungo soffrire, si scopre la scintilla di una nobile natura, e quella di un fuoco occulto. Oh! ditemi chi siete, vi prego.

            Aless. - Sì, sì, domani!

            Cor. - Domani! Tutto è rimesso a quell'infausto giorno! Esso mi appare come una nuvola carica di lampi e di tempesta; e pure un raggio di gloria esce dal punto più oscuro. Vi leggo il vostro nome, esso splende sulla strada del mio avvenire.

            Aless. (vivamente commosso). - Ne sia benedetto il presagio! Ma voi siete atteso. Addio, fanciullo mio, addio!..... Chi lo sa?.... Sì, sì, noi ci rivedremo.

            Cor. - Addio, fino a quel terribile domani!

            Aless. (pensieroso e con tenerezza). - La nostra prossima riunione avrà nulla di terribile. Quando i nostri occhi si scontreranno di nuovo, le lagrime ne saranno asciugate; non vi sarà più nè {94 [118]} dolore, nè gioia, nè sospiri, tutto sarà terminato.

            Car. - Dunque addio! Potess'io sognare intorno a questo splendido domani! (Carino esce, ed Alessio va nella sua cella).

 

 

Scena IX. E' notte.

 

            (Bibolo e Gannio entrano seguiti da due ladri, e sono tutti quattro diligentemente travestiti, e portano ciascuno un sacco; i due ladri sono armati di coltelli e di pugnali. Vengono innanzi al buio gli uni dietro gli altri).

 

            Bib. - Da questa parte, amici, eccoci di già alla porta.

            Primo ladro. - Da qual parte?

            Bib. - Da questa.

            Secondo ladro. - Ma quale?

            Bib. - Vien dietro a me......

            Primo lad. - Non fate tanto rumore....... Dove siete?

            Bib. - Venite diritto a me..... Diavolo! {95 [119]} non vi guida la mia voce? (essi si riscontrano nel mezzo). Oh! eccoci uniti. Ora tenetevi gli uni agli altri e seguitemi.

 

            (Nel frattempo un raggio di luce esce dalla cella di Alessio. I banditi si volgono indietro e lo scorgono inginocchiato colle braccia stese: si ferinano nell'altitudine dello stordimento e depongono gli uni dopo gli altri i loro sacchi a terra, come colpiti di stupore e di terrore. La luce cresce sempre più, e acquista la sua massima intensità al momento che si ode un coro di voci).

 

Coro di spiriti invisibili.

 

Come colomba librasi

Sopra le fulgid' ali,

Lascia la terra, Alessio,

Piena d'orrendi mali,

Vieni a godere il premio

Del lungo tuo martir.

 

            Aless. - O voi, spiriti benedetti, vegliate su questa casa. Difendetene gli abitanti e le sostanze contro i ladri.... E se la {96 [120]} mia ora tanto desiderata è vicina, possa io udire ancora una volta i vostri soavi canti.

 

Bella, fulgente e nobile

T'aspetta una corona;

Intorno a te già l'aëre

Di lieti canti suona:

Vieni a godere il premio

Del santo tuo patir.

 

            Aless. (alzandosi). - Eccomi! Oh! attendetemi.

            (I ladri fuggono, spunta il giorno).

            Alessio ritorna in sè, sveglialo dal romore. - Che significa questo rumore, che si fa qui?.... Che!.... dei ladri!....... Fortunatamente io vegliava, quanti tesori avevano preso! Ma chiudiamo la porta (chiude), e in attesa che il giorno faccia alzare la famiglia, mettiamo qui questi sacchi, così saranno meglio assicurati (li mette nella cella e la chiude). Grazie al cielo, il mio povero testamento è scritto! (rimette in seno una carta dopo averla osservata). Così sono pronto. {97 [121]}

            (Si ode nella casa un gran rumore di passi e di voci).

            Ah! il furio è scoperto.

 

 

Scena X. Alessio, Procolo e gli schiavi.

 

            (Tutti gli schiavi entrano conturbati preceduti da Procolo).

            Ors. - Devono esser passati da questa parte. La porta di dietro è chiusa e vi stetti a guardia due ore.

            Proc. - Vi siete alzato anche voi, Sconosciuto; vedeste voi qui i ladri?

            Aless. - No, ma me ne sono avveduto quando fuggivano.

            Davo (raccogliendo un cucchiaio). - Ecco la prova che essi sono passati di colà.

            Proc. (dopo di aver esaminato la porta). - V'è di più, questa porta è chiusa e chiavata; dunque coraggio, amici, il ladro dev'essere ancora nella casa, egli non ci sfuggirà.

            Verna (osservando nella cella). - Eureka! {98 [122]} Eureka![9] Ecco qui il bottino, ecco il nascondiglio delle buone opere. Guardate, guardate!

            (Traggono fuori i sacchi, e circondano Alessio con gesti di minaccia).

            Davo. - Così voi non avete veduto i ladri, eh! forse perchè non avevate alcuno, specchio nella vostra stanza.

            Verna. - E potrebbe essere che non li avresti uditi quando pure tu avessi avuto le pantofole.

            Proc. - Questa volta, onesto pellegrino, non ne uscirete così liscio come per l'ordinario (a parte). E quel giovinastro sfrontato non è più qui a difenderlo.

 

 

Scena XI. Eufemiano, Eusebio e detti.

 

            Eufem. - Come mai avviene che nel giorno in cui la mia casa deve ricevere un grande onore, e in cui vorrei che {99 [123]} vi regnasse in modo particolare l'ordine e la tranquillità, vi si fa un tal tumulto, da farla credere quasi invasa dai cattivi spiriti.

            Proc. - Infatti ne abbiamo trovato uno che spero questa volta di poter confondere (indica Alessio presso a svenire).

            Eufem. - Come! imposta appena la tregua alle vostre querele, ricominciate a insultare questo sant'uomo?

            Proc. - Sì, ben santo di certo. Un truffatore, un ladro! (indicando i sacchi).

            Euf. - Gran Dio! Ciò che significa?

            Proc. - Ciò significa che la maggior parte del vasellame d'oro preparato pel banchetto imperiale è stato preso questa notte mentre son pur chiuse le porte per di dentro, e che noi l'abbiamo trovato nella camera dello Sconosciuto.

            Euseb. - Signore, non credete a sì assurde asserzioni: è una storia inventata per iscreditarlo.

            Ors. - Ne siamo tutti testimoni.

            Tutti. - Si, tutti, signore.

            Eufem. - Ciò che costoro affermano non {100 [124]} può essere vero, Sconosciuto, e nondimeno l'evidenza vi accusa. Parlate, questa volta lo dovete - Che! neppure una parola!.........

            Euseb. - Caro Sconosciuto, una parola basterà. Dite no, e avrete confuso tutte le loro accuse.

            Aless. - Eh! frattanto io non lo devo dire (piano a Eusebio). La mia bocca è suggellata, mio buon Eusebio.

            Euseb. - Ma non pel delitto, giusto cielo!

            Aless. - No, per esempio troppo sublime perchè io osi dichiararlo.

            Eufem. - Sconosciuto, parlate, ve ne scongiuro....... Parlate, o sarò costretto di

credervi colpevole........ Non rispondete? Questo silenzio vi condanna, sciagurato! (turbalo e mostrando sdegno). Ho dunque raccolto una serpe nel mio seno. Se è così, come si potrà ancor credere alla umana virtù?

            Aless. - Abbiate compassione di me! lasciatemi per carità!

            Eufem. - Sì, compassione per me stesso che mi sono lasciato ingannare in tal {101 [125]} guisa. Se mi aveste detto che vi abbisognava denaro, ve ne avrei dato a piacer vostro. Io vi amava, Sconosciuto, e credeva di dovervi assai! Ma, ohimè! voi vi siete macchiato, e m'avete coperto di vergogna dinanzi a'  miei servi e dinanzi a mio figliuolo. Voi vi siete servito della virtù come di uno strumento; voi vi prendeste giuoco della santità.

            Aless. - Non vogliate creder cosi. Ma, ohimè! sto tanto male.... Non posso parlare.

            Eufem. - Di fatto io temo che i rimorsi soffochino le vostre parole, e vi tolgano le forze. Sarebbe meglio che confessaste in una parola il vostro delitto e ne imploraste il perdono.

            Aless. (guardandosi attorno con isbigottimento) - Dov'è, dov'è quel fanciullo?

            Eufem. - I vostri occhi non lo vedranno più, e sarà meglio per la sua virtù, che così non verrà oscurala da uno sguardo da basilisco. Andate, Sconosciuto, andate in pace e per sempre. {102 [126]}

            Aless. (sforzandosi di avvicinarsegli e d'inginocchiarsegli dinanzi) - Oh! non mi cacciate dalla vostra presenza. In nome di colui che vi è più caro a questo mondo, in nome di vostro figliuolo, da sì gran tempo perduto, in nome di colui che oggi ne prenderà il posto, ascoltatemi!

            Eufem. - No, Sconosciuto, no, (facendogli segno di partire). Andatevene, l'ora della vostra partenza è suonata.

            Aless. - Ah! adesso lo sento! Angelo del cielo, sono con voi! Avrei potuto soffrire un colpo da un' altra mano, un segno di questa mi uccide. Ilc alice delle mie amarezze ribocca! Essere creduto ladro da colui il cui amore io stimava cotanto! Questo è troppo, addio! (cade fra le braccia di Eusebio che lo depone sul letto di presenza agli spettatori, lascia cadere da lato la mano destra, mentre compone la sinistra sul suo petto).

            Eufem. - Lasciate che egli si rimetta alquanto, e quindi aiutatelo a partire. {103 [127]}

            Euseb. - Signore, è inutile, egli ha reso l'ultimo suo respiro.

            Eufem. - No, non dite così, questo sarebbe un fine troppo orribile, un ladro che muore impenitente ed invocando gli angeli!

 

 

Scena XII. Carino e detti.

 

            Car. - Che è dunque successo perchè vi veggo qui tutti radunati in questo momento?

            Euseb. - Osservate, fanciullo mio, Sconosciuto, vostro amico, è morto.

            Car. - Impossibile! Svegliatevi, Sconosciuto, alzatevi! (spaventato). Ciò non può essere, chi l'ha dunque ucciso?

            Proc. - La sua coscienza.

            Cor. - Che volete dire?

            Proc. - Il suo rimorso.

            Davo - Era un ladro.

            Verna - È morto per isfuggire al supplizio. {104 [128]}

            Cor. - Non comprendo ..... No, il suo spirito non se n' è dipartito di certo; egli resterà con me, l' ha promesso (s'inginocchia e prende la mano di Alessio). Ricuserete di parlare al vostro nuovo discepolo?.... Premete almeno la mia mano, la vostra è ancor calda!... Un segno, un solo, che m'indichi che mi riconoscete!.... Ohimè! temo pur troppo che sia vero (abbandonandosi al dolore). Una causa improvvisa ha fatto passare la sua anima in un mondo più degno di lei. Qualunque essa sia, io protesto contro questa accusa e lo dichiaro innocente.

            Eufem. (uscendo da quel primo sbigottimento, esclama con forza) - Lascia quella mano, Carino; il suo contatto potrebbe imbrattarli: essa è quella di un ladro.

            Car. (attonito) - Di un ladro!

            Eufem. - Ed anche di un bestemmiatore.

            Gar. - Di un bestemmiatore!

            Eufem. - Di un uomo la cui ipocrisia ci farebbe quasi rinunziare alla virtù.

            Cor. - Che ascolto! Vi unireste voi dunque {105 [129]} ai vostri schiavi per condannare il vostro amico.

            Eufem. - La certezza del suo delitto mi è palese finalmente.

            Car. - Quando sembrasse pur chiara come il sole, io la negherei.

            Eufem. (respingendolo) - Su via, lasciato questo cadavere al suo proprio delitto.

            Car. - Qual delitto?

            Eufem. - Il furto, primieramente, il più vile di tutti; in seguito poi l'impenitenza; chè, colpito da rimorsi o dalla mano invisibile della giustizia divina, è morto senza confessare il suo fallo, rimettendosi anzi tra le mani degli angeli.

            Car. - Basta! Un cuore, per quanto indurito, non avrebbe osato di giungere a una tale perversità, a più forte ragione non è possibile per un giovin uomo si dolce e sì santo. Un'ora di colloquio con lui me l'ha fatto conoscere; io oso proclamare la sua innocenza, e' vi disfido tutti a provarmi il suo delitto.

            Eufem. - Folle e temerario fanciullo! Ci svaligiò la casa in questa notte, ed osserva {106 [130]} qui gli oggetti rubati (mostrandogli i sacchi).

            Car. - Dove sono stati rinvenuti?

            Proc. - In questa cella.

            Car. (pensieroso) - Si rinvenne pure la tazza di Giuseppe nel sacco di Beniamino, e nondimeno egli non era il ladro; alcun altro può aver messi colà i sacchi.

            Eufem. - Ciò è irragionevole anche troppo per un ragazzo. La porta era chiusa a chiave di dentro, nessuno ha potuto uscire.

            Car. (dopo di aver riflettuto un istante) - Eusebio! Procolo! correte alla porta. Ieri vi si sparse della rena per la visita dell' imperatore; la pioggia di questa notte non ha compressa la superficie, osservate se vi abbia qualche segno di passi.

            Euseb (ritornando). - Che il cielo ti benedica, figliuolo privilegiato! Si discernono chiaramente le pedate di quattro uomini, le quali continuano due a destra e due a sinistra. {107 [131]}

            Proc. - Sì, quattro uomini hanno passato la soglia.

            Car. - E qui sonvi per l'appunto quattro sacchi.

            Euseb. - Nobile fanciullo! Qual istinto l'innocenza possiede per iscoprire la verità!

 

 

Scena XIII.

 

            (Si batte alla porta. Un ufficiale si presenta, strascinandosi dietro Bibolo e Gannio incatenati).

 

            Ufficiale - Vi è forse accaduta qualche disgrazia, signore? Si sono veduti questi due uomini a fuggire precipitosamente, e non si sono potuti raggiungere che dopo una caccia accanita; due altri hanno preso un' altra strada, e temo assai che essi riescano a sottrarsi (li scuopre).

            Molti - Bibolo! Gannio!

            Bib. - (cadendo in ginocchio) - Perdonatemi, signore, ancora una volta! {108 [132]}

            Eufem. - Ciò che significa? Son dunque ammaliato!

            Bib. - Nella notte trascorsa noi due....

            Gann. - Egli fu che mi persuase di far questo furto con due compagni.

            Eufem. - Parlate l'uno o l'altro.

            Bib. - Noi avevamo riempiti quattro sacchi .... (alzandosi) Osservateli là .... Eravamo giunti fin qui senza ostacolo....

            Eufem. - E bene, chi vi ha trattenuti?

            Bib. - Colui che già vi salvò la vita.

            Eufem. - Parlate, o il mio cuore si spezza.

            Bib. - Egli pregava gli angeli di proteggere la vostra casa; uno splendore lo circondò, ed apparve simile ad un sole, mentre alcuni spiriti invisibili festeggiavano coi loro canti la sua gloriosa entrata in cielo. Atterriti noi abbiamo presa la fuga, come i soldati romani dinanzi al fuoco dell'Oriente.

            Eufem. - Me infelice! Io sperava che questo giorno fosse per recare alla mia casa gioia, onore e gloria, esso invece racchiude più d'angoscia che non tutti gli altri anniversari precedenti. O mia {109 [133]} onta! Ho respinto quasi maledetto l'innocente; io l' ho veduto a morire con indifferenza ed ho coperto d'ignominia il suo cadavere. Quale strano accecamento! Non ravvisare, dopo cinque anni di esperienza, la grandezza delle sue virtù, che un sol giorno ha bastato per rivelarsi a questo fanciullo. La mia vita dovrà rivolgersi intieramente ad espiare un tal fallo!...... Procolo, va, corri ad informare nel miglior modo possibile l'imperatore del mio dolore, e chiedine il suo compatimento fino a tanto che risplenda un giorno men lugubre per me.

            Proc. - Aspettate.... Ecco che viene uno de' suoi nunzi.

 

 

Scena ultima. Un Nunzio e detti.

 

            Nunzio - Nobile Eufemiano, vengo da parte dell'imperatore, il quale sarà pur qui tra pochi istanti.

            Eufem. - Noi non siamo pronti così di buon mattino; perchè tanta fretta? {110 [134]}

            Nunz. - Sappiate che una voce risnonò in tutte le chiese dicendo:,, correte al monte Aventino, un santo è morto colà. » Il popolo qui si reca in folla. L'imperatore e il Pontefice Innocenzo mi hanno imposto di venire alquanto prima di loro per aver conoscenza del luogo, dove quel fortunato servo di Dio ha vissuto e dov' egli sia morto?

            Eufem. - Me disgraziato! Io credeva di aver pensato male di un uomo virtuoso, ed ecco che ora scopro in lui un santo che oltraggiai crudelmente! Andate a supplicare l'imperatore e il Pontefice di non volersi accostare alla dimora di un peccatore qual io sono, fin a tanto che non abbia lavato il mio delitto colle lagrime della confessione.

            Car. - Non piangete, padre mio, la consolazione verrà; forse quei nostri buoni principi sono inviati appunto per recarvela. Quel gran secreto aveva uno scopo; in questo cuore vi era nascosto un mistero di virtù!...... (tocca il petto di Alessio). Ah! sarebbe questo il suo epitafio? {111 [135]} (toglie un rotolo di carta dalla mano di Alessio; tutti si guardano stupefatti). Che è mai questo foglio? (Dà uno sguardo alla carta, che gli sfugge dalle mani: dà un grido, e invaso dal dolore si precipita sul cadavere. Eusebio raccoglie il rotolo, e lo consegna ad Eufemiano, che gli dà un'occhiata a sua volta, lo lascia cadere, e si nasconde la faccia mostrando di piangere).

            Eufem. - Disgrazia, disgrazia! la mia angoscia è mille volte più pungente, la mia vergogna più grande, il mio delitto più nero! Come mai avvenne che io non ti abbia riconosciuto, che io sia rimasto sordo a tutte le chiamate del mio cuore, che abbia disconosciuto le aspirazioni del tuo amor figliale di cui ora mi ricordo tanti esempi? Sì, senza dubbio, una sciagura pesava sopra di me..... ma leggi, Eusebio, leggi la mia ultima sentenza.

            Euseb. (dopo di aver raccolto il foglio, legge, in mezzo ad un profondo silenzio e i segni del più grande stupore). - « Io {112 [136]} sono Alessio, figliuolo del Senatore Eufemiano. Un ordine supremo mi ha fatto abbandonare la casa di mio padre per andare errando durante cinque anni come pellegrino. Ho passato la maggior parte di quel tempo a Odessa; appresso un nuovo ordine mi ha imposto di venire a morire nel luogo della mia nascita. Ho vivuto della carità di mio padre fino al mio ultimo giorno. Procolo, compio la mia promessa verso di voi; io me ne vado per sempre..... Carino, fanciullo del mio cuore, io rimango, quantunque invisibile, presso di te per guidarli.

            Padre mio, non piangere per me, tu mi hai procurato una felicità più grande che non quella che possa dare questo mondo. Accogli gli stranieri, soccorri i poveri. L'erede della tua casa è ritrovato, come egli spesso te l'ha promesso. Ma, poichè tu hai voluto che decidesse tra i tuoi servitori e il pellegrino Alessio, egli si dichiara in favore {113 [137]} del perdono, della dimenticanza e della riconciliazione universale.

Alessio. »

            Proc. - Permettete, Signore, che io sia il primo a domandare questo perdono, come sono stato il primo a commettere l'offesa. Io rimpiango amaramente i miei torti passati.

            Tutti. - E noi pure.

            Bib. e Gannio. - E noi, il nostro colpevole tentativo.

            Eufem. - Io vi perdono a tutti quanti; ma chi perdonerà a me?...... Nel più profondo dei deserti dell'Egitto io debbo andare a nascondere la mia onta e il mio dolore; colà le lagrime del pentimento cancelleranno il mio delitto (si inginocchia presso del letto, prendendo la mano di Alessio). O mio figliuolo! ora riconosco questi graziosi lineamenti, che avrebbero dovuto aprirmi gli occhi! Questa tua nobil fronte serena pur anche nel dolore; queste labbra sincere, sorridenti nella morie (con ardire). Oh! quale acciecamento! Chi mi trarrà dal {114 [138]} profondo abisso della mia disperazione!...

            Car. (abbracciando Eufemiano). - Io! padre! Ricordatevi che voi avete operato nell'ignoranza e sotto il potere di una volontà suprema. Ciò che cagiona il vostro dolore a lui procaccia gloria in cielo e in terra.

            Eufem. - Che dunque?

            Car. - Nella sua morte si paziente sotto il biasimo ingiusto del più indulgente giudice, Alessio si mostrò tal quale sarebbe stato Isacco se Abramo avesse consumatoli suo sacrifizio. Che dico?Egli non potrebbe esser santo se non avesse passato questo lamma sabachthani;[10] il suo fu il più sublime martirio del cuore.

            Eufem. - Fanciullo, tu calmi il mio dolore (al nunzio). Andate a dire ai principi che tengono le chiavi e lo scettro dei due mondi che colui il quale qui {115 [139]} riposa è grande in tutti e due. Il mio giovine erede ed io, siamo pronti a riceverli. (Il nunzio esce).

            Car. - Di grazia, padre, non mi date un tal nome. Questi è il vostro erede (indicando Alessio). Egli è ritornato a ridomandarvi la sua eredità e ad adempiere la sua promessa. Qui tutto gli appartiene; egli non se ne allontanerà più.

            Eufem. - Come?

            Car. - Il cielo lo ha proclamato santo; ecco la sua tomba, il suo altare, il suo tempio. Una chiesa dovrà innalzarsi in questo luogo, circondata da vasti chiostri per albergarvi i pellegrini; colle vostre ricchezze gli assegnerete una rendita, e voi ne sarete il fedele amministratore.

            Eufem. - E Carino?

            Car. - Ne sarà il ministro. Frattanto nell'attendere che la sua età e la legge glielo permettano, egli andrà a Odessa; colà, in uno di quei celebri collegi, gli anni trascorreranno celeremente nello {116 [140]} studio e nella virtù. Egli si sforzerà di uguagliarvi nella diligenza e nell'ardore per si fatto modo, che il tempo che si porrà a costrurre il Santuario basti per far uscire il sacerdote dagli studi privati; che il ritiro è la migliore preparazione della gioventù alla sapienza ed alla virtù. Vi eserciterà la sua sublime vocazione, consolando gli afflitti, confortando i poveri, alleviando i mali del corpo, risanando quelli dell'anima e preparando questa a sottrarsi a tutti i dolori. Quindi dopo che avrò compiuti i miei studi ed avrò imparato il vero modo di praticare la virtù ritornerò a riposarmi presso alla tomba di mio cugino per meditare quivi sul merito nascosto, sulle modeste virtù, sulla grazia ignorata, sulla vita umile, e sulla fine ignominiosa di questo glorioso santo!

            Eufem. - Non più, Carino! Ora comprendo il mistero di questo gran di che arreca alla mia casa, quantunque per una via inattesa, maggior gloria che non gli umani onori. Ne leggo la lezione {117 [141]} sublime e vera, da lui si bene insegnata, e che tu pure dovrai imparare. Nessuno può risplendere nel diadema della Chiesa se prima non fu per lungo tempo una perla nascosta[11].

 

 

FINE.

 

 

Con approvazione ecclesiastica. {118 [142]} {119 [143]} {120 [144]}



[1] Innocenzo I. nacque in Alba nel Piemonte nell'anno 360, e fu eletto Papa nel 402. Fu molto doloroso il suo pontificato per i Barbari, che condotti dal loro re Alarico, malmenarono l'Italia, e specialmente Roma. In mezzo a tante calamità, il santo Pontefice s'applicò con tutto l'impegno a sollevare e consolare i cristiani, a ristaurare le chiese, ornandole anche di bei lavori e di preziosi arredi d'oro e d'argento; come pure a distruggere nei loro principii le eresie di Pelagio e di altri. Mori nel 417.

[2] Roma antica era fondata sopra sette colli i quali giaciono sulla riva sinistra del Tevere. Uno di essi è posto quasi come centro, e gli altri che gli stanno intorno tacendo corona, ti rendono una figura che si avvicina assai a quella di un ferro da cavallo. Il colle Aventino ne sarebbe come il secondo chiodo. Fu così chiamato da Aventino Re di Alba Lunga, città poco distante da Roma, che fu su questo colle sepolto - Esso è il più alto de' sette colli.

[3] Aristi e demo, parole greche significanti quella gli ottimati o nobili, questa il popolo.

[4] Ardea città vicino a Roma, dove si mandavano gli schiavi renitenti a lavorare alla campagna.

[5] Un intervallo di 5 anni separa il primo atto dal secondo.

[6] Camera da pranzo.

[7] Odessa, la più antica università cristiana, aveva in quei tempi vari collegi per le nazioni orientali.

[8] Secondo la tradizione, esso ricevette il cristianesimo dal medesimo Salvatore che è fama avere a quel Re scritta una lettera. Egli fu di poi battezzato dall'Apostolo S. Tommaso.

[9] Parola greca di giubilo che vuol dire ho trovato, ho trovato!

[10] Parole dette dal Signoro in croce e che significano: Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquisti me!

[11] Dove Alessio mandò l'ultimo respiro fu difatti edificata una Chiesa (V. Nibyt, descrizione di Roma antica).




Copyright © 2009 Salesiani Don Bosco - INE